«Trascorso più di un anno, ben poco o quasi nulla è stato fatto. Prima che sia troppo tardi, urge cambiare radicalmente rotta e riflettere seriamente sull’operosità di questa giunta, la cui responsabilità maggiore ricade sul sindaco».
È la sintesi - su San Giovanni in Fiore, dal giugno 2015 amministrata dal centrosinistra - di tre esponenti del Pd: Gino Perri, consigliere comunale del centro silano e componente del direttivo provinciale, Salvatore Lopez, dell’assemblea regionale del partito, e Attilio Mascaro, già segretario cittadino.
I tre ricordano, in una nota, che «la sanità è stata il fulcro della campagna elettorale» per le comunali, ma, «a distanza di tredici mesi di attività amministrativa, i servizi ospedalieri e territoriali sono notevolmente decaduti rispetto al passato». «È giunto il momento - scandiscono - che qualcuno si assuma di fatto la propria responsabilità e rifletta seriamente».
Perri, Lopez e Mascaro denunciano «atteggiamenti di chiusura e arroccamento» dei vertici del Pd: «del segretario, del direttivo e del triumvirato» di gestione, che a loro avviso «hanno interrotto il rapporto con la città, svilendo il senso dell’appartenenza ed il valore della tessera».
Di più, i tre dissidenti rincarano la dose: «Vige un clima di regime la cui regola è o ti omologhi o sei fuori, non puoi pensare in maniera diversa». «Il civico confronto ed il pubblico dibattito - raccontano - sono un lontano ricordo, coesistere con costoro è impossibile, in quanto del concetto nobile della politica se ne è fatto un’arma di potere.
Segue un passaggio sul sostegno che l’attuale sindaco, Giuseppe Belcastro, ha avuto dalla "maggioranza" del partito, che l’ha imposto d’ufficio quale candidato alla guida del Comune. «La democrazia è negata, difatti alle amministrative del 2015 - ricordano i tre dissidenti - le primarie non sono state indette».
E giù duro: «Dopo cinque anni di fallimentare amministrazione di destra, vincere è stato facile, troppo facile (92%), un risultato bulgaro. Il popolo sangiovannese ha premiato il Pd maturando attese e speranze, ma, nonostante tale risultato, il paese è sprofondato in una palude dalla quale, se non si ricorre agli strumenti veri della politica (Regione, Ministeri, Europa), difficilmente se ne potrà uscire. La delusione e la rassegnazione si sono sostitute alla fiducia ed alla speranza».
Segue la summa sull’azione amministrativa di Belcastro e sodali. «L’ampio programma presentato ai sangiovannesi al secondo consiglio comunale si è trasformato - commentano Perri, Lopez e Mascaro - nel libro dei sogni, solo annunci e vane promesse, in breve un totale fallimento».
E la diagnosi: «Oggi il Pd di San Giovanni in Fiore è un partito appiattito, privo d’idee e di programmi, dipendente dal potere costituito che disdegna i nobili principi del pluralismo, della collegialità e della partecipazione».
«Nonostante tale stato di cose, siamo fortemente convinti - precisano Perri, Lopez e Mascaro - che solo il Pd può dare una vera svolta a San Giovanni in Fiore, consapevoli però che le resistenze maggiori sono all’interno del Pd stesso (arroganza, scarsa comunicazione tra amministrazione, consiglio e partito, interruzione del rapporto con i cittadini)». Poi la prospettiva: «Se nella gestione - avvertono i tre dissidenti - non entra la professionalità, la competenza, l’esperienza e l’aspetto motivazionale, San Giovanni in Fiore non avrà nessuna possibilità di crescita e sviluppo».
E, in successione, gli ambiti d’intervento. «C’è - chiosano Perri, Lopez e Mascaro - tanto da fare. Gli stessi ed antichi problemi giacciono irrisolti nelle scrivanie dell’amministrazione: piano strutturale comunale, sanità, rifiuti, politiche sociali, lavoro, cultura, turismo, ambiente, lavori pubblici, urbanistica, fisco, servizi, macchina amministrativa, attività produttive, commercio e infine la bella addormentata, l’Abbazia florense».
«L’auspicio - concludono i tre dissidenti - è sperare che il Pd di San Giovanni in Fiore spalanchi le porte ed inizi una nuova stagione costruita sul confronto, sul dibattito e sulla partecipazione».
Per il sindaco Belcastro tutto va bene e i risultati arrivano in copia. Per i Giovani democratici, invece, «i grillini sono politicamente irresponsabili». Ma Perri, Lopez e Mascaro sono tesserati Pd, che a San Giovanni in Fiore, la città del governatore regionale Oliverio, si culla come nulla fosse.
Auro Burbarelli
Un Paese che invecchia, si ferma, ripiegato su se stesso
Un’Italia ingiusta
di Gianfranco Viesti (Il Mulino, 11 luglio 2016)
Gli effetti della grande crisi sul lavoro degli italiani sono stati estremamente forti. È bene ricordarlo. Non per deprimersi, ma per rendersi conto che è necessario un progresso potente per tornare a una quantità e qualità dell’occupazione almeno paragonabile a quella del 2008. Per rendersene conto, possono essere d’aiuto alcune interessanti tabelle pubblicate dall’Istat nel suo ultimo Rapporto annuale (in particolare alle pp. 107-109), nelle quali sono comparate la dimensione e la struttura (per settore, professione, età, nazionalità e territorio) degli occupati in Italia del 2008 e del 2015; queste tabelle tengono poi già conto del discreto recupero che si è realizzato nell’ultimo anno.
Nell’insieme, gli occupati sono 626 mila in meno. Tantissimi. Ma le informazioni più interessanti vengono, più che dal saldo netto, dalla composizione delle variazioni. A livello di settore, perdono moltissimi occupati le costruzioni (484 mila), per la crisi dell’edilizia e il crollo degli investimenti infrastrutturali, e l’industria (421 mila); ma anche il commercio (258 mila), a causa della caduta dei consumi interni; e la pubblica amministrazione/istruzione (228 mila) a causa dell’austerità. Gli occupati aumentano in pochi ambiti. Innanzitutto nel settore dei servizi alle famiglie (370 mila), quindi negli alberghi e ristoranti (174 mila), grazie alle buone dinamiche del turismo. Guardando alle professioni, la trasformazione è profonda: perdiamo operai e artigiani (più di un milione) e tecnici e professionisti ad alta qualifica (642 mila); guadagniamo addetti alle professioni esecutive (814 mila) e non qualificate (428 mila).
Netto anche il cambiamento nella composizione per età: abbiamo quasi due milioni di occupati giovani (nella fascia 15-34 anni) in meno (anche - ma certo non solo - per motivi demografici) e oltre un milione e 800 mila occupati anziani (di oltre 50 anni) in più. Se guardiamo alla nazionalità scopriamo che gli occupati italiani sono ben un milione e 300 mila di meno, e che invece gli stranieri aumentano di quasi 700 mila.
Infine, la riduzione degli occupati è un fenomeno prevalentemente meridionale: al Sud ci sono 482 mila lavoratori in meno. Sono dati che preoccupano molto, specie se letti con una prospettiva d’insieme. Scopriamo che il problema non è solo la riduzione quantitativa dell’occupazione, ma anche e soprattutto la sua trasformazione qualitativa: che va in direzione opposta a quanto sarebbe auspicabile. Si riducono gli occupati giovani, italiani, a maggiore qualifica, nel pubblico e nel privato; si riducono i tecnici, gli artigiani, gli operai nell’industria e nelle costruzioni. Aumentano i lavoratori a qualifica più bassa, e in particolare gli immigrati che lavorano nel Centro Nord come collaboratori domestici e badanti. Meno tecnici e più camerieri. Restano al lavoro gli occupati più anziani.
Descrivono una fase terribile di un Paese che invecchia, si ferma, che ripiega su se stesso. Suggeriscono che non basta monitorare gli andamenti d’insieme del mercato del lavoro, ma che occorre studiarne anche le trasformazioni; che non basta accontentarsi di un occupato in più se costui lavora prevalentemente con mansioni (e stipendi) più basse (e precarie). È l’occupazione qualificata, pubblica e privata, e a maggiore retribuzione, che ci serve: per restare un Paese avanzato (e civile); per dare un futuro ai più giovani che hanno investito su se stessi; per aumentare la qualità dei servizi, pubblici e privati, ai cittadini e la capacità competitiva delle imprese. Non è certo facile crearla: ma saperlo e provarci sarebbe un buon inizio.