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Filosofia, Antropologia, e Letteratura....

A CLAUDE LÉVI-STRAUSS (CENTO ANNI IL 28 NOVEMBRE 2008). E AL SUO LAVORO "TRISTI TROPICI" - UN’OPERA UNICA, ASSOLUTA. Una nota di Antonio Gnoli - a cura di pfls

Sotto quel caos di emozioni e di avventure, regna un ordine nascosto, un sapere che fa appello alle semplici regole dello strutturalismo.
venerdì 23 maggio 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] Lévi-Strauss trascorse diversi anni nelle foreste del Mato Grosso. Vi giunse nel 1935 e ripartì nel 1939. Su quell’esperienza lasciò per anni calare il silenzio. Non una parola che ricordasse le difficoltà, i rischi, i timori, che gli incontri con civiltà indigene, remote e incontaminate gli avevano procurato. Poi, quindici anni più tardi, decise di raccontare quello che aveva visto e vissuto. E ne venne fuori Tristi Tropici, un’opera unica. Assoluta, come possono esserlo quei libri (...)

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> A CLAUDE LÉVI-STRAUSS (CENTO ANNI IL 28 NOVEMBRE 2008). E AL SUO LAVORO "TRISTI TROPICI" - UN’OPERA UNICA, ASSOLUTA. ---- Noi indigeni (di Bartholomäus Grill )

venerdì 2 gennaio 2009

Gente

Noi indigeni

-  di Bartholomäus Grill - Die Zeit, Hamburg, 11 settembre 2008 n° 38
-  http://www.zeit.de/2008/38/OdE47-Volk?page=all

(traduzione dal tedesco di José F. Padova)

«Popolo» può essere un sinonimo di «massa»; i nazisti intendevano con questo termine una comunione di sangue. E l’etnologo Claude Lévi-Strauss nell’incontro con la stirpe dei Nambikwara volle comprendere meglio la sua propria cultura. Una ricerca di tracce nel cuore del Brasile.

E alla fine scorgiamo il Rio Papagajo, che è largo circa cento metri e la cui acqua è così chiara che nonostante la profondità se ne può vedere il fondo roccioso. Sull’altra sponda del fiume scorgiamo due figure nude: i Nambikwara.

È il 17 giugno 1938, un giorno di ardente calura, quando la Spedizione della Sierra do Norte incontra i primi rappresentanti di questa tribù india. L’impresa scientifica è guidata da Claude Lévi-Strauss, l’antropologo francese è in cammino verso i popoli «primitivi» nel cuore dell’America meridionale. Egli vuole studiare la loro cultura, i cicli della vita da nomadi, i rituali, i tabù, la rappresentazione della natura, il rapporto fra i sessi, l’organizzazione sociale. I Nambikwara popolano la Chapada dos Parecis, un altopiano inospitale e a quei tempi ancora completamente sconosciuto nell’ «ovest selvaggio» del Brasile. Lévi-Strauss con la sua tropa, la sua carovana tirata da buoi, segue la traccia di Cândido Rondon, un ambizioso generale d’armata che aveva impiantato in questa terra incognita una linea telegrafica. È una carovana faticosa, accompagnata da numerosi contraccolpi, accessi di collera, incertezze e da quel senso di sconforto che suscita un paesaggio desolato e monotono. Ma lo spirito del ricercatore spinge avanti Lévi-Strauss, l’inestinguibile curiosità e la volontà del moderno etnologo non soltanto di studiare popoli stranieri, ma di meglio comprendere la propria cultura nel loro incontro.

Lungo mille chilometri abbiamo seguito l’itinerario di Lévi-Strauss, da Cuiabà, la capitale della provincia del Mato Grosso, su in alto in quel mitico altopiano dal quale nascono molti affluenti del Rio delle Amazzoni. La selvaggia regione di un tempo si è trasformata in un mare sterminato di monocolture. Soia, miglio, cotone, girasoli, canna da zucchero fino all’orizzonte, milioni di ettari, i campi grandi quanto qui da noi [ndt.: in Germania] un intero distretto governativo. Frattanto in questa regione infuria la battaglia fra produttori più grande al mondo, qui è il centro della nuova potenza agricola mondiale, il Brasile, e il territorio è altrettanto desolante, anche se in altro modo, quanto una steppa, la cui monotonia depresse Lévi-Strauss e i suoi compagni di viaggio.

Settant’anni dopo il loro arrivo alla meta, quasi nello stesso preciso giorno di giugno vi è di nuovo grande afa, scivoliamo su una zattera sulla cristallina acqua verde smeraldo del Rio Papagajo. Siamo accompagnati da due indio, dal cacicco Torcilo Zomoi Zokae, capo del villaggio di Utiariti, e da suo figlio diciottenne Waldinei. Essi non vogliono per alcun motivo corrispondere al quadro che il mondo esterno si è immaginato, fantasticando sugli ultimi abitanti della foresta vergine. Il padre porta short e flipflop, dalla T-shirt verde brillante del figlio Spongebob mostra la lingua. I due ci guidano a una stazione, caduta in rovina, di missionari gesuiti che un tempo vollero convertire i «selvaggi». Di questo loro posto avanzato non è rimasto molto: un paio di tombe trascurate, il boschetto di mango, inselvatichito, le rovine della chiesa e delle case nelle quali abitavano i Padri. Nel villaggio restano ancora in piedi un paio di pali del telegrafo della linea Rondon, fra gli isolatori di porcellana proliferano i nidi di termiti. Proprio sotto alla missione il rio Papagajo cade per una profondità di novanta metri. È come se il passato fosse sprofondato in un eterno rombo di tuono.

Ma dove troviamo i Nambikwara? Ma questo piccolo popolo esiste poi ancora? Oppure è stato stritolato dal rullo compressore della modernizzazione, come Lévi-Strauss aveva profetizzato già negli anni ’30?

In questo tratto di terra vivono ancora indios, ma come Tarcilo e suo figlio appartengono alla stirpe dei Paressi. Abitano in case di mattoni con acqua corrente ed elettricità. Davanti alla veranda del cacicco vi sono un’antenna satellitare e una Chevrolet Conquest rosso vino, un pick-up, del quale lui è molto orgoglioso. «Se volete trovare Nambikwara dovete andare avanti ancora per un paio di centinaia di chilometri».

Di nuovo la strada passa attraverso monocolture quasi infinite. Per i popoli primitivi non vi è più spazio, sono d’intralcio al progresso. I loro vasti spazi vitali si sono ristretti alle terras indigenas, alle riserve indie. Prima di giungere alla città di Comodoro, nei pressi degli argentei scintillanti silos della multinazionale agraria americana Cargill deviamo su un sentiero cespuglioso e dopo otto chilometri raggiungiamo il primo villaggio dei Nambikwara. Tuttavia villaggio non lo si potrebbe proprio definire, vi sono un paio di capanne di legno, ripari e scompigliate protezioni antivento, che ricordano piuttosto un campo per profughi. Fra gli alloggi sono sparsi tutt’attorno ogni sorta di arnesi, paletti, stuoie e ceste, dalla cui struttura di vimini riconosciamo l’artigianato Nambikwara.

Improvvisamente l’affabilità si muta in aperta ostilità

Non siamo benvenuti, perché oggi ha luogo una grande festa. Perciò non si vogliono avere fra i piedi i brancos, nessun bianco, che già di solito qui non si fanno mai vedere. Tre donne, che non ci degnano di uno sguardo, schiacciano tuberi di manioca, dalla cui bianca poltiglia ricavano un succo che chiamano chicha. All’ombra di un assito se ne stanno accovacciati un paio di ubriachi - cachaça, acquavite di canna da zucchero. Due tipi portano in testa ornamenti di magnifiche penne di pappagallo. Ci squadrano diffidenti. Uno ci affronta senza salutare. «Io sono Erdo». Erdo, il cacicco. Ha lasciato dietro a sé i suoi anni migliori, ma la sua pelle tesa e senza rughe splende come quella di un adolescente; è tinta di rosso fuoco con l’ urucum, una tintura vegetale. Al collo gli pende una collanina di perle nere, le braccia sono ornate nella parte superiore da fasce di rafia. Dal suo labbro superiore sporge ad angolo retto una barretta decorativa di lunghezza e spessore di un bastoncino di Mikado [ndt.: gioco diffuso in Europa settentrionale].

«Festeggiamo le nostre ragazze, adesso sono in età da marito», spiega il cacicco. Poi si volge immediatamente verso altri interlocutori, se ne va, ritorna. Racconta che dal 1955 qui si sono stabilite tre tribù Nambikwara. Che un tempo avevano vissuto sulle rive del Rio Juruena e cacciato nella steppa. Quindi si volge ancora altrove e accende un rotolino di foglie grigioverdi. Fuma. Tace. Ci guarda fisso. «Nella foresta la vita era migliore», dice dopo una lunga pausa pensosa. «La soia e tutte queste cose sono pericolose. Non è buona cosa stabilirsi nei dintorni delle fazendas. A causa dei concimi velenosi». Non possiamo parlare molto a lungo col capo villaggio perché un giovanotto, con uno sguardo alquanto aggressivo, ci interrompe. «Se volete saperne qualcosa portatevi appresso cento litri di carburante diesel!». La voce si fa improvvisamente tesa e noi facciamo esperienza di ciò che tutti i visitatori dei Nambikwara sanno: la loro timida gentilezza si gira all’improvviso in aperta ostilità. Calmiamo l’adirato giovane e ci accordiamo per un dono da ospiti: venti litri di diesel da consegnare l’indomani dopo la festa.

Lettura serale dei resoconti di ricerca di Lévi-Strauss. Irrita il fatto che egli classifichi i Nambikwara nella categoria «popolo». Che cosa è precisamente in realtà, un popolo? Non vi è alcuna definizione precisa, il concetto ha molti significati, è vago - e fatale, se viene esagerato demagogicamente. Nel linguaggio corrente «popolo» è usato come sinonimo di vasta massa o di gente «semplice». In un contesto relativo alla visione del mondo definisce un grande gruppo di persone che comprendono loro stesse come unità omogenea e fanno discendere il loro passato collettivo dalle profondità dei tempi più remoti. Condividono origine, eredità culturale, lingua e costumi, la fede e i miti. Si tratta di una costruzione ideologica che genera il nazionalismo in nuce - ogni popolo vorrebbe distinguersi e delimitarsi da tutti gli altri. Lo «Stato più naturale» sarebbe «un popolo con un carattere di nazione», proclamò Johann Gottlieb Herder. Dal parlottare di popolo di questo tedesco, filosofo della storia, una linea di tradizione spirituale conduce notoriamente all’urlo da dominatori ariani dei nazisti, alla comunione di sangue «di razza pura»: un popolo, un Reich, un Führer.

Nella società multietnica della fine del XX secolo concetti come «popolo» o «stirpe» sono divenuti obsoleti - e nello stesso tempo celebrano il risollevare la testa del barbarico. Nella Jugoslavia in dissolvimento, creazione statale artificiale, modelli di identità etnica furono storicamente sovralimentati e strumentalizzati in chiave di potere politico - il risultato fu una guerra di autoannientamento con «pulizie etniche». In Ruanda l’«etnografia immaginaria» dei padroni colonialisti, che per un centinaio d’anni divisero la popolazione nei «ceppi» degli Hutu e dei Tutsi è sfociata in un genocidio. «Assassinio di popoli» chiamiamo noi in Germania questi crimini; così la parola «popolo» venne riservata per definire in modo politicamente corretto le vittime.

Oggetto della moderna etnologia è l’etnia, espressione con la quale gli scienziati definiscono una popolazione di persone che condividono storia e cultura e vivono insieme su un determinato territorio. Tuttavia i ricercatori sul campo parlano come prima di popoli primitivi, popoli naturali o popoli indigeni - come se la pluralità e la trasparenza degli oggetti di studio potessero eliminare l’indeterminatezza del concetto. Gli etnologi, che hanno buttato via la zavorra ideologica e non vogliono più chiamarsi Völkerkundler [ndt: equivalente a etnologo ma con diversa composizione], si liberano dalla percezione eurocentrica, dal buio razzista dei padri fondatori, che hanno suddiviso l’umanità in civilizzati e barbari, ma si tirano dietro i termini tradizionali ed equivoci. Popolo, stirpe, etnia. Anche Lévi-Strauss li ha nel suo bagaglio intellettuale. E noi pure, i giornalisti.

In tutto il mondo esistono ormai soltanto 5.000 di queste comunità primitive

Il giorno seguente gli abitanti dell’accampamento se ne stanno pigri nelle amache o sulla terra fortemente calpestata fra le capanne. Soltanto i bambini schiamazzano in giro, alcuni hanno il ventre gonfio, segno di malnutrizione. Si rotolano sul suolo, la loro pelle è ricoperta da una crosta di polvere e cenere, perché nelle notti fredde dormono molto vicino al fuoco. I piccoli hanno l’aspetto come se fossero cresciuti dalla terra. Oggi veniamo accolti più amichevolmente. Carlos Sul Kithaulu, un insegnante disoccupato che ha studiato a Porto Velho, ci saluta. Lévi-Strauss? «Quello lo conosco. Alcune cose che ha scritto su di noi sono giuste». Scarabocchia nella polvere con un bastoncino i contorni della riserva dei Nambikwara. Poi vi traccia gli spazi vitali dei diversi clan. «Così, siamo ancora circa 1.400».

Nell’anno 1915 devono esserci stati, nella steppa cespugliosa, ancora 20.000 Nambikwara. Nel primo terzo del secolo scorso furono decimati da devastanti epidemie, morbillo, vaiolo o influenza, che i coloni bianchi avevano portato con sé. Il sistema immunitario degli indios non fu in grado di difendersi da questi agenti patogeni. I loro discendenti dovettero prima o poi rinunciare alla vita nomade. Essi si trasferirono nelle favelas, nei quartieri-miseria delle grandi città, oppure andarono a finire in una riserva, dove su piccoli appezzamenti coltivano manioca, patate dolci, zucche, mais e canna da zucchero, tengono pollame, raccolgono verdure selvatiche, pescano nei fiumi e cacciano nella boscaglia cinghiali, scimmie e pappagalli, talvolta anche armadilli e formichieri. Ma in sostanza hanno tutti bisogno di assistenza sociale e di loro si occupano i funzionari statali dell’Ente Protezione Indios (Funai).

Si unisce a noi un cacicco di un insediamento vicino, che si presenta come Jaime. Ha 41 anni, un uomo robusto meticcio, con un ciuffo nero come la pece, i cui tozzi occhiali forniti dalla Cassa Malati formano un bizzarro contrasto con il bastoncino, della lunghezza di un fiammifero, che attraversa il suo setto nasale. «I vecchi tempi erano molto migliori», dice Jaime. «Avevamo la nostra cultura. Per ogni popolo è una sciagura se perde la sua cultura». Ai Nambikwara mancano le qualità per sussistere nel mondo dei conquistatori; essi non conoscono lo «spirito di competizione e non vogliono posizioni di potere, constata Lévi-Strauss.

Quando Rondon costruì la sua linea telegrafica e un numero sempre maggiore di cercatori d’oro, seringueiros [ndt.: raccoglitori di caucciù], cercatori di diamanti e allevatori di bestiame occupò la terra degli indios, questi cominciarono a difendersi. Nel 1933 i Nambikwara uccisero sei persone nel centro missionario protestante di Juruena - un atto di disperata autodifesa. All’arrivo dei dominatori coloniali europei sul continente vivevano cinque milioni di indios, oggi sono ormai circa 350.000. Gli etnologi, come «scopritori» e studiosi dei popoli primitivi, sono sempre anche i cronisti del loro tramonto. In tutto il mondo esistono ancora all’incirca 5.000 di queste comunità, ovunque sono minacciate dallo sfruttamento delle risorse naturali, vengono scacciate, trasferite a forza o sterminate. L’etnografo se ne sta di fronte alla rovina di antiche culture come l’astronomo davanti alle stelle che si allontanano da lui, scrive Lévi-Strauss. Tutte le etnie che egli ha analizzato sono più che mai a rischio: per le malattie «bianche», l’alcol e la tossicodipendenza, per gli squadroni della morte dei latifondisti avidi di terre.

La moderna etnologia è l’autointerpretazione nello [straniero] sconosciuto

Di recente fece il giro del mondo la spettacolare immagine di una «tribù» presumibilmente non ancora scoperta. In una radura della foresta vergine si vedeva un paio di uomini, rilucenti di rosso rame; scagliavano frecce contro un elicottero che sorvolava proprio i tetti delle loro capanne. Essi rifiutano la nostra civilizzazione, vogliono vivere come hanno vissuto da tempo immemorabile.

Una tromba d’aria spazza l’accampamento e nel risucchio del suo imbuto fa turbinare in aria l’immondizia. «Fa le pulizie», dice Jaime e ride. Davanti alla capanna lì accanto crepita un fuoco, tre pietre e sopra un tegame - la cucina all’aperto, immutata dai tempi del neolitico. Poiché questo accade in tutte le popolazioni primitive, senz’altro facciamo entrare a forza in esse la felice età infantile dell’umanità e le “romanticizziamo” come «sopravvissute dell’età della pietra». Come Lévi-Strauss, anche noi ci abbandoniamo a un«fascino malaticcio». Lévi-Strauss era rapito dalla «soddisfazione ingenua e incantevolmente istintiva» dei Nambikwara.

Ma le persone che incontriamo casualmente non sembrano in genere felici e soddisfatte. Nella loro povertà disadorna si annidano indifferenza e abbandono e noi avvertiamo ciò che Lévi-Strauss già aveva sentito: compassione per queste «persone schiacciate al suolo da una inesorabile catastrofe». Questo sentimento costituisce il colore di fondo della sua magnifica opera principale, Tristes tropiques, nella quale racconta la sua spedizione presso gli indios. È il libro più bello e più triste che l’etnologia ci ha regalato. Lévi-Strauss smaschera la nostra percezione del «nobile selvaggio» come pura proiezione - che ha molto più a che fare con la nostra propria nostalgia che con la sua realtà sociale. Alla fine non si sa se la strabiliante cognizione che Lévi-Strauss si era conquistata in Brasile non sia una consolazione: se La pensée sauvage, il pensiero dei selvaggi, segua la logica universale dello spirito umano. Essi pensano come noi e noi pensiamo come loro. «Io ho un intelletto neolitico», postula Lévi-Strauss. Egli ha dimostrato ciò che prima di lui molti etnologi intuivano ma rimuovevano: che l’osservazione di altre culture sempre rinvia alla nostra propria. La moderna etnologia è interpretazione di sé stessi nello straniero.

Chiediamo al cacicco Jaime quale sia il suo più grande desiderio. Egli non capisce la domanda. Oppure non ci riesce la traduzione nella sua lingua, che lui chiama Yainjausu. Per farlo avevamo fatto ricorso a Curt Unckel di Jena, il primo etnologo che cent’anni fa aveva vissuto fra i Nambikwara e parlato la loro lingua. Lévi-Strauss ne comprendeva soltanto un paio di frasi fatte, eppure fu in grado di documentare con precisione le loro strutture sociali e religiose. Ma l’antica cultura dei Nambikwara è morta e una nuova non è stata formata. Gli aborigeni sono in condizioni di abbandono e immersi in una almanaccante melanconia nella terra di nessuno fra la tradizione e la modernità. Il leggendario esperto di indios Sidney Possuelo fa il bilancio: in 508 anni nessuna stirpe delle nostre è stata in grado di adattarsi veramente alla civilizzazione.

Lasciamo l’accampamento e passiamo di nuovo davanti ai silos della Cargill, a queste cattedrali di acciaio dell’industria agraria. Quando pieghiamo sulla strada asfaltata ci passa per la mente la frase conclusiva di Lévi-Strauss: «Avevo cercato una società ridotta alla sua espressione più semplice. Quella dei Nambikwara era così semplice che in essa ho trovato soltanto persone».

Bibliografia su questo tema:

Bartolomé de las Casas: Brevissima Relazione della Distruzione delle Indie

[ndt.: questi due riferimenti, frutto di una ricerca superficiale, possono essere integrati con altro materiale esistente in Internet]

http://www.geocities.com/Paris/Concorde/8914/

http://www.mexicoart.it/Ita/azttest.htm

Claude Lévi-Strauss: Tristi tropici

Il saggiatore, Milano, 1982

Nigel Barley: Die Raupenplage [Il flagello dei bruchi]

Von einem, der auszog, Ethnologie zu betreiben; dtv 1998; 190 S., 19,50 €


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