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LETTERA AI VESCOVI
DELLA CHIESA CATTOLICA
SULLA COLLABORAZIONE DELL’UOMO E DELLA DONNA
NELLA CHIESA E NEL MONDO
INTRODUZIONE
1. Esperta in umanità, la Chiesa è sempre interessata a ciò che riguarda l’uomo e la donna. In questi ultimi tempi si è riflettuto molto sulla dignità della donna, sui suoi diritti e doveri nei diversi settori della comunità civile ed ecclesiale. Avendo contribuito all’approfondimento di questa fondamentale tematica, in particolare con l’insegnamento di Giovanni Paolo II,1 la Chiesa è oggi interpellata da alcune correnti di pensiero, le cui tesi spesso non coincidono con le finalità genuine della promozione della donna.
Il presente documento, dopo una breve presentazione e valutazione critica di alcune concezioni antropologiche odierne, intende proporre riflessioni ispirate dai dati dottrinali dell’antropologia biblica - indispensabili per salvaguardare l’identità della persona umana - circa alcuni presupposti per una retta comprensione della collaborazione attiva, nel riconoscimento della loro stessa differenza, tra uomo e donna nella Chiesa e nel mondo. Queste riflessioni, inoltre, vogliono proporsi come punto di partenza per un cammino di approfondimento all’interno della Chiesa e per instaurare un dialogo con tutti gli uomini e le donne di buona volontà, nella sincera ricerca della verità e nel comune impegno a sviluppare relazioni sempre più autentiche.
I. IL PROBLEMA
2. In questi ultimi anni si sono delineate nuove tendenze nell’affrontare la questione femminile. Una prima tendenza sottolinea fortemente la condizione di subordinazione della donna, allo scopo di suscitare un atteggiamento di contestazione. La donna, per essere se stessa, si costituisce quale antagonista dell’uomo. Agli abusi di potere, essa risponde con una strategia di ricerca del potere. Questo processo porta ad una rivalità tra i sessi, in cui l’identità ed il ruolo dell’uno sono assunti a svantaggio dell’altro, con la conseguenza di introdurre nell’antropologia una confusione deleteria che ha il suo risvolto più immediato e nefasto nella struttura della famiglia.
Una seconda tendenza emerge sulla scia della prima. Per evitare ogni supremazia dell’uno o dell’altro sesso, si tende a cancellare le loro differenze, considerate come semplici effetti di un condizionamento storico-culturale. In questo livellamento, la differenza corporea, chiamata sesso, viene minimizzata, mentre la dimensione strettamente culturale, chiamata genere, è sottolineata al massimo e ritenuta primaria. L’oscurarsi della differenza o dualità dei sessi produce conseguenze enormi a diversi livelli. Questa antropologia, che intendeva favorire prospettive egualitarie per la donna, liberandola da ogni determinismo biologico, di fatto ha ispirato ideologie che promuovono, ad esempio, la messa in questione della famiglia, per sua indole naturale bi-parentale, e cioè composta di padre e di madre, l’equiparazione dell’omosessualità all’eterosessualità, un modello nuovo di sessualità polimorfa.
3. La radice immediata della suddetta tendenza si colloca nel contesto della questione femminile, ma la sua motivazione più profonda va ricercata nel tentativo della persona umana di liberarsi dai propri condizionamenti biologici.2 Secondo questa prospettiva antropologica la natura umana non avrebbe in se stessa caratteristiche che si imporrebbero in maniera assoluta: ogni persona potrebbe o dovrebbe modellarsi a suo piacimento, dal momento che sarebbe libera da ogni predeterminazione legata alla sua costituzione essenziale.
Questa prospettiva ha molteplici conseguenze. Anzitutto si rafforza l’idea che la liberazione della donna comporti una critica alle Sacre Scritture che trasmetterebbero una concezione patriarcale di Dio, alimentata da una cultura essenzialmente maschilista. In secondo luogo tale tendenza considererebbe privo di importanza e ininfluente il fatto che il Figlio di Dio abbia assunto la natura umana nella sua forma maschile.
4. Dinanzi a queste correnti di pensiero, la Chiesa, illuminata dalla fede in Gesù Cristo, parla invece di collaborazione attiva, proprio nel riconoscimento della stessa differenza, tra uomo e donna.
Per comprendere meglio il fondamento, il senso e le conseguenze di questa risposta conviene tornare, sia pur brevemente, alla Sacra Scrittura, ricca anche di umana sapienza, in cui questa risposta si è manifestata progressivamente grazie all’intervento di Dio a favore dell’umanità.3
II. I DATI FONDAMENTALI DELL’ANTROPOLOGIA BIBLICA
5. Una prima serie di testi biblici da esaminare sono i primi tre capitoli della Genesi. Essi ci collocano «nel contesto di quel “principio” biblico, in cui la verità rivelata sull’uomo come “immagine e somiglianza di Dio” costituisce l’immutabile base di tutta l’antropologia cristiana».4
Nel primo testo (Gn 1,1-2,4) si descrive la potenza creatrice della Parola di Dio che opera delle distinzioni nel caos primigenio. Appaiono la luce e le tenebre, il mare e la terraferma, il giorno e la notte, le erbe e gli alberi, i pesci e gli uccelli, tutti «secondo la loro specie». Nasce un mondo ordinato a partire da differenze che, d’altra parte, sono altrettante promesse di relazioni. Ecco dunque abbozzato il quadro generale nel quale si colloca la creazione dell’umanità. «Dio disse: Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza... Dio creò l’uomo a sua immagine, ad immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò» (Gn 1, 26-27). L’umanità è qui descritta come articolata, fin dalla sua prima origine, nella relazione del maschile e del femminile. È questa umanità sessuata che è dichiarata esplicitamente «immagine di Dio».
6. Il secondo racconto della creazione (Gn 2,4-25) conferma in modo inequivocabile l’importanza della differenza sessuale. Una volta plasmato da Dio e collocato nel giardino di cui riceve la gestione, colui che è designato, ancora con termine generico, come Adam, fa esperienza di una solitudine che la presenza degli animali non riesce a colmare. Gli occorre un aiuto che gli sia corrispondente. Il termine designa qui non un ruolo subalterno, ma un aiuto vitale.5 Lo scopo è infatti di permettere che la vita di Adam non si inabissi in un confronto sterile e, alla fine, mortale solamente con se stesso. È necessario che entri in relazione con un altro essere che sia al suo livello. Soltanto la donna, creata dalla stessa «carne» ed avvolta dallo stesso mistero, dà alla vita dell’uomo un avvenire. Ciò si verifica a livello ontologico, nel senso che la creazione della donna da parte di Dio caratterizza l’umanità come realtà relazionale. In questo incontro emerge anche la parola che dischiude per la prima volta la bocca dell’uomo in una espressione di meraviglia: «Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa» (Gn 2,23).
«La donna - ha scritto il Santo Padre in riferimento a questo testo genesiaco - è un altro “io” nella comune umanità. Sin dall’inizio essi [uomo e donna] appaiono come “unità dei due”, e ciò significa il superamento dell’originaria solitudine, nella quale l’uomo non trova “un aiuto che gli sia simile” (Gn 2,20). Si tratta qui solo dell’“aiuto” nell’azione, nel “soggiogare la terra”? (cfr Gn 1,28). Certamente si tratta della compagna della vita, con la quale, come con una moglie, l’uomo può unirsi divenendo con lei “una sola carne” e abbandonando per questo “suo padre e sua madre” (cfr Gn 2,24)».6
La differenza vitale è orientata alla comunione ed è vissuta in un modo pacifico espresso dal tema della nudità: «Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna» (Gn 2,25). In tal modo, il corpo umano, contrassegnato dal sigillo della mascolinità o della femminilità, «racchiude fin “dal principio” l’attributo “sponsale”, cioè la capacità di esprimere l’amore: quell’amore appunto nel quale l’uomo-persona diventa dono e - mediante questo dono - attua il senso stesso del suo essere ed esistere».7 E, sempre commentando questi versetti della Genesi, il Santo Padre continua: «In questa sua particolarità, il corpo è l’espressione dello spirito ed è chiamato, nel mistero stesso della creazione, ad esistere nella comunione delle persone, “ad immagine di Dio”».8
Nella stessa prospettiva sponsale si comprende in che senso l’antico racconto della Genesi lasci intendere come la donna, nel suo essere più profondo e originario, esista «per l’altro» (cfr 1Cor 11,9): è un’affermazione che, ben lungi dall’evocare alienazione, esprime un aspetto fondamentale della somiglianza con la Santa Trinità le cui Persone, con l’avvento del Cristo, rivelano di essere in comunione di amore, le une per le altre. «Nell’“unità dei due”, l’uomo e la donna sono chiamati sin dall’inizio non solo ad esistere “uno accanto all’altra” oppure “insieme”, ma sono anche chiamati ad esistere reciprocamente l’uno per l’altro... Il testo di Genesi 2,18-25 indica che il matrimonio è la prima e, in un certo senso, la fondamentale dimensione di questa chiamata. Però non è l’unica. Tutta la storia dell’uomo sulla terra si realizza nell’ambito di questa chiamata. In base al principio del reciproco essere “per” l’altro, nella “comunione” interpersonale, si sviluppa in questa storia l’integrazione nell’umanità stessa, voluta da Dio, di ciò che è “maschile” e di ciò che è “femminile”».9
Nella visione pacifica che conclude il secondo racconto di creazione riecheggia quel «molto buono» che chiudeva, nel primo racconto, la creazione della prima coppia umana. Qui sta il cuore del disegno originario di Dio e della verità più profonda dell’uomo e della donna, così come Dio li ha voluti e creati. Per quanto sconvolte e oscurate dal peccato, queste disposizioni originarie del Creatore non potranno mai essere annullate.
7. Il peccato originale altera il modo con cui l’uomo e la donna accolgono e vivono la Parola di Dio e la loro relazione con il Creatore. Subito dopo aver fatto dono del giardino, Dio dà un comandamento positivo (cfr Gn 2,16), seguito da un altro negativo (cfr Gn 2,17), in cui è affermata implicitamente la differenza essenziale che esiste tra Dio e l’umanità. Sotto la suggestione del Serpente, questa differenza è contestata dall’uomo e dalla donna. Di conseguenza viene stravolto anche il modo di vivere la loro differenza sessuale. Il racconto della Genesi stabilisce così una relazione di causa ed effetto tra le due differenze: quando l’umanità considera Dio come suo nemico, la stessa relazione dell’uomo e della donna viene pervertita. Quando quest’ultima relazione è deteriorata, l’accesso al volto di Dio rischia, a sua volta, di essere compromesso.
Nelle parole che Dio rivolge alla donna in seguito al peccato, si esprime, in modo lapidario ma non meno impressionante, il tipo di rapporti che si instaureranno ormai tra l’uomo e la donna: «Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà» (Gn 3,16). Sarà una relazione in cui l’amore spesso verrà snaturato in pura ricerca di sé, in una relazione che ignora ed uccide l’amore, sostituendolo con il giogo della dominazione di un sesso sull’altro. La storia dell’umanità riproduce di fatto queste situazioni, nelle quali si esprime apertamente la triplice concupiscenza che ricorda San Giovanni, parlando della concupiscenza della carne, della concupiscenza degli occhi e della superbia della vita (cfr 1Gv 2,16). In questa tragica situazione vengono perduti quell’uguaglianza, quel rispetto e quell’amore che, secondo il disegno originario di Dio, esige la relazione dell’uomo e della donna.
8. Il ripercorrere questi testi fondamentali permette di riaffermare alcuni dati capitali dell’antropologia biblica.
Prima di tutto bisogna sottolineare il carattere personale dell’essere umano. «L’uomo è una persona, in eguale misura l’uomo e la donna: ambedue, infatti, sono stati creati ad immagine e somiglianza del Dio personale».10 L’eguale dignità delle persone si realizza come complementarità fisica, psicologica ed ontologica, dando luogo ad un’armonica «unidualità» relazionale, che solo il peccato e le «strutture di peccato» iscritte nella cultura hanno reso potenzialmente conflittuale. L’antropologia biblica suggerisce di affrontare con un approccio relazionale, non concorrenziale né di rivalsa, quei problemi che a livello pubblico o privato coinvolgono la differenza di sesso.
C’è da rilevare inoltre l’importanza e il senso della differenza dei sessi come realtà iscritta profondamente nell’uomo e nella donna: «La sessualità caratterizza l’uomo e la donna non solo sul piano fisico, ma anche su quello psicologico e spirituale, improntando ogni loro espressione».11 Essa non può essere ridotta a puro e insignificante dato biologico, ma è «una componente fondamentale della personalità, un suo modo di essere, di manifestarsi, di comunicare con gli altri, di sentire, di esprimere e di vivere l’amore umano».12 Questa capacità di amare, riflesso e immagine del Dio Amore, ha una sua espressione nel carattere sponsale del corpo, in cui si iscrive la mascolinità e la femminilità della persona.
È la dimensione antropologica della sessualità, inseparabile da quella teologica. La creatura umana nella sua unità di anima e di corpo è qualificata fin dal principio dalla relazione con l’altro-da-sé. Questa relazione si presenta sempre buona ed alterata al tempo stesso. Essa è buona, di una bontà originaria dichiarata da Dio fin dal primo momento della creazione. Essa è, però, anche alterata dalla disarmonia fra Dio e l’umanità sopraggiunta con il peccato. Questa alterazione non corrisponde tuttavia né al progetto iniziale di Dio sull’uomo e sulla donna, né alla verità della relazione dei sessi. Ne consegue perciò che questa relazione buona, ma ferita, ha bisogno di essere guarita.
Quali possono essere le vie di questa guarigione? Considerare ed analizzare i problemi inerenti alla relazione dei sessi solo a partire da una situazione segnata dal peccato porterebbe necessariamente il pensiero a ritornare agli errori precedentemente accennati.
Bisogna dunque rompere questa logica di peccato e cercare una via d’uscita che permetta di eliminarla dal cuore dell’uomo peccatore. Un orientamento chiaro in questo senso viene offerto dalla promessa divina di un Salvatore, nella quale sono impegnati la «donna» e la sua «stirpe» (cfr Gn 3,15). È una promessa che prima di realizzarsi conosce una lunga preparazione nella storia.
9. Una prima vittoria sul male è rappresentata dalla storia di Noè, uomo giusto, che, guidato da Dio, sfugge al diluvio con la sua famiglia e con le diverse specie di animali (cfr Gn 6-9). Ma è soprattutto nella scelta divina di Abramo e della sua discendenza (cfr Gn 12,1ss) che la speranza di salvezza si conferma. Dio comincia così a svelare il suo volto, affinché attraverso il popolo eletto l’umanità apprenda la via della somiglianza divina, cioè della santità, e quindi del cambiamento del cuore. Tra i molti modi in cui Dio si rivela al suo popolo (cfr Eb 1,1), secondo una lunga e paziente pedagogia, vi è anche il riferimento ricorrente al tema dell’alleanza dell’uomo e della donna. Ciò è paradossale, se si considera il dramma rievocato dalla Genesi e la sua replica molto concreta al tempo dei profeti, come pure la mescolanza fra sacro e sessualità presente nelle religioni che circondano Israele. Eppure questo simbolismo appare indispensabile per comprendere il modo con cui Dio ama il suo popolo: Dio si fa conoscere come Sposo che ama Israele, sua Sposa.
Se in questa relazione Dio viene descritto come «Dio geloso» (cfr Es 20,5; Na 1,2) ed Israele denunciato come Sposa «adultera» o «prostituta» (cfr Os 2,4-15; Ez 16,15-34) il motivo è che la speranza, rafforzata dalla parola dei profeti, è proprio di vedere la nuova Gerusalemme diventare la sposa perfetta: «come un giovane sposa una vergine, così ti sposerà il tuo architetto; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te» (Is 62,5). Ricreata «nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore» (Os2,21), colei, che si era allontanata per cercare la vita e la felicità negli dèi falsi, ritornerà e, a Colui che parlerà al suo cuore, «canterà come nei giorni della sua giovinezza» (Os 2,17) e lo udrà dichiarare: «tuo sposo è il tuo creatore» (Is 54,5). È in sostanza lo stesso dato che si afferma quando, parallelamente al mistero dell’opera che Dio realizza attraverso la figura maschile del Servo sofferente, il libro di Isaia evoca la figura femminile di Sion adornata di una trascendenza e di una santità che prefigurano il dono della salvezza destinata ad Israele.
Il Cantico dei Cantici rappresenta senza dubbio un momento privilegiato nell’uso di questa modalità di rivelazione. Nelle parole di un amore umanissimo che celebra la bellezza dei corpi e la felicità della ricerca reciproca, si esprime altresì l’amore divino per il suo popolo. La Chiesa non si è dunque ingannata quando ha riconosciuto nell’audacia di unire, attraverso l’impiego delle medesime espressioni, ciò che vi è di più umano a ciò che vi è di più divino, il mistero della sua relazione col Cristo.
Lungo tutto l’Antico Testamento si configura una storia di salvezza che mette simultaneamente in gioco la partecipazione del maschile e del femminile. I termini di sposo e sposa o anche di alleanza, con i quali si caratterizza la dinamica della salvezza, pur avendo un’evidente dimensione metaforica, sono molto più che semplici metafore. Questo vocabolario nuziale tocca la natura stessa della relazione che Dio stabilisce con il suo popolo, anche se questa relazione è più ampia di ciò che può sperimentarsi nell’esperienza nuziale umana. Parimenti, le stesse condizioni concrete della redenzione sono in gioco, nel modo in cui oracoli come quelli di Isaia associano ruoli maschili e femminili nell’annuncio e nella prefigurazione dell’opera della salvezza che Dio sta per compiere. Tale salvezza orienta il lettore sia verso la figura maschile del Servo sofferente, sia verso la figura femminile di Sion. Gli oracoli di Isaia infatti alternano questa figura con quella del Servo di Dio, prima di culminare, nella finale del libro, con la visione misteriosa di Gerusalemme che partorisce un popolo in un solo giorno (cfrIs 66,7-14), profezia della grande novità che Dio sta per realizzare (cfr Is 48,6-8).
10. Nel Nuovo Testamento tutte queste prefigurazioni trovano il loro compimento. Da una parte Maria, come eletta figlia di Sion, nella sua femminilità, ricapitola e trasfigura la condizione di Israele/Sposa in attesa del giorno della sua salvezza. Dall’altra, la mascolinità del Figlio permette di riconoscere come Gesù assuma nella sua persona tutto ciò che il simbolismo antico-testamentario aveva applicato all’amore di Dio per il suo popolo, descritto come l’amore di uno sposo per la sua sposa. Le figure di Gesù e di Maria, sua Madre, non soltanto assicurano la continuità dell’Antico Testamento con il Nuovo, ma lo superano, dal momento che con Gesù Cristo appare - come dice Sant’Ireneo - «ogni novità».13
Questo aspetto è messo in particolare evidenza dal Vangelo di Giovanni. Nella scena delle nozze di Cana, per esempio, Gesù è sollecitato da sua madre, chiamata «donna», a offrire come segno il vino nuovo delle future nozze con l’umanità (cfr Gv 2,1-12). Queste nozze messianiche si realizzeranno sulla croce dove, ancora in presenza della madre, indicata come «donna», sgorgherà dal cuore aperto del Crocifisso il sangue/vino della Nuova Alleanza (cfr Gv 19,25- 27.34).14 Non c’è dunque niente di sorprendente se Giovanni Battista, interrogato sulla sua identità, si presenti come «l’amico dello sposo», che gioisce quando ode la voce dello sposo e deve eclissarsi alla sua venuta: «Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è compiuta. Egli deve crescere e io invece diminuire» (Gv3,29-30).15
Nella sua attività apostolica, Paolo sviluppa tutto il senso nuziale della redenzione concependo la vita cristiana come un mistero nuziale. Scrive alla Chiesa di Corinto da lui fondata: «Io provo infatti per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo» (2Cor 11,2).
Nella Lettera agli Efesini la relazione sponsale fra Cristo e la Chiesa viene ripresa e approfondita con ampiezza. Nella Nuova Alleanza la Sposa amata è la Chiesa, e - come insegna il Santo Padre nella Lettera alle famiglie - «questa sposa, di cui parla la Lettera agli Efesini, si fa presente in ogni battezzato ed è come una persona che si offre allo sguardo del suo Sposo: “Ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei... al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (Ef 5,25-27)».16
Meditando quindi sull’unione dell’uomo e della donna come è descritta al momento della creazione del mondo (cfr Gn 2,24), l’Apostolo esclama: «Questo mistero è grande: lo dico in riferimento a Cristo ed alla Chiesa!» (Ef 5,32). L’amore dell’uomo e della donna vissuto nella forza della vita battesimale diventa ormai sacramento dell’amore del Cristo e della Chiesa, testimonianza resa al mistero di fedeltà e di unità da cui nasce la «nuova Eva» e di cui questa vive nel suo cammino sulla terra in attesa della pienezza delle nozze eterne.
11. Inseriti nel mistero pasquale e resi segni viventi dell’amore del Cristo e della Chiesa, gli sposi cristiani sono rinnovati nel loro cuore e possono sfuggire ai rapporti segnati dalla concupiscenza e dalla tendenza all’asservimento che la rottura con Dio a causa del peccato aveva introdotto nella coppia primitiva. Per essi la bontà dell’amore, di cui il desiderio umano ferito aveva conservato la nostalgia, si rivela con accenti e possibilità nuove. È in questa luce che Gesù, di fronte alla domanda sul divorzio (cfr Mt 19,3- 9), può ricordare le esigenze dell’alleanza tra l’uomo e la donna come volute da Dio all’origine, ovvero prima dell’insorgere del peccato che aveva giustificato gli accomodamenti successivi della legge mosaica. Lungi dall’essere l’imposizione di un ordine duro ed intransigente, questa parola di Gesù è in effetti l’annuncio di una «buona notizia», quella della fedeltà, più forte del peccato. Nella forza della risurrezione è possibile la vittoria della fedeltà sulle debolezze, sulle ferite subite e sui peccati della coppia. Nella grazia del Cristo che rinnova il loro cuore, l’uomo e la donna diventano capaci di liberarsi dal peccato e di conoscere la gioia del dono reciproco.
12. «Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo... non c’è più uomo né donna», scrive San Paolo ai Galati (3,27-28). L’Apostolo non dichiara qui decaduta la distinzione uomo-donna che altrove dice appartenere al progetto di Dio. Ciò che vuole dire è piuttosto questo: nel Cristo, la rivalità, l’inimicizia e la violenza che sfiguravano la relazione dell’uomo e della donna sono superabili e superate. In questo senso, è più che mai riaffermata la distinzione dell’uomo e della donna, che, del resto, accompagna fino alla fine la rivelazione biblica. Nell’ora finale della storia presente, mentre si profilano nell’Apocalisse di Giovanni «un cielo nuovo» e «una nuova terra» (Ap21,1), viene presentata in visione una Gerusalemme femminile «pronta come una sposa adorna per il suo sposo» (Ap 21,2). La rivelazione stessa si conclude con la parola della Sposa e dello Spirito che implorano la venuta dello Sposo: «Vieni, Signore Gesù» (Ap 22,20).
Il maschile ed il femminile sono così rivelati come appartenenti ontologicamente alla creazione, e quindi destinati a perdurare oltre il tempo presente, evidentemente in una forma trasfigurata. In tal modo caratterizzano l’amore che «non avrà mai fine» (1 Cor 13,8), pur rendendosi caduca l’espressione temporale e terrena della sessualità, ordinata ad un regime di vita contrassegnato dalla generazione e dalla morte. Di questa forma di esistenza futura del maschile e del femminile, il celibato per il Regno vuole essere la profezia. Per coloro che lo vivono esso anticipa la realtà di una vita che, pur restando quella di un uomo e di una donna, non sarà più soggetta ai limiti presenti della relazione coniugale (cfr Mt 22,30). Per coloro che vivono la vita coniugale, inoltre, tale stato diventa richiamo e profezia del compimento che la loro relazione troverà nell’incontro faccia a faccia con Dio.
Distinti fin dall’inizio della creazione e restando tali nel cuore stesso dell’eternità, l’uomo e la donna, inseriti nel mistero pasquale del Cristo, non avvertono quindi più la loro differenza come motivo di discordia da superare con la negazione o con il livellamento, ma come una possibilità di collaborazione che bisogna coltivare con il rispetto reciproco della distinzione. Di qui si aprono nuove prospettive per una comprensione più profonda della dignità della donna e del suo ruolo nella società umana e nella Chiesa.
III. L’ATTUALITÀ DEI VALORI FEMMINILI NELLA VITA DELLA SOCIETÀ
13. Tra i valori fondamentali collegati alla vita concreta della donna, vi è ciò che è stato chiamato la sua «capacità dell’altro». Nonostante il fatto che un certo discorso femminista rivendichi le esigenze «per se stessa», la donna conserva l’intuizione profonda che il meglio della sua vita è fatto di attività orientate al risveglio dell’altro, alla sua crescita, alla sua protezione.
Questa intuizione è collegata alla sua capacità fisica di dare la vita. Vissuta o potenziale, tale capacità è una realtà che struttura la personalità femminile in profondità. Le consente di acquisire molto presto maturità, senso della gravità della vita e delle responsabilità che essa implica. Sviluppa in lei il senso ed il rispetto del concreto, che si oppone ad astrazioni spesso letali per l’esistenza degli individui e della società. È essa, infine, che, anche nelle situazioni più disperate - e la storia passata e presente ne è testimone - possiede una capacità unica di resistere nelle avversità, di rendere la vita ancora possibile pur in situazioni estreme, di conservare un senso tenace del futuro e, da ultimo, di ricordare con le lacrime il prezzo di ogni vita umana.
Anche se la maternità è un elemento chiave dell’identità femminile, ciò non autorizza affatto a considerare la donna soltanto sotto il profilo della procreazione biologica. Vi possono essere in questo senso gravi esagerazioni che esaltano una fecondità biologica in termini vitalistici e che si accompagnano spesso a un pericoloso disprezzo della donna. L’esistenza della vocazione cristiana alla verginità, audace rispetto alla tradizione antico-testamentaria e alle esigenze di molte società umane, è al riguardo di grandissima importanza.17 Essa contesta radicalmente ogni pretesa di rinchiudere le donne in un destino che sarebbe semplicemente biologico. Come la verginità riceve dalla maternità fisica il richiamo che non esiste vocazione cristiana se non nel dono concreto di sé all’altro, parimenti la maternità fisica riceve dalla verginità il richiamo alla sua dimensione fondamentalmente spirituale: non è accontentandosi di dare la vita fisica che si genera veramente l’altro. Ciò significa che la maternità può trovare forme di realizzazione piena anche laddove non c’è generazione fisica.18
In tale prospettiva si comprende il ruolo insostituibile della donna in tutti gli aspetti della vita familiare e sociale che coinvolgono le relazioni umane e la cura dell’altro. Qui si manifesta con chiarezza ciò che Giovanni Paolo II ha chiamato il genio della donna.19 Questo implica prima di tutto che le donne siano presenti attivamente e anche con fermezza nella famiglia, «società primordiale e, in un certo senso, “sovrana”», 20 perché è qui, innanzitutto, che si plasma il volto di un popolo, è qui che i suoi membri acquisiscono gli insegnamenti fondamentali. Essi imparano ad amare in quanto sono amati gratuitamente, imparano il rispetto di ogni altra persona in quanto sono rispettati, imparano a conoscere il volto di Dio in quanto ne ricevono la prima rivelazione da un padre e da una madre pieni di attenzione. Ogni volta che vengono a mancare queste esperienze fondanti, è l’insieme della società che soffre violenza e diventa, a sua volta, generatrice di molteplici violenze. Questo implica inoltre che le donne siano presenti nel mondo del lavoro edell’organizzazione socialeeche abbiano accesso a posti di responsabilità che offrano loro la possibilità di ispirare le politiche delle nazioni e di promuovere soluzioni innovative ai problemi economici e sociali.
Al riguardo, non si può tuttavia dimenticare che l’intreccio delle due attività - la famiglia e il lavoro - assume, nel caso della donna, caratteristiche diverse da quelle dell’uomo. Si pone pertanto il problema di armonizzare la legislazione e l’organizzazione del lavoro con le esigenze della missione della donna all’interno della famiglia. Il problema non è solo giuridico, economico ed organizzativo; è innanzitutto un problema di mentalità, di cultura e di rispetto. Si richiede, infatti, una giusta valorizzazione del lavoro svolto dalla donna nella famiglia. In tal modo le donne che liberamente lo desiderano potranno dedicare la totalità del loro tempo al lavoro domestico, senza essere socialmente stigmatizzate ed economicamente penalizzate, mentre quelle che desiderano svolgere anche altri lavori potranno farlo con orari adeguati, senza essere messe di fronte all’alternativa di mortificare la loro vita familiare oppure di subire una situazione abituale di stress che non favorisce né l’equilibrio personale né l’armonia familiare. Come ha scritto Giovanni Paolo II, «tornerà ad onore della società rendere possibile alla madre -senza ostacolarne la libertà, senza discriminazione psicologica o pratica, senza penalizzazione nei confronti delle sue compagne - di dedicarsi alla cura e all’educazione dei figli secondo i bisogni differenziati della loro età».21
14. È opportuno comunque ricordare che i valori femminili, ora richiamati, sono innanzitutto valori umani: la condizione umana, dell’uomo e della donna, creati ad immagine di Dio, è una e indivisibile. È solo perché le donne sono più immediatamente in sintonia con questi valori che esse possono esserne il richiamo ed il segno privilegiato. Ma, in ultima analisi, ogni essere umano, uomo e donna, è destinato ad essere «per l’altro». In tale prospettiva ciò che si chiama «femminilità» è più di un semplice attributo del sesso femminile. La parola designa infatti la capacità fondamentalmente umana di vivere per l’altro e grazie all’altro.
Pertanto la promozione della donna all’interno della società deve essere compresa e voluta come una umanizzazione realizzata attraverso quei valori riscoperti grazie alle donne. Ogni prospettiva che intende proporsi come una lotta dei sessi è solamente un’illusione ed un pericolo: finirebbe in situazioni di segregazione e di competizione tra uomini e donne e promuoverebbe un solipsismo che si alimenta ad una falsa concezione della libertà.
Senza pregiudizio circa gli sforzi per promuovere i diritti ai quali le donne possono aspirare nella società e nella famiglia, queste osservazioni vogliono invece correggere la prospettiva che considera gli uomini come nemici da vincere. La relazione uomo-donna non può pretendere di trovare la sua condizione giusta in una specie di contrapposizione, diffidente e difensiva. Occorre che tale relazione sia vissuta nella pace e nella felicità dell’amore condiviso.
Ad un livello più concreto, le politiche sociali -educative, familiari, lavorative, di accesso ai servizi, di partecipazione civica - se, da una parte, devono combattere ogni ingiusta discriminazione sessuale, dall’altra, devono sapere ascoltare le aspirazioni e individuare i bisogni di ognuno. La difesa e la promozione dell’uguale dignità e dei comuni valori personali devono essere armonizzate con l’attento riconoscimento della differenza e della reciprocità laddove ciò è richiesto dalla realizzazione della propria umanità maschile o femminile.
IV. L’ATTUALITÀ DEI VALORI FEMMINILI NELLA VITA DELLA CHIESA
15. Per quanto riguarda la Chiesa, il segno della donna è più che mai centrale e fecondo. Ciò dipende dalla identità stessa della Chiesa, che essa riceve da Dio ed accoglie nella fede. È questa identità «mistica», profonda, essenziale, che occorre tenere presente nella riflessione circa i rispettivi ruoli dell’uomo e della donna nella Chiesa.
Fin dalle prime generazioni cristiane, la Chiesa si è considerata come comunità, generata dal Cristo e legata a lui da una relazione d’amore, di cui l’esperienza nuziale è l’espressione migliore. Di qui deriva che il primo compito della Chiesa è di restare alla presenza di questo mistero dell’amore di Dio, manifestato nel Cristo Gesù, di contemplarlo e di celebrarlo. A questo riguardo la figura di Maria costituisce nella Chiesa il riferimento fondamentale. Si potrebbe dire, con una metafora, che Maria porge alla Chiesa lo specchio in cui essa è invitata a riconoscere la sua identità così come le disposizioni del cuore, gli atteggiamenti ed i gesti che Dio attende da lei.
L’esistenza di Maria è un invito fatto alla Chiesa a radicare il suo essere nell’ascolto e nell’accoglienza della Parola di Dio, perché la fede non è tanto la ricerca di Dio da parte dell’essere umano, ma piuttosto il riconoscimento da parte dell’uomo che Dio viene a lui, lo visita e gli parla. Questa fede, per la quale «nulla è impossibile a Dio» (cfr Gn 18,14; Lc 1,37), vive e si approfondisce nell’ubbidienza umile e amante con cui la Chiesa sa dire al Padre: «Avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1,38). La fede continuamente rimanda a Gesù - «Fate quello che vi dirà» (Gv 2,5) - e lo accompagna nel suo cammino fino ai piedi della croce. Maria, nell’ora delle tenebre più profonde, persiste coraggiosamente nella fedeltà, con l’unica certezza della fiducia nella parola di Dio.
Sempre da Maria la Chiesa impara a conoscere l’intimità del Cristo. Maria, che ha portato nelle sue mani il piccolo bambino di Betlemme, insegna a conoscere l’infinita umiltà di Dio. Ella che ha accolto nelle sue braccia il corpo martoriato di Gesù deposto dalla croce mostra alla Chiesa come raccogliere tutte le vite sfigurate in questo mondo dalla violenza e dal peccato. Da Maria la Chiesa impara il senso della potenza dell’amore, come Dio la dispiega e la rivela nella vita stessa del Figlio prediletto: «ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore... ha innalzato gli umili» (Lc 1,51-52). Sempre da Maria i discepoli di Cristo ricevono il senso e il gusto della lode davanti all’opera delle mani di Dio: «Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente» (Lc 1,49). Essi imparano che sono nel mondo per conservare la memoria di queste «grandi cose» e vegliare nell’attesa del giorno del Signore.
16. Guardare Maria ed imitarla, tuttavia, non significa votare la Chiesa ad una passività ispirata a una concezione superata della femminilità e condannarla a una vulnerabilità pericolosa, in un mondo in cui ciò che conta è soprattutto il dominio e il potere. In realtà la via di Cristo non è né quella del dominio (cfr Fil 2,6), né quella del potere come viene inteso dal mondo (cfr Gv 18,36). Dal Figlio di Dio si può imparare che questa «passività» è in realtà la via dell’amore, è un potere regale che sconfigge ogni violenza, è «passione» che salva il mondo dal peccato e dalla morte e ricrea l’umanità. Affidando l’apostolo Giovanni a sua Madre, il Crocifisso invita la sua Chiesa ad imparare da Maria il segreto dell’amore che trionfa.
Ben lungi dal conferire alla Chiesa un’identità fondata su un modello contingente di femminilità, il riferimento a Maria con le sue disposizioni di ascolto, di accoglienza, di umiltà, di fedeltà, di lode e di attesa, colloca la Chiesa nella continuità della storia spirituale di Israele. Questi atteggiamenti diventano, in Gesù e per mezzo di lui, la vocazione di ogni battezzato. A prescindere dalle condizioni, dagli stati di vita, dalle vocazioni diverse, con o senza responsabilità pubbliche, essi sono ciò che determinano un aspetto essenziale dell’identità della vita cristiana. Pur trattandosi di atteggiamenti che dovrebbero essere tipici di ogni battezzato, di fatto è caratteristica della donna viverli con particolare intensità e naturalezza. In tal modo le donne svolgono un ruolo di massima importanza nella vita ecclesiale, richiamando tali disposizioni a tutti i battezzati e contribuendo in modo unico a manifestare il vero volto della Chiesa, sposa di Cristo e madre dei credenti.
In questa prospettiva si comprende anche come il fatto che l’ordinazione sacerdotale sia esclusivamente riservata agli uomini22 non impedisca affatto alle donne di accedere al cuore della vita cristiana. Esse sono chiamate ad essere modelli e testimoni insostituibili per tutti i cristiani di come la Sposa deve rispondere con l’amore all’amore dello Sposo.
CONCLUSIONE
17. In Gesù Cristo tutte le cose sono state fatte nuove (cfr Ap 21,5). Il rinnovamento nella grazia tuttavia non è possibile senza la conversione dei cuori. Guardando a Gesù e confessandolo come Signore, si tratta di riconoscere la via dell’amore vincitore del peccato che egli propone ai suoi discepoli.
In tal modo la relazione dell’uomo con la donna si trasforma e la triplice concupiscenza di cui parla la prima Lettera di Giovanni (cfr 1Gv 2,16) cessa di avere il sopravvento. Si deve accogliere la testimonianza resa dalla vita delle donne come rivelazione di valori senza i quali l’umanità si chiuderebbe nell’autosufficienza, nei sogni di potere e nel dramma della violenza. Anche la donna, da parte sua, deve lasciarsi convertire e riconoscere i valori singolari e di grande efficacia di amore per l’altro, di cui la sua femminilità è portatrice. In entrambi i casi si tratta della conversione dell’umanità a Dio, di modo che sia l’uomo che la donna conoscano Dio come il loro «aiuto», come il Creatore pieno di tenerezza, come il Redentore che «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16).
Una tale conversione non può compiersi senza l’umile preghiera per ricevere da Dio quella trasparenza di sguardo che riconosce il proprio peccato e al tempo stesso la grazia che lo guarisce. In modo particolare si deve implorare la Vergine Maria, donna secondo il cuore di Dio, «benedetta fra le donne» (cfrLc 1,42), scelta per rivelare all’umanità, uomini e donne, quale è la via dell’amore. Solamente così può emergere in ogni uomo ed in ogni donna, in ciascuno secondo la sua grazia propria, quella «immagine di Dio» che è l’effigie santa con cui sono contrassegnati (cfr Gn 1,27). Solamente così può essere ritrovata la strada della pace e della meraviglia di cui è testimone la tradizione biblica attraverso i versetti del Cantico dei Cantici in cui corpi e cuori celebrano lo stesso giubilo.
La Chiesa certamente conosce la forza del peccato che opera negli individui e nelle società e che talvolta porterebbe a far disperare della bontà della coppia. Ma per la sua fede nel Cristo crocifisso e risorto, essa conosce ancor più la forza del perdono e del dono di sé malgrado ogni ferita e ogni ingiustizia. La pace e la meraviglia che essa indica con fiducia agli uomini e alle donne di oggi sono la pace e la meraviglia del giardino della risurrezione, che ha illuminato il nostro mondo e tutta la sua storia con la rivelazione che «Dio è amore» (1Gv 4,8.16).
Il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, nel corso dell’Udienza concessa al sottoscritto Cardinale Prefetto, ha approvato la presente Lettera, decisa nella riunione ordinaria di questa Congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione.
Roma, dalla Sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, il 31 maggio 2004, Festa della Visitazione della Beata Vergine Maria.
+ Joseph Card. Ratzinger Prefetto
+ Angelo Amato, SDB
Arcivescovo titolare di Sila
Segretario
1Cfr Giovanni Paolo II, Esort. ap. post-sinodale Familiaris consortio (22 novembre 1981): AAS 74 (1982), 81-191; Lett. ap. Mulieris dignitatem (15 agosto 1988): AAS 80 (1988), 1653-1729; Lettera alle famiglie (2 febbraio 1994): AAS 86 (1994), 868-925; Lettera alle donne (29 giugno 1995): AAS 87 (1995), 803-812; Catechesi sull’amore umano (1979-1984): Insegnamenti II (1979) - VII (1984); Congregazione per l’Educazione Cattolica, Orientamenti educativi sull’amore umano. Lineamenti di educazione sessuale (1o novembre 1983): Ench. Vat. 9, 420-456; Pontificio Consiglio per la Famiglia, Sessualità umana: verità e significato. Orientamenti educativi in famiglia (8 dicembre 1995): Ench. Vat. 14, 2008-2077.
2Sulla complessa questione del gender, cfr anche Pontificio Consiglio per la Famiglia, Famiglia, matrimonio e «unione di fatto» (26 luglio 2000), 8: Supplemento a L’Osservatore Romano (22 novembre 2000), 4.
3Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Fides et ratio (14 settembre 1998), 21: AAS 91 (1999), 22: «Questa apertura al mistero, che gli veniva dalla Rivelazione, è stata alla fine per lui [l’uomo biblico] la fonte di una vera conoscenza, che ha permesso alla sua ragione di immettersi in spazi di infinito, ricevendone possibilità di comprensione fino allora insperate».
4Giovanni Paolo II, Lett. ap. Mulieris dignitatem (15 agosto 1988), 6: AAS 80 (1988), 1662; cfr S. Ireneo, Adversus haereses, 5, 6, 1; 5, 16, 2-3: SC 153, 72-81; 216-221; S. Gregorio di Nissa, De hominis opificio, 16: PG 44, 180; In Canticum homilia, 2: PG 44, 805-808; S. Agostino, Enarratio in Psalmum, 4, 8: CCL 38,17.
5La parola ebraica ezer, tradotta con aiuto, indica il soccorso che solo una persona porta ad un’altra persona. Il termine non comporta alcuna connotazione di inferiorità o strumentalizzazione, se si pensa che anche Dio è talora detto ezer nei confronti dell’uomo (cfr Es 18,4; Sal 9-10, 35).
6Giovanni Paolo II, Lett. ap. Mulieris dignitatem (15 agosto 1988), 6: AAS 80 (1988), 1664.
7Giovanni Paolo II, Catechesi L’uomo-persona diventa dono nella libertà dell’amore (16 gennaio 1980), 1: Insegnamenti III, 1 (1980), 148.
8Giovanni Paolo II, Catechesi La concupiscenza del corpo deforma i rapporti uomo-donna (23 luglio 1980), 1: Insegnamenti III, 2 (1980), 288.
9Giovanni Paolo II, Lett. ap. Mulieris dignitatem (15 agosto 1988), 7: AAS 80 (1988), 1666.
10Ibid., 6, l.c., 1663.
11Congregazione per l’Educazione Cattolica, Orientamenti educativi sull’amore umano. Lineamenti di educazione sessuale (1o novembre 1983), 4: Ench. Vat. 9, 423.
12Ibid.
13Adversus haereses, 4, 34, 1: SC 100, 846: «Omnem novitatem attulit semetipsum afferens».
14La Tradizione esegetica antica vede in Maria a Cana la «figura Synagogae» e la «inchoatio Ecclesiae».
15Il quarto Vangelo approfondisce qui un dato presente già nei Sinottici (cfr Mt 9,15 e par.). Sul tema di Gesù Sposo, cfr Giovanni Paolo II, Lettera alle famiglie (2 febbraio 1994), 18: AAS 86 (1994), 906- 910.
16Giovanni Paolo II, Lettera alle famiglie (2 febbraio 1994), 19: AAS 86 (1994), 911; cfr Lett. ap. Mulieris dignitatem (15 agosto 1988), 23- 25: AAS 80 (1988), 1708-1715.
17Cfr Giovanni Paolo II, Esort. ap. post-sinodale Familiaris consortio (22 novembre 1981), 16: AAS 74 (1982), 98-99.
18Ibid., 41, l.c., 132-133; Congregazione per la Dottrina della Fede, Istr. Donum vitae (22 febbraio 1987), II, 8: AAS 80 (1988), 96-97.
19Cfr Giovanni Paolo II, Lettera alle donne (29 giugno 1995), 9- 10: AAS 87 (1995), 809-810.
20Giovanni Paolo II, Lettera alle famiglie (2 febbraio 1994), 17: AAS 86 (1994), 906.
21Lett. enc. Laborem exercens (14 settembre 1981), 19: AAS 73 (1981), 627.
22Cfr Giovanni Paolo II, Lett. ap. Ordinatio sacerdotalis (22 maggio 1994): AAS 86 (1994), 545-548; Congregazione per la Dottrina della Fede, Risposta al dubbio circa la dottrina della Lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis (28 ottobre 1995): AAS 87 (1995), 1114.
Sul tema, nel sito, cfr.
EV-ANGELO E "MALA-EDUCAZIONE"!!!
Lo spirito di Assisi e la lezione del "presepe"
Con la morte di Giovanni paolo II, il Libro è stato chiuso
Ancora il solito ritornello sulle donne, in diretta dal pianeta Marte
di Estelle R.
in “www.comitedelajupe.fr” del 9 novembre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Ci sono giorni in cui mi chiedo davvero se certi prelati della Chiesa cattolica siano uomini che vivono su questo pianeta, tanto il loro sguardo sul mondo è fuori dalla realtà. L’ultimo esempio ci viene dai vescovi riuniti nel sinodo dal 7 al 28 ottobre scorso sul tema “nuova evangelizzazione.
Hanno votato una lista di 58 proposte presentate alla fine a Benedetto XVI. La proposta 46 riguarda la “Collaborazione fra uomini e donne nella Chiesa”.
Proposta 46: Collaborazione fra uomini e donne nella Chiesa
La chiesa apprezza l’eguale dignità, nella società, fra uomini e donne fatti ad immagine di Dio, e nella Chiesa, per la loro vocazione comune di battezzati in Cristo. Il pastori della Chiesa hanno riconosciuto le capacità specifiche delle donne, come la loro attenzione agli altri e i loro doni per l’educazione (nutrimento) e la compassione, particolarmente nella loro vocazione di madre. Le donne sono testimoni con gli uomini del Vangelo della vita per la loro dedizione nella trasmissione della vita nella famiglia. Insieme aiutano a mantenere viva la fede. Il sinodo riconosce che oggi le donne (laiche e religiose) contribuiscono con gli uomini alla riflessione teologica a tutti i livelli e partecipano delle responsabilità pastorali con loro in nuove modi portando avanti così la nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede.
Possiamo apprezzare il primo paragrafo che ricorda (e per fortuna!) l’eguale dignità tra uomini e donne nella Chiesa, ma il secondo e il terzo paragrafo sono semplicemente nauseabondi. Non è nauseante leggere che questi signori credono ancora alle “capacità specifiche delle donne”!!! Apparentemente, hanno perso tutto il periodo (di almeno un secolo, tra l’altro!) in cui le donne non sono più limitate a posti di lavoro di infermiera o insegnante, mestieri in cui possono dispiegare tutta la panoplia dei loro talenti innati in materia di amore del prossimo, di compassione e di maternità. Non si devono neppure esser accorti che Margaret Thatcher era una donna.
Scrivere e votare tali enormità è sicuramente rivoltante per le donne, ma talmente degradante per gli uomini! Significa che qualsiasi uomo, qualunque cosa faccia, non sarà mai all’altezza della sua compagna nell’educazione dei figli e in generale nell’amore per il prossimo, perché, non essendo geneticamente programmato per dare la vita, in fondo è solo un grande handicappato nell’altruismo e nella compassione.
Ma sono cose che non stanno né in cielo né in terra!!! Questi signori non guardano mai attorno a sé? Ad esempio, non hanno fratelli, cugini, nipoti che hanno quell’istinto paterno, forte quanto quello della madre, che ad esempio fa sì che siano presenti e tengano la mano della moglie mentre lei partorisce? E che dire degli uomini e delle donne che non possono dare la vita ma sono disposti, con l’adozione, ad accogliere un bambino? Sono meno atti alla vocazione della famiglia?
Riparliamone, della vocazione! Il massimo dell’assurdità e della stupidaggine torna ancora con la menzione di “vocazione di madre”. Ah, la sacrosanta vocazione di madre! Ah, il modello della Santa Vergine Maria! Oltre al peso (e agli stereotipi che questo mette sulle spalle delle donne), ancora una volta, questo è degradante per gli uomini. E la loro specifica vocazione di padre? È unicamente materiale? Grazie di portare a casa i soldi per nutrire la famiglia ed eventualmente di dare un bacio ai bambini prima di metterli a letto, e basta?
E, andando oltre, questo rinvia una volta ancora al problema globale delle “vocazioni”: ciascuno nella sua casella, e non facciamo confusione. Perché, insomma, le donne sono pregate di fare figli... con chi, ce lo domandiamo, dato che gli uomini hanno la vocazione al presbiterato, come ci ricorda ogni anno la giornata delle vocazioni.
Ma come può la Chiesa cattolica, ancora ai nostri giorni, votare testi che rinchiudono in questo modo gli esseri umani? Come ci si può applicare coscientemente e coscienziosamente ad innalzare muri tra le persone, a determinare così la loro vita e le loro azioni apostoliche? Come si possono convalidare tali sciocchezze e dirsi eredi di un Cristo che ha fatto cadere tante e tante barriere? Quindi no, cento volte no, come uomini e come donne non possiamo accettare in pace questa proposizione del sinodo.
(Se non sono amareggiata al cento per cento, è perché apprezzo molto il fatto che il sinodo riconosca che le donne partecipano alla riflessione teologica e possono avere responsabilità pastorali.)
RIPARARE IL MONDO. LA CRISI EPOCALE DELLA CHIESA ’CATTOLICA’ E LA LEZIONE DI SIGMUND FREUD.
di Marie-Thérèse Van Lunen Chenu
in “www.temoignagechretien.fr” del 24 marzo 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)
L’ondata di notizie su ripetuti casi di pedofilia nella Chiesa cattolica ha suscitato molti commenti che portano in ritorno delle valutazioni interessanti. Vi si legge che una prima messa in discussione del celibato obbligatorio per i preti trova ora degli ardenti oppositori, mentre restano stigmatizzate la frequente immaturità della scelta di vita da parte di persone troppo giovani, una formazione rimasta a lungo inadeguata nei seminari, la mancanza di relazioni con il mondo femminile, l’autoritarismo, la cultura del segreto e della negazione nell’istituzione ecclesiale.
Mi stupisco tuttavia che il dibattito non sia ancora stato allargato fino a prendere in considerazione il problema sempre più sensibile della marginalizzazione - se non dell’eliminazione - delle donne nelle strutture dell’istituzione romana. E che i commentatori neppure abbiano affrontato un problema di fondo: la natura della testardaggine con cui Roma si impegna nella difesa del primato del sesso maschile.
Quali sono allora le cause e gli effetti di questo attaccamento eccezionale dell’istituzione romana ad un primato del sesso maschile, fino a giungere alla sua vera “sacralizzazione” nel clericalismo? Una critica che potremmo definire “pastorale” (venuta proprio dall’interno della Chiesa) si è unita, almeno da un decennio, ad una prima analisi femminista che smaschera quel gioco semantico che si ostina a chiamare “servizio” ciò che, scelto ed esercitato spesso con la più grande generosità personale, resta tuttavia un monopolio ed un potere.
Ci si chiede allora come questo servizio ultimo della “rappresentazione di Cristo per compiere l’eucarestia”, quel potere-servire che si declina solo al maschile, non influenzi l’identità clericale e, per ciò stesso, l’idealizzazione e il carattere di rifugio che dei giovani possono investirvi? E sembra ingenuo stupirsi che alcuni di loro siano tentati di sfuggire, con questa scelta, ad una identificazione sessuata esigente.
La mia riflessione va quindi più in là rispetto al deplorare ciò che pudicamente viene chiamato “difficoltà a vivere la castità”. Parlo qui delle turbe del comportamento che possono essere legate ad una difficoltà non risolta dell’identificazione personale. Essere capaci di identificarsi come un essere maschile significa poter accettare il “di fronte” di una uguale partner femminile. E sostengo che l’idealizzazione del primato maschile, la sua canonizzazione in qualche modo, e la giustificazione permanente che ne viene fatta attraverso il rifiuto della competenza e dell’autorità delle donne, possono turbare il processo di identificazione maschile e arrivare talvolta ad influenzare una scelta per il presbiterato o la vita religiosa.
In fondo, le cause sarebbero ben più imbricate di quanto non si pensi tra la proibizione fatta alle donne di accedere al ministero sacerdotale e l’obbligo del celibato per il prete maschio. Sono radici profonde e tenebrose che si intrecciano tra denigrazione della sessualità, marginalizzazione delle donne, primato accordato al sesso maschile, sacralizzazione del sacerdozio, rapporto sclerotico alla tradizione e questo governo autoritario, clericale e monosessuato.
Così, che ci si ponga all’interno o all’esterno dell’istituzione, la crisi attuale designa come una sfida insieme ecclesiale e sociale la necessità di un vero dibattito e di cambiamenti la cui importanza non si limiterà al solo campo religioso. Infatti la Chiesa cattolica è in ritardo sulla società per mettere in atto questi cambiamenti che ormai vengono definiti “umani”: nell’identificare e curare le cause di una valutazione negativa della sessualità, le è necessario, al contempo, affrontare il suo rapporto con la sessuazione.
Chi dice “sessuazione” riconosce evidentemente la bi-sessuazione fondamentale dell’umanità. Con quali mezzi allora far comprendere che l’istituzione si è sclerotizzata e si esaurisce in un approccio maschile della femminilità, proprio al contrario rispetto a quello che fu l’atteggiamento di Cristo verso le donne? Non è “la questione delle donne nella Chiesa” che fa problema, come si sente dire con leggerezza..., è quella di una Chiesa autoritaria che difende il suo primato clericale maschile e rifiuta un confronto pieno con una buona metà dei suoi membri.
Si tratta qui di una mancanza strutturale legata, più di quanto non faccia pensare una prima apparenza, agli scandali attuali. Ci si chiede fino a quando Roma penserà di poter attenuare tali scandali con delle scuse pubbliche ed una vergogna manifestata “a nome di tutta la Chiesa”? E fino a quando le donne, che sono state più spesso cuoche che consigliere nei seminari, non esprimeranno pubblicamente il loro disaccordo?
Molte di loro sono già, di fatto, unitamente a degli uomini anch’essi consapevoli delle riforme necessarie, se non in rottura pastorale, almeno in rottura di coscienza con l’istituzione... Accettare in maniera riconoscente e responsabile la sessuazione, la sessualità, e quindi le donne di oggi come vere partner, suppone insieme un lavoro pluridisciplinare ed un ampio dibattito di società e di Chiesa.
Teologia ed ecclesiologia sono interpellate: che cosa abbiamo fatte per perdere la capacità profetica del messaggio cristiano, che testimoniava il principio del rispetto delle donne in un’epoca di misoginia sociale, ma che resta ridotto al silenzio dalla sua contro-testimonianza di sessismo ecclesiale nell’oggi di parità sociale?
La sfida è importante per il cattolicesimo, se vuole conservare il suo posto in seno al cristianesimo e la sua credibilità “umana”. Certi cristiani, e in maggior numero certe cristiane, sperano ancora che la gravità attuale delle accuse e delle messe in discussione possa diventare un punto a cui far riferimento per una conversione profonda del cattolicesimo romano.
*Marie-Thérèse van Lunen Chenu è membro di “Femmes et Hommes en Église” e di “Genre en christianisme”
8 Marzo 2006: Mimose? No grazie* DONNE, UOMINI, E ORDINE SIMBOLICO Un omaggio a CLARA SERENI di Federico La Sala
Marx, Nietzsche, e Freud.... Tutti morti!!! A quanto pare dicono poco il lavoro e i tentativi fatti per mettere a nudo le nervature ‘nascoste’ della nostra prei-istorica cultura. “Dio” è morto? No! E noi, tutti e tutte, abbiamo ripreso alla grande ad adorarlo!!! Ma di quale “Dio” si tratta? Ma del “nostro”!!! Ma quale?! Quello dell’ordine simbolico della madre e del figlio ..... quello di sempre - quello di Giocasta ed Edipo!!! Ma allora non è quello della “buona novella”, della “buona notizia”, quello dell’ordine simbolico della madre e del padre?! Eh no!!! Noi sappiamo dire ‘cattolica-mente’ solo questo: bisogna “saper amare la madre” ... e saper amare il figlio-‘padre’. Ma allora, tutti e tutte, come possiamo liberarci entrambi - uomini e donne, dal “dio” della cecità, della peste, e della guerra? Mai! E’ chiaro che “Mammasantissima”.... e il Figlio “Papa e Re” continueranno a segnare con il loro “dio” la carne e lo spirito dell’intera umanità, fino alla morte! O no?! Stasera, quando rientrate a casa, fate una carezza ai vostri figli e alle vostre figlie e dite loro: questa è una carezza del “papa”.... e cercate di pensarci su - almeno un poco. Forse, domani, potrà essere davvero un altro giorno!!! (08.03.2006).
Federico La Sala
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MIMOSE? NO GRAZIE di Clara Sereni (www.unita.it, 07.03.2006)
Spero proprio che qualche bella mente non pensi, oggi, di regalarmi la mimosa. Via via che gli anni passano, attorno all’8 marzo mi si addensa un agglomerato di rabbia impotente che non lascia alcuno spazio a festeggiamenti, e nemmeno alle cene allegramente separate che per molto tempo hanno connotato le donne italiane, e anche me. Per non dire degli spogliarelli maschili che, in una certa fase, hanno raccolto in balere e discoteche un successo che non mi ha mai entusiasmato, ma che pure segnava un tentativo divertito di rovesciare il mondo, perché non fosse più a misura soltanto di maschi. Credo sia inutile enumerare le tante ragioni che mi rendono rabbiosa e impotente: chiunque legga i giornali sa del deficit di democrazia che l’Italia patisce per la percentuale vergognosa con cui le donne sono presenti nelle stanze dei bottoni, siano esse istituzionali o delle imprese, ed è di questi giorni la notizia (la conferma) che nel mondo la povertà ha il volto delle donne. I dati sul lavoro (o sulla disoccupazione) femminile restano inquietanti da noi, dove pure notoriamente le donne studiano e si formano di più e meglio, e non fanno primavera nel mondo le donne (si chiamino Merkel o Bachelet) che giungono alla guida di nazioni pur importanti. L’elenco potrebbe continuare. Mentre non si vedono, all’orizzonte, grandi ragioni di ottimismo: la grande spinta di libertà femminile che ha attraversato l’Occidente e non solo fra gli anni Sessanta e Settanta sembra sepolta sotto le macerie di un mainstreaming di cui molto si è parlato, ma che non sembra poi aver inciso concretamente sulla vita delle persone. In tale sconfortante panorama, forse non è strano che anche chi degli anni “forti” è stata protagonista oggi ne rimuova gli aspetti positivi permanenti, quelli che comunque hanno cambiato alla radice il costume del nostro e di altri Paesi. Penso ad esempio ad Anna Bravo, e ad un suo articolo (Repubblica, 4 marzo) in cui la libertà femminile di procreare o no, inedita e precaria fino all’avvento della pillola, scompare, e quel che resta è soltanto il ricatto maschile che sulla nostra sessualità, non sempre e non in tutti i casi, ha continuato ad esercitarsi. Non è vero che niente è rimasto, che tutto si è perduto, che non ne valeva la pena. Non è vero che ogni diritto conquistato ci si è ritorto contro, o ha perso di valore. Fra mille contraddizioni, e con tutte le difficoltà legate ad ogni «passaggio di testimone», quella libertà e quei diritti li abbiamo trasmessi alle nostre figlie, a chi è venuta dopo di noi. Come abbiamo trasmesso ai maschi, figli o no, un approccio al lavoro di cura, e dunque alla convivenza, che tenta di essere diverso dal passato. Non sempre ne hanno fatto e ne fanno buon uso, gli uni e le altre: perché ogni generazione ha bisogno di comportarsi in maniera diversa dalla precedente, e perché la rivoluzione non si fa in un giorno o in una generazione. Tanto più quando Aids e droga modificano il panorama della sessualità, innervandolo di violenza e di morte. Ma non sono certamente più come noi eravamo, donne e uomini nella prigione di tabù che oggi si fatica perfino a ricordare, pur nei nuovi integralismi che si fanno avanti con prepotenza. Volevamo cambiare il privato, e il privato è cambiato: anche se i cambiamenti non sempre ci piacciono. Quello che non siamo riuscite a fare è la saldatura fra privato e politico che era nei nostri slogan, e che proprio non si è realizzata. Chi si è trovata a interpretare ruoli pubblici, di un tipo o dell’altro, ha dovuto vestire panni maschili, oppure - in alternativa ma non tanto - panni che ai maschi andassero molto a genio. Come si dice, il privato non è entrato, se non accidentalmente, nell’agenda della politica. Eppure siamo cambiate, in profondità. E la società è cambiata, ben più di quanto non sia riuscita a cambiare noi. Per questo, se mi regalassero una mimosa, credo che la butterei via subito con stizza: ma non la porterei certo al cimitero, fra le tombe delle speranze e delle ambizioni. Perché resto convinta che quel rinnovamento profondo di cui la politica, il nostro Paese, il mondo intero ha bisogno, senza le donne non è possibile farlo. Questo dobbiamo ricordarcelo in ogni momento noi, le donne di ieri e di oggi: senza perdere la speranza che anche qualche maschio si arrenda finalmente alla realtà, e cominci a cambiare anche lui. Di testa e di pancia. Fra le lenzuola, davanti al lavello, a fare la spesa, e nell’arena della politica. Non per generosità: per un po’ di intelligenza. Perché nel mondo così com’è le donne sono e restano povere, umiliate, coartate. Ma neanche gli uomini, a dir la verità, ci vivono molto bene.
Cantalamessa: la nostra civiltà ha bisogno di amore
Sulle donne prime testimoni del Risorto e sul loro insegnamento, ieri pomeriggio in San Pietro la riflessione del predicatore
Da Roma Mimmo Muolo (Avvenire, 07.04.2007)
Accompagnarono Gesù lungo la Via Crucis. Rimasero con lui sotto la croce e al momento della deposizione. Furono le prime testimoni della Risurrezione e anche alle donne e agli uomini di oggi hanno molto da insegnare. «Avevano seguito le ragioni del cuore e queste non le avevano ingannate», sintetizza padre Raniero Cantalamessa, in riferimento alle pie donne di cui parlano i Vangeli. «In ciò - aggiunge il predicatore della Casa Pontificia - la loro presenza accanto al Crocifisso e al Risorto contiene un insegnamento vitale per noi oggi. La nostra civiltà, dominata dalla tecnica, ha bisogno di un cuore perché l’uomo possa sopravvivere in essa, senza disumanizzarsi del tutto. Dobbiamo dare più spazio alle "ragioni del cuore", se vogliamo evitare che, mentre si surriscalda fisicamente, il nostro pianeta ripiombi spiritualmente in un’era glaciale».
Il frate cappuccino pronuncia la sua omelia nella Basilica Vaticana, durante il rito della Passione del Venerdì Santo e si sofferma in particolare su questo gruppo di discepole del Signore - le uniche a non averlo mai abbandonato anche quando tutti gli uomini erano scomparsi. Le loro eredi, dice, «sono le tante donne, religiose e laiche, che stanno oggi a fianco dei poveri, dei malati di Aids, dei carcerati, dei reietti d’ogni specie della società».
Ma l’esegesi del testo biblico offre a padre Cantalamessa l’occasione per attualizzare la pagina evangelica, anche con riferimenti a opere letterarie e persino con la citazione di Centochiodi, l’ultima pellicola di Ermanno Olmi. «Tutti i libri del mondo non valgono una carezza», dice a un certo punto il protagonista del film. E il predicatore della Casa Pontificia (sempre attento alla cultura contemporanea - in un’altra omelia del venerdì santo aveva citato anche una nota canzone di John Lennon, Imagine) la prende a prestito per ribadire che oggi «al potenziamento dell’intelligenza e delle possibilità conoscitive dell’uomo, non va di pari passo, purtroppo, il potenziamento della sua capacità d’amore». La conoscenza, infatti, «si traduce automaticamente in potere, l’amore in servizio». Così padre Raniero si chiede come mai ci sforziamo di misurare il quoziente d’intelligenza - «una delle moderne idolatrie è appunto l’idolatria dell’"Iq" - e nessuno «si preoccupa di tener conto anche del "quoziente di cuore". Eppure solo l’amore redime e salva mentre la scienza e la sete di conoscenza, da sole, possono portare alla dannazione».
Di qui la sua proposta. «Dopo tante ere che hanno preso il nome dall’uomo - homo erectus, homo faber, fino all’homo sapiens-sapiens, cioè sapientissimo, di oggi -, c’è da augurarsi che si apra finalmente, per l’umanità, un’era della donna: un’era del cuore, della compassione, e questa terra cessi finalmente di essere "l’aiola che ci fa tanti feroci" (Dante)».
Da ogni parte emerge, dunque «l’esigenza di fare più spazio alla donna». «Noi non crediamo che "l’eterno femminino ci salverà" (citazione dal Faust di Goethe, ma è evidente anche l’implicito riferimento a Dan Brown, ndr). L’esperienza quotidiana dimostra che la donna può "sollevarci in alto", ma può anche farci precipitare in basso. Anch’essa ha bisogno di essere salvata da Cristo. Ma è certo che, una volta redenta da lui e "liberata", sul piano umano, da antiche soggezioni, essa può contribuire a salvare la nostra società da alcuni mali inveterati che la minacciano: violenza, volontà di potenza, aridità spirituale, disprezzo della vita».
Bisogna solo evitare «di ripetere l’antico errore gnostico secondo cui la donna, per salvarsi, deve cessare di essere donna e trasformarsi in uomo. Per affermare la loro dignità, le donne hanno creduto necessario a volte assumere atteggiamenti maschili, oppure minimizzare la differenza dei sessi, riducendola a un prodotto della cultura». Per non incorrere in questo rischio padre Cantalamessa invita a imitare le pie donne. Anche e soprattutto nella loro capacità di andare ad annunciare che il Signore è risorto
Maddalena e le altre
di Lidia Ravera *
Allegre compagne , in occasione della Santa Pasqua, c’è una novità positiva, finalmente, dopo gli anni difficili dell’ingerenza Vaticana negli affari del nostro corpo, dopo le carriere bloccate, la violenza in crescita, l’immagine femminile umiliata, dopo duemila anni di esplicita o sottintesa inferiorità obbligata, ecco, alfine, un’occasione di letizia per le donne: siamo state scagionate. L’ha detto il predicatore papale, Raniero Cantalamessa (nom de plume o nomen est omen?): «Si discute animatamente su chi fu a volere la morte di Gesù, se i capi ebrei, Pilato o entrambi. Una cosa è certa: furono degli uomini, non delle donne». Capito, maschi? Non siamo state noi. E certo, fossimo state noi ad avercela con Lui, avrebbe campato altri 33 anni. Contiamo poco adesso, figuriamoci allora.
Ma non è tutto qui, nel corso della scorsa Via Crucis, venerdì, ce ne siamo accaparrati un bel po’ di omaggi.
Si è detto che Maddalena, in fondo, era una brava ragazza. Che le «pie donne» non erano massaie facili alla commozione, ma «madri coraggio», capaci di inginocchiarsi davanti a un condannato e rischiarne le conseguenze. Che si sono comportate meglio degli apostoli. Si è detto che dopo tante ere dedicate all’uomo sarebbe quasi ora di dedicarne una alla donna. Carini, no? Capace che ci fanno «sante subito» e finiamo festeggiate in un diluvio di mimose. Dopo l’homo faber, l’homo erectus e l’homo sapiens, dopo l’homo homini lupus, una prima era della «mulier pacifica», materna e armoniosa, emozionalmente matura, contemplativa, sensuale e solidale, non afflitta da eccessi di competizione, orientata alla relazione fra individui, libera tollerante e creativa, sarebbe un bell’aiutino per l’umanità.
Lo so, non siamo tutte ontologicamente così superiori, ma si tratta di mettere avanti un po’ di propaganda. Il miglioramento seguirà, in fondo, abbiamo 2000 anni di tempo. Per adesso accontentiamoci di essere state corteggiate, e proprio lì, in Vaticano, dove, ultimamente ho l’impressione che si decidano le sorti di interi Paesi, politiche, etiche, sociali. Ci accontentiamo? No? Ah, ma allora è vero che, anche le donne, non sono più come quelle d’una volta. Non si dice più «grazie, padre»? No, però , magari, è possibile avanzare qualche richiesta. Per avere addirittura un’era tutta intitolata a noi magari è presto, e poi, come i premi alla carriera, sa di onorificenza tombale, cominiciamo con una supplica modesta: ci piacerebbe che il Vaticano, nella persona di Benedetto sedicesmo e dei suoi vescovi, facendo seguito alle buone intenzioni del simpatico Cantalamessa, interrompesse le ostilità contro le donne. Ci piacerebbe che non si opponesse ad una modificazione della legge sulla procreazione assistita tale da rendere più facile e non più difficile, avere un bambino, alle donne che non possono diventare madri in modo naturale (è una questione di salute, spesso, di avversa fortuna, non di cattiva volontà).
Ci piacerebbe che Benedetto sedicesimo non minacciasse, con tutto il peso del suo potere, temporale e non, la legge che consente l’interruzione di gravidanza: mica per questioni di principio, soltanto per non tornare all’era dell’aborto clandestino, con tutto il suo corteo di infezioni e mutilazioni. È un’era anche quella, tu donna abortirai nel dolore, ma con la legge 194 si era chiusa e noi siamo contente così.
Mi piacerebbe , infine, non per me, che indosso la scomoda divisa della non-credente, o almeno della dubitante, ma per le molte donne credenti che conosco e stimo, un’apertura al sacerdozio femminile. Posso confessare la mia ottusità? Non ho mai capito perché, a fronte di tante belle parole sulla Madonna e sulla Maddalena, non sia ancora caduto il Grande Tabù che impedisce a una persona di sesso femminile di officiare il Rito, di amministrare i sacramenti. Che ne dice il caro Cantalamessa? Non potrebbe cantarla anche una signora, visto che appartiene al genere delle «innocenti del sangue di Cristo»? E, già che siamo in fase di rivalutazione, posso spendere una parola anche per le femministe? Dispiace che la povera Simone de Beauvoir - defunta da vent’anni - sia ancora crocefissa al suo best seller di 60 anni fa, Il secondo sesso («Noi non crediamo che l’eterno femminino ci salverà», ha tuonato dal pulpito il predicatore maximo). Dispiace che , ancora, ci siano «le donne» e ci siano «le streghe», le prime sono madri e mogli, le seconde sono, come ai tempi dei tribunali dell’Inquisizione, le orgogliose, quelle che esercitano il sapere, quelle che si mettono sullo stesso piano degli uomini, pur restando diverse e, della propria diversità, fanno una bandiera. Per queste, temo, anche nell’era della donna, non ci sarà spazio né redenzione nè rispetto. Non ci sarà spazio né redenzione né rispetto per le donne che non si lasciano assegnare un posto preciso e lì vanno a sedersi zitte e buone.
Possiamo soltanto auguraci che, per loro, non si rivaluti, come pratica persuasiva, qualora non abiurino, il rogo.
* l’Unità, Pubblicato il: 10.04.07, Modificato il: 10.04.07 alle ore 12.45
"Deus caritas est" (2006). Un tragico "lapsus" (Freud) più che millenario....
di Joseph Ratzinger (L’Osservatore Romano, 02.09.2010)
Al genio femminile nella storia del popolo di Dio il Papa ha dedicato la catechesi all’udienza generale di mercoledì mattina, 1° settembre. Durante l’incontro con i fedeli, svoltosi nella piazza antistante il Palazzo Pontificio di Castel Gandolfo, Benedetto XVI ha presentato la figura di santa Ildegarda di Bingen.
Cari fratelli e sorelle,
nel 1988, in occasione dell’Anno Mariano, il Venerabile Giovanni Paolo II ha scritto una Lettera Apostolica intitolata Mulieris dignitatem, trattando del ruolo prezioso che le donne hanno svolto e svolgono nella vita della Chiesa.
"La Chiesa - vi si legge - ringrazia per tutte le manifestazioni del genio femminile apparse nel corso della storia, in mezzo a tutti i popoli e a tutte le nazioni; ringrazia per tutti i carismi che lo Spirito Santo elargisce alle donne nella storia del popolo di Dio, per tutte le vittorie che essa deve alla loro fede, speranza e carità; ringrazia per tutti i frutti di santità femminile" (n. 31). Anche in quei secoli della storia che noi abitualmente chiamiamo Medioevo, diverse figure femminili spiccano per la santità della vita e la ricchezza dell’insegnamento.
Oggi vorrei iniziare a presentarvi una di esse: santa Ildegarda di Bingen, vissuta in Germania nel XII secolo. Nacque nel 1098 in Renania, a Bermersheim, nei pressi di Alzey, e morì nel 1179, all’età di 81 anni, nonostante la permanente fragilità della sua salute. Ildegarda apparteneva a una famiglia nobile e numerosa e, fin dalla nascita, venne votata dai suoi genitori al servizio di Dio. A otto anni, per ricevere un’adeguata formazione umana e cristiana, fu affidata alle cure della maestra Giuditta di Spanheim, che si era ritirata in clausura presso il monastero benedettino di san Disibodo. Si andò formando un piccolo monastero femminile di clausura, che seguiva la Regola di san Benedetto.
Ildegarda ricevette il velo dal Vescovo Ottone di Bamberga e, nel 1136, alla morte di madre Giuditta, divenuta Superiora della comunità, le consorelle la chiamarono a succederle. Svolse questo compito mettendo a frutto le sue doti di donna colta, spiritualmente elevata e capace di affrontare con competenza gli aspetti organizzativi della vita claustrale. Qualche anno dopo, anche a motivo del numero crescente di giovani donne che bussavano alle porte del monastero, Ildegarda fondò un’altra comunità a Bingen, intitolata a san Ruperto, dove trascorse il resto della vita.
Lo stile con cui esercitava il ministero dell’autorità è esemplare per ogni comunità religiosa: esso suscitava una santa emulazione nella pratica del bene, tanto che, come risulta da testimonianze del tempo, la madre e le figlie gareggiavano nello stimarsi e nel servirsi a vicenda. Già negli anni in cui era superiora del monastero di san Disibodo, Ildegarda aveva iniziato a dettare le visioni mistiche, che riceveva da tempo, al suo consigliere spirituale, il monaco Volmar, e alla sua segretaria, una consorella a cui era molto affezionata, Richardis di Strade.
Come sempre accade nella vita dei veri mistici, anche Ildegarda volle sottomettersi all’autorità di persone sapienti per discernere l’origine delle sue visioni, temendo che esse fossero frutto di illusioni e che non venissero da Dio. Si rivolse perciò alla persona che ai suoi tempi godeva della massima stima nella Chiesa: san Bernardo di Chiaravalle, del quale ho già parlato in alcune Catechesi. Questi tranquillizzò e incoraggiò Ildegarda.
Ma nel 1147 ella ricevette un’altra approvazione importantissima. Il Papa Eugenio iii, che presiedeva un sinodo a Treviri, lesse un testo dettato da Ildegarda, presentatogli dall’Arcivescovo Enrico di Magonza. Il Papa autorizzò la mistica a scrivere le sue visioni e a parlare in pubblico. Da quel momento il prestigio spirituale di Ildegarda crebbe sempre di più, tanto che i contemporanei le attribuirono il titolo di "profetessa teutonica".
È questo, cari amici, il sigillo di un’esperienza autentica dello Spirito Santo, sorgente di ogni carisma: la persona depositaria di doni soprannaturali non se ne vanta mai, non li ostenta e, soprattutto, mostra totale obbedienza all’autorità ecclesiale. Ogni dono distribuito dallo Spirito Santo, infatti, è destinato all’edificazione della Chiesa, e la Chiesa, attraverso i suoi Pastori, ne riconosce l’autenticità.
Parlerò ancora una volta il prossimo mercoledì su questa grande donna "profetessa", che parla con grande attualità anche oggi a noi, con la sua coraggiosa capacità di discernere i segni dei tempi, con il suo amore per il creato, la sua medicina, la sua poesia, la sua musica, che oggi viene ricostruita, il suo amore per Cristo e per la Sua Chiesa, sofferente anche in quel tempo, ferita anche in quel tempo dai peccati dei preti e dei laici, e tanto più amata come corpo di Cristo. Così santa Ildegarda parla a noi; ne parleremo ancora il prossimo mercoledì. Grazie per la vostra attenzione.