L’articolo apparso sul Corriere della Sera del 15/5/06 è di Pietro Ichino, professore ordinario di Diritto del Lavoro all’Università statale di Milano, direttore responsabile della "Rivista Italiana di diritto del lavoro", già dirigente sindacale, deputato del Pci e membro della Commissione Lavoro nell’ottava legislatura.
Le aperture del segretario della Cgil Epifani e gli interventi pubblicati in questi giorni da Liberazione e dal manifesto sulle proposte di alcuni economisti de lavoce.info , ma anche l’intervento di Walter Veltroni sulla Stampa di venerdì, sembrano aprire una stagione nuova del dibattito in seno alla sinistra sui temi del lavoro. Non certo perché i dissensi, anche profondi, possano dirsi superati, ma perché il dibattito finalmente si sposta dalla contrapposizione sulla legge Biagi, ormai divenuta un puro simbolo politico, alle questioni di fondo, che i contenuti effettivi di quella legge toccano, in realtà, solo marginalmente. Proviamo a fare il censimento dei dati verificabili, sui quali un ragionamento pragmatico può fondarsi, e delle questioni aperte su cui invece un dibattito politico serio è indispensabile.
1. Da anni ormai quasi metà di coloro che entrano nel mercato del lavoro trovano inizialmente occupazione in un rapporto precario (a termine, co.co.co., «lavoro a progetto», ecc.). Secondo i dati della Banca d’Italia questo è accaduto per il 40,5% di coloro che hanno incominciato a lavorare nel 2005.
2. Tuttavia, sempre secondo i dati della Banca d’Italia, alla fine del 2005 solo il 10,8% del totale della forza lavoro era occupato in uno di quei rapporti precari. Questo significa che, finora, la maggior parte di coloro che hanno incominciato a lavorare in quel modo sono passati a un lavoro stabile entro pochi anni.
3. Per quel che riguarda più specificamente i contratti a termine, i dati Istat ci dicono che a fine 1993 essi erano il 9,8% del totale dei contratti di lavoro subordinato, a fine 2000 erano saliti al 13,2%, per poi tornare a diminuire. A fine 2005 erano il 12,6%. In questo segmento del lavoro precario, dunque, dopo la riforma della materia del 2001 si è assistito a una riduzione.
4. Gli altri tipi di lavoro precario sono invece oggetto della legge Biagi, che, emanata nel 2003, è entrata gradualmente in vigore tra il 2004 e il 2005. Dai dati disponibili sui due anni non emerge alcun aumento apprezzabile della diffusione di questi rapporti.
5. Resta il fatto che una parte dei giovani non riesce a passare dal lavoro precario a quello stabile. Qui non disponiamo di un dato complessivo sicuro, ma sulla base di alcuni dati parziali si può stimare che si tratti di una frazione che va dal 20 al 30% di questo segmento specifico della forza lavoro «in transizione», con punte più alte tra i laureati; una frazione che costituisce per ora meno del 5% del totale della forza lavoro, ma è presumibilmente destinata ad aumentare. La vera questione del precariato, oggi al centro del dibattito, riguarda essenzialmente queste posizioni.
Qui finiscono i dati ragionevolmente certi. Restano aperte alcune domande cruciali:
quanta parte di quel 20 o 30% «in transizione», che è più a rischio di precariato permanente, troverebbe un lavoro stabile e quanta parte rimarrebbe invece disoccupata se venissero ridotte drasticamente le possibilità di lavoro non stabile?
viceversa, quali e quanti sono i casi in cui l’accesso al lavoro stabile è favorito da una fase iniziale di lavoro meno protetto? quali e quanti sono, invece, i casi in cui la possibilità del rapporto precario finisce col consentire che il lavoratore vi resti intrappolato per lungo tempo?
se si rendesse più fluido il mercato del lavoro giovanile, privato e pubblico, col prevedere per tutti una fase di accesso meno protetta (ma temporalmente ben delimitata), quali e quanti lavoratori troverebbero un lavoro più adatto alle loro caratteristiche?
Oggi gli studi economici non rispondono in modo univoco a queste domande (essenzialmente per l’inadeguatezza dei dati disponibili). Ma, proprio per l’assenza di certezze su questi punti cruciali, chi ha più a cuore la difesa degli ultimi della fila dovrebbe considerare, quanto meno, il rischio che la soppressione della possibilità di accesso al lavoro attraverso una fase di occupazione meno rigidamente protetta condanni la parte più debole a restar fuori (e un’altra parte a un lavoro meno gratificante di quello che sarebbe possibile). Per un governo di centrosinistra è, certo, ragionevole scegliere di correre questo rischio; ma è ragionevole anche ipotizzare che si ottengano risultati complessivamente migliori coll’offrire a tutti uno stesso percorso di accesso graduale alla stabilità; a tutti maggiori garanzie nella fase di passaggio da un lavoro all’altro; e ai più deboli un sovrappiù di informazione, formazione mirata e assistenza intensiva nel mercato. In un dibattito sereno e pragmatico, anche in seno alla sinistra e al sindacato, ci deve essere spazio per entrambe queste opzioni.
Ebbene si, sono un lavoratore precario fortunato perchè nel 2006 ho guadagnato 9500 lorde e forse con altri tre o quattro lavori precari a fine anno arrivo a 13.500 euro lordi: sono fortunato e ringrazio riconoscente questa Italia perchè guadagno quasi come un ristoratore italiano, più di un taxista italiano, e se prendessi altri 20 lavori precari arriverò a guadagnare quanto un gioielliere italiano. Esattamente dal quel giorno di novembre del 2001 in cui mi sono laureato in Scienze Biologiche con 110 e lode (laurea quinquennale, vecchio ordinamento con alcuni esami Erasmus sostenuti in lingua all’estero ) sono un precario. Ho 30 anni, conosco due lingue, francese e inglese con conoscenza Word, Excel, Access, Explorer, Front Page, Power Point, M.V.S.P. (Multi-Variate Statistical Package v.3.12e ed ESRI ArcView-GIS e discreta conoscenza del linguaggio HTML e delle tecniche di realizzazione di siti web. Non parliamo dell’ università italiana: mi limito a dire che è una università gerontofila e dedita a coltivare la genealogia delle “baronie”. In questi anni non ho aspettato che il lavoro mi venisse incontro: non ho fatto il calciatore, né il muratore, né il portaborse, ho fatto l’impiegato co.coc.co in un ente del parastato, ho fatto l’autista-operaio come co.co.co., ho fatto il servizio civile in un comune, ho fatto tre anni esatti di contratto a tempo determinato in un ente pubblico regionale in quanto primo in graduatoria di un concorso pubblico, ho fatto consulenze scientifiche per il Ministero dell’Ambiente e enti vari e lavori informatici. Ho delle pubblicazioni in campo scientifico. Scaduto il contratto a tempo determinato e non più rinnovabile mi sono iscritto nelle liste dei disoccupati. Ho fatto lavori vari definiti " prestazioni occasionali di lavoro autonomo" e adesso per lavorare all’interno di una pubblica amministrazione sono obbligato ad aprire la partita iva all’Agenzia delle entrate optando per l’assistenza fiscale. Ma che cosa vuole da me questa Italia?!. E’ da cinque anni che sto facendo un “percorso di guerra”di cui non vedo ancora la fine. Qui in Italia noi precari siamo come i dannati della terra senza futuro e dobbiamo in alcuni casi persino nascondere la laurea perché la stessa infastidisce alcuni e ostacola mentre si regalano e si facilitano esami universitari ai dipendenti di certe amministrazioni convenzionate con certe università. Qui in Italia essere flessibile vuol dire essere disponibile a tutti gli sfruttamenti, a tutti i ricatti di orario, vuol dire adattabile, essere utilizzato da operaio, da impiegato a laureato. Questa è la flessibilità inaugurata da Treu, accentuata dal governo di Berlusconi e incancrenitasi con le finanziarie berlusconiane e la legge 30. La mia ragazza è laureata anche lei in Scienze Biologiche con 110 e lode e stampa nel 2001, laurea scientifica 2001 menzionata dall’Unione Industriale, master in bioinformatica, postdoc, conoscenza di inglese e francese, pubblicazioni varie e attualmente con borsa di ricerca per un anno ancora presso l’università: sei anni di ricerche sul DNA. Risultato? precaria anche lei. Non riusciamo a programmare il nostro futuro. Non siamo calciatori, non siamo idraulici o fabbri, non siamo taxisti e non siamo extracomunitari e purtroppo siamo cresciuti in Italia colpevolmente studiando fisica, matematica, chimica organica, biologia ovvero insegnamenti dai quali in Italia, considerando le inesistenti opportunità di lavoro, giustamente si scappa. Noi precari siamo veramente tanti ma siamo invisibili: pare che nella pubblica amministrazione (ricerca, università, scuola, enti territoriali ecc.) sono 350.000 i precari e ovviamente molti di noi non sono figli di parlamentari o di giornalisti o di industriali, di dirigenti industriali o di docenti universitari.. Non siamo rappresentati a livello sindacale fatta eccezione per quei precari delle grosse amministrazioni. . Vi sono precari co.co.co. (adesso co.co.pro) da oltre 10 anni. Adesso basta! Le testimonianze, i dibattiti, i fiumi di parole sul lavoro precario non sono serviti a invertire l’aumento dei lavoratori precari. O cambia qualcosa oppure tolgo al sistema-Italia il fastidio di vivere in Italia emigrando e lasciando così spazio a quei poveri extracomunitari cinesi, indiani, marocchini e rumeni tanto richiesti dal mercato e agli autonomi poveri. Questo nuovo governo deve porre all’ordine del giorno il lavoro precario e dare un segnale di cambiamento anche graduale viceversa la protesta assumerà forme più incisive o in caso di ricorso alle urne il centrosinistra avrà un notevole assenteismo non solo da parte dei giovani precari delusi ma anche dei loro genitori e se ci pensate sono tanti, ma tanti voti. E oggi su "Repubblica" leggo l’articolo a pag. 4 sull’evasione e mi scopro improvvisamente più ricco di certi affiliati a corporazioni medievali che minacciano manifestazioni contro la finanziaria: noi precari dobbiamo essere flessibili al mercato globale, noi precari dobbiamo essere "moderni" , loro, gli "apolitici", manifestano contro la finanziaria ma in realtà manifestano contro qualsiasi concezione di Stato. Viva l’Italia!
firmato: Enrico Pierro, uno dei tanti precari fortunati in caso di pubblicazione indicare solo il nome: non voglio danneggiarmi da solo. Il coraggio sovente si ha con l’indipendenza economica o semplicemente con un normale lavoro stabile