LA STORIA, DURO COLPO ALLA MALAVITA SOTTO LA MOLE
La cosca del poker
C’era un patto tra mafia e ’ndrangheta. Decimati i padroni del gioco d’azzardo
di MASSIMO NUMA (La Stampa, 23/4/2008)
Sei boss del crimine organizzato in cella, centoquindici persone denunciate, cinque bische sequestrate. E’ la sintesi dell’operazione «Gioco duro», della sezione anti-racket della squadra mobile, coordinata dal capo, Sergio Molino, e dal responsabile dello Sco, il vicequestore Marco Martino (pm Maurizio Laudi, Onelio Dodero, Antonio Malagnino e Dionigi Tibone). Accusa, associazione per delinquere di tipo mafioso. Al centro, il business delle bische clandestine.
Indagine lunga, nata da un delitto avvenuto a Barriera Milano, vittima il gestore del night «Champagne», Vincenzo Casucci. Giustiziato dal racket perché, nel suo locale, si giocava ai dadi. Un danno per i club privé delle cosche. Uno sgarro pagato con il sangue. Da lì, anno 2001, passo dopo passo, parte l’indagine sulle bische, saldamente in mano alle famiglie calabresi e ai residui dei clan mafiosi siciliani. Siamo già nel 2006. Carte e dadi, un modo come un altro per far soldi, con meno rischi del narcotraffico e conseguenze penali quasi irrisorie. «Dunque - osservano i pm - un’importante e lucrosa forma di finanziamento per le organizzazioni malavitose di origine calabrese. L’attività ha consentito inoltre di verificare che i gruppi criminali dominanti nella zona di Torino gestivano le attività di controllo del gioco d’azzardo intascando decine di migliaia di euro».
I sei sono Giuseppe Belfiore, 52 anni; Aldo Cosimo Crea, 34 anni, e il fratello Adolfo, 37 anni, già detenuto a Bologna per una condanna definitiva per un’estorsione avvenuta a Torino; Antonio Samà, 40 anni; Natale Genovese, 53 anni; Alfonso Triggiani, 37 anni, detto «Tenerone». Sequestrati i circoli Ermitage, Euro 5, Fight Club, Billard Top e Number One. Gli indagati sono Renato Riccio, Giuseppe Possomato, Giuseppe Pace, Gianluca Arcadi, Michele Elmo e Raffaele Dragone.
Personaggi di altro profilo criminale, i Crea, finiti a Torino nel 2001 per sfuggire alla faida. In Calabria, a Locri, erano sfuggiti per miracolo a un attentato dinamitardo. Assieme a Giuseppe «Peppe» Belfiore, avevano costituito un «cartello» torinese. Belfiore assistito dal suo legale di fiducia, Carmine Ventura, ha fatto alcune «dichiarazioni «spontanee»: «Non sono un mafioso, non so nulla delle bische, sono in difficoltà economiche». Professione, assicuratore. Un mutuo da pagare per la sua casa di Airasca. Spesso in viaggio per l’Olanda, su una Porsche Cayenne intestata a un amico. Gli hanno trovato anche un catalogo di diamanti. Prezzi e caratteristiche delle pietre. Indirizzi di Amsterdam e Anversa.
Fu il pm Malagnino ad occuparsi, per primo, dei fratelli Crea. Che a Torino avevano trovato un ambiente ideale, per riorganizzare la cosca. Gente serie. Un lavoro di copertura, niente lussi. Al contrario dei soci torinesi, amanti di auto di lusso e vestiti firmati. E scarpe. Tante scarpe: «Hai l’armadio delle Hogan!», commenta la moglie di un boss, al cellulare.
Intrecci e amicizie ancora da verificare. L’indagine sulle bische è solo l’inizio. C’è la storia dello «Zio», Mario Ursini, costretto a lasciare Torino, incalzato dalla polizia. Lo seguono persino sino a quando lui, diretto a un bar dove deve ricevere soldi dai soci dei club; ha lasciato i cellulari nell’auto, parcheggiata lontana. Gli agenti lo sorprendono e lo «Zio» si arrende: «Adesso basta, me ne devo andare via». Insopportabile pressing.
Gente cauta. I Crea, nelle bische, non sono mai entrati. I colloqui di lavoro, solo sui marciapiedi davanti a casa. Telefoni spenti, camminando avanti e indietro. Per ore. Lontani da microspie, dalla rete delle intercettazioni.
Un blitz dietro l’altro. Al Billard Top di via San Paolo, la punta di diamante, i frequentatori hanno finto di guardare un film porno. Fiches e carte, nascoste anche nei calzini. Quindici grammi di cocaina, nella plafoniere di un neon. All’appello, mancano ancora gli usurai. Così il cerchio si chiude.