La malafede non porta da nessuna parte. Se per San Giovanni in Fiore (Cs) vogliamo costruire un futuro migliore, dobbiamo difendere l’autonomia di giudizio. Vanno dunque eliminati l’ipocrisia e ogni volontà di uniformare le intelligenze, di costringere la società a subire narrazioni false e tranquillizzanti, tese a preservare il potere politico e i suoi apparati.
Per quasi 20 anni la politica nostrana ha negato in maniera sistematica l’esistenza di segnali di ’ndrangheta a San Giovanni in Fiore. Lo fece negli anni 2000 dopo il duplice omicidio di un nonno e di un nipotino, dopo gli incendi di vari portoni, dopo l’assurda sparizione di un giovane e dopo l’assassinio di un macellaio e la conseguente morte della povera madre.
La politica bollò quegli episodi come casi singoli e attribuì a un vandalismo minorile taluni fatti invece mirati. Dai consigli comunali e dalle dichiarazioni pubbliche uscì lo stesso pensiero consolante: «Siamo una società sana, un’isola felice in cui permangono i valori di sempre».
Una parte della comunità non ha mai accettato questa sintesi, questa proclamazione dogmatica e insincera. Sia chiaro, prescindo dai recenti arresti di “Six Town”, che non sono il punto del mio discorso né il problema principale. La questione è molto più profonda, e ha precise responsabilità politiche, innegabili. Ogni specie di mafia attecchisce laddove ci sia dipendenza dal potere politico, che ancora oggi condiziona pesantemente il voto. Proprio per questo la Calabria è l’ultima regione d’Europa.
Ieri discutevo con un sindacalista della Cgil, che mi riferiva dei 9 miliardi di euro spesi nell’ultimo ventennio dalla Regione Calabria per finanziare misure di assistenza che non hanno creato un solo posto di lavoro. Ciò è gravissimo e prova che il sistema, come scrivemmo nel lontano 2007 con Saverio Alessio, compra il consenso e il silenzio di interi gruppi familiari. Lo Stato centrale partecipa attraverso l’elargizione di risorse pubbliche che alimentano clientele e voti di scambio. È la solita pratica dei partiti, che priva i territori - come li intendiamo Ida Dominijanni e il sottoscritto - della capacità organizzativa fondata sulle ricchezze proprie.
A livello più locale, invece, bisogna col tempo necessario riflettere sulla gestione dei beni comuni, che spesso sono serviti - e servono - per realizzare profitto privato, senza alcun utile per la popolazione.
Questo è un tema che abbiamo affrontato in grande solitudine, con denunce costanti e puntuali, le quali non hanno modificato d’una virgola la realtà, in quanto il sistema pubblico e civile non funziona, e in larga misura non ha il coraggio dell’intervento. Ma ribadisco: è la politica che orienta le masse. Essa può disporre controlli, annullare provvedimenti illegittimi o chiedere approfondimenti di diritto; il che a San Giovanni in Fiore non è stato mai fatto, neppure per finta.
Mi fa un certo effetto, perciò, l’aver sentito ieri - e dal vivo - lo sbigottimento di qualche assessore per la metafora delle uova che ho veicolato via Facebook, come se avessi voluto organizzare una rivolta di massaie contro il Consiglio comunale. Nel caso, avverto, avrei chiamato Antonella Clerici per la diretta, col gran finale delle «tagliatelle di nonna Pina».
Forse lo stordimento della politica di casa nostra è tale da non riuscire più a distinguere l’ironia, da non afferrare né cogliere provocazioni che accompagnano decine e decine, per non dire centinaia, di suggerimenti personali, di appelli, di proposte di legalità e sviluppo nell’interesse collettivo.
Io a San Giovanni in Fiore ho scelto di viverci, per cui mi adopero ed espongo, per cui fornisco il mio piccolo contributo, e in forma scritta affinché resti traccia. E anche quando ero fuori raccontavo, informavo, discutevo, indicavo direzioni, orizzonti e strumenti possibili, con l’eterno biasimo di una politica lontana dal confronto, come dimostra il tentativo fisso di delegittimare qualsiasi opinione esterna al palazzo, in spregio alla Costituzione e al pluralismo democratico predicato nei salotti del potere.
Dell’assemblea antimafia di ieri, indetta in municipio dal governo locale, mi hanno colpito quattro punti: 1) la mancata convocazione di “La Voce di Fiore”, che al di là delle scuse conferma che il potere non ci sopporta e non ci riconosce alcun ruolo e merito; 2) la scarsa consapevolezza, in generale, dei rappresentanti circa i rischi che corre San Giovanni in Fiore, se al più presto non si attivano politiche per il lavoro vero, atte a ridurre quel vasto precariato che per bisogno di soldi potrebbe perfino ingrossare le fila della criminalità organizzata; 3) l’assenza di un indirizzo specifico da parte della politica; 4) la poca considerazione davanti alla richiesta di ascolto di un giovane disoccupato, che ricordava, a ragione, la necessità di un posto di lavoro per vivere in libertà e legalità.
A un certo punto dell’assemblea il sindacalista Battista Nicoletti, mio vecchio amico, ha inteso di coinvolgermi nella stesura di un documento finale condiviso. La maggioranza locale ha annuito timidamente, pur senza aggiungere dell’altro.
Mi sia concesso, l’attività di “La Voce di Fiore”, e soprattutto le migliaia di scritti che contiene, sono un manifesto di legalità chiaro e programmatico. Se la politica nostrana vuole assumere degli impegni, può farlo in maniera ufficiale. E allora può sottoscrivere quanto di seguito suggerisco, ripetendo concetti già formalizzati in una ventina di anni. Resto in attesa di risposte.
1) Ogni battaglia per difendere la comunità montana di San Giovanni in Fiore parte dall’obiettivo di assicurare lavoro e reddito per tutti, il che comporta che gli eletti e i partiti devono proporre e pretendere un piano concreto per l’occupazione reale, seguendo gli indirizzi indicati nella strategia per le aree interne della politica di coesione 2014-2020;
2) il Consiglio comunale si riunirà in seduta aperta al pubblico entro e non oltre quindici giorni, discutendo in maniera strategica di proposte di legge specifiche per la montagna, a partire dagli incentivi fiscali alle imprese e ai residenti e dalla garanzia dei servizi fondamentali, intanto sanitari, che non possono essere ricondotti agli attuali standard ministeriali, i quali non tengono affatto conto delle difficoltà proprie del territorio montano;
3) il Consiglio comunale si impegna a discutere, entro 90 giorni, delle possibilità di utilizzo dei beni comuni, anche per la creazione di posti di lavoro, aprendosi a contributi critici e propositivi delle associazioni e della società civile in generale;
4) il Consiglio comunale riconosce che la recessione economica e la parallela diffusione della criminalità organizzata nelle aree depresse e nelle aree industrializzate del Paese dipendono dalle politiche monetarie perseguite dallo Stato italiano dal Trattato di Maastricht in avanti, culminate nella ratifica del Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria e nella conseguente, illegittima, introduzione del pareggio di bilancio nella Costituzione repubblicana, che rafforzano l’attuale sistema truffaldino di emissione della moneta a debito da parte della banca privata Bce;
5) per quanto sub 4), il Consiglio comunale approverà, entro e non oltre 60 giorni dalla firma dell’odierno documento, una richiesta al governo e al parlamento nazionali volta a conoscere in che modo intendano tutelare la sovranità popolare prevista dalla Costituzione all’articolo 1, attualmente compromessa anche dal mancato controllo diretto dello Stato in materia di risparmio e di credito;
6) le rappresentanze politiche e delle confessioni religiose locali, le istituzioni scolastiche, le associazioni e le altre forze sociali si impegnano a individuare fondi adeguati per strutturare un programma di iniziative culturali e attività sociali che coinvolgano i più giovani sul tema della legalità, dell’identità meridionale, della salvaguardia e valorizzazione dell’ambiente e del territorio, nonché delle corrispondenti risorse culturali, quale base per la creazione di lavoro e sviluppo effettivi;
7) il Consiglio comunale si impegna a discutere, entro 150 giorni, del costo del denaro nell’area produttiva di riferimento, inviando a tutti i parlamentari della Repubblica una proposta di legge tesa, ai sensi dell’articolo 44 della Costituzione, a disporre provvedimenti in favore delle zone montane, in materia di prestiti bancari.
Emiliano Morrone
emilianomorrone(at)gmail.com
«In Calabria il negazionismo ha due facce»
di Emiliano Morrone*
Possiamo ripeterci che la Calabria è bellezza, incanto, magia; agricoltura, gastronomia, olio e vini eccellenti. Possiamo esaltare l’umanità, l’accoglienza e la generosità del suo popolo. Possiamo dirci dell’antica tradizione della nostra terra, delle fatiche, dei sacrifici e del talento di giuristi locali, medici, accademici, imprenditori e artigiani, emigrati o residenti. Possiamo compiacerci ricordando la scuola pitagorica di Crotone, l’utopismo di Gioacchino da Fiore e Tommaso Campanella, la carità di Francesco di Paola, i natali dello scrittore Corrado Alvaro, del “Nobel” Renato Dulbecco, dello stilista Gianni Versace o del filosofo Ermanno Bencivenga. A compendio possiamo sbandierare le origini calabresi di uno degli intellettuali più famosi, Gianni Vattimo, o di artisti come Steven Seagal, Raul Bova, Chick Corea e John Patitucci.
Nulla cambierebbe la realtà: la Calabria è forse l’ultima regione d’Europa per servizi, diritti e indicatori economici, ma sta in cima per tasso di spopolamento. Qui comandano la ’ndrangheta, la massoneria deviata e una politica immorale che spesso lega cosche e logge. L’amministrazione pubblica è attraversata dalla corruzione; gli incarichi illegittimi fioccano in libertà e buona parte della burocrazia obbedisce ai governanti di turno e relativi faccendieri: “trucca” concorsi, istruttorie, autorizzazioni, concessioni e perfino bilanci. La sanità agonizza, il mare puzza, la montagna brucia, le strade crollano e i paesi muoiono. In Calabria la fantasia supera la realtà: vige un diritto speciale che, plasmato alla bisogna, aggira e sotterra le norme comuni. Non di rado i concorsi sono una farsa, i peggiori occupano posti di responsabilità e i migliori sono respinti, isolati e indotti a partire.
La recente operazione “Stige” (della Dda di Catanzaro) ha confermato la pervasività dell’organizzazione criminale e l’adesione, le aderenze politiche diffuse. E ha ribadito che l’economia è alterata da un sistema, di connivenze, violenza e favori, che aumenta le disparità e la massa proletaria, divisa, costretta alla sopravvivenza e resa inabile alla rivolta.
Il negazionismo ha di solito due facce. La prima è quella dei conservatori integrali, che alle spalle alimentano l’odio verso chi scrive, racconta, denuncia, esorta, ammonisce; la seconda, più ingannevole, è quella degli apologeti, i quali, traendo lauti benefici dal ruolo raggiunto, dipingono una Calabria da sogno, immaginaria, mitica, unica. Della regione costoro decantano le potenzialità, che restano proiezioni, suggestione e motivo di orgoglio posticcio, strumentale al mantenimento dei rapporti di forza vigenti. Per battere la ’ndrangheta strutturata e culturale occorre demolire due assunti falsi e propagandistici, pure utilizzati tra gli ingenui. Il primo è che siamo perfetti e non potremmo vivere meglio; il secondo è che la Calabria è la prima al mondo in quanto a paesaggio, storia e natura.
Abbiamo tanto, sì. Ma abbiamo perduto la memoria, a causa della cementificazione dei luoghi e dello spirito, della distruzione dei simboli e della capacità di giudizio.
*Giornalista