In Calabria si muore per un’appendicite, un parto, una parola di troppo. Si muore di rassegnazione, impotenza, silenzio, solitudine. Qui si muore di lontananza dal resto dell’Italia e del mondo, perché la storia di questa terra rimane nell’ombra.
Nessuno, nel Nord produttivo, racconta insieme la Kroton (Crotone) di Pitagora e la provincia odierna dei bazooka che squarciano le blindate. Nessuno, fuori dei nostri confini, accosta le ricche Metauros e Lokroi Epizephyrioi alle attuali Gioia Tauro e Locri, spogliate dalla ‘ndrangheta.
La storia calabrese scompare nell’oblio fulmineo di un’Italia distratta e disperata. Anche se di questa storia, antica e quotidiana, vi sono tracce indelebili: il pensiero, la lingua, i riti, i costumi, le pietre, gli scritti e poi le scorie ritrovate a Crotone o lungo il fiume Oliva ad Amantea (Cosenza), causa di tragedie e fortune.
La storia calabrese poggia su un’atavica doppiezza, sulla coesistenza di bellezza e orrore, accoglienza e partenze obbligate, miseria diffusa e opulenza di pochi, spesso colletti bianchi. La storia calabrese rimane nei sussulti e nella rabbia degli onesti, che patiscono senza riferimenti, solidarietà, aiuto concreto e pulito. Rimane, la storia, in chi ha scelto di risiedere in Calabria senza compromettersi; in chi, emigrato, ha lasciato qualcosa d’indescrivibile a casa sua: più del cuore, dei ricordi, delle abitudini.
A Gioia, una volta Metauros, puoi saltare in aria se fai benzina all’automatico; anche se non c’entri, se non sai, se non hai visto nulla e non hai disturbato un capo. A Locri, centro della Magna Grecia, è deserto dopo l’assassinio di Francesco Fortugno e il conseguente teatro dello Stato; dopo la viva reazione dei ragazzi calabresi dissolta da tv e partiti. Il sangue di quell’omicidio scorre ancora nei palazzi che contano, nelle stanze del potere che si camuffa dietro a parvenze e linguaggio istituzionali, per negoziare favori e privilegi; per sopravvivere a se stesso.
A Pagliarelle, sperduta frazione dell’entroterra crotonese, abita Marisa Garofalo, sorella di Lea, uccisa barbaramente e con imperdonabile vigliaccheria. Lea riferì alla giustizia fatti che dovevano rimanere sepolti, come i morti della nostra terra spariti nel nulla, sciolti nell’acido o murati in qualche pilastro pagato da tutti gli italiani, di Monza, Perugia o Cefalù. La grande stampa s’è accorta di Lea giusto il tempo della cronaca, fino al processo degli assassini. Poi, come sempre, tutto è passato, nella meccanica corsa verso il nulla del Belpaese, che ha festeggiato i 150 anni dell’Unità scordandosi dell’eterna Questione meridionale.
Oggi il dramma del Sud, in particolare della Calabria, si riassume in quattro parole: disoccupazione, assistenza, degrado, nuova emigrazione. Li ha prodotti il circuito della paura e del terrore, della subordinazione di un intero popolo, sovente rappresentato da portatori d’interessi privati, incapaci di progetto e coerenza, deboli nello spirito e nella ragione. Marisa Garofalo vive nel suo dolore inconsolabile. La sua storia è il simbolo di un’Italia che non funziona: che prima predica giustizia e senso dello Stato, poi scarica, s’arrende - come fece per la strage di via d’Amelio - al corso delle cose, al menefreghismo individuale, all’"ordine" sopra l’ordinamento.
Spesso in Calabria si è già morti anche in vita: costretti a non parlare, a guardarsi, a evitare la denuncia o il biasimo del mafioso che delinque, del furbo che costruisce con abuso, del politico che promette posti e soluzioni col ricatto.
Siamo nel 2012, l’Università della Calabria risale al ’72. Abbiamo perso troppo tempo, al di là dei movimenti della politica, tra lamentele personali e chiacchiere da bar; tra autoassoluzioni e campagne elettorali che, proiettando cambiamenti rinviati all’infinito, ricordano il Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere, di Giacomo Leopardi, o Aspettando Godot, di Samuel Beckett. Ma la letteratura è altro dalla pratica, dal bisogno di azioni reali che la scrittura può indurre, anche con forza imprevedibile: scuotendo, contagiando, sostenendo le coscienze e le menti.
La recente omelia di monsignor Giuseppe Fiorini Morosini a Polsi (San Luca, Reggio Calabria) ha destato numerosi commenti su Il Quotidiano della Calabria. Sul giornale continuano le riflessioni circa il perdono della Chiesa ai mafiosi, suscitate dal vescovo di Locri con la sua discussa predica; di fatto un’apertura alla remissione dello ‘ndranghetista. I nostri intellettuali guardano al ruolo della Chiesa per l’emancipazione della Calabria dalla cultura di reticenza e familismo imposta dalla ‘ndrangheta. Io penso che, richiamando il ruolo morale e sociale della Chiesa, si deve sottolineare l’esigenza che vescovi, sacerdoti e credenti siano vicini a chi parla, denuncia, testimonia. La Chiesa deve promuovere la comunione nella lotta alla ‘ndrangheta, quest’ultima intesa come forma di pensare e agire.
La sfida per il futuro della Calabria si gioca, dunque, su due fronti:
1) su quello della partecipazione attiva, religiosa e laica, all’impegno per la ripresa della Calabria da parte di noi calabresi;
2) sulla capacità di autocritica di ciascuno, che significa giudicarci per i comportamenti e le azioni, riconoscendoci colpe che addossiamo sbrigativamente solo al sistema.
In questo senso, per esempio, non può passare sotto traccia che, per quanto largamente intrisi di cultura cristiana, tendiamo a stare dalla parte del più forte, dimenticando l’insegnamento delle Beatitudini.
Il Quotidiano della Calabria ha avviato un confronto aperto e fecondo, che non si esaurisce nel dibattito sul perdono dei criminali. A mio avviso, nei tanti contributi c’è un desiderio profondo di trasformazione: sta accadendo qualcosa di straordinario. Forse, senza volerlo, si sta stendendo un programma politico che toccherà ai prossimi candidati raccogliere e tradurre. Stanno uscendo energie, concetti, parole e perfino frustrazioni. Ci stiamo raccontando come calabresi, stiamo vincendo la paura del silenzio e la marginalità: stiamo facendo e scrivendo storia. «Ma la storia siamo noi», come sottolineava Francesco De Gregori, sicché «nessuno si senta escluso».
Proprio la convinzione di partecipare, sul giornale e fuori delle sue pagine, può determinare una grande consapevolezza del passato, del presente e del futuro. Può scatenarsi, allora, un desiderio incontenibile di libertà, la quale viene sempre dal lavoro.
Bisogna, però, che prima focalizziamo un punto: il lavoro non è una concessione del potente di turno, ma il fondamento della Repubblica. Ed è nella nostra terra che abbiamo il diritto di lavorare. Soltanto lottando per questo ideale, possiamo arginare l’emigrazione e trasformare in autonomia la vecchia, inutile dipendenza dal potere.
Emiliano Morrone
Per diventare “europei” partiamo dal Mezzogiorno
Un appunto dattiloscritto inedito del 1978, dedicato alla questione meridionale
di Federico Caffè (la Repubblica, 06.01.2014)
La larga e ben può dirsi unanime adesione che incontra il convincimento di una concentrazione del massimo degli sforzi odierni della nostra politica economica ai fini dell’accrescimento dell’occupazione nel Mezzogiorno è un aspetto confortante, nel contrasto dialettico di opinioni che contraddistingue le società in cui esse possono liberamente esprimersi. [...]
In effetti, l’individuazione che l’intensificarsi e la persistenza del processo inflazionistico avrebbero provocato conseguenze più deleterie nel Meridione fu tempestiva, ma rimase ancora circoscritta nell’ambito di specialistiche cerchie intellettuali. Sono stati non soltanto fenomeni di degrado economico, ma altresì di maturazione civile, a farci più chiaramente comprendere che, tra le varie compatibilità da tener presente per conservare il necessario aggancio con l’Europa, rientra anche quella della indispensabile attenuazione di un divario ancora troppo accentuato tra le due Italie economiche.
Le potenzialità costruttive di questa più diffusa coscienza della priorità, più che della «centralità», dei problemi del Mezzogiorno consistono nella finalizzazione immediata che ne ricevono i sacrifici da richiedersi, in vario grado e proporzione, alla parte privilegiata e protetta della collettività.
Ma occorre altresì tener conto che il Mezzogiorno si è profondamente trasformato; che alcuni suoi problemi attuali (si pensi alla maggiore partecipazione femminile all’offerta di lavoro) sono il risultato di un processo di maggiore omogeneità con il resto della società civile italiana; che la stessa compagine demografica si è radicalmente modificata nella localizzazione, con un addensamento in centri urbani di vecchia e nuova formazione, che si è indubbiamente compiuto con caoticità, ma anche con un vigore di cui non vanno sottovalutati l’impulso dinamico e le incidenze sociali.
Permangono, in questo ambiente le cui trasformazioni hanno un rilievo non sempre adeguatamente riconosciuto, antiche tare, quali la larga prevalenza di disoccupati sforniti del tutto di titoli di studio o con la sola licenza elementare; e l’elevatezza di persone fornite di diploma tra le nuove leve alla ricerca di lavoro: con una percentuale pressoché doppia rispetto a quella che si rileva nel nord.
Ma solo un indulgere ai luoghi comuni può portare a discutere di un’irrazionale corsa al cosiddetto «lavoro intellettuale», posto che i ben evidenti e documentati costi sociali sono, invece, costituiti dalla carenza di completamento della scuola d’obbligo e dall’ampio divario tra coloro che pervengono a ultimarla e gli iscritti agli studi superiori. [...]
È già accaduto in passato che la «scelta di civiltà » dell’integrazione economica europea determinasse una diversione dell’impegno per le esigenze della parte più debole del Paese, o meglio l’aspettativa che esse fossero soddisfatte in forza dell’operare spontaneo di meccanismi perequativi, garantiti da apposite clausole e specifici codicilli.
Oggi, non possiamo non tener conto del divario tra le salvaguardie cartacee e l’operare concreto. La formazione di una zona monetaria europea, che pure costituisce il completamento ideale di quella scelta, potrebbe ancora una volta diventare un involontario diversivo rispetto alla drammaticità dei problemi occupazionali del Mezzogiorno, in cui la necessità di creazione di possibilità di lavoro e il loro carattere aggiuntivo hanno carattere di pressante immediatezza.
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Tratto da Federico Caffè, La dignità del lavoro,a cura di Giuseppe Amari, Castelvecchi, 2014. Per gentile concessione dell’Editore
IL LIBRO: La dignità del lavoro di Federico Caffè (a cura di Giuseppe Amari, Castelvecchi pagg. 430 euro 22)
Federico Caffè
La lezione interrotta dell’economista che difendeva il lavoro
Cento anni fa esatti il 6 gennaio 1914 nasceva lo studioso che diffuse Keynes in Italia e che scomparve misteriosamente nel 1984
di Daniele Archibugi e Marco Ruffolo (la Repubblica, 06.01.2014)
La misteriosa scomparsa di Federico Caffè avvenuta ventisette anni fa ha reso questo schivo economista una celebrità. Un uomo che per tutta la vita aveva tanto accuratamente evitato il clamore della scena pubblica quanto amato la riservatezza dell’insegnamento è diventato famoso per l’ultimo episodio della sua vita. Oggi avrebbe compiuto cento anni e a chi gli faceva gli auguri, con l’autoironia che gli era propria, rammentava di essere “un figlio della Befana”.
Il carisma che ha esercitato su una ampia generazione di allievi ha fatto sì che ognuno di loro abbia sentito la necessità di rievocare il comune maestro, come se questo fosse il modo migliore per esprimergli tardiva gratitudine. Perché Caffè ha lasciato un vuoto che chi lo ha conosciuto non è riuscito a riempire se non con il ricordo. La sua eredità non si esaurisce in una univoca scuola di pensiero.
Tra i suoi numerosissimi allievi troviamo di tutto: i paladini dell’antagonismo sociale, come Bruno Amoroso, i difensori intransigenti dell’intervento pubblico, come Nicola Acocella, gli esploratori di nuove forme di protezione sociale, come Enrico Giovannini, i fautori di una attiva politica economica capace di controllare l’azione dei mercati, come Marcello de Cecco. Che tra i suoi allievi ci siano anche il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, e il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, indica quanto la sua scuola sia stata tutt’altro che monocorde. Caffè aveva le sue idee, e le difendeva con accanimento, ma era capace di ascoltare e di accettare opinioni diverse. Che cosa è rimasto del suo pensiero? Tre idee ci sembrano oggi ancora più importanti di uno quarto di secolo fa: il pieno impiego, l’assistenza sociale e la politica economica.
1) Caffè riteneva che il lavoro fosse non solo uno degli aspetti essenziali della emancipazione umana ma anche la più solida garanzia di tenuta sociale di un Paese. Certo, era consapevole quale fosse la differenza tra la Gran Bretagna del suo amato Keynes e la nostra penisola: da noi, gli effetti peggiori della disoccupazione, specie quella giovanile, erano e sono parzialmente assorbiti dalla famiglia. Ma Caffè aveva compreso che il ritardato inserimento nel mercato dei lavoro dei giovani, anche quando sono sostenuti dalle famiglie, provocava un distruzione di risorse umane, condannando intere generazioni ad acquisire tardivamente e spesso malamente le competenze ed esperienze della vita professionale. Riteneva, pertanto, che lì dove il mercato falliva, fosse compito specifico dell’operatore pubblico trovare lavoro per i giovani tramite piani straordinari per il lavoro.
2) Come indica il titolo del suo ultimo libro, In difesa del Welfare State, Caffè sosteneva accanitamente la protezione sociale, anche in un periodo come gli anni Ottanta in cui il debito pubblico italiano stava esplodendo. Società opulente dovevano farsi carico dei più deboli aumentando la tassazione sui più ricchi. Per tutta la sua vita, e ancor di più negli ultimi anni, Caffè sentì moltissimo il problema dell’assistenza agli anziani, troppo spesso privi di quei servizi essenziali che invece esistevano inaltre parti del mondo; prima ancora di criticare ilWelfare State,sosteneva, sarebbe stato necessario realizzarlo. Queste opinioni erano anche associate ai suoi timori personali: temeva di diventare di peso e questa fu una delle cause della sua depressione. Allo Stato rimproverava di “prelevare” male e di “spendere” peggio, e in ciò occorreva rintracciare la crisi dell’assistenza sociale. La soluzione ai problemi del bilancio pubblico non andava ricercata affidando al mercato problemi che non erano di sua competenza, quanto piuttosto riformando radicalmente il funzionamento dell’amministrazione statale.
3) Infine, per Caffè la politica economica poteva e doveva avere un ruolo chiave per la coesione sociale. “Politica economica” non era solo la materia che insegnava, ma anche la pressante richiesta al governo di agire per assorbire i conflitti sociali, aumentare la produzione, soddisfare i bisogni umani. Non digeriva i diktat degli organismi internazionali quali il Fondo monetario e la Commissione europea. La politica economica doveva controllare i mercati per evitare che le risorse finanziarie si indirizzassero verso attività speculative piuttosto che produttive. Era compito del governo trovare soluzioni concrete lì dove i mercati non riuscivano a raggiungere gli obiettivi sociali. Imprese a partecipazione statale, servizi collettivi, lavori pubblici e politica monetaria erano solamente gli strumenti a disposizione del governo per realizzarli. Era fiducioso nel fatto che un loro uso illuminato avrebbe consentito al governo di raggiungere più occupazione e più benessere.
Passano gli anni, i problemi cambiano eppure rimangono simili. Rileggere oggi i suoi scritti ci fa capire quanti appuntamenti siano stati mancati dalla politica italiana per risolvere i problemi strutturali del Paese. La disoccupazione, in particolare quella giovanile, ha toccato nuovi record storici e i pubblici poteri delegano ancora al mercato la risoluzione del problema. Il debito pubblico continua a dominare il dibattito di politica economica ma ancora oggi il governo non è capace di identificare i benefici generati dalla buona spesa e dai buoni investimenti pubblici. La politica economica del governo subisce passivamente i vincoli esterni.
No, Federico Caffè non avrebbe ragione di essere soddisfatto dell’Italia di oggi. E chissà se avrebbe ancora la voglia di indicare quotidianamente la via di un riformismo possibile.