Appello di un capo indiano Cheyenne, guida spirituale della Nazione Lakota
Ai leader religiosi e spirituali di tutto il mondo
[premessa e cura ] di LUISELLA GARDA *
DALLA guida spirituale di un popolo sconfitto dalla storia ufficiale e relegato ai margini della società arrivano parole di una saggezza straordinariamente profonda e semplice. L’invito è di quelli consueti per un leader religioso: è l’invito alla preghiera. È una preghiera particolare, per la Terra che, come tutti gli esseri viventi, sanguina.
Di fronte all’ennesimo disastro difficilmente gestibile come quello ricordato, la perdita di petrolio nel Golfo, non rimane che prendere coscienza della propria colpevolezza impotente e chiedere aiuto.
Il 21 giugno, giorno indicato nel proclama, Arvol Looking Horse* chiede alle persone di fede di recitare una preghiera per lei, per la Madre Terra: tutte le creature di buona volontà si rivolgano al loro Creatore per chiedere protezione e capacità di cambiare.
La richiesta di una preghiera che sappia superare i limiti delle confessioni religiose non è nuova, ma in questa c’è qualcosa di più: c’è l’invito ad andare oltre i limiti della nostra stessa umanità e smetterla di pensarci sempre «unici» agli occhi di Dio. Non ci siamo solo noi e Dio. Ci sono il Popolo degli Animali e il Popolo delle Piante che con noi condividono questa Terra e che, come noi, hanno lo stesso diritto di viverci. Se noi parliamo a Dio, qualunque sia la nostra fede, Dio ascolta. Anche il Popolo degli Animali parla a Chi lo ascolta: per quale motivo il Creatore dovrebbe ignorare le richieste di queste sue creature, nostri «minimi fratelli», che hanno avuto la disgrazia di vivere al nostro fianco?
Il 21 giugno, dunque, potrebbe accadere qualcosa di molto buono: che a Dio arrivino le preghiere di molti suoi figli, dai figli del Popolo che striscia, del Popolo che vola e di quello che nuota, del Popolo a quattro gambe e dai figli del più colpevole di tutti i Popoli, quello a due gambe.
* nato a Cheyenne River Reser-vation (South Dakota) nel 1954, è guida spirituale della Nazione Lakota. Il 21 giugno è già stato proclamato da anni Giornata mondiale dedicata alla Preghiera per la Pace. Per ulteriori informazioni consultare il sito www.wo-lakota.org.VN:R_U [1.9.0_1079]
«Parenti miei,
È venuto il tempo di parlare ai cuori delle nostre nazioni e ai loro leader. Io questo vi chiedo dal profondo del mio cuore: partendo dallo spirito delle vostre nazioni, unitevi insieme in preghiera. Noi, dal cuore dell’Isola della Tartaruga, abbiamo un grande messaggio per il mondo; ci spingono a parlare tutti gli animali bianchi che hanno mostrato il loro sacro colore, che sono per noi il segno che è necessario pregare per la sacra vita di tutte le cose.
Mentre io vi invio questo messaggio, molti Popoli degli Animali sono minacciati: coloro che nuotano, coloro che strisciano, coloro che volano, i Popoli delle Piante, tutti, alla fine, saranno danneggiati dal disastro della perdita di petrolio nel Golfo.
I pericoli che ci troviamo ad affrontare in questa ora non sono causati dagli Spiriti. La catastrofe che si è verificata con la perdita di petrolio, simile al sanguinamento della Madre Terra, è causata da errori umani, errori che non possiamo permetterci di continuare a fare.
Io ho chiesto, come leader spirituale, che ci si riunisca insieme, insieme uniti in preghiera nella totalità e globalità delle nostre comunità. La mia preoccupazione è che questi gravi problemi continueranno a peggiorare, con quell’«effetto domino» riguardo al quale i nostri antenati ci hanno messo in guardia nelle loro profezie.
Nel mio cuore, so bene che ci sono milioni di persone che pensano che l’unione delle nostre preghiere per amore della nostra Terra arrivi molto in ritardo. Io credo che noi, come persone spirituali, dobbiamo riunirci e concentrare i nostri pensieri e le nostre preghiere per permettere la guarigione delle molteplici ferite che abbiamo inferto alla Terra. Poiché noi onoriamo il Ciclo della Vita, convochiamo i Cerchi di preghiera globalmente per contribuire alla guarigione della Terra (la nostra Unc’I Maka in lakota).
Noi chiediamo che si preghi affinché questa perdita di petrolio, questa emorragia, finisca; affinché i venti stiano quieti, così da collaborare in questa opera. Preghiamo affinché le persone siano guidate mentre tentano di riparare all’errore, e preghiamo perché tutti cerchiamo di vivere in armonia, nel momento in cui scegliamo di mutare il distruttivo sentiero sul quale ora stiamo camminando. Pregando, arriveremo alla completa comprensione del fatto che siamo tutti connessi gli uni agli altri, e che quello che noi creiamo e facciamo ha effetti durevoli su tutto ciò che esiste.
Quindi, uniamoci spiritualmente: tutte le nazioni, tutte le fedi, una preghiera. Insieme con questa preghiera chiedo anche per favore di ricordare il 21 giugno quale Giorno della Pace nel Mondo e Giorno in cui si onorano i Sacri Siti: sia che siano siti naturali, o templi, o chiese o sinagoghe o semplicemente il «vostro» particolare posto sacro, recitiamo una preghiera per tutto ciò che vive, perché le nostre nazioni prendano buone decisioni, per il futuro e il benessere dei nostri figli e delle generazioni che verranno».
Onipikte (Così che noi possiamo vivere)
Chief Arvol Looking Horse, custode della Sacra Pipa
* Il DialogoMartedì 15 Giugno,2010 Ore: 15:54
In rete, sul tema, si cfr. anche:
Nona Giornata ecumenica del Dialogo cristiano-islamico del 27 ottobre 2010
Amare la Terra e tutti gli esseri viventi!
Testo dell’appello. Di seguito vi è la possibilità di aderire all’appello.
«Ecco, al Signore tuo Dio appartengono i cieli, i cieli dei cieli, la terra e quanto essa contiene». (Bibbia Deuteronomio 10,14)
«Certamente appartiene ad Allah tutto ciò che è nei cieli e ciò che è sulla terra. Cosa seguono coloro che invocano consoci all’infuori di Allah? Non inseguono che vane congetture, e non fanno che supposizioni. Egli ha fatto per voi la notte affinché riposiate e il giorno affinché vi rischiari. In verità in ciò vi sono segni per la gente che ascolta». (Corano Sura X,66-67)
L’emergenza ambientale è oramai una costante dei nostri tempi. Le catastrofi naturali sono ingigantite dalle responsabilità umane e dai disastri causati dall’uomo e dalle tecnologie che spesso gli stessi uomini che le hanno realizzate non riescono a controllare. La nostra Terra è ferita profondamente e sanguina, come ha scritto recentemente, con riferimento al gravissimo incidente petrolifero del Golfo del Messico, un Capo spirituale cheyenne in un appello a tutte le religioni del mondo alla preghiera per la Terra ferita e per tutti gli esseri viventi che la abitano.
Ma più la situazione diventa grave, più si moltiplicano gli appelli al rispetto dell’ambiente, più acuti e violenti diventano gli atteggiamenti di quanti rifiutano il cambiamento di uno stile di vita irrispettoso della Terra che ci ospita che nessun essere umano ha creato e che nessun essere umano dovrebbe poter impunemente distruggere.
La violenza, come è scritto nel documento finale del Convegno “Chiese strumento di pace?” - svoltosi a Milano il 2 giugno 2010, «è diventata parte del nostro quotidiano e ci siamo abituati a considerarla inevitabile». E le religioni l’hanno spesso giustificata e ancora spesso continuano a farlo.
La produzione di strumenti di morte continua inarrestabile. Neppure la crisi economica ha prodotto alcun taglio nei fondi destinati all’acquisto di armi di distruzione di massa. Mentre non si trovano soldi per i servizi sociali di base, per la scuola, per la sanità, i fondi per la partecipazione alle guerre sono sempre disponibili ed anzi sono aumentati. Pur di non mettere in discussione l’idolo del mercato e del massimo profitto si sceglie di continuare a produrre prodotti che aumentano all’infinto l’inquinamento atmosferico attaccando allo stesso tempo anche i diritti fondamentali della persona umana e le stesse libertà democratiche delle persone che quei prodotti sono chiamati a produrre.
Cristiani e musulmani sono interpellati nel profondo della loro fede da questi che sono i segni dei nostri tempi. Oggi come nel corso della storia dell’umanità in discussione è l’idolatria che si manifesta nel mancato rispetto per la nostra Terra attraverso il perpetrarsi di distruzioni della natura, di guerre devastanti e violenze disumane, di divisione profonda dell’umanità in oppressi e oppressori.
Forze politiche miopi che agitano la paura del diverso e di ciò che non si conosce e che per aumentare questa paura mistificano la realtà con l’uso di menzogne sempre più spudorate, vorrebbero che cristiani e musulmani continuassero a fare guerre fra loro come ai tempi delle Crociate. Si vorrebbe irreggimentare il grande spirito di pace, che pervade queste due grandi religioni della storia dell’umanità, in congreghe religiose di Stato, asservite a logiche politiche che contribuiscano a prolungare all’infinito quello stile di vita insostenibile che sta portando l’umanità sul baratro della propria autodistruzione.
Crediamo invece sia necessario che cristiani e musulmani, insieme a tutte le altre religioni, assumano posizioni e comportamenti all’altezza dei tempi che viviamo e delle sfide che ci pongono i nemici dell’umanità e della sua riconciliazione con l’unico Dio che insieme adoriamo.
Per questo le associazioni cristiane e musulmane che da 9 anni promuovono ed insieme celebrano la giornata del dialogo cristiano-islamico, vogliono mettere al centro del prossimo incontro del 27 ottobre 2010 i temi della salvaguardia del creato, del rispetto e dell’amore per la nostra Terra e per tutto ciò che essa contiene e a cui da vita. E vogliamo farlo nel nome dell’unico Dio che insieme adoriamo e a cui insieme, ognuno per la propria strada, vogliamo ricondurre questa umanità, verso quel Regno di Dio dove non ci saranno più lacrime, né lutto ne lamento ne affanno e dove l’amore trionferà.
Amare la Terra e tutti gli esseri viventi!
Il comitato organizzatore
Roma 22 giugno 2010
*Il testo dell’appello con la possibilita’ di adesioni on-line si trova al seguente link:
www.ildialogo.org/cEv.php?f=http://www.ildialogo.org/cristianoislamico/promotori_1277197559.htm
Emerson il poeta salva il «teologo»
Lo scrittore americano dell’Ottocento legge la natura come una manifestazione dell’anima universale E così il punto di vista artistico diventa mistico
di ROBERTO MUSSAPI (Avvenire, 19.06.2010)
«Sono nato poeta. Poeta di terz’ordine, senza dubbio, ma poeta. Questa è la mia natura e la mia vocazione. Il mio canto, non c’è dubbio, è rauco, e per la maggior parte in prosa. Tuttavia sono poeta, nel senso che percepisco e amo le armonie che sono nell’anima e le armonie che sono nella materia e specialmente le corrispondenze tra queste e quelle». Nato a Boston nel 1803, morto nel 1882, Ralph Waldo Emerson è uno dei grandi fondatori della letteratura e del pensiero americani. Il suo saggio fondamentale, Natura, esce nel mitico quinquennio in cui esplode in forma piena la nuova letteratura americana: tra il 1850 e il 1855 vedevano la luce Moby-Dick di Melville, i capolavori di Thoreau, Hawthorne, il mitico Foglie d’erba , grande libro di Walt Whitman che fonda la poesia americana, e appunto i saggi di Ralph Waldo Emerson. Che non solo sono fondamentali come alimento della poesia di Whitman, ma mettono in azione e in scena la poesia come forza motrice dell’universo letterario.
Emerson sa di essere, in senso stretto, poeta di terz’ordine, come i suoi peraltro pochi versi dimostrano. Ma sa di essere poeta in toto, in quanto fonda il suo pensiero sulla poesia come forza simbolica al centro dell’essere. Quando pubblicai un’ampia scelta dei suoi saggi nel 1989 in un Oscar Mondadori (un’edizione mirata a un pubblico vasto), speravo che la centralità della sua esperienza si imponesse nell’elaborazione poetica e in genere culturale italiana. Ciò non avvenne, ma la crescente attenzione alla sua opera sembra dimostrare che bisogna avere pazienza.
Una raccolta di saggi appena uscita, Teologia e natura, a cura di Pier Cesare Bori (traduzione di Massimo Lollini), attesta che Emerson sta entrando nel nostro mondo. L’elemento fondamentale dell’opera di Emerson è la continua attenzione alle relazioni, a ciò che lega tutte le parti della realtà. Per ottenere tale visione profonda, Emerson postulò uno «sguardo obliquo», o «indirezione », consistente nel guardare le cose «con l’angolo meno usato dell’occhio... Non apprendiamo niente esattamente finché non apprendiamo il carattere simbolico della vita». L’aggettivo «trascendentale» coniato da Emerson indica la parola capace di cogliere la natura simbolica della cosa, in tal modo riunificandola ulteriormente all’anima di cui la cosa è simbolo.
Splendida la metafora della vita come «un cerchio il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo» che pare desunta dall’osservazione del miracoloso crearsi e svanire della forma quando si lancia un sasso in un’acqua ferma. Circolarità, natura come manifestazione dell’anima universale, le due polarità che reggono il mondo, di cui l’interprete eletto è il poeta. Non necessariamente o meglio non esclusivamente il grande poeta, ma l’uomo che osserva la realtà dal punto di vista della poesia. Visione poetica del mondo che è anche visione mistica.
I grandi temi del pensiero, della natura, della storia, del mito, della morale sono rivisitati in un excursus straordinario che - parafrasando l’autore - scorre perennemente davanti alla Sfinge: Platone e Socrate, Buddha e Shakespeare, Coleridge e Swedenborg, i sapienti dell’umanità sfilano davanti alla statua dell’enigma. È un superamento del pensiero filosofico in senso stretto, nel recupero, accanto ai filosofi, del pensiero lontano, orientale e antico, di quell’originario e generante stupore. Ora nello scritto illuminante che accompagna la felice e necessaria scelta di saggi emersoniana, Bori indica addirittura un superamento del pensiero teologico dal quale, come egli dimostra, Emerson in parte sostanziosa discende. Al magistero di quelli che definisce ebrei e greci, intendendo l’Antico e il Nuovo Testamento, Emerson accosta la parola della natura stessa e la lettura di altre grandi religioni.
Non un generoso eclettismo, prosegue Bori, ma uno smarginamento e una discesa verso il fondo del pensiero biblico. Che non è ridimensionato ma come liberato al suo brivido germinale e al suo divenire. Emerson esce dalla teologia grazie all’idea di essere poeta. Un poeta scadente per i suoi versi, un vero poeta perché mette al centro di filosofia e teologia la voce profetica e visionaria che le originarono e ancora le ispirano.
Ralph Waldo Emerson
TEOLOGIA E NATURA
Marietti. Pagine 208. Euro 12 ,00
La "missione" di Obama
"Energia pulita, è l’ora"
Primo discorso alla nazione in diretta tv dedicato all’emergenza della marea nera: "Bp pagherà, vinceremo questa guerra. Ma dobbiamo agire: non possiamo consegnare ai nostri figli questo futuro"
dall’inviato ANGELO AQUARO *
NEW YORK - La marea nera all’assalto delle coste è come Al Qaeda, il petrolio che sgorga dal pozzo maledetto è come una epidemia, il conto astronomico che si abbatte sul Golfo vale una recessione e la sfida per l’energia pulita ci riporta a quella che lanciò l’America sulla Luna. Barack Obama scende dal Marine One dopo due giorni di missione nel Golfo ma sembra quasi non voler riportare i piedi per terra. E nel suo primo discorso in diretta tv dallo Studio Ovale - camicia bianca e cravatta blu, le foto di moglie e figlie sulla scrivania - prova a battere per 18 minuti sul tasto dell’emozione. L’America è stata colpita "dal più grande disastro ambientale della sua storia" per colpa dell’"avventatezza" di una compagnia chiamata Bp che adesso pagherà "mettendo a disposizione tutte le risorse che serviranno". Ma l’America è forte e riuscirà a riemergere anche da "questa crisi che non sarà certamente l’ultima". Soprattutto se "troverà il coraggio" di applicare la "lezione". Dice: "E’ una national mission. Il momento è adesso". L’economia del petrolio già prima era insostenibile: adesso è assassina.
I contenuti del discorso, per la verità, erano stati ampiamente anticipati. Ma un conto sono le chiacchiere dei giornali e dei talk show: un conto è affacciarsi dalla tv nel salotto di casa all’ora del programma preferito. E come rispoderà l’America? Riuscirà il presidente a riconquistare quel 71 per cento di elettori che giudicano "troppo morbida" la sua azione nel Golfo? Il discorso alla nazione scandisce momenti decisivi nella vita del paese: da quello stesso Studio Ovale George W. Bush promise vendetta all’America colpita l’11 settembre.
Anche Obama attacca: al momento in cui vi parlo la nazione si trova a confrontarsi con minacce molteplici, a casa la recessione, all’estero la guerra ad Al Qaeda. E adesso "una macchia di petrolio all’assalto delle nostre coste e della nostra gente". Siamo in guerra, dice, una guerra che sta mostrando "i limiti dell’umana tecnologia" e in cui il governo ha già schierato i suoi uomini migliori a partire dal ministro per l’energia Steven Chu "che è un Premio Nobel", dice il presidente - Nobel pure lui. Sì, è un disastro ambientale, ripete, "ma a differenza di un terremoto o un uragano non è un evento singolo" che porta distruzione in pochi minuti o pochi giorni: "I milioni di galloni di petrolio assomigliano più a un epidemia" che dovremo "combattere per anni". Come?
"Non equivocate" dice il presidente "vinceremo questa guerra". E illustra alla nazione il suo "piano di battaglia" in tre punti: cosa fare per ripulire il Golfo, per aiutare la gente "e per essere sicuri che questo non accada più". L’elenco delle meraviglie messe in campo e l’assicurazione che tra breve il 90 per cento della perdita sarà fermato a dire il vero fanno tragicamente sorridere. Proprio poche ore prima del discorso un panel governativo ha tirato fuori le ultime stime: la perdita potrebbe arrivare a 60mila barili al giorno. Un’enormità. Ma al presidente in questo momento preme soprattutto una cosa: indicare un colpevole e un responsabile. Annuncia che oggi incontrerà il preidente di Bp "e lo informerò" - dice proprio così - "che dovrà mettere da parte tutte le risorse che serviranno per compensare" tutti i danni subiti. La decisione è presa e il presidente è sicuro di avere "l’autorità legale" - come dice il portavoce Robert Gibbs - di costringere Bp a mettere a disposizione un fondo indipendente. Di che cifra? Di questo si parlerà oggi alla Casa Bianca con Carl-Henric Svanberg e quel Ceo Tony Hayward criticatissimo che Obama neppure ha menzionato nel discorso. Il conto astronomico che la compagnia potrebbe pagare va dai 20 ai 60 miliardi di danni. Anche se l’ipotesi a cui Bp starebbe pensando prevede di mettere da parte un fondo pari al dividendo di quest’anno - 10 miliardi di dollari - e intanto continuare a pagare tutte le spese di puliza che verranno. Basterà?
Il "piano di battaglia" del presidente non si spinge nei dettagli. Però Obama accusa esplicitamente la Bp di non avere agito nel Golfo "con le necessarie precauzioni". Dice che il comportamento della compagnia è stato "avventato", promette la commissione d’inchiesta e annuncia di aver nominato quello che qui negli Usa è considerato un vero e proprio cane da guardia - Michael Bromwich - a capo di quella Minerals Managment Service che invece di vigilare sui petrolieri si faceva pagare le trasferte ai topless bar. Ma non basta. Dobbiamo imparare la lezione, dice Obama. Sapevamo da decenni "che i giorni del petrolio a buon mercato erano contati". Per decenni abbiamo parlato di energie alternative senza fare nulla. Adesso perfino la Cina è avanti a noi. E la tragedia del Golfo ci mostra che un intero modello di vita è stato messo in gioco dalla nostra mancanza di azione. "Non possiamo consegnare ai nostri figli questo futuro" dice il presidente. "Ora è il momento di riprende il nostro destino".
Il modo c’è già. La legge sul climate change è stata passata dalla Camera già un anno fa ma è ferma ancora al Senato. Ovviamente il presidente fa il superpartes: "L’unica cosa che non tollererò è l’inazione". Ma basterà questo pressing per convincere i repubblicani? Obama ha un sogno: "L’unica risposta che non accetto è quella di chi dice che la sfida è troppo grande e difficile. La stessa cosa si disse sulla nostra capacità di produrre aereoplani e carri armati durante la Seconda Guerra Mondiale. La stessa cosa sulla nostra capacità di andare e tornare sani e salvi sulla Luna". Barack cita Jfk e gioca al nuovo Kennedy invitando a guardare "oltre i limiti meschini del pensiero convenzionale".
La chiusa è mistica come piace alla gente di qui. Il presidente ricorda la cerimonia della Benedizione della Flotta che si tiene ogni anno nel Golfo. Con quella preghiera non è rivolta al Signore "perché rimuova tutti gli ostacoli e i pericoli: è rivolta a Dio perché sia al nostro fianco anche nel mezzo della tempesta". Proprio come adesso: in mezzo alla tempesta. "Preghiamo per il nostro coraggio" conclude il presidente. Nell’attesa, gli esperti pregano anche per qualcos’altro. Sarà un’estate piena di tempeste davvero. E se l’uragano arriva prima che quel maledetto buco sia tappato non ci sarà benedizione che tenga.
* la Repubblica, 16 giugno 2010
Ecologia e ambiente, obiettivi dell’equità
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 15.06.2010)
I disastri naturali ed ecologici sono l’imprevedibile che mette a dura prova la politica dettando le forme e i costi degli interventi, imponendo la sua temporalità. Come le guerre, sono un’alterità radicale rispetto alla politica. L’istituzione di agenzie di intervento rapido e di soccorso, come la nostra Protezione Civile, sono nel migliore dei casi efficaci nel tamponare gli effetti del disastro e, come si dice con un tono ottimistico che a volte rasenta il cinismo, aiutare il ritorno alla normalità. Nel frattempo, milioni di persone soffrono e in molti casi perdono letteralmente tutto, come abbiamo visto in Abruzzo, Louisiana, Haiti e nei numerosi luoghi devastati dai cataclismi.
Ma è proprio corretto parlare di imponderabile e imprevedibile? La domanda è retorica nel caso dei disastri ecologici poiché qui il fattore umano, colpevole o negligente che sia, è determinante. Secondo Anthony Giddens, che è intervenuto recentemente al 20th European Annual Meeting di Amalfi organizzato dal Dipartimento di Studi Politici dell’Università la Sapienza, la scienza sociale e la politica farebbero bene a considerare le questioni climatiche come parte delle politiche sociali, insieme ai disastri ecologici e ai cataclismi naturali, non perché si sia in grado di determinare un rapporto causale tra loro, ma perché il mutamento climatico, i disastri ecologici e la crisi energetica ed economica sono incasellabili come emergenze del nostro tempo tra loro integrate. Di fronte alle quali, secondo Giddens, la politica dimostra tutta la sua deprimente inconsistenza, persa a gestire, spesso molto male, l’amministrazione quotidiana, stordita in un letargo che la tiene fissa al bricolage del presente.
La politica ha perso o deperito la vocazione a progettare e indirizzare la società civile e l’economia verso un fine che dovrebbe essere quello di realizzare le promesse democratiche: più eguaglianza, più o meglio distribuito benessere. Ma l’appello alla politica non deve essere inteso come un appello al ritorno del "big government", però. Giddens è stato tra i padri fondatori della "terza via" che ha messo sotto accusa lo statalismo sociale e non ha alcuna intenzione di rovesciare la propria posizione. La sua proposta è quella di applicare la partnership pubblico-privato, mercato-stato che era della terza via, alle questioni ecologiche e dei mutamenti climatici. Propone alla politica di riacquistare un’autorevolezza progettuale per porre regole, limiti e promuovere azioni di stimolo o di dissuasione; per impedire che il mercato sia solo nella cabina di regia.
Comprendere la natura della sfida del cambiamento climatico è essenziale. Secondo Giddens, questa sfida può essere governata riuscendo a portare il mercato a fare ciò che spontaneamente tende a non fare, soprattutto in casi come questi: considerare il futuro come una risorsa. La politica come correzione della miopia endogena all’economica. Progetto e regole, gli strumenti delle comunità politiche, sono improrogabili quando eventi solo in parte prevedibili o non prevedibili affatto travolgono la natura e la vita di milioni.
L’uragano Kathrina o il disastro ecologico del Golfo del Messico targato BP sono invariabilmente portatori di povertà o perché si abbattono su regioni povere (anche quando parti di uno stato non povero come gli Stati Uniti) o perché causano impoverimento o aggravano l’esistente povertà. La sfida è chiara e non c’è chi non condivida l’inadeguatezza degli strumenti fin qui usati. Lo stato sociale era organizzato secondo previsione più o meno certe, basate su una regolarità e normalità delle relazioni sociali.
Pensare al futuro era in qualche modo parte dell’investimento. Come si può incoraggiare il mercato a pensare in termini di futuro in situazioni di rischio radicale come sono quelle naturali? E’ proprio questa domanda che dovrebbe convincere a considerare i mutamenti ambientali e climatici come parte della elaborazione politica e sociale.
A provare che i cambiamenti climatici hanno cambiato i comportamenti economici tradizionali è il mutamento delle strategie delle assicurazioni: i rischi di alluvione, per esempio, sono diventati così alti che le assicurazioni coprono solo parzialmente o per nulla. Indubbiamente la frequenza e la gravità di queste calamità è messa in conto dalle assicurazioni (e questo vale ad ammettere che esiste una relazione tra mutamento climatico e disastri naturali) e se questo è vero, allora è urgente la riscrittura delle regole per indurre le compagnie assicurative a mutare le loro strategie.
Incoraggiare il mercato - quello delle assicurazioni in modo particolare - è un’impresa tutt’altro che facile come la battaglia di Barack Obama per una riforma sanitaria seppur minima ha dimostrato. È arduo convincere le corporations che si deve proteggere chi è vulnerabile; compito della politica è convincere che è conveniente farlo. Giddens propone esplicitamente di "assicurare i poveri" o i disastrati del mutamento climatico come si assicura la vecchiaia o la malattia. Questa sarebbe la nuova frontiera dell’utopia pragmatica: inserire l’ambiente e l’ecologia tra gli obiettivi dell’equità, come la salute o l’educazione. Fare dell’ecologia a un tempo un progetto di giustizia sociale e un progetto di innovazione tecnologica al servizio del benessere generale.
Il padre teorico della "terza via" - che la Regina d’Inghilterra ha da poco elevato a Lord - ha mantenuto intatta la fiducia nella partnership virtuosa di pubblico e privato per la costruzione di una società dell’equa condivisione di responsabilità rispetto alla vulnerabilità. Tuttavia questa volta l’aspetto utopico è molto più accentuato di quanto non lo fosse quando si trattava di rinegoziare lo stato dei servizi sociali. Anche perché quella terza via ci ha lasciato una politica che è indubbiamente più debole, al punto che, come assistiamo da due anni, gli stati democratici pare non abbiano sufficiente autorità per imporre ai mercati finanziari regole di trasparenza e di responsabilità verso la comunità. Il capitale finanziario non ha confini né patria, soprattutto è indifferente alla materialità e alla produzione di beni.
Perché dovrebbe sentire solidarietà per i vulnerabili dei cambiamenti climatici? E, poi, se i governi destinano finanziamenti per assicurare chi è colpito dalle catastrofi, non c’è il rischio che i disastri diventino cose economicamente vantaggiose e trattate come tali? C’è un assunto non detto nella "terza via" ecologica che non è convincente: che le corporations siamo mosse nelle loro decisioni da un senso civico o umanitario. E c’è un assunto ancor meno dimostrabile: che le relazioni di forza tra mercato finanziario globale e stati sovrani nazionali siano come tra partner equipollenti. E’ un fatto che gli stati sono sempre più impotenti di fronte ai mercati (luoghi di disastri altrettanto imprevedibili di quelli naturali). La politica è riflesso dell’economia anche nel senso che con l’economia essa condivide lo stato di miopia, l’incapacità o la non volontà di progettare il futuro.