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Pianeta Terra e UmaNITA’ ...

CINA. PECHINO. L’8.08.2008 inizio dei giochi olimpici, ma molti i problemi ancora non risolti. A partire dai diritti umani!!! - a cura di pfls

mercoledì 8 agosto 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] se l’apparato prepara lo storico evento con toni trionfalistici, i problemi - guardando al di là dello sfarzo dei preparativi - esistono, eccome. Sul fronte dei diritti umani, oggi, quaranta dissidenti cinesi, tra cui la fondatrice dell’associazione delle Madri di Piazza Tienanmen, Ding Zilin hanno diffuso una lettera aperta alle autorità cinesi affinché vengano liberati di tutti i detenuti per reati d’opinione [...]
LUNGA VITA ALL’ITALIA: "RESTITUITEMI IL MIO URLO"!!!Dalla Cina, la (...)

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> CINA. L’8.08.2008 inizio dei giochi olimpici, ma molti i problemi ancora non risolti. A partire dai diritti umani!!! .... LA CINA MERITA LE NOSTRE ACCUSE di Mimmo Càndito.

venerdì 10 agosto 2007

Caro Bettiza, la Cina merita le nostre accuse

di MIMMO CÀNDITO *

Caro Enzo,

con severità, nel giornale di mercoledì hai espresso molte riserve verso quei «simpatici colleghi senza frontiere» che a Pechino avevano manifestato in difesa della libertà di pensiero. La durezza del giudizio impone una riflessione, che credo comune a molti che in quella manifestazione si sono comunque riconosciuti. E si può anche partire da lontano, da quando - nei primi Anni Settanta - Amnesty International cominciò a denunciare la repressione che parecchi Paesi impiegavano contro giornalisti e intellettuali «dissidenti». Ricorderai la colonnina che il Times dedicava con un piccolo logo ai «Prigionieri di coscienza». La collocazione della rubrica, nel giornale dell’establishment, e il fatto che a essere segnalati fossero soprattutto episodi legati alla repressione dell’impero sovietico, fecero dire a molti che Amnesty era «certamente» figlia della Cia. Sono scorciatoie ideologiche che la Guerra Fredda poteva magari motivare, ma delle quali oggi dovremmo esserci ormai liberati, e però a quel tempo sembravano utili elementi di analisi; c’è voluto del tempo, molto tempo, perché il lavoro di Amnesty venisse giudicato per quello che esso largamente era ed è ancora: una denuncia fatta in nome della difesa dei valori sostanziali della democrazia, senza padrini, senza padroni.

In nome di questi valori si possono anche commettere errori, errori perfino molto gravi (ogni giorno l’avventura irachena ci ammonisce tragicamente di quanto si possa abusare di quei valori). Nel mondo globalizzato d’oggi, senza confini e senza rispetto per le istituzioni, è convincimento diffuso - penso a Dahrendorf, a Beck, anche a Bauman - è convincimento che i diritti umani costituiscano la vera, reale, frontiera del XXI secolo.

In questo orizzonte «liquido», la Cina ha un ruolo da protagonista; e la sua crescita, il suo ritorno imponente nelle sorti del pianeta, vanno seguiti con attenzione e con rispetto. Il problema è di comprendere quale sia il limite entro il quale l’attenzione possa essere legittimamente coniugata con il rispetto.

È un problema che non riguarda soltanto la Cina, ovviamente. La Turchia si trova all’interno d’un difficile negoziato con l’Unione Europea e il dibattito va misurando se sia più utile una rigida severità pregiudiziale o piuttosto una concessione liberale che possa trasformarsi in una spinta pedagogica verso le riforme. Lo stesso discorso vale per Cuba rinserrata nel modello castrista, vale per l’Iran nuclearizzato di Ahmadinejad, vale per l’Hezbollah del Libano, vale per Hamas a Gaza, è valso per la Corea del Nord, vale per lo Zimbabwe disastrato di Mugabe... Dovunque osserviamo le storie del nostro tempo, sempre - o comunque molto spesso - ci ritroviamo all’interno di questo territorio incerto, dove le scelte hanno, tutte, conseguenze rilevanti; e c’impongono dunque di riflettere attentamente.

Nella tua severità catoniana, definisci «eccessiva» la provocazione di «Reporters sans Frontières» e scrivi che potrebbe sembrare volta «più all’incasso pubblicitario che alla liberazione dei dissidenti». Sono convinto che sia un giudizio non privo di qualche verità. Quando, nel segretariato internazionale di Rsf, a Parigi, all’inizio di luglio, decidemmo questa protesta a Pechino, avevamo due obiettivi e una consapevolezza.

Gli obiettivi erano: 1) rendere comunque noto agli intellettuali cinesi dissidenti, ai giornalisti in galera, a tutti coloro che hanno accesso a fonti informative non ufficiali, che il mondo è «vicino» alla Cina non di regime; 2) richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale sul problema dei diritti civili in un Paese che appare come «il miracolo» del nostro tempo. La consapevolezza era che la Cina è oggi un Paese tanto interessante dal punto di vista del mercato per ogni Paese sviluppato che soltanto un’azione clamorosa («eccessiva»?) avrebbe potuto far uscire dall’ombra di quegli interessi l’attenzione verso la repressione dei diritti umani. E cosa, meglio delle Olimpiadi e del business dello sport?

Reporters, Amnesty, Human Rights Watch, Greenpeace, tutti gli organismi che si battono per la difesa e l’affermazione di questi diritti, sanno bene che nella società dell’informazione la sola possibilità di penetrazione è connessa allo sfondamento mediatico. Par di capire che tu ritieni che questo sia l’intento unico di quegli organismi; credo sia legittimo pensare altrimenti, che quello non sia affatto il fine ma soltanto lo strumento essenziale per la comunicazione del «messaggio». La dislocazione semantica fissa il territorio e però anche il contenuto.

Ma c’è un altro problema, che la tua severa riflessione pone nel giudizio su queste «provocazioni esibizionistiche». È il problema della loro caratterizzazione ideologica, rintracciata in una sorta di ambigua continuità tra gli «osanna di quarant’anni or sono al libretto rosso» e «l’astio vendicativo» degli stessi ambienti di sinistra. Ricordavo qui, all’inizio, e non a caso, la storia di Amnesty. È certamente possibile che quell’astio e quegli osanna pesino ancora nei comportamenti di quanti compiono scelte dirette a «disturbare il manovratore»; ma proprio il disegno che della società d’oggi traccia in modo convincente Zygmunt Bauman rende dannatamente seria e difendibile la scelta di quel ruolo, anche quando questa può provocare letture venate da tentazioni ideologiche sorpassate. Nessuno di noi vuol «sparare alla Cina»; ma siamo assolutamente consapevoli, con Paul Virilio, che non vi sia oggi arma più potente dell’informazione. E come giornalisti - si sia o no di «Reporters sans Frontières» - abbiamo l’antico dovere del watchdog del potere, quando traspare la tentazione dell’intreccio degli interessi, economici o politici, con i valori fondamentali del diritto.

Certo, vi sono vagoni di retorica, in affermazioni simili. Ma ogni volta che sul New York Times, e accade spesso, l’editorialista principe Paul Krugman si sparge il capo di cenere per esprimere il pentimento del giornalismo americano che non ha saputo resistere agli spin-doctors della Casa Bianca prima dell’invasione dell’Iraq, allora non possiamo non ricavarne conferma che il dovere civile della denuncia non deve cedere alle ragioni del «rispetto».

* La Stampa, 10/8/2007


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