«Io, vittima dell’infibulazione a Milano A 6 anni costretta dai genitori all’orrore»
La giovane immigrata dalla Somalia: «Basta, una sofferenza inutile. Va fermata»
di Michele Focarete (Corriere della Sera. 26.03.2007)
Aveva giurato di non parlarne più. Su quei terribili momenti ci aveva messo una pietra sopra. Ricordarli voleva dire riviverli. Ma Sahara, 23 anni, somala, un marito e una figlia, si fa forza: «Raccontare il mio dramma - dice - potrebbe servire ad evitare che altre ragazze come me, vengano mutilate degli organi genitali».
L’incubo dell’infibulazione, di cui l’Italia ha il primato europeo e Milano il picco più alto in Lombardia. La storia di Sahara è quella delle donne immigrate d’Africa. Delle bimbe che sopportano la barbara pratica. In Somalia, poi, l’infibulazione è completa, con escissione del clitoride e l’asportazione parziale o totale delle piccole e grandi labbra. Una mutilazione chiamata gudniinka, o faraonica. «Io sono stata più fortunata - ricorda Sahara - forse perché quando è avvenuto, a sei anni, mi trovavo già a Milano. E poi mia madre, Amina, ha preteso che l’intervento non fosse devastante».
E ricorda: «Abitavo in zona piazzale Loreto. In due locali di ringhiera. Le connazionali mi dicevano che non farlo voleva dire essere aperta, puttana. Non una buona musulmana. E mio padre, Addi, non transigeva. Così arrivò il mio momento. Venne da noi Hawa, una sorta di levatrice che noi chiamiamo umilisa. C’era anche Kabigia, una signora che aveva il compito di tenermi ferma. E tante altre donne attorno, che avrebbero dovuto cantare e fare rumore per coprire il mio pianto, le mie grida».
Tutto è pronto. In condizioni di assoluta mancanza di igiene. Hawa ha in mano un coltellino che intinge nell’alcol prima di iniziare. Naturalmente senza anestetico. «Ero completamente nuda. Seduta per terra a gambe aperte, appoggiata a Kabigia. Legata a lei con una corda. Le mie caviglie erano legate alle sue. Mi sentivo svenire, ma non potevo permettermi quel lusso. La lama scavò nelle mie carni e mi tolse il clitoride. Non riuscii a trattenere un urlo. Un dolore lancinante. E piansi lacrime che nessuno vede. Quel battito di mani dei presenti. I loro canti tribali. Mi rimbombava tutto nella testa. Pensavo di essere morta». Hawa non va oltre. Le chiude però la vagina. «Non mi cucì. Usò il malmal, una mistura di pasta composta da zucchero e gomma, tuorlo d’uovo, succo di limone e miscugli di erbe. E mi inserì nella vagina una scheggia di legno per poter fare la pipì e far defluire il sangue mestruale quando sarei diventata donna».
Ma l’incubo non è finito: «Mi legarono le gambe, così la colla avrebbe fatto effetto. Per quattordici interminabili giorni. Mi sollevavano solo quando dovevo urinare, in un vaso. A 13 anni divenni donna e con dolore. A 16 mi sono sposata e mio marito ci mise due notti per penetrarmi. Persi molto sangue, ma servì ai parenti di mio marito per capire che ero vergine. A 17 anni nacque mia figlia Marian. E sempre con dolore».