Bush nega i 655 mila morti in Iraq *
WASHINGTON - Gli Stati Uniti respingono la stima di Lancet, che calcola a 655mila le vittime civili del conflitto iracheno: la cifra "non è credibile", dice il presidente americano George W. Bush, dopo essersi consultato con il segretario alla difesa Donald Rumsfeld e il comandante del contingente in Iraq, generale George Casey. Anche se frutto di uno studio scientifico, la stima di Lancet appare esagerata: il 3% circa della popolazione irachena, una media tra i 500 e i 600 morti ammazzati al giorno. Ma Bush non difende l’ultima sua stima, 30mila civili uccisi, che risale all’anno scorso: "Mantengo -dice- che un sacco di innocenti" hanno perso la loro vita.
La cifra di Lancet, non basata sulla conta dei cadaveri, ma su un sondaggio casa per casa, è 20 volte superiore a quella del presidente, 10 volte a quella di molte stime indipendenti, almeno cinque volte a quella dei calcoli più pessimistici. Ma il Pentagono non azzarda numeri alternativi: "E’ difficile valutare i morti civili in Iraq con qualche attendibilità", dice un portavoce. A Baghdad, ci prova il ministero della sanità iracheno: 2.660 i civili uccisi a settembre nella sola capitale, 400 in più che ad agosto, complice il Ramadan, il mese del digiuno, che coincide sempre con un’impennata della violenza.
Turbati dal rapporto di Lancet, una rivista prestigiosa, non l’organo di una battagliera Ong, e infastidite dalle critiche di esponenti di punta repubblicani, Casa Bianca e Pentagono preparano aggiustamenti alle tattiche in Iraq. Ma la strategia resta invariata: portare a termine la missione, mettere il Paese in grado di garantirsi sicurezza e stabilità. Il clima non è più quello ottimista di fine 2005, quando l’inizio del ritiro appariva imminente.
L’esercito Usa ha ora piani per mantenere inalterato il numero delle truppe in Iraq, rispetto ai livelli attuali, fino a tutto il 2010. Lo rivela il capo di Stato Maggiore dell’esercito, generale Peter Schoomaker, precisando che l’esistenza dei piani non significa, di per sé, che i livelli saranno mantenuti, ma solo che potranno esserlo, se necessario: "E’ più facile ritirare delle unità da un giorno all’altro che rimpiazzarle", se i movimenti non sono stati programmati. L’idea è di potere mantenere in Iraq circa 15 brigate per altri quattro anni, quando sono già passati 42 mesi dall’invasione. Il generale Schoomaker parla da soldato: non si tratta di fare previsioni, ma di "avere abbastanza munizioni nel caricatore per potere continuare a sparare fin quando vogliono che spariamo".
Attualmente, ci sono in Iraq oltre 140 mila militari americani (120 mila circa dell’esercito, gli altri quasi tutti marines), sottoposti a uno stillicidio di attacchi: le perdite -queste precise all’ultimo uomo sul ’pallottoliere della morte’ del Pentagono- hanno già superato le 2.750, con quelle in Afghanistan sfiorano le 3.100. A settembre, il comandante dei fronti di lotta al terrorismo, generale John Abizaid, non aveva escluso un aumento delle unità in prima linea, sia pure temporaneo.
Segno che la situazione in Iraq "é difficile" e "i tempi sono duri", ammette Bush, in una conferenza stampa alla Casa Bianca dove si presenta per parlare, oltre che del conflitto, dei contenziosi nucleari con la Corea del Nord e l’Iran e delle elezioni politiche di midterm del 7 novembre. Il presidente insiste sull’esigenza di restare al fianco degli iracheni e del governo del premier Nouri al Mariki: gli Stati Uniti, afferma, "non taglieranno la corda", accusando i democratici all’opposizione di volerlo fare.
"Loro magari usano altre parole, ma la sostanza è questa", dice Bush ripetendo una sua frase feticcio, "se noi scappiamo, il nemico ci inseguirà". Denunciata la brutalità del nemico che i militari americani devono affrontare nella stessa capitale, Baghdad, e ricordati gli sviluppi politici, il presidente si dichiara disponibile a prendere in considerazione richieste di maggiori truppe che dovessero venirgli dai comandanti militari o alternative che dovessero essergli suggerite dalla commissione di studio guidata da James Baker e Lee Hamilton, che, dopo le elezioni di midterm del 7 novembre, dovrebbe consegnare il suo rapporto che, secondo alcune indiscrezioni, prospetterà una spartizione in tre dell’Iraq fra sciiti, sunniti e curdi. C’é qualcosa che rimpiange, delle sue scelte irachene?, gli chiede un giornalista.
Bush ci pensa, poi dice che vorrebbe che lo scandalo degli abusi sui detenuti iracheni nel carcere di Abu Ghraib non fosse mai avvenuto, perché "ci ha davvero danneggiato". Ma il presidente difende la decisione di rovesciare il regime di Saddam Hussein ("Era la cosa giusta da fare") e l’impegno ad aiutare "le giovani democrazie". "La posta in palio è molto alta", anzi "non potrebbe essere più alta", ripete a se stesso e a un’America sempre meno convinta dalle sue parole. Se gli Stati Uniti lasciano l’Iraq prima che il Paese possa difendersi, i terroristi ne prenderebbero il controllo e avrebbero "un nuovo santuario" da dove attaccare l’America e il Mondo.
2006-10-11 19:53
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