Questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona
fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco
fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti pagina, Alessandro,
ci vedi il denaro:
questi sono i satelliti di Giove, questa è l’autostrada
del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la scuola di Atene, è il burro,
è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,
è il parto: ma se volti foglio, Alessandro, ci vedi
il denaro:
e questo è il denaro,
e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:
ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente
Edoardo Sanguineti
La poesia è tratta dalla raccolta Triperuno, dalla sezione Purgatorio de l’Inferno,1964.
Ritratto critico di Edoardo Sanguineti. Prima parte - Seconda parte - Terza parte (di Angelo Petrella, "Belfagor", 2005 - "Nazione Indiana", 2017).
IMPARARE A CONTARE! "UNO. IL BATTITO INVISIBILE". Note a margine del libro di Giulio Busi *
RICOMINCIARE DA CAPO, DALLA COSTITUZIONE: UNO NON EQUIVALE UNO (=1), MA RENDE POSSIBILE E FONDA OGNI - UNO (= 1). IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS, NON UN LOGO! TRACCE PER UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA....
NONOSTANTE GIOACCHINO DA FIORE, NONOSTANTE DANTE ALIGHIERI (E LA DIVINA COMMEDIA) , NONOSTANTE GIOVANNI BOCCACCIO (E LA MEMORIA DI MELCHISEDEC E DEI TRE ANELLI), NONOSTANTE MICHELANGELO (E IL SUO TONDO DONI), NONOSTANTE LESSING (E IL SUO ELOGIO DEL SAGGIO NATHAN), NONOSTANTE FREUD E NONOSTANTE EINSTEIN ....
...SI VIVE ANCORA NEL REGIME DELL’UNO (= 1) E DELLA "DOTTA IGNORANZA" (1440) E DELLA COSMOTEANDRIA PLATONICA?!
"Dio non gioca a dadi" ma, dopo la lezione di Georges de La Tour (cfr. Giulio Busi, "Uno. Il battito invisibile": [...] A Preston Hall, nella grande serra in vetro e ferro trasformata in museo, i "Giocatori di Dadi" di Georges de la Tour accolgono i visitatori con il loro sorprendente mistero. Tre lanci, un unico risultato... I tre lanci hanno dato lo stesso risultato. Uno [...]"), l’Uno è ancora il più sfuggente e misterioso tra i numeri? Ogni essereu mano è un uno, ma ancora non si sa chi è l’Uno? Ma a che gioco giochiamo?! La storia è sempre e solo fatta da Uno (=1) solo? E i tre moschettieri lavorano ancora per il solito Uno (=1)?!
UNO. IL BATTITO INVISIBILE: "L’Uno ci avvolge, pulsa in noi. Troviamolo. L’Uno è stupore, incompletezza, mistero. A tratti, in una grande sventura o in una gioia profonda, per caso o dopo avere cercato a lungo, ci rendiamo conto d’essere parte di un tutto che ci sovrasta, ci avvolge e allo stesso tempo si sottrae alla nostra #comprensione. Lo sentiamo, il tutto, senza poterlo distinguere con esattezza. Sebbene non ci sia consentito misurarlo con la #ragione, ci pare quasi di toccarlo, tanto è vicino, intimo.
Vecchie storie bibliche, sogni di mistici, saggezza indiana, inquietudini dei filosofi greci, poesia del Novecento. Sono i bracci di un fiume immenso e segreto, che questo libro risale passo dopo passo in cerca dell’Uno, del suo fulgore, del suo battito lieve, profondo, invisibile. L’Uno, il più sfuggente e misterioso tra i numeri" (G. Busi, "Uno. Il battito invisibile", Il Mulino).
QUATTRO PROFETI (1+1+1+1) O DUE PROFETI + DUE SIBILLE?! Nella cornice del Tondo Doni di Michelangelo, secondo gli esperti della Galleria degli Uffizi, "Vi sono raffigurate la testa di Cristo e quelle di quattro profeti" (https://www.uffizi.it/opere/sacra-famiglia-detta-tondo-doni)? Non è bene, forse, rianalizzare il quadro e la cornice e ri-verificare la situazione, data la strettissima connesione anche con il lavoro portato avanti nella Cappella Sistina?!
... IMPARARE A CONTARE E USCIRE da interi millenni di labirinto (Nietzsche) e riprendere la diritta via (Dante2021), comporta un globale capovolgimento del puntodivista e, con Freud, l’aprire gli occhi (tutti e due) e guardare finalmente "da dove veniamo"... e lo straordinario sorgere della Terra, come è apparso ai primi esploratori del cosmo ...
DANTE2021, QUESTIONE ANTROPOLOGICA (ECCE HOMO) E
GIOCO DELLA TUNICA:
QUATTRO SOLDATI, TRE GIOCATORI DI DADI E PROBLEMA DELL’UNO.
A CHE GIOCO GIOCHIAMO?! Ancora al Grand Tour della cosmoteandria?
FLS
Edoardo Sanguineti, poeta e dantista. Quando celebrò il sommo poeta con i versi di Madonna
di Selene Vatteroni (Il Fatto Quotidiano, 9 Dicembre 2020) *
Per festeggiare Edoardo Sanguineti (Genova, 9 dicembre 1930 - ivi, 18 maggio 2010), che oggi avrebbe compiuto novant’anni, si potrebbe parlare di molte cose: perché nella sua lunga carriera Sanguineti è stato non solo poeta, romanziere, autore di teatro, ma anche saggista e studioso (di Dante, fin dalla tesi di laurea sui canti di Malebolge, e poi di D’Annunzio, Gozzano, Montale, per fare solo alcuni nomi), commentatore di poesia (dei Poemetti pascoliani, nel 1971, come delle rime di Guinizzelli, nel 1985) e curatore di antologie poetiche (dai Sonetti della scuola siciliana del 1965 alla rivoluzionaria Poesia italiana del Novecento, del 1969). Quest’anno però, col centenario dantesco del 2021 ormai alle porte, parlare del Sanguineti dantista, specialmente nelle vesti di poeta, sembra quasi una scelta obbligata.
Il rapporto con Dante è vitale e operante fin dalle prime fasi della poesia sanguinetiana, a cominciare da Triperuno (Milano 1964), raccolta di tre poemetti, l’ultimo intitolato Purgatorio de l’Inferno, che Sanguineti chiama “cantiche”, a imitazione dell’architettura della Divina commedia. Siamo in anni non lontani dal lavoro di tesi, all’università di Genova, sotto la guida di Giovanni Getto, sui canti di Malebolge (Inferno xvii-xxx), poi diventata un saggio critico, Interpretazione di Malebolge (Firenze 1961) - Laborintus, la prima “cantica” del Triperuno, è dello stesso anno della laurea, il 1956.
In effetti, come sempre per Sanguineti, anche il rapporto con Dante si realizza all’incrocio tra esperienza poetica e attività critica, il “dantismo” della sua poesia è fondato nella pratica dell’interpretazione della Commedia. Sulla strada aperta dal Triperuno si percorre così un lungo tratto della carriera poetica di Sanguineti: si arriva almeno fino a Il gatto lupesco. Poesie 1982-2001 (Milano 2002), “raccolta di raccolte” in cui è facile riconoscere, nelle femmine di animali dell’Alfabeto apocalittico (“le lonze, le leone, le lupesse / limano lingue di licantropesse”), le “tre fiere” del primo canto dell’Inferno; e in cui la terzina iniziale della Commedia risuona chiaramente nella settima strofa dell’Arpa magica: “tanta gente a cavallo, che ci viene, / se la trova nel mezzo del cammino: / se la ripesca nella selva oscura, / che stava mezza morta di paura”.
Ma in questi stessi anni il “dantismo” di Sanguineti emerge anche in altre zone della sua produzione, specialmente negli scritti teatrali - anche lì in stretta connessione con l’esercizio critico (vd. V. Pilone, Dante nella narrativa e nel teatro di Sanguineti, in “Dante. Rivista internazionale di studi su Dante Alighieri”, viii (2011), pp. 105-133). In effetti, Dante è per Sanguineti una “macchina di nitida vocalità”, un poeta-“drammaturgo”, che dunque si presta molto bene a essere rappresentato. Così in Laborintus II, testo per musica commissionatogli in occasione del centenario dantesco del 1965 (e al quale seguirà, l’anno successivo, il saggio Il realismo di Dante), Sanguineti mette in scena una “rassegna delle cose del mondo”, sul modello di quell’enciclopedismo medievale che da sempre lo affascinava e che nella Commedia gli appariva “perfettamente organizzato”; e ancora molti anni dopo la Commedia dell’Inferno (1989), “travestimento” teatrale della prima cantica dantesca, considerato la vetta del “dantismo” creativo di Sanguineti, si proporrà, nelle sue intenzioni, come implicita dimostrazione della “teatralità” di Dante.
“Teatralità” e “vocalità” di Dante a cui Edoardo Sanguineti è tornato a rendere omaggio nel 1998, in occasione della rassegna poetica Duelli di penna organizzata a Genova, quando, dovendo presentare una poesia sulla Madonna, ne presentò una sulla cantante Veronica Ciccone, alias Madonna, intitolata Like a Prayer: un collage di titoli delle sue canzoni (tra cui la stessa Like a Prayer), ma sull’impalcatura metrica e sintattica della preghiera alla Vergine dell’ultimo canto del Paradiso dantesco (il testo ci è conservato in un articolo di M. Berisso, Sanguineti, il Duecento e Dante (e una poesia d’occasione), in Per Edoardo Sanguineti: lavori in corso, Firenze 2012, pp. 205-219, a p. 219).
Del resto, per Sanguineti c’è una sovrapposizione, non perfetta e a tratti davvero sorprendente, tra l’antico e il contemporaneo, una linea di continuità che percorre e unisce le epoche artistiche - senza però che per questo gli antichi diventino nostri contemporanei, Dante un contemporaneo di Madonna: è con questo spirito che Sanguineti avrebbe celebrato il centenario del sommo poeta, e che ancora oggi, come sul finale di Like a Prayer, ai versi di entrambi “si sbattono le mani”.
* IL FATTO QUOTIDIANO, 9 Dicembre 2020
Blog: Selene Vatteroni, Assegnista di ricerca in filologia italiana
Sanguineti e la funzione di verità
di Niva Lorenzini (Alfabeta-2, 16 settembre 2018)
Ci sono autori del Novecento su cui molto si è scritto, e per decenni, al punto che la loro fisionomia pare da tempo compiutamente tracciata e definita. Edoardo Sanguineti è sicuramente tra questi. Tanto più si rivelano opportune analisi che ne esplorano ora, attraverso documenti d’archivio, aspetti inediti e inattesi. Piena di sorprese e ricca di rivelazioni giunge fra tutte la perlustrazione, compiuta da Marino Fuchs e pubblicata da Mimesis, sulle carte conservate presso la Biblioteca Cantonale di Locarno nell’Archivio Enrico Filippini, relative al carteggio che l’intellettuale svizzero intrattenne con il poeta tra il ’63 e il ’77. Si tratta di 64 missive di Sanguineti a Filippini e di una ventina di Filippini a Sanguineti: conservate, queste ultime, in parte a Locarno (2 lettere) e in parte (21) ritrovate dalla vedova Luciana nella casa genovese del poeta.
Se è normale attendersi dal carteggio informazioni circa l’importante mediazione culturale operata da Filippini, responsabile in quegli anni presso l’editore Feltrinelli della divulgazione e traduzione della letteratura tedesca in Italia, in particolare di quella delle avanguardie del Gruppo 47 ma non solo, e in parallelo della diffusione della cultura italiana all’estero (ne tratta lo stesso Fuchs nel volume Enrico Filippini editore e scrittore, appena edito da Carocci), sorprende, sino dalla lucida introduzione, l’ampiezza e il rigore dei riscontri forniti dal curatore. Essi riguardano l’orizzonte storico-letterario-filosofico comune ai due intellettuali, dal Barthes di Mythologies ai testi di psicoanalisi e fenomenologia, con particolare approfondimento sulle opere di Marx di cui all’occorrenza, per qualche citazione, Fuchs fornisce una traduzione di prima mano. Ma soprattutto sorprende, nel carteggio, la presenza di sette lettere straordinarie, numerate da 13 a 19 e datate ottobre ’64, in cui Sanguineti, sollecitato da Filippini intento a preparare un commento per la traduzione tedesca di Purgatorio de l’Inferno approntata da Hans Magnus Enzensberger, illustra capillarmente, verso per verso, alcune sezioni del poemetto pubblicato da Feltrinelli, quello stesso anno, nel volume Triperuno.
È un commento imprescindibile per comprendere spunti e accenni fino ad oggi solo in parte decriptati dalle note con cui Alfredo Giuliani - suggeritore lo stesso Sanguineti - accompagnava nel ’61 l’antologia dei Novissimi. Ed è un commento sorprendente. Non aveva mai fatto, Sanguineti, una illustrazione così puntuale di suoi testi poetici e non ne farà in seguito, propenso com’era, semmai, a sfidare il lettore sulle possibilità aperte della ricezione della sua poesia. Qui però gli interessa mettere a fuoco, con l’interlocutore amico, un momento di trapasso che giudica fondamentale per la sua scrittura, fortemente segnata, in quel preciso contesto, dalle letture di Marx e Kafka su tutti. In quelle sette lettere, in dialogo con Filippini e con riscontri serrati, Sanguineti affronta la dicotomia preistoria/storia, il superamento dell’amore-passione borghese e soprattutto lo snodo della giustificazione etico-politica (mai individuale, ma sociale), finalizzata a realizzarsi in una società senza classi. Sono temi che resteranno fondamentali nel pensiero e nell’opera di Sanguineti, e che qui puntano a illustrare il passaggio dalla posizione anarchica di Laborintus al materialismo storico di Purgatorio de l’Inferno, che accoglie non a caso la poetica del «piccolo fatto vero» insieme alla tecnica dell’enumerazione caotica. Ad essa Fuchs dedica approfondimenti di tutto rilievo, tra Spitzer e Marx, arrivando a chiamare in causa, a proposito del cut-up di «materiali già usati dalla vita», il parallelo percorso di ricerca degli artisti informali e di Enrico Baj soprattutto, in vista della nascita di una «nuova figurazione».
Si esce frastornati dalla lettura di queste lettere che rivelano, in Sanguineti e Filippini, una comunanza di intenti coerente, finalizzata a un’idea di cultura non demolitrice e distruttiva, ma che punta a modificare la realtà nell’epoca - l’avvio degli anni Sessanta - in cui sta affermandosi anche sulla scena letteraria una cultura massificata e mercificata. E altrettanto frastornati si esce dalle pagine che riportano, in Appendice, una lunga intervista all’autore di Capriccio italiano, trascritta da Valerio Riva e Nanni Balestrini tra il ’62 e il ’63. È questa la seconda sorpresa che riserva il volume: sono pagine decisive per l’illustrazione del rapporto tra il romanzo e la tecnica narrativa messa in atto da Sanguineti, ispirata in primo luogo, spiega l’autore, dalla Commedia dantesca oltre che dal Satyricon di Petronio, per la frammentarietà che diviene - parola di Sanguineti - vera «etimologia culturale di Capriccio italiano», insieme alla suggestione di un Kafka riletto in ottica petroniana. Da qui il dialogo tra intervistato e intervistatori si sposta verso corollari del tutto inattesi, toccando in primo luogo la struttura del sogno e sviluppandosi verso argomenti cari soprattutto a Filippini, quali l’inintenzionalità di una scrittura narrativa sottratta a qualsiasi gerarchizzazione di carattere spazio-temporale e aperta a un grado zero dell’espressione, estranea a ogni forma di realismo canonicamente codificato. Per Filippini consisteva in questo la «funzione di verità» che il romanzo di Sanguineti riusciva a promuovere, con una elaborazione ideologico-linguistica in grado di smascherare le coercizioni e di promuovere una rinnovata coscienza storica.
Dal carteggio emerge un Sanguineti scatenato e giocoso, che lascia trapelare, tra lo spessore di un’amicizia profonda, il proprio privato, in genere gelosamente da lui mascherato nei travestimenti che i tanti «ii» mettono in campo nei suoi versi. Ed emerge insieme - ed è importante - uno scrittore attirato proprio verso la pratica dell’inintenzionalità: un aspetto indagato, in piena sintonia con Fuchs, anche nello studio di Clara Allasia, «La testa in tempesta». Edoardo Sanguineti e le distrazioni di un chierico, pubblicato da Interlinea. A dare il la al volume la studiosa pone, in esergo, una scelta mirata di prelievi sanguinetiani: dall’Orologio astronomico («Ci sono pezzi di antiche storie, che si mettono, di colpo, a galleggiarti lì in testa, allo sbando. Si ha la testa in tempesta, ecco [...]. È come un sogno», e da Postkarten, 60: «Perché fu il tempo, dicono, della distratta percezione». Anche Allasia preme il tasto dell’inintenzionalità, del sogno e della distrazione, per indagare un Sanguineti difficile da decifrare, nella complessità che caratterizza, scrive la studiosa, il suo collocarsi sempre ad un tempo qui e altrove, nella «molteplicità di ruoli che avvolgono e sommergono» il suo essere uno e trino, chioserebbe Antonio Pietropaoli, dramaturg e lessicografo, romanziere e cinefilo. E non è certo per caso che l’analisi documentatissima di Allasia, che spazia tra cinema e competenze lessicografiche, si apra sul Sanguineti recensore sul «Verri», nel ’59, della Modification di Butor, che consente al giovanissimo interprete di discutere proprio di «distrazione». È questa una parola cardine, per la studiosa, nel «mondo mentale» sanguinetiano, un universo «perfettamente compiuto» la cui coerenza, scrive ponendosi in sintonia col Filippini del Carteggio, «nasce dal concorrere di molteplici punti di vista, dal continuo sovrapporsi di sguardi che colgono, ognuno, elementi secondari, particolari apparentemente insignificanti».
Emerge così di nuovo, nella permeabilità tra generi (accanto al lessicografo spicca soprattutto il cinefilo, l’esperto di montaggio, al centro anche degli scritti di Sanguineti raccolti dalla stessa Allasia e da Franco Prono nel volume Un poeta al cinema, pubblicato nel 2017 dall’editore Bonanno), il Sanguineti del grado zero dell’espressione, poeta e narratore della «distrazione» intesa come «diversione», come ciò che «porta in un altro luogo» e innanzitutto nel territorio del sogno, un sogno mimato dall’inconscio, su cui si era soffermato anche Fausto Curi nel saggio La messa in scena dei sogni (compreso nel volume Edoardo Sanguineti. Ritratto in pubblico, a cura di Luigi Weber, Mimesis 2016).
Come si concili quel Sanguineti «distratto», in buona parte da riscoprire, con l’autore di Ideologia e linguaggio, da lui considerato libro cardine del proprio lavoro, e con il materialista storico, o a fianco del rigorosissimo estensore delle 70000 schede destinate al Grande Dizionario della Lingua Italiana cui Allasia dedica analisi informartissime, è scommessa che lascia - concordo di nuovo con la studiosa - ammirati e sopraffatti.
Per chiudere. Pare giunta, per Sanguineti, la stagione non tanto di celebrarlo o di concludere bilanci su di lui, ma di conoscerlo meglio, capirlo meglio, al di là delle certezze acquisite. Sto parafrasando parole con cui Franco Vazzoler sigla la Premessa al prezioso volume che con il titolo Edoardo Sanguineti e il gioco paziente della critica raccoglie per le Edizioni del verri i suoi Scritti dispersi 1948-1965 per le cure di Gian Luca Picconi e Erminio Risso, responsabili di un progetto corposo promosso dall’Università di Genova per ricostruire l’intera bibliografia di Sanguineti. Praticando, secondo l’invito di Vazzoler, il tempo «della ricerca e della sistemazione dei materiali», i curatori ricostruiscono l’apprendistato critico del giovanissimo Sanguineti già intento, nei primi anni Cinquanta, a discutere, su riviste e fogli dell’epoca, di espressionismo e neorealismo, e a recensire film, a trattare di Kafka, Ungaretti o del Dante di Auerbach. Viene così a tratteggiarsi anche qui una fisionomia plurima e polifonica, articolata e complessa: quella che il gioco paziente della critica sta ora attivandosi a riscoprire attraverso nuove letture e nuovi itinerari di ricerca.
Edoardo Sanguineti-Enrico Filippini
«Cosa capita nel mondo». Carteggio (1963-1977)
a cura di Marino Fuchs
Mimesis, 2018, 244 pp., € 22
Clara Allasia
«La testa in tempesta». Edoardo Sanguineti e le distrazioni di un chierico
Interlinea, 2017, 137 pp., € 15
Edoardo Sanguineti
Edoardo Sanguineti e il gioco paziente della critica
Edizioni del verri, 2017, 328 pp., € 23
Sanguineti, la vita dell’ultimo marxista tra politica e poesia
Il piccolo volume è una conversazione da lontano che colma un vuoto
di Furio Colombo (Il Fatto, 19.03.2018)
Edoardo Sanguineti era mio compagno di banco al liceo D’Azeglio di Torino. Era appena finito il grande disastro del fascismo ed eravamo sicuri che toccava a noi riempire il vuoto. I nostri insegnanti di quel liceo (il più importante della città ) e di quella nostra classe (sezione B) erano tutti personaggi della Resistenza partigiana. È la Resistenza (la Resistenza, non l’Italia, che in tutta la nostra vita era stata fascista, persecutrice, priva di valori che non fossero uccidere o morire) il territorio in cui eravamo radicati. Anzi, nella Resistenza eravamo nati, giovanissimi adulti, legati per sempre a quello straordinario soprassalto di libertà, legati per sempre a quelle radici, come tutti coloro a cui ci siamo legati a mano a mano, nel corso degli anni. Eppure fra il 1946 e il 1949 (il periodo del nostro liceo) non siamo mai diventati i discepoli di chi già ci parlava del passato.
Puntavamo avanti, in politica (volevamo parlare di delitti non pagati, di diritti non ricevuti, di scioperi già malvisti, dei partiti già inclini a scansare le ingiustizie), nella ricerca di ciò che stava per venire e nel non accettare che il fatto di essere liberi fosse un punto di arrivo. È stato seguendo questa spinta che, nel secondo anno, Sanguineti e io, abbiamo organizzato un nostro luogo di incontro e di discussione. Lui o io abbiamo iniziato a portare testi da leggere e da discutere, e il punto d’incontro era a casa mia, dove mia madre aveva sgombrato una stanza. Sanguineti lo racconta nella sua autobiografia per dire che eravamo più adatti a scoprire il dopo che a celebrare il prima.
Quando ho avuto fra le mani il piccolo, utilissimo libro di Lanfranco Palazzolo, Edoardo Sanguineti, il poeta dell’avanguardia (postfazione di Pino Pisicchio, Historica Editore), mi sono reso conto che questo nuovo testo colmava un vuoto.
Mancava tra le tante opere e i tanti scritti di e su Sanguineti, una conversazione da lontano: Palazzolo raggiunge Sanguineti nel 2010, molti anni dopo l’esperienza tedesca (1971) e 100 poesie dalla DDR, e lo induce a raccontare di un periodo cruciale, per un mondo spaccato della guerra fredda, per la enigmatica politica italiana, per Sanguineti, stesso, mai così poeta, mai così politico (“Torno in Italia e mi iscrivo a Pc”, ha detto a Palazzolo ).
Il fatto è che il giornalista riesce, con domande informate e abili, a far fronte al poeta e a tener testa al politico. E il documento che gli dobbiamo merita di entrare sia nelle biblioteche della politica italiana di quegli anni, sia nella biografia di un grande poeta italiano.
LA TEOLOGIA DI "MAMMONA", LA LEZIONE DI MARX, E IL MESSAGGIO EVANGELICO.
Per un Manifesto della Sinistra letteraria
di Fausto Curi (Alfabeta2, 25.02.2018)
È noto che in Italia non esiste un’unica Sinistra politica. Le Sinistre son più di una, né mostrano la capacità di congiungersi e di unirsi. Meschine lotte interne, rivalità personali e, in primo luogo, incapacità di elaborare un programma veramente “di sinistra”, solido e unitario, mantengono divisi i diversi fronti. Senza che molti si rendano conto che fino a che le Sinistre continueranno a guardare al Centro e a accordarsi con il Centro, non esisterà mai una vera Sinistra. Il Centrosinistra non è la Sinistra. È il Centrosinistra. Che spesso ha ereditato gli aspetti peggiori della Democrazia Cristiana e della Socialdemocrazia senza farne propri i migliori (posto che questi esistessero). Ma soprattutto senza cercare di salvare e mettere a frutto tutto quello che sarebbe stato necessario preservare e utilizzare del Partito comunista italiano. Ora le Destre, anche esse per fortuna divise, minacciano di conquistare la maggioranza parlamentare. E di questo sembrano essere ben consapevoli molti membri delle Sinistre, che però non trovano il modo di rompere ogni rapporto con il moderatismo e di unire la diverse forze di sinistra. Senza dimenticare, naturalmente, che i fascisti sono ancora una volta usciti dalle fogne e stanno ancora una volta spargendo ovunque il loro puzzo immondo.
Esiste, in Italia, una letteratura di sinistra? Credo di no. E su questo vale forse la pena riflettere. Noi - dico coloro ai quali ora mi rivolgo - siamo tutti genericamente e variamente “di sinistra”, ma non costituiamo una letteratura di sinistra non dico organizzata, ma ideologicamente e programmaticamente omogenea. Che esista una stretto rapporto fra società e letteratura non vuol dire che una letteratura di sinistra sia immediatamente identificabile. Non basta, per essere di sinistra in letteratura, essere antifascisti, essere a favore delle lotte dei lavoratori, guardare con simpatia gli immigrati, essere contro il moderatismo in ogni campo e contro quelle che oggi, non avendo più il coraggio di parlare di sfruttamento, ci si accontenta di chiamare “ineguaglianze”.
Stiamo parlando di letteratura, non di altro. Cerchiamo, per prima cosa, di evitare certi errori del passato, quando bastava parlare di operai, o di partigiani, per essere automaticamente “di sinistra”. I contenuti sono certamente importanti, ma non bastano a fare letteratura. Un giorno però Alfredo Giuliani parlò di “neo-contenuto”. Non fu capito, temo, ma aveva ragione.
Proviamo a mettere a confronto Capriccio italiano di Sanguineti, o Tristano di Balestrini, con Un borghese piccolo piccolo di Vincenzo Cerami. Le differenze sono enormi, ma non sono solo di struttura, sono anche di contenuto, e sono importanti. Un borghese piccolo piccolo, che piacque a Pasolini e, purtroppo, anche a Calvino, è davvero un romanzo piccolo piccolo, meschino, angusto: manca l’aria, là dentro.
E se mi si obbietta che è proprio questo il risultato che l’autore voleva ottenere, rispondo che una sinistra letteraria degna di questo nome deve, in primo luogo, con ogni traccia di piccola borghesia, liquidare ciò che è piccolo piccolo, stento, gretto, misero, soffocato. Sinistra letteraria deve voler dire il nuovo che irrompe, e il nuovo non può mai essere piccolo piccolo. In Capriccio italiano e in Tristano l’acqua è profonda e si nuota bene, non solo per merito della struttura. E non si tratta, sia chiaro, di “grande stile”.
Cerchiamo anche di evitare gli eccessi di anarchismo. Una buona dose di anarchismo giova alla letteratura e, in generale, alle arti, una dose eccessiva distrugge ogni cosa e non consente di costruire niente. Parlando della poesia di Balestrini mi è capitato di trovare una formula che credo a Nanni non sia dispiaciuta.
Il disordine in quanto tale, il puro disordine non serve a niente. Occorre progettare e elaborare, come Nanni ha fatto, un’ordinata gestione del disordine. Fra il puro disordine e l’ordinato disordine passa la stessa differenza che passa fra la rivolta e la rivoluzione.
È anche vero che - a parte qualche inutile eccesso anarcoide guardato con simpatia da qualche nuovo-vecchio letterato che crede ancora all’efficacia delle bombe - i tempi ci costringono a temere il contrario del disordine: la moderazione, le mezze misure, la correttezza.
Non è dunque la moderazione che sto consigliando, sono gli strumenti idonei, una strategia appropriata che mi permetto di segnalare. Essendo ben consapevole che, se poi mancano le condizioni oggettive necessarie, discorsi e progetti non servono a niente.
Di questa strategia, naturalmente, deve essere parte importante lo stile, la scrittura, il modo di costruire il testo. Niente “grande stile”, si è detto. Occorre però evitare anche - soprattutto in campo critico e saggistico - che il linguaggio sia scorretto, incerto, confuso, perché - mi scuso per l’ovvietà - la mancanza di correttezza, purtroppo sempre più frequente, finisce per provocare equivoci, confusione, oscurità, fastidio, noia, l’impossibilità di intendersi. Non dico la rivoluzione - che, oggi, lo sappiamo bene, non è alla nostra portata, neppure se fosse soltanto una rivoluzione letteraria - ma una efficace letteratura di sinistra ha bisogno di chiarezza, deve farsi intendere chiaramente.
Dico chiarezza ma intendo soprattutto cultura, consapevolezza, vivacità, efficacia. Bisogna saper bene come scrivere male, diceva Sanguineti (Ancora l’ordine nel disordine, come si vede). Ma molti, oggi, sanno male come scrivere male. Scrivono male e basta, insomma.
Un testo efficace nei diversi generi non nasce però soltanto dall’ingegno. Nasce anche dallo spessore della cultura di chi scrive. Una cultura molto ampia è certo augurabile, ma ciò che conta è che la cultura sia adeguata al lavoro che si deve compiere. Se il lavoro è nuovo, nuova deve essere la cultura. E io non so immaginare una cultura di sinistra che non sia nuova. Ma dove trovare, oggi, una cultura nuova? Non mi pare di vedere, oggi, splendere nuovi paradigmi, nuovi modelli di cultura pienamente degni di attenzione. Non resta, forse, che trovare nelle nostre stesse esigenze i mezzi di cui abbiamo bisogno.
Potrebbe bastare, forse, a identificare la letteratura di sinistra, il greve tentativo di restaurazione che sta cercando di compiere la destra letteraria. Che non solo esiste, ed è agevolmente riconoscibile, ma si fa ogni giorno non dico più aggressiva, ma certo più presuntuosa e più baldanzosa. Tace, vilmente, delle proprie pretese, ma cerca di operare concretamente.
Sia chiaro, non contano, nel caso, le appartenenze politiche, nella destra letteraria non mancano probabilmente persone che votano per la sinistra, o per quella che si crede sia la sinistra. Cerco di spiegarmi con qualche esempio. -Io non mi dolgo né mi indigno - e credo che nessuno debba dolersi e indignarsi - se su giornali e riviste si commemora il centenario della nascita di Bassani, di Cassola, di Fortini. È giusto che coloro che credono alla validità di questi scrittori li commemorino.
Credo anzi che l’occasione sarebbe propizia a un giusto, equanime atto storiografico, che però non mi pare, in generale, si compia. Io stesso, invitato, ho partecipato a una commemorazione di Bassani, chiarendo quello che era giusto chiarire, precisando quello che era opportuno precisare.
Precisando, per esempio, che la frase sulle “Nuove Liale” non era un insulto, non era una battuta acrimoniosa bensì un giudizio critico. Devo aggiungere che ho trovato negli altri partecipanti alla commemorazione rispetto e piena comprensione. Ancora, di mia iniziativa ho dedicato a Franco Fortini un articolo né benevolo né malevolo, aspro dove era giusto essere aspro, nel quale ho cercato di interpretare in chiave psicologica certi aspetti di quello scrittore, nemico delle avanguardie italiane, ma molto ammirato da certa sinistra politica e culturale.
Quando però sono costretto a constatare che ci sono alcuni, anzi, molti, che, senza dichiararlo apertamente, cercano di passare dalla commemorazione all’apologia; che ci sono molti, anziani e giovinastri, che stanno facendo il possibile per nascondere il lavoro di Sanguineti, di Balestrini, dei Novissimi, dei migliori narratori della Nuova avanguardia; che c’è chi, cercando di fare lo storico senza esserlo, riesuma e cerca di consacrare un poeta mediocre pur di non riconoscere i poeti che sono stati e sono veramente significativi; quando sono costretto a constatare l’esistenza di tutto questo, e a verificare la presenza di altri sintomi inequivoci, allora penso che, per la sinistra letteraria, non solo c’è una ragione di esistere, ma c’è anche una ragione di manifestarsi e di operare proprio come sinistra letteraria.
Mi riesce facile immaginate che ci sarà qualche amico, qualche compagno che obbietterà che i tentativi della Destra sono soltanto miserabili velleità e che non è il caso di preoccuparsi. Io non mi preoccupo, perché conosco bene la forza vitale delle opere in cui credo e nelle qual molti altri credono. Credo però anche che nulla sia indelebile. E che le piccole aggressioni, le vili omissioni di cui è solo capace la Destra letteraria possano a lungo andare, se non ledere quelle opere, certo impedirne o ostacolarne la circolazione.
La destra letteraria, si dirà, fa il suo mestiere di Destra. Commette però un errore grossolano dal momento che non ha ancora capito chi è quello che essa ha eletto a proprio avversario o a nemico. Se, in primo luogo, nemico vi è, è il nemico dell’imbecillità e dell’ignoranza. Perché la Destra letteraria scambia per nemico la storia. Scambia ancora per tendenze, per fazioni da combattere ciò che da tempo è diventato saldamente storia. Si accanisce contro la storia credendo di accanirsi contro i Novissimi o contro il Gruppo 63.
La Destra letteraria vuole imporre silenzio alla storia. Storia è ciò che accade e rimane vitale. O è ciò che accade e non passa, non tramonta, non scompare, inquieta il presente. Certo, anche Pasolini è storia. Ma perché la Destra vuole far tacere Sanguineti e lascia invece pienezza di parola a Pasolini se non perché Sanguineti “dà fastidio”? Ma quel “fastidio” provocato da Sanguineti non sarà un segno di vitalità che la Destra non tollera?
Nel trentennio che va dal 1950 al 1980 in Italia non si è scritto qualche bella poesia o qualche bel romanzo. Sono state fatte, invece, interessanti ricerche e sperimentazioni con il fine di raggiungere una nuova condizione della poesia e della narrativa, come tutti desideravano senza che tutti possedessero gli strumenti idonei. Una nuova e varia cultura, attingendo alle fonti più diverse, fu, in quella occasione, elaborata dai protagonisti, che ebbero il merito di mostrare con la ricchezza dei risultati conseguiti che non si dà letteratura nuova senza una nuova cultura. -In quel trentennio, la cultura e la letteratura italiana hanno acquistato una nuova consapevolezza, nuovi modi di essere e di comunicare, e una strumentazione che il Novecento italiano non aveva prima mai conosciuto.
E’ in quegli anni che la letteratura come ispirazione è morta e, assumendo come modello il grande lavoro compiuto dal Joyce di Finnegans Wake, gli scrittori danno vita a una letteratura come questione, o, se si preferisce, come problema, mettendo in fuga il vecchio lirismo, sostituendo il plurilinguismo al monolinguismo, la mescidazione alla purezza, la discontinuità del montaggio alla continuità della sintassi, l’ordinato disordine all’ordine.
Non si trattò di prestazioni effimere, si trattò e si tratta di risultati che hanno un rilievo storico. È questa storicità dell’Avanguardia che la destra letteraria, fra ignoranza e cattiva coscienza, cerca ora di negare e di occultare. Senza disporre di modelli da contrapporre efficacemente ai modelli la cui validità la storia ha da tempo sancito.
È pur vero, d’altra parte, che ben poco si è fatto, fino a oggi, non dico per contrastare la sciagurata tendenza della Destra, ma per affermare con serietà le ragioni di una poesia nuova, di una narrativa nuova, di una nuova cultura. -Dove sono gli eredi dei Novissimi? C’è qualcuno che, smettendo di dichiarare di ammirarlo, abbia appreso qualcosa da Giorgio Manganelli, qualcuno che, smettendo con l’accusa idiota di “giornalismo”, abbia appreso qualcosa da Alberto Arbasino? Laborintus, Postkarten, Capriccio italiano di Sanguineti, Come si agisce, Caosmogonia, Tristano di Balestrini, per citare solo alcuni titoli, rimangono oggetti misteriosi, affidati all’interpretazione della critica ma operativamente sterili. Come è possibile tanta inerzia? Che non è inerzia dei modelli, è inerzia dei potenziali fruitori.
Spero sia chiaro che non sto parlando di imitazione. Parlo di paradigmi, di modelli. Perché la letteratura nuova, e l’avanguardia, non diversamente dalla letteratura classica, si sono istituite sempre su modelli. Apollinaire aveva come modello principalmente Picasso; Tzara, Breton avevano come modelli Rimbaud e Lautréamont; Sanguineti e Giuliani avevano come modelli Pound e Eliot. Ciascuno, poi, ha usato il modello con assoluta libertà, mettendo a frutto ciò che gli conveniva, costruendo una poesia del tutto nuova e originale.
Una letteratura di sinistra non può accontentarsi dell’esistente. Bisogna, per prima cosa, far fronte ai subdoli attacchi della Destra. Occorre, poi, contro l’aridità e la sterilità del tempo, riflettere sul Nuovo e, se se ne ha la forza e l’opportunità, progettare il Nuovo. *
*
Nota (di commento): "Sapere aude!": orientarsi nel pensiero, con coraggio...
Federico La Sala
La sinistra che c’era è andata a destra
di Furio Colombo (Il Fatto, 25.02.2018)
La destra e la sinistra non esistono più. La frase, che circola anche nei migliori partiti, è come una benda gettata all’improvviso sugli occhi dei cittadini per costringerli a un gioco a mosca cieca. Dovunque cerchi, non trovi. L’epoca, affollata di computer e robot, non ha ricordi. Che senso ha cercare la destra del mercato e del capitale, se non esiste più (non conta niente) il sindacato della lotta di classe? Se sei italiano, però, prima di rispondere alla domanda su destra e sinistra, devi tener conto di un fatto.
L’Italia ha due destre, una di interessi economici e di difesa dei capitali, con la sua visione conservatrice. L’altra destra è ideologica, è fondata sulla violenza e sul potere, che trucca, tradisce, condanna, reprime, se ha il potere. -Qual è la destra che non esiste più, al punto che vi dicono: la parola non ha più senso? Evidentemente la prima, che partecipava al gioco con la sinistra sapendo di avere sempre delle buone carte in mano, ma anche interessata (la pace sociale costa meno) a non rompere i ponti. Il fatto strano, almeno per l’Italia, è che è stata la sinistra ad alzarsi dal tavolo e ad abbandonare il gioco, imperfetto ma funzionante, delle due parti con interessi diversi e la comune convenienza.
Mille convegni non hanno spiegato perché la sinistra se ne è andata o si è sempre più travestita da destra, arrivando a spingere più in là di quel che le imprese volevano. Qui è accaduto un effetto collaterale che forse la sinistra non aveva calcolato: il suo popolo, sentendosi non più rappresentato se n’è andato alla spicciolata, lasciando un largo spazio vuoto. Perché quello spazio vuoto sia tuttora celebrato come “il popolo della sinistra” non si sa.
Certo che se c’è stato un tempo in cui la destra erano Agnelli e Pirelli e la sinistra erano Pertini e Berlinguer, stiamo parlando di un universo perduto. Ora c’è la sala vuota della Confindustria, ci sono i circoli chiusi del Pd e qualcuno ha la faccia tosta di organizzare la Festa dell’Unità dopo avere fatto morire, deliberatamente, il giornale di Gramsci.
Il fenomeno però non è così simmetrico come sembra. Impossibile negare che la sinistra non c’è più, nel Paese in cui domina l’anelito di tagliare le pensioni e diminuire i salari (vedi Fornero e Whirpool).
Ma, delle due destre, ne è rimasta una, quella ideologica e del potere, quella fascista. È viva negli Usa, con il suo presidente che vuole armare gli insegnanti, con il capo dell’estrema destra (alt right) Steven Bannon che è appena un passo dalla Casa Bianca, con i misteriosi contatti con Putin. È viva nei Balcani e nell’Europa dell’Est (dall’Ungheria all’Austria alla Polonia). E dove sembra che non ci sia fascismo compare un Breivik niente affatto povero e marginalizzato, un fascista abbiente e bene armato, che uccide in un paio d’ore cento giovani socialisti di una scuola di partito.
Se pensate che il fascismo, per tornare a crescere, abbia bisogno di un popolo abbandonato dalla sinistra, ecco l’idea: dedicarsi a diffondere e far crescere la paura dell’immigrazione. Gli stranieri sono gente impura, non cristiana, sconosciuta, diversa, con cui vorrebbero obbligarti a dividere la vita fino a sottometterti. Poiché questo è ciò di cui bisogna occuparsi, anche con la forza, se necessario: qualcuno sta organizzando l’invasione di una immensa quantità di stranieri in Italia e dunque sta creando un grave pericolo per la pura razza italiana.
Se pensate di non aver notato nulla di così sconvolgente, ma solo povera gente terrorizzata da fame, guerra e dal pericolo di annegare in mare, se temete che ci sia una falsificazione o una esagerazione dei dati, ecco la vera notizia, il complotto. Come aveva previsto Umberto Eco ne Il pendolo di Foucoult, ne Il cimitero di Praga e nel bellissimo testo Il fascismo eterno, arriva la notizia del complotto.
Qualcuno trama per la sostituzione dei popoli, i neri (i neri!) prenderanno, qui, nel nostro Paese di pura razza italiana, il posto dei bianchi. Naturale che i popoli non si sostituiscono da soli. Ci vuole il miliardario canaglia che, come è naturale in un mondo fascista, è ebreo. Si tratta di un certo Soros, e anche se persino Minniti o Salvini o Meloni o Lombardi (il cuore d’oro del M5S) non hanno ancora rivelato la causa di questo complotto (ci impongono di accettare nuovi schiavi o nuovi padroni?), il complotto c’è e vi partecipano persino (quando non sono in Siria a salvare bambini o in mare a salvare naufraghi) le Ong, compresi i “Medici senza frontiere” onorati dal presidente della Repubblica. E l’invasione continua. Non dite vanamente che l’invasione non c’è. Nessun partito importante in queste elezioni vi starebbe a sentire.
Abbiamo dunque alcune certezze. La sinistra non c’è. Ma la destra, con il coraggio di dirsi fascista, c’è e conta.
La frase finale di Berlusconi
risponde Furio Colombo (il Fatto, 14.05.2013)
CERTO, IL COMIZIO di Brescia in difesa di un imputato di reati gravi, condannato per reati gravi, in attesa di imminente sentenza per reati gravi, appena raggiunto da un rinvio a giudizio per reati gravi, non era né una festa né un evento politico. Il fine era chiaro e indiscutibile: creare una barriera insormontabile, tra un imputato e i suoi giudici. Lo ha fatto il capo di quello che, al momento, risulta il partito più grande.
E quel capo ha mobilitato per l’occorrenza il ministro dell’Interno e vice primo ministro, mentre sta governando in una presunta “grande coalizione” con un partito che dovrebbe essere il principale antagonista. Purtroppo non ci sono segnali dal governo di coalizione, non ci sono segnali dal partito antagonista, e i media trattano la materia come una notizia interessante, ma non meritevole di allarme, di denuncia e di condanna. Così i cittadini sono autorizzati a pensare che forse è normale che tutta la forza di un esecutivo (uno dei tre poteri della democrazia) venga lanciato contro la magistratura, ovvero un altro potere indipendente, nel silenzio del terzo potere, il Parlamento.
Per capire il rischio che stiamo correndo, si riveda la frase conclusiva del monologo di Berlusconi, nel suo comizio a due piazze (una gremita di sostenitori più o meno spontanei, l’altra di disciplinati obiettori).
La frase era: “Nessuna sentenza e nessuna prepotenza della magistratura potrà impedirmi di essere capo di un popolo che mi elegge con milioni di voti”. Non parlava di legame ideale o affettivo. Dichiarava la superiorità dei voti sulle sentenze, come se ci fossero democrazie in cui il votato non è più come tutti gli altri, ma qualcuno esente da ogni giurisdizione e giudizio. Ovvio che Berlusconi non parlava di democrazia, parlava di sé e del suo progetto di rivolta, in caso di altre condanne. E ci ha ricordato che non gli si può rimproverare il sotterfugio.
Berlusconi si comporta da fuorilegge e lo dice prima. Eppure, non vi sono risposte politiche o risposte istituzionali. E i segnali non sono buoni. La giudice Fiorillo ha visto segnato il fascicolo della sua carriera da una censura del Csm per avere smentito quanto detto da Berlusconi e quanto dai complici sulla vicenda Ruby. Berlusconi ha potuto tenere il suo comizio di minaccia alla Repubblica senza che seguisse, per decenza, almeno un “pacato” cenno di dissenso.
Sanguineti, l’erudizione all’avanguardia
di Bruno Pischedda (Il Sole-24 Ore, 12 dicembre 2010)
Poco è trascorso dalla morte improvvisa di Edoardo Sanguineti, e puntualmente, grazie a una curatela precisa (ho notato solo un Finnegan’s wake con il singolare erroneo), Erminio Risso ne raccoglie un’ampia miscellanea di scritti dalla metà degli anni Cinquanta sino a noi. Cultura e realtà è il titolo del volume, ricco di letteratura, arti, musica, teatro: tutte materie che l’artefice di Laborintus affrontava in cataloghi di mostre e riviste come «Marcatrè», «Nuova Corrente», «Il Verri»; quindi da autorevole dispensatore di sapere entro saggi sparsi, convegni, dotte prefazioni. Vi fa spicco, e non poteva essere altrimenti, l’attitudine eversiva della sua parola critica, che particolarmente in letteratura si compiace di anticipazioni anacronistiche e ribaltamenti. Il Satyricon di Petronio, per dare qualche esempio, come forma menippea dell’antiromanzo moderno; Petrarca non già nume fondatore della lirica moderna, ma "sublime epigono", maestro sommo che ricapitola il Medioevo («I Fragmenta sono una pietra miliare. Ma sono tali in quanto pietra tombale»). E ancora, Leopardi filosofo "reazionario", con buona pace di Cesare Luporini; Campana post-continiano, fuori e oltre la deficitaria dicotomia tra poeta visivo e poeta veggente; Pound contro Eliot (lo "schianto" dell’uno in rapporto alla "lagna" dell’altro); Verga dei racconti milanesi riletto con puntiglio sulla falsariga di Brecht e del suo effetto straniante.
Non è senza significato se in un avanguardista d’impegno come Sanguineti il trattamento della poesia e delle poetiche («dico la poetica per intendere l’ideologia») prevale di gran lunga sulla tradizione del romanzo. L’epistolografia, la diaristica, al massimo la forma narrativa breve gli fanno da timone quando si addentra nel territorio della prosa. Eventualmente l’autoriflessione d’autore e gli elementi di consapevolezza programmatica e procedurale, in un arco che appunto dal Petrarca giunge sino a Landolfi e a Petrolini, magistrale saltimbanco e vero campione della "meta-recitazione". Ma soprattutto colpisce nella raccolta il desiderio di ricapitolare esistenzialmente, di fare punto in età matura e di darsi ragione di un tragitto intellettuale che si può ben dire novecentesco.
Fa bene l’editore a mettere in controcopertina il motto forse più istruttivo del volume: «Gli anni di apprendistato continuano per tutta la vita». Così da suggerire che nella sfera del moderno si attenua di molto la circostanza iniziatica a tutto favore di un acquisto sempre inconcluso. Da osservare, se mai, è che in un «tenace razionalista» come Sanguineti (così si definisce) proprio il processo di autocostruzione intellettuale procede tramite un’ininterrotta serie di avventure epifaniche, di lampi improvvisi, utili a rifondere il dato etico e politico nel più ampio mare dell’estetica. A dieci anni l’incontro con Fedele, giovane operaio ed emblema di un’alterità vivente, ossia «la rivelazione che esistevano persone al cui mondo non partecipavo, e che erano, in qualche modo, di un’altra razza». Nel 1947 l’apprezzamento del Dom Juan, giunto a Torino per la resa scenica di Louis Jouvet: «la prima rivelazione di una autentica grandezza teatrale»; le susseguenti e inattese simpatie per gli irrazionalisti maggiori: «da giovane fui incantato da Nietzsche, poi da Kierkegaard, poi da Schopenhauer, poi da Heidegger»; quindi l’approdo entusiasta all’etnologia di Vittorio Lanternari e alla sua opera capostipite, La grande festa, del 1959, «uno di quei testi che bene o male hanno deciso della mia interpretazione del mondo, e anzi, se così posso dire, del mio modo di stare al mondo». Sembrerebbe un percorso noto, generazionalmente condiviso, e solo eccentrico per la quota di circolarità radicale che viene manifestando.
Giovane adepto del Carducci giacobino, e di Campana come protagonista di un salutare «ritorno al disordine», Sanguineti assume presto un costume da «stalinista molto rigido», poi da seguace «filocinese», in seguito è parlamentare eurocomunista; per approdare infine, scomparso il Pci e crollato il muro di Berlino, a una rinnovata forma di ribellismo eslege. «Tutto ciò che nella modernità trascorsa ha avuto senso e peso e rilievo - scrive - si è sempre fondato in qualche modo sopra una pulsione radicalmente anarchica e se non altro anarcoide». Persiste insomma il gusto «del rischioso e dell’imprevedibile», però venato da una screziatura di alacrità pessimista, particolarmente quando si giunge al nodo dell’ideologia. «Io - prosegue - uso la parola positivamente»; e se è pur vero che «a questo mondo non ci sono che false coscienze», il massimo che si potrà fare è agire con tenacia lucida per crearsene una, senza lacune o tradimenti improvvisi.
Diverso in ogni caso è il ragionamento se ci spostiamo sul piano del metodo di analisi (letterario, culturale in genere) e sulla visione complessiva che Sanguineti ne trae. Anche in questo caso non può sfuggire il senso di un percorso: da un momento prioritario nutrito di Brecht, Artaud e di sociologia neomarxista: Goldmann, e magari Escarpit, il nostro Giuseppe Petronio, Hauser, Argan; ecco affiorare i contributi più canonici di Spitzer e soprattutto di Curtius, della critica psicoanalitica, della filologia: Mauron, Roncaglia. L’atteggiamento con cui si dedica a questi scritti è certo diversificato: psicocritico da un lato e attento alle fonti e alla topica generativa dall’altro. Sul terreno dell’interpretazione, osserva, mutuando un celebre motto di Debenedetti, «nessun coltello è da sottovalutare, quando serve ad aprire l’ostrica».
Ma è davvero arduo non vedere il vero collante che tutti questi metodi tiene insieme, ovvero il formidabile e quasi reattivo, polemico eruditismo. Due linee sembrano disegnarsi in definitiva: da un lato l’ampliamento multidisciplinare, come per tanta parte dei letterati impegnati a lui coevi (antropologia, folclore, sociologia, filosofia). E dall’altro una competenza libresca, anche la più minuta, che vale a surclassare qualunque obiezione di ideologismo ristretto. Insomma quel sale enciclopedico e nozionistico che un antico sodale come Eco, uomo in palandrana anche lui, scioglie nello humour accattivante, nel divertissement alla portata di (quasi) tutti, e che invece Sanguineti porge in modo grave, secondo un accademismo accurato e inappellabile.
A colui che intendeva fare dell’avanguardia un’arte da museo, sempre più va sostituendosi l’estimatore del museo e delle opere che vi sono custodite. In uno scritto fondamentale del 2002 annota: «è classico tutto ciò che sopravvive a un medioevo», alludendo con l’articolo determinativo al nostro oggi, che della vecchia barbarie sembrerebbe il duplicato. I classici, prosegue, «ammaestrano, documentatamente, intorno alla dialettica storica, e ci orientano in un autentico storicismo assoluto». Ma il punto, per concludere in battuta, è che di questo storicismo noi non sapremmo cogliere né l’assoluto né eventualmente il dialettico. Soprattutto se poniamo mente a uno dei saggi più ambiziosi e forse più deboli della compagine: lo scritto titolato Per una teoria della citazione (anno 2001), dove è riletta l’intera tradizione d’occidente in forma di recupero intertestuale, senza fasi distinte, articolazioni di merito, modalità accentuate. Un saggio che fa il paio con altra sentenza, o boutade, datata 1997, secondo cui «il sogno di Benjamin di un libro fatto di sole citazioni è un sogno che riassume in sé tutta la modernità, la pulsione della modernità». A un così netto riduzionismo, corrisponde, poi, e pure questo era da aspettarsi, una singolare afasia quando arriviamo alle poetiche del recupero neonarrativo: «Nessuno sa bene - dichiara - che cos’è il postmoderno». Tanto erudito pare insomma Sanguineti, ed è; quanto curiosamente disinteressato, e anzi bizzoso, dinnanzi alle tendenze letterarie delle decadi a noi più vicine. Si capisce la difficoltà, la remora ad affrontare una materia davvero bruciante sotto il profilo post-novecentista e post-sperimentale. Proprio qui, tuttavia, si sarebbe desiderata da una così grande figura di intellettuale e poeta qualche breve parola, magari non assoluta, ma storica.
La rivoluzione francese secondo Wu Ming
Di nuovo storia e finzione per il collettivo
di Ranieri Polese *
Nel 1883, per ricordare la vittoria francese di Valmy (20 settembre 1792) sugli eserciti di Austria e Prussia, Giosuè Carducci componeva i dodici sonetti del Ça ira. In cui, italianizzando nomi francesi (Tuglierì, Ostel di città, Abbadia per Tuileries, Hôtel de Ville e la prigione dell’Abbaye), celebrava la battaglia che aveva salvato la Rivoluzione. E in una nota scriveva: «Oggi è vezzo (...) voler abbassare e impiccolire la rivoluzione francese: con tutto ciò il Settembre del 1792 resta pur sempre il momento più epico della storia moderna». Non aveva paura, Carducci, a esaltare pure il linciaggio della dama di compagnia della regina, la principessa di Lamballe, la cui testa su una picca venne portata sotto la prigione del Tempio. Già dodici anni prima, nella fase più radicale della sua fede giacobina, aveva scritto Versaglia in gloria della grande Rivoluzione. Anche qui, nomi francesi italianizzati (Occhio di bue per l’oeil de boeuf della reggia che, appunto, diventa Versaglia) e la celebrazione degli eventi rivoluzionari come la decapitazione del re, giusto castigo per i secolari delitti di cui si era macchiata la monarchia francese.
All’epoca, all’indomani della sconfitta di Sedan (1870), la Terza Repubblica in Francia operava una drastica revisione della Rivoluzione, condannando senza appello i giacobini, il Terrore, il radicalismo di Robespierre. E il giacobino Carducci protestava con i suoi versi. Oggi, contro le nuove revisioni storiografiche della Rivoluzione, il collettivo di scrittura Wu Ming ci propone un denso romanzo che inizia con l’esecuzione di Luigi XVI (21 gennaio 1793) e si ambienta nei mesi del Terrore, per arrivare, dopo la caduta di Robespierre il 9 Termidoro (27 luglio 1794), alla sconfitta finale del popolo di Parigi nella primavera del 1795. L’armata dei sonnambuli si dichiara subito dalla parte dei sanculotti, dei repubblicani dei grandi sobborghi popolari. Sono loro che appoggiano il governo di Robespierre anche nelle sue estreme decisioni (la messa a morte di Maria Antonietta, Danton, Desmoulins, Hébert), seppure criticando il mancato approvvigionamento di cibo e l’impunità degli accaparratori.
Sanno comunque che quando la ghigliottina smetterà di funzionare, per i sanculotti, gli operai, i miserabili sarà la fine: tornerà lo strapotere dei ricchi. E i Wu Ming si ricordano giustamente di una celebre pagina della Storia della rivoluzione francese di Jules Michelet, quella che racconta come, dopo la morte di Robespierre, le strade si popolano di Incroyables, i muscadins profumati che ostentano lusso e disprezzo e danno man forte alla repressione dei movimenti popolari.
Storia & invenzione Abile combinazione di fatti storici e personaggi di fiction, il romanzo dei Wu Ming segue le vicende di alcune figure d’invenzione: Marie Nozière, operaia del Faubourg Saint Antoine, e suo figlio Bastien; la guardia Treignac; l’attore Léo Modonnet (in realtà è l’italiano Leonida Modenesi, venuto a Parigi per incontrare Goldoni che vi risiede dal 1762); il buon medico Orphée d’Amblanc. Contro questi personaggi positivi spicca la figura di Monsieur Laplace, vera incarnazione del Male. Ospite dell’ospedale di Bicêtre, Laplace è in realtà un nobile, il cavaliere d’Yvers, che aveva tentato di salvare il re prima del suo arrivo sul patibolo. Scoperti, i congiurati vengono catturati o uccisi, ma Yvers si salva e si rifugia sotto falso nome nel manicomio. Dove esercita i suoi poteri magnetici, con la tecnica del dottor Messmer.
Fenomeno di gran moda negli ultimi anni dell’Ancien Régime, il mesmerismo può essere un metodo di cura a fin di bene (il dottor d’Amblanc se ne serve con i suoi malati) ma può anche diventare il mezzo per soggiogare la volontà di singoli individui e pure di gruppi di persone. Yvers, infatti, crea in questo modo una squadra di sonnambuli che invia a seminare il terrore nei faubourg popolari. E quando il governo giacobino viene abbattuto, le squadracce di ipnotizzati si scatenano contro chi prepara l’ultima resistenza sanculotta. Solitario vendicatore, l’attore Modonnet, coperto dalla maschera di Scaramouche, li sfida nel tentativo di frenare la violenza reazionaria.
Linguaggio & feuilleton In contrasto con la lunga tradizione romanzesca che ha narrato gli anni della Rivoluzione con un deciso orientamento reazionario (da Balzac, Les Chouans, ad Anatole France, Gli dei hanno sete, da Dickens, Le due città, alla Baronessa Orczy, La primula rossa; e il cinema non è stato da meno, con i film strappalacrime su Maria Antonietta), i Wu Ming optano per il feuilleton, Sue e Dumas naturalmente. I personaggi popolari - Marie, Bastien, Treignac - ricordano invece I miserabili di Hugo. Una scelta, comunque, quella del feuilleton che, oltre a regalare le migliori pagine del romanzo, ribadisce la scelta di campo dei Wu Ming dalla parte del popolo.
Quanto infine al linguaggio, L’armata dei sonnambuli, fra documenti d’epoca e capitoli avventurosi, dedica largo spazio a una scrittura che vuole imitare (inventare?) un parlato sanculotto. Che è un misto di gergo dialettale infarcito di parole francesi italianizzate con un certo oltranzismo. Tegolerie per Tuileries, Sant’Onorio per Saint Honoré, Ponte Nuovo per Pont Neuf, foborgo per faubourg. E forse in questo pastiche si coglie la riprova di un omaggio a Carducci, al Carducci cantore della Rivoluzione, oggi del tutto dimenticato, travolto nel generale rifiuto che ha colpito da tempo tutta la produzione del poeta.
Ranieri Polese
* FONTE: LA LETTURA - CORRIERE DELLA SERA.
Magazzino Sanguineti. Gli inediti, le curiosità.
Le sue opere scritte, poesia o prosa, sono tutte pubblicate e gli studi su di lui appartengono alla critica e alla letteratura specialistica. Fuori dall’ambito strettamente scientifico, però, in questo sito si possono trovare immagini e notizie, commenti inèditi e exempla delle decine di migliaia di lettere ancora inèdite custodite nella sua casa, fotografie di zone e oggetti della casa stessa, l’elenco di mille tra cassette e dvd scelti e acquistati in un arco temporale lungo quanto la stessa storia del cinema, e molto altro ancora.
Per tutto il prezioso materiale raccolto e fotografato, che in qualche modo sottrae all’oblio anche qualche momento della vita, del quotidiano, degli affetti del poeta, un vivo ringraziamento va alla signora Luciana Sanguineti che ha messo a disposizione con pazienza la propria casa e buona parte dei contenuti perché si potesse realizzare questo sito. Un grazie anche al prof. Federico Sanguineti, che ha voluto mettere a disposizione dei dantisti di tutto il mondo il materiale di commento ai canti 1-26 del Purgatorio che erano di sua proprietà.
Il sito comprende quattro voci principali, ognuna delle quali ha sottovoci interessanti o, a volte sorprendenti. E’ un sito ‘in progress’ che sarà ancora arricchito e in qualche parte completato.
segnalo agli amici di sanguineti questo lavoro in omaggio, svolto con grande passione e contenente moltissimi documenti rari e inediti:
http://www.edizionijoker.com/Pagine%20libri/LCC%20-%20Temperamento%20Sanguineti%20-%20AA.VV.html
per info: dir.edit@edizionijoker.com per ordini: ordini@edizionijoker.com
EDOARDO SANGUINETI. E’ MORTO EDOARDO SANGUINETI, UN GRANDE SPIRITO LIBERO.
Lo scrittore ligure esamina i meccanismi del Comico al centro di una rassegna
Homo ridens
Quel riflesso primordiale addomesticato dalla società
Ma nel mercato planetario far ridere è arma di potere
di Edoardo Sanguineti *
L’uomo è l’animale che ride. So benissimo che molti etologi alla Lorenz, e una quantità di «-ologi» senza fine, sono pronti a smentirmi con infiniti argomenti. Ma devo confessare che, personalmente, inclino a schierarmi con quel saggio autore della vita del grande Gargantua, padre di Pantagruel (libro pieno di pantagruelismo, diceva), il quale, rivolgendosi ai propri lettori, ricordava che è meglio scrivere di riso che di lacrime, perché ridere è ciò che è proprio dell’uomo. Nel testo, Rabelais proclama, meglio e più precisamente, che appunto «mieux est de ris que des larmes escrire, pour ce que rire est le propre de l’homme».
Mi piace dire, e lo dico ad ogni occasione propizia, e anche quando propizia non è, che l’uomo nasce animale, e con molta pena e travaglio, suo e di chi lo umanizza, o si sforza di farlo, si fa umano, trasferendosi dalla sua naturale animalità alle sfere della società e della storia. Quest’operazione, per un groddeckiano come sono, dà risultati modestissimi. Ma l’orizzonte della cultura, che si giuoca per intiero tra Eros e Thanatos, non ha contenuti diversi. Chiunque abbia la pazienza di osservare un neonato, un bambino, un infante qualunque, sa perfettamente che un riflesso banale quale è il sorriso viene addomesticato, o vogliamo dire umanizzato, battezzandolo come sorriso. Che sia un effetto di mera soddisfazione digestiva, un segnale radicato più o meno in comportamenti gastrici, mi appare ipotesi ragionevole, e statisticamente diffusa. Chi ha voglia e pazienza, può impegnarsi anche nell’interpretazione di quel «risu cognoscere matrem », cui si esorta il «parvus puer» di Virgilio.
Ora, dicano tutti i filologi quello che vogliono, per me, ostinato, l’espressione è intenzionalmente ambivalente. Il «puer» si fa la sua smorfia, e la madre (o chi non vuole fabbricarsi un «enfant sauvage» con poca spesa) ride a quel riso, innalzando a un livello superiore tutto quello che è apprestato, da infiniti preamboli importantissimi, nella lunga preistoria uterina. Un mio recente nipotino trienne, anagrafato come Luca, mi ha concesso di ripassare quanto avevo appreso da quattro paternità, e anche da svariate osservazioni meno coinvolgenti e per così dire, disinteressate.
Allora, quell’equivoco civile che si produce tra un ridere infantiloide e un ridere maternoide, è poi la base per cui il plasmabilmente umanoide in divenire è spronato a mimare, da buon mimoide qual è, il dilettoso ridere nostrano (o, per essere più scrupolosi, quello della tribù alla quale appartiene).
Chi ha sfogliato anche soltanto un po’ certe pagine del grandissimo Mauss, intorno alle tecniche del corpo, che invito a mandare a mente e a divulgare con ardore, sa che ogni gruppo umano ha un suo modo specifico, nel ridere, e oggetti di riso che sono assolutamente caratterizzanti. Nell’età della globalizzazione compiuta, rimescolandosi i codici comunicativi internazionalmente, si può speculare, a fini economici (connessi ai valori pubblicitari, come è noto): il riso si omogeneizza nel mercato planetario e diventa contagiosamente poco meno che terrestre, con quegli effetti di risate indotte, talora dal pubblico a ciò ostentatamente ormai invitato sul piccolo schermo, e altre volte, che è cosa più forte, incorporato nel sonoro televisivo, impudicissimamente. L’utente solitario, così, è trascinato sopra una piazza spettacolare, e trova sodali immaginari mirabilmente predisposti.
Detto in altra maniera, i dialetti del ridere muoiono di morte artificiale, come quelli verbali, salvo che per alcuni reazionari nostalgici, che intendono serbarsi idioti, nell’accezione grecizzante del vocabolo, e di qui pronti a transitare in comunità in cui il vocabolo diventa indizio di patologia mentale, come avviene nell’uso e nelle locuzioni correnti. Ma si può giungere, volendo, alle più sottili sfumature localistiche, da cui, infine, si deduca un motto del tipo: dimmi, tu che mi ascolti, se mi ascolti, come ridi, e di che, e ti dirò chi sei.
E ho fiducia nel consenso unanime degli analisti, se non di altre e più vaste complicità. La umanizzazione della bestia che abita in noi, a farla breve, è che, un po’ alla volta, l’infante che ride perché infetto degli adulti a siffatto costume, apprende dagli adulti, con tutti gli altri codici comunicativi, quello del ridere con garbo e proprietà, per quel che l’ambiente socio-politico- ideologico gli prospetta e gli censura. Chi riesce a farti ridere, quello già ti possiede, in certa misura, perché, infine, ti seduce.
Ogni seduttore sa bene che, per conquistare l’oggetto vivente del desiderio, si tratta, dosando bene le scelte, le situazioni, le dosi, di muoverlo al riso o al pianto. Chi si guarda dal politico che, come iena temibile, va barzellettando, si avvia, per questo stesso fatto, sulla lunga strada della libertà. Dai leoni non è difficilissimo guardarsi, per noi, poveri uomini, ma dalle volpi amene occorre prendere prontamente le distanze, con quell’onestà decorosa che giova al buon cittadino.
Edoardo Sanguineti
* Corriere della Sera, 18 maggio 2010
Pantheon, Sanguineti tra i grandi *
Edoardo Sanguineti, il poeta e intellettuale scomparso martedì, sarà sepolto nel mausoleo del cimitero monumentale di Staglieno. La scelta parte dal sindaco, Marta Vincenzi. «Pensiamo che lui avrebbe gradito - dice - porteremo la decisione in giunta e sarà il Consiglio Comunale a ratificarla».
Oggi alle 14 verrà eseguita l’autopsia sul corpo del poeta, poi, nel tardo pomeriggio, è previsto l’allestimento della camera ardente nel Salone di Rappresentanza di Palazzo Tursi. Chi vorrà potrà portare il suo omaggio a Sanguineti a partire da domani. Alle 16, sempre a Tursi, Niva Lorenzini - amica di Sanguineti e docente di Poesia italiana all’Università di Bologna - su espressa indicazione della famiglia terrà l’orazione funebre.
Le spoglie del poeta riposeranno nel Pantheon del cimitero di Staglieno, accanto a quelle dei personaggi che hanno fatto grande Genova: Lorenzo Pareto e Stefano Canzio, Domenico De Ferrari e Carlo Barabino, Giovanni Battista Resasco, Nino Bixio, Giovanni Bombrini e Vito Elio Petrucci.
Conversando con Edoardo Sanguineti
Poeta e scrittore
«Questa Italia scoraggiata è finita nelle mani dell’uomo delle tende azzurre»
La sinistra scomparsa: «C’è stata una generazione che ha voluto cancellare la storia in modo dissennato»
Il potere di Berlusconi: «Con le tv nasce un avveduto affarista che si è comprato l’Italia e fa di tutto per dominarla»
Il poeta e l’operaio: «Per me è cambiato tutto quando, giovane borghese, conobbi un vero operaio. Capii che era parte di un altro mondo. Quell’operaio aveva il fucile ed era un partigiano. Allora, a Torino, sono diventato materialista».
intervista di Pietro Spataro (l’Unità 12.04.2009)
In tv continuano a scorrere le immagini del disastro dell’Abruzzo. Le case sventrate, le chiese ferite, le bare allineate, gli sfollati spersi. «È terribile», dice Edoardo Sanguineti. «È terribile vedere come certi edifici siano finiti in briciole e abbiano portato la morte. Eppure dovevano essere garantiti dal rischio sismico...».
Si ferma un attimo poi aggiunge con tono polemico: «E davanti a questa grande tragedia c’è chi cerca di ricavare consenso dalle tende azzurre...». A Edoardo Sanguineti, poeta e saggista acuto e ironico, Berlusconi non è mai piaciuto e non lo nasconde. Non gli piace per niente, oggi, quella continua esibizione di sé tra le rovine dell’Aquila. Proprio il terremoto - il segno di questa Italia vulnerabile e sofferente - è il punto da cui partiamo per ragionare su di noi e sul futuro.
Allora, Sanguineti un disastro ineluttabile quello dell’Abruzzo?
«Non credo proprio. Diciamo che non c’è stato controllo. Come è stato possibile che l’ospedale, la prefettura, la casa dello studente siano venuti giù in quel modo? Come è possibile che chi era lì per studiare non abbia avuto la minima garanzia di sicurezza? Che fine hanno fatto le leggi sul rischio sismico? È tutto terribile e dimostra a che livello di degrado siamo arrivati. Meno male che di fronte all’emergenza almeno una certa risposta di solidarietà c’è stata...»
L’emergenza mostra sempre il lato migliore degli italiani. Ma secondo lei nella normalità l’Italia di oggi non è invece cinica e indifferente?
«Io direi che questa Italia è molto scoraggiata. È caduta ogni fiducia, ormai si dice solo “spendete e spandete”. Ma questo scoraggiamento va oltre i nostri confini. La globalizzazione infatti sta mostrando i suoi effetti perversi. C’è un mondo pieno di proletari che non sanno di esserlo e la coscienza di classe si è persa. Ormai la pratica sociale più diffusa è il mobbing».
Eppure solo qualche anno fa ci dicevano che il capitalismo era trionfante...
«E invece nel momento di massimo splendore il capitalismo entra in crisi. Ma attenzione, perché vedrete che reagirà e lo farà con durezza. Però, possiamo dirlo: aveva ragione Marx. Basta vedere come nelle nostre città si aggirano masse disperate e ricchi spaventosamente ricchi per i quali non ci sono limiti. Rileggere Marx, questo dobbiamo fare se vogliamo riorientarci. Dico Marx, ma anche Gramsci e Benjamin: credo possano ancora aiutarci».
Qualcuno dice che è fallito un modello, quello del consumismo. È d’accordo?
«Certo. Ormai siamo cittadini non più di una Repubblica fondata sul lavoro ma di una Repubblica fondata sulla concorrenza spietata. Quando il consumo è tutto la Costituzione può essere rovesciata come un guanto. È quel che dice il nostro premier».
Insomma ha vinto Berlusconi?
«Sì, ha vinto violando, tanti anni fa, le norme sulle tv. Lì è nato un avveduto affarista che costruisce il suo apparato di persuasione. La tv non serve più a insegnare a leggere e a scrivere come faceva il maestro Manzi, né a formare una coscienza critica. La tv si occupa di questioni di letto, di grandi fratelli. E allora Berlusconi diventa un modello. Appunto: è l’uomo che ricava consensi dalle tende azzurre del terremoto. Le tende azzurre sono il simbolo del berlusconismo. Si è comprato il paese e utilizza ogni mezzo per dominarlo: il suo è un modello nazional popolare».
Che arriva persino all’uso delle ronde contro gli immigrati...
«Anche le ronde sono espressione di un paese arcaico. Un paese che non è più in grado di sopportare la presenza di chi non è noto. Non si tollera lo straniero e allora si occupa il territorio. È un elemento spaventoso della nostra storia recente».
Un vero disastro. E la sinistra dov’è finita?
«E chi lo sa... La sinistra è scomparsa in tutte le sue forme. E non solo nei suoi tentativi di trasformazione dopo gli errori di Occhetto. C’è stata una generazione dissennata che ha lavorato per cancellare la propria storia. E Berlusconi infatti si presenta come il salvatore dal comunismo. All’opposizione dice: arrendetevi. Tutto questo fa impressione».
Insomma non c’è speranza?
«Ma no, mantengo sempre una disperata speranza nella sinistra. Ma devo dire che è sempre più flebile».
Qualche segnale positivo ci sarà pure. Per esempio, i ragazzi dell’Onda. O il sindacato. Non sono un po’ di luce in mezzo al buio?
«Il sindacato sì. La Cgil sì e non solo per la bella manifestazione del Circo Massimo. L’Onda invece no, assolutamente. Ho visto in quel movimento una spaventosa depoliticizzazione, non sanno proprio quel che vogliono. C’è solo tanto individualismo».
Per fortuna che c’è Obama allora. Persino Ingrao dice che è l’unica grande novità...
«Non sono d’accordo con Ingrao. Certo Obama mica è da buttar via, un nero alla Casa Bianca, o un abbronzato come dice qualcuno, è una novità. E ci sono elementi positivi nei suoi primi passi. Anche una certa spinta utopica. Il punto è: chi rappresenta e quali classi? Non dimentichiamo che l’America non ha mai conosciuto la lotta di classe».
E se invece Obama riuscisse laddove la sinistra ha fallito, cioè cambiare il mondo?
«È possibile, è possibile. Ma io non ci credo, non credo che l’America cambierà mai. Un paese nato con una Dichiarazione di Indipendenza così arcaica e conservatrice dove può andare? Per me Obama non è una speranza. L’unica speranza resta il comunismo».
Il comunismo è la sua ossessione...
«Ma che cosa c’è d’altro? Il mondo è precarizzato, l’uomo è ridotto a merce. Quando vai in banca ti rendi conto che chi ti serve dietro lo sportello è uno sportello. È un essere docile che obbedisce per salvarsi. Se questo è il mondo bisogna impegnarsi e non solo con le manifestazioni o con le notti bianche. Ho spiegato due anni fa, proprio in occasione di un compleanno di Ingrao, come si diventa materialisti storici, come ci sono diventato io...»
E come ci si diventa?
«Con gli operai. La mia storia di materialista comincia con un operaio. Per me, bravo ragazzo borghese, tutto è cambiato quando ho conosciuto un operaio per la prima volta. Eravamo in guerra, lui si è fermato e ho capito che era parte di un altro mondo. L’ho visto poi con il fucile in spalla il giorno della Liberazione: l’operaio era un partigiano. Abitavo a Torino, tutto è cominciato da lì».
Un verso della sua raccolta “Postkarten” dice: “la poesia è ancora praticabile probabilmente”. In un mondo così a che serve la poesia?
«Serve a scrivere poesie che guardano il mondo con ottica comunista. Guardano il mondo, lo raccontano, lo interpretano».
Qual è il poeta che ha capito meglio il carattere degli italiani?
«Sicuramente Dante anche se era un feroce reazionario. Lui ha capito che il mondo era cambiato, che la borghesia era in ascesa, ha capito che la storia aveva avuto una svolta irreparabile. Insomma ha capito meglio di altri il disordine del mondo».
Sanguineti, qual è il leader della sinistra a cui si è sentito più legato?
«L’ultima persona sana è stato Berlinguer. Poi certo la sua impresa è fallita. Ma è fallita perché sono arrivate le armi. Hanno rapito Moro, sono cominciate le sedute spiritiche e il progetto si fermò».
Quale lezione ha lasciato Berlinguer?
«Berlinguer diceva allora una cosa semplice e forte: far soldi non è lo scopo dell’esistenza. C’è ancora qualcuno che lo dice? Mi pare di no e infatti guardate dove siamo finiti».
Ancora comunista, ancora avanguardista: insomma fedele a se stesso?
«Una volta mi chiesero quale fosse la mia migliore qualità e quale il mio peggior difetto. Risposi: l’ostinazione. Mi ostino, come Berlinguer, a dire che non si vive per accumulare ricchezza e penso che la nostra Repubblica è fondata sul lavoro e non sul consumo. Qui invece ti dicono grazie solo perché consumi. E allora io ripeto: no grazie. E mantengo la mia ostinazione».
Ha descritto un quadro fosco: quindi è pessimista per il futuro?
«Userei questa espressione: ottimismo catastrofico. Certo che è un dovere essere ottimisti, come si fa. Però, devo essere sincero: non scommetterei un soldo sull’ipotesi che il mondo così com’è duri altri cinquant’anni. Forse ce ne andremo su Marte. Ma costa troppo, vedrete che non si farà».
Dall’Inferno al Paradiso nel Laborintus di Luciano Berio
di EDOARDO SAGUINETI (l’Unita’, 9 novembre 2008) *
In casa non ho mezzi per ascoltare i dischi. Ho invece molte cassette, pero’ ho poco tempo per sentirle. Devo dire che nel tempo ho raccolto una tale quantita’ di musica che per sentirla tutta dovrei vivere quanto ha vissuto Matusalemme. Preferisco vedere i dvd.
Puo’ servire un aneddoto che mi e’ capitato di recente. Ho incontrato un signore, mi pare in Sicilia, che mi ha raccontato di avere moltissime cassette registrate da lui. Ha cose anche molto preziose. Gli ho detto che se le tiene cosi’ in casa sua allora dovrebbe convertirle in compact disc o altrimenti farle girare. E cosa mi ha risposto, lo sventurato? Di non averne il tempo e che quelle registrazioni periranno con lui. Ecco, bisognerebbe avere il tempo per poter ascoltare.
Ho ascoltato musica l’ultima volta una settimana fa per un convegno a Siena su Luciano Berio. Avevo lavorato spesso con lui. Ho fatto ascoltare frammenti di alcune composizioni raccontando come erano nate. In particolare ho parlato di quattro sue opere con testi da me scritti appositamente per Luciano. In ordine di tempo, ho iniziato da un’opera del ’63, anzi piu’ correttamente direi una messinscena, dal titolo Passaggio. Ando’ su alla Piccola Scala.
Poi ho discusso di un’opera del ’65 che si chiama Laborintus II: era un omaggio a Dante composto per la radio francese. Il terzo lavoro si intitola A-Ronne, che vuol dire dall’a alla zeta e risale al 1974. Il quarto pezzo invece e’ parte di un’opera postuma dal titolo Stanze che Luciano ha composto su testi di sei autori, tra cui il sottoscritto, e che e’ stata eseguita nel 2003 a Parigi, dov’era stata commissionata.
Se dovessi dire quale di queste opere scegliere, allora indicherei Laborintus II. Perche’? Perche’ mi pare il coronamento della sua ricerca fino a quel momento: e’ un’opera chiave, di svolta, apre la strada a quanto aveva composto fino ad allora, e’ una sorta di enciclopedia del suo discorso. Ed e’ un’opera fondamentale del secondo ’900, in qualche modo lo riassume poiche’ ambisce a essere un’esplorazione globale del mondo dei suoni in tutte le sue dimensioni. Certo, riconosco che si tratta di una sorta di utopia: contiene l’improvvisazione come il madrigalismo, l’urlo come la melodia piu’ squisita, e’ un’enciclopedia delle sonorita’ possibili.
Non a caso Laborintus II era nata nel ’65 come omaggio a Dante: infatti uno degli elementi tenuti presente da Berio come da me nella preparazione testuale era la volonta’ enciclopedica del poeta di abbracciare tutto il mondo dall’Inferno al Paradiso.
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LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA
Supplemento domenicale de "La nonviolenza e’ in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo,
tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Numero 210 del 5 aprile 2009
Sanguineti, uno stile blob
di GIAN LUIGI BECCARIA (La Stampa, 19/5/2010)
Le prime poesie Sanguineti le aveva scritte nel ’51. Studente prodigio, cominciava giovanissimo a «sabotare» la letteratura con testi provocatori che volevano mettere in crisi le lettere come istituzione storica e come specificità di forme e significati tradizionali: i soliti temi, i generi fissati da tempo con tutto l’insieme di un «immaginario» prevedibile, scontato.
Nel ’56 uscirà Laborintus, seguiranno altri testi di dirompente novità, che gettavano reti dottissime su un profondo disagio esistenziale. Palus putredinis, sezione di Laborintus, alludeva a una palude mefitica come metafora del caos, della palude in cui s’era andato a infognare, a suo parere, l’universo poetico nostrano, tutto ordinato da uno stile troppo sublime. Dirompenti le novità sul piano della forma: sintassi totalmente disarticolata, frasi sospese, interrotte ossessivamente da parentesi, una punteggiatura esorbitante, e tanti incisi, uno scarto violento dall’ordine discorsivo.
Sanguineti era poi passato ad applicarsi ai piccoli fatti veri, «freschi di giornata», come ribadiva nelle Postkarten (1978), minicronache in versi di un reale visto teneramente a frammenti, per discontinuità, dati scrupolosamente nominati e definiti, un catalogo ilare di ciò che ci attornia, un «intorno» che pare privo di profondità e spessore, ma nella sostanza si muove vivo e parlante, in passi di danza. Con un inconfondibile stile blob sapeva tenere a braccetto il basso, il tecnico e l’alto lessico evocativo. Montava straordinarie messe in scena di linguaggi finti, frasi fatte, il tutto costruito come se il linguaggio della comunicazione media non esistesse, o esistesse solo per essere messo in rima, o alla berlina.
La «morale» però c’era (come dice nel Novissimum testamentum). Bisogna cavarla. Ed è restata, nei riguardi della società e nei confronti della storia, sempre lucida, rigorosa, implacabile, ostinatamente immutata.
Il poeta e l’odio di classe
di RICCARDO BARENGHI (La Stampa, 6/1/2007)
La provocazione di Edoardo Sanguineti ha quel suono ottocentesco che non si sentiva da parecchio tempo, un sapore nostalgico che fa anche tenerezza. Dice il Poeta, che però parla da politico visto che si candida alle primarie dell’Unione per scegliere il candidato a sindaco di Genova, che è giunta l’ora di «restaurare l’odio di classe perché i potenti odiano i proletari e l’odio deve essere ricambiato». Facce attonite in sala, ma il Poeta prosegue: «Oggi la merce uomo, il suo lavoro, è la più svenduta e chi dovrebbe averne coscienza, ossia la classe proletaria, non lo ha, inibita da una cultura dominata dalla tv». Parla con cognizione di causa, Sanguineti, lui non è «solo» un poeta ma anche un profondo intellettuale marxista: la materia, anzi il materialismo lo conosce. Ormai tredici anni fa, chi tirò fuori dalla storia l’odio di classe fu un personaggio che, secondo Sanguineti, ha contribuito non poco a «inibire i proletari» sommergendoli con la cultura dominata dalla tv. Fu infatti Silvio Berlusconi, nel suo discorso della discesa in campo, a spiegare che il suo «sogno» era quello di «una società libera...dove non ci sia la paura, dove al posto dell’invidia sociale e dell’odio di classe stiano la generosità, la dedizione, la solidarietà, l’amore per il lavoro, la tolleranza e il rispetto per la vita». Paradossalmente, Berlusconi aveva torto mentre ha ragione Sanguineti. Nel senso che quell’odio di classe, sbandierato e paventato dal Cavaliere ed evocato oggi dal Poeta, non esisteva nel 1994 e tantomeno esiste oggi.
Per fortuna, si dirà. O forse purtroppo, se si toglie alla parola «odio» quella carica violenta che contiene e che allude a rivoluzioni che non sono «un pranzo di gala ma atti di violenza» (Mao Tse Tung). E lo si derubrica a coscienza (di classe), consapevolezza di essere appunto una classe sociale e non un’altra, con una capacità di lottare per emancipare se stessi dalla condizione in cui si è ma senza voler a tutti i costi diventare qualcun altro, saltando il fosso e trasformandosi in poco probabili borghesi. Messa in questi termini, il Poeta non avrebbe tutti i torti. Se non fosse che proprio quel verbo da lui utilizzato non a caso - restaurare - dice che stiamo parlando di un qualcosa che assomiglia a un monumento, se vogliamo un’opera d’arte, forse un vecchio palazzo (d’inverno), insomma di un pezzo di antichità. Il quale, diroccato o restaurato che sia, resterà comunque un testimone del passato. Lo si può visitare, studiare, qualcuno lo potrà anche ammirare o rimpiangere, ma nessuno lo potrà resuscitare. Nemmeno un sindaco poeta.