Erdogan soffoca la piazza
«La tolleranza è finita»
La polizia interviene in forze a Istanbul, centinaia i feriti
Il premier: «Taglieremo gli alberi». I manifestanti tornano a Gezi Park, scontri nella notte
di Umberto De Giovannangeli (l’Unità, 12.06.2013)
Taglierà gli alberi. Sradicherà la rivolta. Praticherà «Tolleranza zero». Erdogan non si ferma. «Toglieremo gli alberi da Gezi Park, saranno ripiantati in un altro posto» ha detto il premier turco davanti al gruppo parlamentare del suo partito, l’Akp. «Questo episodio è finito, non mostreremo più tolleranza», avverte Erdogan. «Se questa la chiamate durezza mi dispiace, ma Tayyp Erdogan non cambierà».
E a conferma di questo annuncio, le forze dell’ordine hanno intensificato le operazioni. Decine di poliziotti in tenuta antisommossa sono entrati ieri nel Gezi Park di Istanbul, cuore della rivolta contro il premier Erdogan.
La polizia aveva già occupato piazza Taksim, rimuovendo le barricate. Decine di poliziotti con l’appoggio di blindati con cannoni ad acqua, avevano attaccato la piazza di prima mattina, facendo un uso massiccio di lacrimogeni per disperdere i pochi manifestanti sul posto. Ma gli attivisti sono tornati in piazza.
Il direttore di Human Right Watch, Carroll Bogert, dal suo account Twitter spiega che «dalla tenda del primo soccorso dicono che c’è un morto, colpito alla testa dai lacrimogeni». I dati ufficiali parlano di un centinaio di feriti, cinque dei quali in gravi condizioni, solo nella giornata di martedì. Dall’inizio della protesta in tutta la Turchia sono stati uccisi tre manifestanti, cinquemila i feriti.
Dura presa di posizione da parte della sezione turca di Amnesty International. «Condanniamo la vergognosa e brutale violenza commessa dalla polizia», in piazza Taksim, scrive l’ong, ribadendo «la richiesta di giustizia in un incontro con il governatore di Istanbul». «Invece di continuare a reprimere attivisti pacifici, le autorità turche dovrebbero iniziare a guardare alle azioni della loro polizia e portare davanti alla giustizia i responsabili degli scioccanti abusi che abbiamo visto nelle ultime due settimane», afferma Andrew Gardner, ricercatore sulla Turchia di Amnesty International, attualmente a Istanbul.
PROVA DI FORZA
Per tutta la mattinata la tensione è stata altissima. Gli agenti hanno lanciato centinaia di lacrimogeni, usato gli idranti e cannoni ad acqua. I manifestanti hanno risposto con pietre e bottiglie molotov. Rimosse le barricate erette con pezzi di alluminio tutto intorno a piazza Taksim. La polizia non ha avuto difficoltà a farsi largo, anche se gli scontri sono stati violenti. In piazza sono decine le persone ferite ma le ambulanze, sostengono i manifestanti, non riescono ad arrivare.
Dopo l’ingresso della polizia in piazza Taksim, il governatore di Istanbul, Huseyin Avni Mutlu, assicura che l’obiettivo delle forze dell’ordine non è lo sgombero di Gezi Park, il vero cuore della protesta contro il governo di Erdogan. «Da stamani (ieri, ndr) siete affidati ai fratelli poliziotti ha detto il governatore, rivolgendo il discorso ai manifestanti -. La nostra intenzione è di rimuovere i cartelli e le immagini dalla piazza. Non abbiamo altri obiettivi. Non toccheremo assolutamente nessuno a Gezi Park e a Taksim». Poi ha rivolto un invito a «guardarsi da possibili azioni di provocatori».
Parole che, dopo l’intervento di Erdogan e della polizia suonano come una grande bugia. A cui la piazza non ha creduto fin da subito. Alcuni manifestanti hanno accusato la polizia di aver infiltrato persone apposta per lanciare molotov e creare tensione. Il prefetto dal canto suo, se l’è presa con i social media, dove «ci sono alcune persone interessate ad alzare il livello dello scontro».
Secondo l’Associazione dei medici turchi, i feriti durante lo sgombero di piazza Taksim sono almeno un centinaio, di cui cinque gravi. Il presidente dell’associazione, Ahmet Ozdemir Akta, ha spiegato al quotidiano Hurryiet che molti hanno riportato traumi al cranio perché colpiti dal lancio di lacrimogeni della polizia da distanza brevissima. La polizia ha arrestato anche settanta avvocati schieratisi a sostegno dei manifestanti.
Gli argomenti di Erdogan non convincono le opposizioni che ormai lo accusano apertamente di essere «un dittatore», come ha fatto il leader del partito Chp, Kemal Kilicdaroglu. In serata in migliaia sono tornati ancora in piazza Taksim, sfidando i divieti e la polizia schierata in assetto anti-sommossa. Altri scontri nella notte. Altri feriti. A decine. Il premier Erdogan schiera i blindati. La battaglia di Gezi Park continua.
Icona estetica
La signora in rosso bandiera della protesta di Taksim
di Ruth Sherlock (il Fatto, 12.06.2013)
Con il vestito di cotone rosso, la borsa a tracolla e i capelli neri al vento, è diventata il simbolo della protesta turca. Ceyda Sungur, colta dall’obiettivo mentre viene investita da una nuvola di gas lacrimogeno, è anche la prova della brutalità della polizia anti-sommossa. La foto ha fatto immediatamente il giro del mondo. Su Internet ci si domandava perché una signora che sembrava vestita per andare a un pic-nic era stata trattata come un black bloc.
La signora Sungur avrebbe preferito evitare questo genere di popolarità: “i gas lacrimogeni non sono stati usati solo contro di me”, dice. “Sono scesa in strada per difendere la libertà di parola. Per la prima volta la gente si batte per i propri diritti e per cambiare le cose”.
Finora ci sono state diverse vittime e circa mille feriti ricoverati in ospedale. La foto di Ceyda Sungur, oltre a fare il giro dei giornali e del web, è finita sui poster e sugli striscioni inalberati dai dimostranti. Ma Ceyda continua a rifiutare le luci della ribalta e lavora come volontaria in un improvvisato ospedale da campo a piazza Taksim, epicentro della sommossa.
“A piazza Taksim abbiamo creato dei punti di pronto soccorso dove medichiamo i feriti”, spiega rifiutandosi di fornire ulteriori particolari per paura che i medici possano essere arrestati. Sungur è docente presso il Dipartimento di Urbanistica del Politecnico di Istanbul, una facoltà che in genere non è considerata terreno di coltura di radicali e sovversivi.
Assieme ad altri colleghi architetti è scesa in piazza per impedire ai bulldozer di abbattere gli alberi di piazza Taksim. “Ceyda mi ha mandato un sms dicendomi di raggiungere il parco”, spiega Meric Demir, 28 anni, collega di Ceyda. “Siamo arrivati in molti nel giro di dieci minuti e l’abbiamo trovata sconvolta e in lacrime per effetto dei gas”.
Tutto è nato da una polemica apparentemente di poco conto, tra un gruppo di ambientalisti e le autorità incaricate dal governo di abbattere gli alberi per fare spazio a un ambizioso piano urbanistico fortemente voluto dal primo ministro Recep Tayyip Erdogan. Gli ambientalisti sostengono che non si tratta solo della demolizione del parco Gezi, uno dei pochi polmoni verdi del centro urbano, ma di un piano di “islamizzazione” del centro di Istanbul.
“Il progetto del governo spacciato per una occasione di sviluppo prevede non solo la costruzione di una nuova moschea, ma anche il restauro di una caserma dell’epoca ottomana che nel 1909 fu teatro di un fallito colpo di stato militare islamista”, spiega Ceyda Sungur. Inoltre i dimostranti sostengono che la decisione è stata presa senza consultare l’opinione pubblica. “Non si può disporre in questo modo della vita della gente”, dice Ceyda. “Le politiche di Erdogan non tengono conto dei desideri della gente. Qui non si tratta dell’alcol, ma del rispetto delle persone”.
Va inoltre considerato che piazza Taksim è il tradizionale punto d’incontro dei giovani turchi laici il cui leader carismatico, Mustafa Kemal Atatürk, fece della Turchia un paese laico quasi un secolo fa convinto che un governo di tipo islamista avrebbe ostacolato lo sviluppo economico e culturale della Turchia.
“Piazza Taksim è il simbolo della rivoluzione turca di Atatürk”, dice la professoressa Handan Turkoglu, 57 anni, capo del dipartimento nel quale lavora Ceyda Sungur, prima firmataria di una petizione contro il progetto di Erdogan.
Per i firmatari della petizione, la lotta contro il piano di ristrutturazione urbanistica è diventata la metafora di una lotta di più ampia portata. “Ci battiamo per impedire al governo di stravolgere la Turchia laica trasformandola inesorabilmente in un paese nel quale il confine tra Stato e religione sarebbe destinato a diventare sempre più sfumato”, spiega Ceyda Sungur.
L’Occidente ha accolto con favore le riforme liberali di Erdogan - volute dal Fondo Monetario Internazionale - ma gli imprenditori vicini a Erdogan sono socialmente conservatori e spingono affinché Erdogan dia una sterzata in senso islamista alla società turca. In Turchia molti hanno anche criticato il coinvolgimento di Erdogan nella crisi siriana e il suo sostegno ai ribelli per lo più sunniti. “Abbiamo tutti paura che Erdogan trascini la Turchia in una guerra che nessuno vuole”, dice Ceyda Sungur.
Resta il fatto che Erdogan ha vinto le ultime tre elezioni ed è proprio questo suo atteggiamento di invincibilità a stimolare il risentimento e la rabbia dei dimostranti laici e progressisti di piazza Taksim che lo accusano di imporre una sorta di “tirannia della maggioranza” nel disprezzo del “49% che in occasione delle ultime elezioni non ha votato per il suo partito”, precisa Ceyda Sungur.
“È vero, lo sappiamo benissimo che il primo ministro è stato eletto con poco più del 50% dei voti, ma c‘è sostanzialmente un’altra metà del paese che pretende di essere ascoltata”, aggiunge Ceyda. “Noi laici non vorremmo fare la fine dei curdi o dei musulmani al tempo di Atatürk”.
© Daily Telegraph Traduzione di Carlo Antonio Biscotto
L’editorialista Cengiz Candar: “È da troppo tempo al potere”
“Il premier è isolato e vuole l’escalation si gioca la sopravvivenza”
di M. Ans. (la Repubblica, 12.06.2013)
ISTANBUL - «Tayyip Erdogan vuole un’escalation, perché pensa che la forza possa infine dare beneficio al suo governo. In Turchia stiamo vivendo ore drammatiche, e non è possibile dire dove volterà la situazione. Viviamo appesi alle notizie». Cengiz Candar è uno dei volti più noti del Paese. Grande inviato di politica internazionale, commentatore in tv, tifoso vip del Fenerbahce e in passato anche consigliere del Presidente Turgut Ozal, è un uomo di grandissima esperienza in politica.
Erdogan sta accusando della rivolta interna circoli finanziari stranieri. Ha ragione?
«Macché. Quelle affermazioni sono spazzatura. O ci crede oppure fa finta di crederci. Il risultato per lui comunque non cambia, perché si trova di fronte a una battaglia decisiva. E per questo ha gettato sulla bilancia tutta la sua forza. Anche perché la protesta da Istanbul si sta allargando ovunque, ad Ankara, Smirne e in una settantina almeno di altri centri».
Ma la brutalità della polizia non rischia di essere un pessimo ritorno di immagine per la Turchia?
«Sì, gli interventi così violenti stanno causando molte divisioni nel Paese».
Ma perché la gente è scesa in piazza?
«Questa è davvero una rivolta contro di lui. Nella gente c’è un cumulo di rabbia nei confronti del primo ministro. A causa del suo stile, di come parla, come si atteggia, come si rapporta».
Però Erdogan ha vinto le elezioni con nettezza ed è stato scelto democraticamente.
«È vero. Se domenica andassimo a votare, lui vincerebbe ancora. Però la gente è arrabbiata perché ha compiuto un sacco di errori».
E allora perché non reagisce in modo consono a quello che si addice a una personalità istituzionale?
«Intanto lui è stato colto di sorpresa dalla rivolta, perché non se l’aspettava. Erdogan per sua natura è molto cocciuto. Poi, se sei al potere da 10 anni, c’è anche una fatica di gestire quel potere, diventi arrogante, sei isolato dalla gente, stai sulle nuvole, si fuori dalla realtà, e pensi che tutto quello che stai facendo è corretto. E quindi ritiene che contro di lui sia in atto un complotto».
Perché parla di battaglia decisiva per Erdogan?
«Perché tutto quello che sta accadendo può finire per scombinare i suoi piani per il 2014. Punta infatti a essere eletto Presidente della Repubblica ».
La piazza non sembra essere d’accordo.
«Non questa piazza, anche se lui sta convocando grandi manifestazioni per domenica con la sua gente. Ma il centro di Istanbul non lo ama. Né la sinistra politica che si è assiepata a Piazza Taksim, né i giovani che fanno arte, musica, ecologia che stanno invece al Gezi Park».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Mamma li turchi, ma «i dittatori ci servono»
Medio Oriente . La realtà è che Stati uniti ed Europa nel Mediterraneo e in Medio Oriente hanno lasciato in questi anni un vuoto riempito dal “reis” turco e dalla Russia ma adesso ci vuole un «ritorno all’ordine», alla nuova guerra fredda decretata dalla coppia Biden-Blinken. E Draghi esegue
di Alberto Negri (il manifesto, 10.04.2021)
Draghi, in sintesi, dice che Erdogan è un dittatore che ci fa comodo: tradotto significa che gli facciamo fare quel che vuole fino a quando ci serve. Una pericolosa e irrealistica illusione, del premier ma anche Usa ed europea. Erdogan fa quello che vuole con il nostro consenso e indignarsi perché non rispetta i diritti umani o il galateo diplomatico è assai ipocrita. Gli Usa e gli europei speravano che il golpe fallito del 15 luglio 2016 lo sbalzasse dal potere: da allora il “reis” preferisce mettersi d’accordo con Putin piuttosto che con l’Occidente atlantico, che lo vorrebbe manovrare in funzione anti-russa ma alla fine lo detesta e lo ammansisce, magari sulla pelle degli altri.
Qualche esempio? Trump, con il ritiro delle truppe Usa dal Nord della Siria nell’ottobre 2019, lasciò che Ankara massacrasse i curdi siriani, nostri alleati contro l’Isis, usando i jihadisti terroristi e tagliagole. In Tripolitania, di fronte alla incapacità italiana a sostenere il governo Sarraj, siamo suoi ospiti e le milizie filo-turche fanno la guardia all’ambasciata italiana mentre i suoi militari si sono fatti fotografare sulle motovedette donate dall’Italia. I turchi hanno la memoria lunga: l’Italia conquistò la Libia nel 1911 sottraendola all’Impero ottomano e l’anno dopo si portò via anche il Dodecaneso. Erdogan, il neo-ottomano sgarbato, è uno che gli insulti se li lega al dito.
La realtà è che Stati uniti ed Europa nel Mediterraneo e in Medio Oriente hanno lasciato in questi anni un vuoto riempito dal “reis” turco e dalla Russia ma adesso ci vuole un «ritorno all’ordine», alla nuova guerra fredda decretata dalla coppia Biden-Blinken. E Draghi esegue.
La sostanza è questa: gli Usa non vogliono un nuovo accordo tra Erdogan e Putin che possa incoraggiare la Russia a restare in Cirenaica e magari aprire un’altra base militare nel Mediterraneo dopo quelle in Siria.
Si tratta di una manovra che fa parte di una strategia più ampia con cui Washington vuole mettere pressione a Mosca: dallo schieramento dei missili ipersonici in Europa al blocco del gasdotto Nord Stream 2 tra Russia e Germania, all’eventuale ingresso dell’Ucraina nella Nato. Biden, sta per nominare l’inviato speciale incaricato di bloccare il gasdotto Nord Stream 2: è il suo uomo di fiducia in Ucraina, Amos Hochstein, già nel consiglio del colosso energetico ucraino Naftogatra, un passato nell’esercito israeliano, che durante l’amministrazione Obama fece saltare il South Stream con Mosca (2 miliardi di commesse Saipem) e si adoperò per attivare il Tap, il gasdotto alternativo con l’Azerbaijan.
Erdogan si oppone a Putin in Siria, in Azerbaijan e in Libia ma si è anche messo d’accordo con il capo del Cremlino: compra il suo gas e le batterie anti-missile S-400 ed è incline a una spartizione in zone di influenza che irrita gli americani, soprattutto Antony Blinken che nel 2011 era un sostenitore dei raid contro Gheddafi e ora vorrebbe cacciare i mercenari russi asserragliati con il generale Haftar su una “Linea Maginot|” nella sabbia della Cirenaica. La non guerra e la non pace è la situazione la Russia gestisce meglio, dal Medio Oriente al Caucaso, finché non si rompono gli equilibri.
Draghi, l’atlantista buono, ha orecchiato sul manuale Biden-Blinken che bisogna bacchettare Erdogan, l’atlantista ribelle, e ha fatto la sua uscita, un po’ alla carlona, durante una conferenza stampa. Fa parte di un’offensiva diplomatica che ha portato il premier a Tripoli- grazie ad Erdogan - nello stesso giorno in cui arrivava il greco Mitsotakis: mai si erano visti in Libia due capi di governo europei in un solo giorno - la stampa italiana non ha dato l’evento per non sminuire il «primato» italico nell’ex colonia. Poi subito dopo c’è stata la missione von der Leyen-Michel ad Ankara.
La crisi di poltrone e sofà, grave se fosse uno sgarbo e una offesa voluta al ruolo di rappresentanza delle donne in politica, non a caso esplode ora dentro l’Ue, sia per le priorità dei ruoli sia perché davvero il protocollo dell’incontro era stato approvato dalle due parti. Ma lo sgarbo ha oscurato il vero problema. La Turchia non ha nessuna intenzione di cedere su quattro dossier: i profughi, le frontiere marittime del Mediterraneo orientale, la Libia e i diritti umani. Erdogan fa valere la sua vittoria militare in Libia a Sarraj che aveva il generale Haftar e i russi alle porte di casa.
Il via libera a Erdogan è venuto da noi, come del resto in Siria quando fece passare 40mila jihadisti per combattere Assad: era questo che volevano gli Usa, «guidare da dietro» la caduta del regime di Damasco. Per questo si è preso in casa tre milioni di profughi, incassa miliardi da Bruxelles e ricatta gli europei sulla rotta balcanica, dove camminano alla disperata tante donne migranti senza sedia e senza speranza. Ma noi paghiamo il dittatore per tenerle lontane.
La Germania lo sa perfettamente e quindi impone soltanto sanzioni europee «cosmetiche» per le violazioni di Erdogan delle «zone economiche esclusive» del gas offshore di Grecia e Cipro, dove hanno interessi la Total francese, l’Eni italiana, le compagnie americane e Israele.
I «dittatori fanno comodo» anche per tacere: Draghi nel suo discorso d’insediamento non ha detto una parola su al-Sisi, Regeni e Zaki. Si capisce bene allora che una sedia non è solo una questione di arredamento diplomatico ma rappresenta cosa si muove davvero dietro la pace e la guerra nel Mediterraneo: una spasmodica lotta di potenze e una nuova guerra fredda, dove l’Italia ha il solito ruolo di penisola portaerei americana. E non basta dire che Erdogan “è un dittatore che ci fa comodo”.
In miniera centinaia di sepolti vivi Turchia in piazza “Erdogan assassino”
di Marco Ansaldo (la Repubblica, 15.05.2014)
SOMA. ADESSO è solo buio, e odore di morte a Soma, nella miniera maledetta che ha inghiottito centinaia di vite, mentre le fotoelettriche, disperatamente, vagano cercando uno squarcio dove salga una voce umana . DAVANTI alla Galleria Madre, la numero 1, le pompe elettriche tremano quando tentano di soffiare aria sottoterra. Intorno, una folla di familiari muta assiste alle operazioni di salvataggio. Ogni tanto un grido scuote l’atmosfera. «Fatemelo vedere!». Per lo più è il pianto di una madre, di una sorella, quando i corpi senza vita, 274 finora, riemergono portati a spalla dai loro compagni, come in un dagherrotipo d’altri tempi. Solo di rado l’urlo si trasforma in un grido liberatorio, quando qualcuno di quei corpi si muove ancora, scuotendo il petto nel tentativo convulso di respirare tutta l’aria mancata là dentro. «Erdogan premier ladro, dimettiti ». «Stato assassino!» . Parte anche l’insulto più grave, in Turchia, dove la Repubblica e le istituzioni, considerate quasi sacre, vengono prima di tutto, anche prima dell’individuo. Ma questa volta il governo non sembra avere difese. Solo due settimane fa, al Parlamento di Ankara, un deputato dell’opposizione socialdemocratica, Ozgur Ozel, sceso tra i banchi con un casco giallo simile a quello dei minatori, aveva sollevato il problema di Soma, della sua sicurezza, dei tanti siti dove la morte in Turchia è di casa visto l’alta incidenza di vittime: più dell’8 per cento tra i lavoratori delle miniere. E il partito di governo, quello conservatore islamico guidato dall’uomo che sempre più è il signore e il padrone del Paese, Recep Tayyip Erdogan, lo aveva irriso respingendo la mozione presentata anche da curdi e nazionalisti sulle tante Soma che popolano la Turchia. «La miniera è sicura» hanno decretato i suoi fedelissimi, certi dell’impunità. Quei caschi gialli, quegli stivali dello stesso colore, sporcati dal carbone che intride la terra di questa piccola città a 140 chilometri da Smirne, e a poche decine dal sito turistico di Pergamo, segnano l’andirivieni continuo dei minatori che salgono e scendono come formiche caricandosi i colleghi sulla schiena. Alla galleria 2 e 3 ci sono uomini grandi e grossi, i giacconi di pelle indosso, che piangono in ginocchio mettendo le mani a coprire gli occhi. Poche ore fa hanno estratto il corpo di un ragazzo di 15 anni, Kemal Yildiz, uno dei tanti lavoratori assoldati in “nero”, mentre le associazioni dei sindacati urlano nei megafoni il loro dolore e cifre da vergogna: 5000 vittime nel 2013, il 19% dei quali all’interno delle miniere, Turchia primo paese europeo per incidenti sul lavoro e terzo a livello globale. Il quindicenne Kemal è stato strappato alla miniera nel cuore della notte dai soccorritori. Era poco più che un bambino. Lo ha riconosciuto uno zio. «Non ho nulla da dire», ha mormorato distrutto dal dolore, in mezzo alla folla indistinta di familiari in ansia.
Soma in greco significa corpo. E la lotta contro il tempo per restituire a questa città dalle influenze elleniche quanti più corpi possibili in vita dura fino al mattino. Più di 120 persone restano intrappolate nelle gallerie a cinquanta metri sotto terra. «Difficile riuscire a salvare ancora qualcuno», dice un uomo mentre si passa il dorso della mano sulla fronte per togliersi una macchia di carbone. Sono morti tutti per avvelenamento da monossido e biossido di carbonio, quando l’esplosione per un trasformatore elettrico difettoso è partita martedì pomeriggio, 2 chilometri più in giù. Quando finalmente il volto teso del primo ministro compare sulla spianata del disastro, la gente di Soma sembra scuotersi dal torpore e c’è chi si lancia sulla sua auto prendendola a calci: «Ladro». «Assassino». «Dimettiti».
Una scena mai vista in Turchia. Erdogan, spaventato e coperto dalle guardie del corpo, si è dovuto rifugiare in un supermercato. Questo il suo commento: «Gli incidenti sono un fatto normale. C’è qualcosa in letteratura che si chiama incidente sul lavoro. È qualcosa che può accadere. Ma le dimensioni di questo incidente ci hanno profondamente colpito. Quello che è successo qui è causa di una violenza dovuta a facinorosi ». I suoi gorilla sono andati sul pesante nel tentativo di difendere l’incolumità del leader: hanno preso a pugni il parente di una vittima e lo hanno gettato a terra, come mostravano alcune immagini che hanno sollevato lo sdegno di molti cittadini.
Oggi sarà la volta del capo dello Stato, Abdullah Gul, arrivare a Soma dopo aver cancellato il suo viaggio in Cina. E sarà interessante misurare la reazione della gente, a poco più di due mesi dalle presidenziali di agosto a cui entrambi i leader islamici aspirano a presentarsi. Gli uomini di governo, però, sono adesso sotto tiro. «È il più grave incidente di questo genere mai accaduto in Turchia », ha dovuto ammettere il ministro dell’Energia, Tamer Yildiz, che qualche tempo fa aveva osannato l’efficienza e la sicurezza del comparto minerario di Soma.
Ieri cinquemila giovani si sono diretti minacciosamente verso la sede del suo dicastero, ad Ankara, scontrandosi a lungo, nella notte, con la polizia che ai lanci di sassi e di petardi ha opposto lacrimogeni e cannoni ad acqua. Una protesta che rischia di divampare in tutto il Paese. Il governo ha decretato tre giorni di lutto nazionale per onorare le vittime, con tutte le bandiere sugli edifici pubblici esposte a mezz’asta. Il sito della società proprietaria della miniera, la Soma Coal Mining Company, assalito dalle proteste, è stato chiuso. Sullo schermo è apparsa solo una nota della ditta, che parla di un «triste incidente» e garantisce che la società aveva preso «le massime precauzioni, continuamente monitorate».
Sotto accusa i profitti delle società che hanno rilevato le miniere dopo la privatizzazione. Il quotidiano Hurriyet ha poi rispolverato un’intervista del 2012 di Ali Gurkan, proprietario della Soma Mining, che spiegava come il costo della tonnellata di carbone fosse sceso da 130 a 24 dollari dopo la privatizzazione, grazie alla drastica riduzione del costo del lavoro. Due settimane fa annunciando in Parlamento il “no” dell’Akp, il partito conservatore islamico da 12 anni al governo, all’inchiesta sulla sicurezza di Soma il deputato Muzaffer Yurttas, ricorda ancora Hurriyet , aveva detto che «se Dio vuole» nella miniera non sarebbe successo nulla: «Nemmeno sangue dal naso». Per oggi i sindacati hanno proclamato una giornata di sciopero. Chi vorrà sfilerà in abiti neri per ricordare i minatori scomparsi. I quotidiani sono usciti con le testate listate a lutto. Fiocchi neri sono comparsi sullo sfondo dei programmi televisivi. Bandiere rosse con la mezzaluna e la stella sono visibili ovunque. Anche Papa Francesco ha pregato «per la miniera in Turchia, e per quanti vi si trovano intrappolati nelle gallerie ». A Soma scende la notte, quando non c’è quasi più speranza di trovare qualcuno in vita. Oggi sarà un altro giorno di pianto. La gente torna a pestare i mucchi di carbone per vedere meglio la galleria della morte, sfila per coprire i suoi morti con coperte scure, mastica in silenzio dolore e maledizioni.
Ragazzi sdraiati per terra
il ritorno di Gezi Park
di M. Ans. (la Repubblica, 15.05.2014)
SOMA . Decine di ragazzi per terra, in silenzio, sdraiati: lungo i binari, sui vagoni, nei corridoi della metropolitana di Istanbul. Una protesta simbolo. Come una pièce teatrale. Come l’inizio della rivolta di Gezi Park, proprio un anno fa, il 28 maggio, contro la costruzione di un grande centro commerciale al posto dei 600 alberi del giardino vicino alla centralissima Piazza Taksim. Identificandosi con i minatori crollati a terra nelle gallerie invase dal monossido di carbonio, i giovani turchi stufi dell’arroganza e dei personalismi del premier Recep Tayyip Erdogan hanno idealmente saldato la loro protesta con quella del Parco Gezi.
In molte città, in tutta la Turchia, la gente si è seduta per strada con accanto un casco giallo da minatore. Un anno fa era la protesta dell’“Uomo in piedi”, di fronte al ritratto di Ataturk, il padre della patria, fondatore della Turchia moderna. Poi la sfida della gente sui marciapiedi, con i libri in mano. Oggi la nuova trovata: sdraiati sul metro. Mentre nelle gallerie della miniera di Soma ancora invase da fiamme e fumo continua febbrile il lavoro di centinaia di soccorritori, in una disperata corsa contro il tempo, cresce ovunque la rabbia per un disastro in qualche modo annunciato. Ad Ankara ci sono scontri fra polizia e manifestanti. E l’indignazione monta sulle reti sociali. Fra gli hashtag più popolari su Twitter c’è: @NotAccidentButMurder (@NonIncidente MaOmicidio). «È il peggiore omicidio di lavoro della storia di questo Paese», denuncia infatti Cetin Uygur, già leader del sindacato dei minatori turchi Maden Is.
Così oggi i siti ricordano altrettanto impietosamente, ma con puntualità, le parole pronunciate dal premier Erdogan nel 2010, quando aveva scatenato una valanga di critiche affermando, dopo un incidente in una miniera, che i minatori erano «morti beatamente» e che la morte è «il destino» di chi fa quel mestiere. Ricordando quelle dichiarazioni, ieri un gruppo di manifestanti ha protestato a Istanbul di fronte alla sede della società che gestisce la miniera di Soma, esibendo cartelli con la scritta «Non sono morti beatamente: questo è un omicidio, non è il destino».
L’ecatombe dei minatori di Soma scatena la rabbia dei giovani turchi contro Erdogan
di Al. Sch. (il Fatto, 15.05.2014)
La strage nella miniera di Soma è il più grave incidente sul lavoro della storia della Turchia. Ieri in tarda serata erano già 274 i cadaveri accertati, cui si aggiungono i 120 minatori ancora intrappolati 150 metri sotto terra, con pochissime possibilità di venire tratti in salvo. Secondo le prime ricostruzioni, il disastro, avvenuto nel tardo pomeriggio di martedì, è stato provocato dall’esplosione di un trasformatore che ha provocato un incendio e un cortocircuito elettrico. Gli ascensori, l’unica via di fuga, si sono bloccati, e la miniera è diventata una camera a gas piena di monossido di carbonio. Gli sforzi delle squadre di soccorritori, che hanno tentato di pompare ossigeno dentro la miniera, si sono rivelati insufficienti.
Quest’ecatombe ha già un volto simbolo: è quello di Kemal Yildiz, il più giovane dei minatori morti nel disastro. Si guadagnava da vivere estraendo carbone, ma aveva solo 15 anni. La stessa età di un altro volto simbolo, quello di Berkin Elvan, il ragazzino ucciso negli scontri di Gezi Park. E anche la miniera di Soma, come il progetto per la distruzione del parco di Istanbul, è stata l’occasione per una rivolta popolare che ha preso di mira il primo ministro turco, Recep Tayyp Erdogan. Lo scorso 29 aprile, il suo governo si era opposto alla richiesta, proveniente dall’opposizione, di un’inchiesta parlamentare sulle condizioni di lavoro a Soma. Ieri il premier ha peggiorato ulteriormente la situazione in conferenza stampa, quando ha dichiarato che i disastri in miniera avvengono in ogni angolo del mondo. È stata la scintilla che ha dato il la alle proteste. Prima la sua auto è stata presa a calci da alcuni manifestanti. Poi, nel pomeriggio, la folla l’ha costretto a rifugiarsi in un supermercato. Intanto, di fuori, la sua scorta picchiava quello che, secondo le ricostruzioni dei social network, sarebbe stato il genitore di un minatore. Migliaia di persone sono scese in piazza a protestare a Istanbul, e anche ad Ankara la polizia ha usato lacrimogeni e idranti per contrastare i manifestanti. Per oggi è in programma uno sciopero in tutto il Paese e sono stati indetti tre giorni di lutto nazionale.
Turchia, la tragedia svela il lato oscuro del boom
di Alberto Negri (Il Sole, 15.05.2014)
C’è sempre un Terzo Mondo che scava nelle viscere della terra: una volta eravamo noi italiani i sepolti vivi, come ricorda la tragedia del 1956 a Marcinelle in Belgio (262 morti, 135 italiani), adesso i volti dei minatori sono turchi, cileni, cinesi, africani. La tragedia nella miniera turca di Soma, a 120 chilometri da Smirne - 240 morti e un centinaio di persone intrappolate - è avvenuta non lontano dalle coste del turismo, del boom dell’export, della crescita del Pil, un’affermazione salutata dall’ascesa della Turchia al 16° posto tra le economie mondiali.
Ma questa Turchia affluente ha anche un altro triste primato, è il Paese d’Europa con il maggior numero di incidenti sul lavoro. Nel ’92 263 minatori morirono in un’esplosione sul Mar Nero e negli ultimi 30 anni le vittime nelle miniere sono state almeno 700. L’anno scorso ne sono morti 93 e a novembre 300 minatori - imitando quelli del Sulcis - si erano rinchiusi con l’esplosivo in fondo alla miniera di Zonguldak per protestare contro misure di sicurezza insufficienti. Due settimane fa il partito di opposizione Chp aveva proposto in Parlamento un’inchiesta sulla sicurezza proprio nella miniera di Soma: iniziativa sonoramente bocciata dal partito di governo Akp.
Questa morìa endemica è accettata con un colpevole fatalismo: lo stesso primo ministro Erdogan nel 2010, in seguito a un incidente, affermò che i minatori erano «morti beatamente», aggiungendo che questo è «il destino» di chi fa quel mestiere. La frase allora suscitò un’ondata di polemiche e oggi è destinata a risollevarle perché Erdogan, dopo la svolta autoritaria imboccata a Gezi Park, non perde occasione per distinguersi con dichiarazioni imbarazzanti. La tragedia di Soma appare destinata ad avere una rilevanza politica, come dimostrano ieri le manifestazioni di protesta a Istanbul, Ankara e le contestazioni al premier durante la visita alla miniera. È forse in arrivo un’altra ondata di malcontento per Erdogan che dopo il trionfo alle amministrative punta a vincere le presidenziali: può contare su solide maggioranze e un potere di seduzione che ha esercitato per anni nei confronti delle élite economiche attratte dai suoi innegabili successi.
Ma c’è qualche cosa di più delle cifre nude e crude che proietta ombre sul modello di sviluppo turco, non troppo dissimile da altre potenze in ascesa come la Cina, che ha il record mondiale di produzione di carbone e di morti nelle miniere. La protesta contro i progetti di centro commerciale e moschea a piazza Taksim è stata indicativa dei limiti di questo modello: tra cantieri e colate di cemento all’orizzonte del Bosforo, la società civile lamenta le gravi conseguenze di un liberismo selvaggio.
Per molti turchi questo boom edilizio sfrenato non è un segno di progresso: i frequenti terremoti sgretolano labili edifici di sabbia costruiti sull’onda della speculazione senza seguire le regole anti-sismiche e neppure quelle urbanistiche più elementari. E ora è arrivata la strage di Soma, «di coloro - come Luciano Bianciardi descriveva 60 anni fa i minatori maremmani - che scavano nell’acqua gelida con le gambe succhiate dalle sanguisughe, di coloro che a centinaia di metri di profondità consumano i polmoni respirando silicio e vampate di grisou». C’è una Turchia agra e amara, dimenticata o sfregiata dal miracolo economico: anche a Erdogan conviene riconoscerla e occuparsene.
Soli Ozel, professore di Relazioni internazionali e di Scienze politiche alla Bilgi University di Istanbul
«Un referendum vinto a mani basse»
di Mo. Ri. Sar. (Corriere della Sera, 31.03.2013)
ISTANBUL - « Una vittoria netta per Erdogan e una sconfitta durissima per il Chp di Kemal Kiliçdaroglu». Non ha dubbi Soli Ozel, professore di Relazioni internazionali e di Scienze politiche alla Bilgi University di Istanbul. «È chiaro che queste sono solo elezioni amministrative - dice al telefono commentando a caldo i primi risultati - ma il premier le ha trasformate in un referendum sulla sua popolarità e si può dire, senza ombra di dubbio, che ha vinto a mani basse. L’Akp arriva al 45%, un risultato del tutto rispettabile. Si è confermato vincente a Istanbul Oltre a Istanbul si è riconfermato vincente anche ad Ankara».
Gli elettori hanno creduto alla teoria del complotto per far cadere il governo? Come mai gli scandali sulla corruzione e le leggi liberticide non hanno spostato alcun voto?
«Una strana domanda fatta da un’italiana. Come mai da voi Silvio Berlusconi ha continuato a vincere le elezioni? La risposta è sempre la stessa: la gente preferisce credere al leader in carica, soprattutto quando non c’è un’alternativa convincente».
Cosa succederà ora?
«È difficile dirlo. Bisogna vedere se Erdogan, una volta incassata la vittoria, deciderà di abbassare i toni e cercare una riconciliazione con i suoi oppositori. O se, invece, calcherà ancora più la mano e cercherà la vendetta. L’obiettivo auspicabile dovrebbe essere quello di unire il popolo anziché dividerlo».
Il premier correrà per le presidenziali?
«Siamo un Paese diviso tra il 45% e 55%. In questa situazione per Erdogan sarà difficile diventare presidente senza l’accordo con un altro partito. Forse anticiperà le politiche e farà il primo ministro per la quarta volta modificando le norme vigenti».
La posizione del presidente Gül a questo punto si indebolisce.
«Abdullah Gül ha giocato su due tavoli: ha firmato quello che voleva Erdogan ma dall’altro lato si è schierato contro il blocco di Youtube e Twitter. Così ha perso molta della sua autorevolezza».
Lo scontro con Gülen, il predicatore islamico che vive in Pennsylvania e guida milioni di adepti, è finito?
«Sicuramente Gülen ha dimostrato di non avere un grande seguito elettorale. Il suo risultato è del tutto deludente. Ma il vero sconfitto di queste elezioni è il principale partito di opposizione, il Chp».
Cosa succederà ora nel Chp? Kiliçdaroglu si dimetterà?
«Di certo Kiliçdaroglu dovrà aprire una seria riflessione su un risultato elettorale che vede inchiodato il suo partito a un misero 27%».
Ma il voto fa sfumare le ambizioni del leader
di Antonio Ferrari (Corriere della Sera, 31.03.2014)
Il verdetto del popolo turco è abbastanza chiaro, nonostante il caos, le manipolazioni e lo strano blackout elettrico, a macchia di leopardo, che ha costretto molti scrutatori a un romantico lavoro al lume di candela. Il premier Erdogan, pur ferito e screditato, si salva dal naufragio. Numericamente il leader tiene bene, politicamente si indebolisce per aver trasformato il voto amministrativo in un referendum su se stesso.
Il suo futuro, infatti, è in declino e la presidenza della Repubblica è sempre più lontana. Un sogno di gloria e di presunzione che pare arenato nel deserto dell’arroganza. L’immagine che affiora dalle urne, con i seggi assediati da un’affluenza record che rivela l’estrema politicizzazione (e polarizzazione) della volontà popolare, è quella di una sentenza senza veri vincitori e vinti.
Erdogan, pur travolto dagli scandali, non è stato severamente punito. Però ha corso il rischio di perdere il controllo di Istanbul, la città più importante del Paese con i suoi 15 milioni di abitanti: polo miliardario di appalti dorati. I fedelissimi sostenitori dell’Akp, il partito islamico di cui il premier è l’anima, hanno infatti deciso di restare dalla sua parte, tacitando le correnti di dissenso interne al partito.
Se valesse una metafora sportiva, si potrebbe dire che il voto turco ha espresso un virtuale pareggio: non tra il governo e l’opposizione laica, ma tra chi è sempre con Erdogan, costi quel che costi, e chi invece è contrario al capo del governo ed è pronto ad allearsi col diavolo pur di abbatterlo politicamente.
A conti fatti, il discusso leader resta in sella, anche se i più attenti analisti turchi sostengono, già adesso, che sarà assai improbabile, fra pochi mesi, alle elezioni presidenziali, vedere Erdogan come candidato vincente. Il capo dello Stato, pur indicato dal partito di appartenenza, deve essere espressione della conciliazione nazionale: in sostanza non può essere totalmente sgradito agli avversari, come è accaduto per Ozal, per Demirel, per Sezer, e per lo stesso Gül, che con l’attuale premier è fra i fondatori dell’Akp.
È proprio la divisione in due blocchi dell’elettorato turco, avvenuta ieri, a suggerire le interpretazioni del voto più aderenti alla realtà. Nel fronte islamico moderato ha prevalso la conservazione: più che gli scandali ha pesato sul voto il rischio che la rovinosa caduta di Erdogan riporti il Paese al rigore laicista del passato.
La macchina del consenso è stata quindi tradizionale: controllo della stampa, delle televisioni, comizi con folle oceaniche, capillare propaganda porta a porta. Quella del fronte opposto si è scatenata sui social network, i veicoli della comunicazione più sgraditi al premier. La chiusura coatta di Twitter e YouTube ne ha rivelato, per contro, la forza inarrestabile. Sul web, il giorno delle elezioni, sono stati invitati tutti i sostenitori del «no» ad andare a votare indossando le maglie di tutti i club più famosi, compresi quelli che il premier riteneva dalla sua parte.
In sostanza, per ora, cambierà poco o nulla in Turchia. La guerra tutta islamica fra Erdogan e il predicatore Fetullah Gülen, che vive negli Usa, si è combattuta anche ieri. L’agenzia di Stato e quella di Gülen si sono scontrate velenosamente sui risultati e sui loro interessati (seppur illegali) exit poll. Chi sperava da questo voto un raggio di luce è sempre al buio. E senza candele. Le incognite, invece di risolversi, si sono moltiplicate.
La Turchia a un bivio, al voto fra veleni e scandali
Convulsa fine campagna elettorale. Erdogan si gioca il futuro
di Francesco Cerri *
ANKARA. E’ finita come era cominciata, fra scintille, rivelazioni, scandali, minacce e accuse di spionaggio e tradimento alla patria, nelle ultime ore convulse, la velenosa campagna per le cruciali amministrative turche di domenica, da cui potrebbe dipendere il futuro del premier islamico Recep Tayyip Erdogan, in un Paese forse a un bivio fra Europa e Islam. E’ finita senza il protagonista numero uno, tradito dalle corde vocali dopo un’incredibile maratona elettorale durata più di un mese, con tre comizi al giorno in ogni angolo del Paese. Erdogan ha dovuto annullare gli ultimi meeting di oggi: è rimasto senza voce. Durante un comizio a Van, all’improvviso ieri è passato dal solito tono virile a uno squittio da topolino, lasciando sbigottita la folla di sostenitori.
Il paese è ora in inquieta attesa dell’esito del voto di domenica. I sondaggi, visibilmente inaffidabili, fanno previsioni oscillanti a seconda della vicinanza al potere di chi li ha realizzati. Danno al partito islamico Akp del premier fra il 30% e il 48%. E fra il 20% e il 33% al principale partito di opposizione, il socialdemocratico Chp di Kemal Kilicdaroglu. Erdogan, invischiato negli scandali di corruzione esplosi con la tangentopoli del Bosforo il 17 dicembre, martellato di rivelazioni imbarazzanti uscite su internet durante tutta la campagna, ha detto che lascerà se l’Akp perderà il primo posto (dopo il 50% alle politiche del 2011). Ma la posizione del "sultano" turco diventerà difficile se l’Akp perderà Ankara e soprattutto Istanbul, la megalopoli di cui Erdogan è stato il sindaco, capitale economica e finanziaria del Paese, dove vota un elettore turco su cinque.
Il candidato dell’opposizione, Mustafa Sarigul, potrebbe farcela contro il sindaco uscente dell’Akp, Kadir Topbas. Sulle ultime ore della campagna si sono rovesciati nuovi veleni. Una registrazione uscita su internet ha accusato Erdogan di avere organizzato nel 2010 la diffusione di un video a luci rosse sull’allora capo dell’opposizione, Deniz Baykal, costretto per questo a dimettersi. Il successore di Baykal, Kenal Kilicdaroglu, ha denunciato una "Watergate turca".
Altrettanto devastante un’altra registrazione uscita su YouTube di una riunione nella quale alti responsabili, fra cui il ministro degli esteri, Ahmet Davutoglu, e il capo dei servizi segreti, Hakan Fidan, vicino a Erdogan, preparano un intervento militare in Siria. Sul nastro il capo degli 007 spiega fra l’altro di poter mandare i suoi uomini in Siria a lanciare qualche missile contro il territorio turco, per giustificare una risposta militare di Ankara.
Qualche giorno fa Kilicdaroglu aveva avvertito che Erdogan pensava a una "avventura" militare in Siria prima del voto per distrarre gli elettori dagli scandali di corruzione che inquinano il regime. Le rivelazioni uscite su Youtube hanno provocato un terremoto politico. Erdogan ha ordinato il blocco di YouTube. Una settimana fa era già stato bandito Twitter, l’altra rete sociale sulla quale da settimane escono le denunce di malversazioni contro il premier e altri dirigenti turchi.
Non è chiaro l’impatto che gli scandali avranno sul voto. Erdogan, che l’opposizione accusa di essere un "dittatore" e il "primo ladro", rimane popolare fra quella parte della popolazione anatolica, rurale, islamica, poco istruita e conservatrice, che forma lo zoccolo duro dell’elettorato Akp.
Erdogan ha fatto del voto di domenica un referendum sulla propria persona, spaccando il Paese e denunciando complotti contro il suo proprio governo. Il voto di domenica potrebbe essere un bivio per la Turchia: più autoritaria e islamica, o più europea e democratica.
L’estetica della resistenza
Gioia e rivoluzione
Il testo dello scrittore turco dedicato ai «ribelli» di piazza Taksim
di Burhan Sönmez (l’Unità, 15.03.2014)
(traduzione di Andrea Grechi)
1. LE STELLE BRILLANO MEGLIO NELL’OSCURITÀ PIÙ ASSOLUTA. Le stelle stanno brillando ovunque contro l’oscurità di questo Paese.
2. Gli adolescenti senza fissa dimora che vivono nell’area di Taksim si chiedono quanto durerà la resistenza, perché a quanto pare ricevono pasti gratuiti grazie alla vita comunitaria dei dimostranti. Quello stesso governo che fa tante storie per il consumo di bevande alcoliche nel raggio di cento metri dalle moschee, non mostra la minima apprensione per quanti hanno lo stomaco vuoto entro un centinaio di metri dalle moschee.
3. Gli eventi storici rimangono scolpiti nella memoria della gente con le loro caratteristiche salienti. La vita che ha preso forma a Taksim nell’arco di due settimane ha gettato i semi dell’Utopia in questo paese.
4. Tutti stanno godendo del solidarismo e della libertà. Nessuno si impone sugli altri e tutti ostentano le proprie usanze senza alcun freno. Mentre i musulmani anticapitalisti eseguono le loro preghiere, gli atei mantengono l’occhio vigile sui dintorni. I curdi danzano l’halay, gli aleviti si esibiscono nella loro vorticosa danza rituale, la samah, e i turchi intonano marce. Socialisti, membri della comunità LGBT, tifosi del Besiktas, del Fenerbahçe e del Galatasaray si rimboccano le maniche e si divertono tutti assieme, vegliando gli uni sugli altri. La libertà di ciascuno è presidiata da tutti.
5. Nessuno soffre di stenti, ciascuno è uguale agli altri. Si dona ciò di cui «non si ha bisogno» e si riceve quello di cui «si ha bisogno». Niente denaro, niente proprietà, niente gente affamata.
6. A Gezi Park stiamo sperimentando l’assenza dello Stato. Essere testimoni della serena e civile situazione in questa enclave è un gran privilegio.
7. Per la prima volta nella nostra storia, l’umorismo e la gioia sono diventati il linguaggio del- la resistenza. Nel passato le armi del dissenso sono sempre state la mera forza e il sacrificio estremo; oggi invece ci esprimiamo attraverso il linguaggio lieve e arguto che va oltre le parole di disprezzo.
8. Lo Stato può senz’altro sconfiggere l’estremismo radicale, mai detentori del potere politico non hanno alcun mezzo a disposizione per sconfiggere l’umorismo e la gioia. È per questo motivo che la loro causa è senza speranza. Non ci casca nessuno.
9. La Comune di Parigi durò settantadue giorni. Con l’entusiasmo, abbiamo fatto rivivere quegli stessi principi in due settimane. Quando fu abbattuta nel sangue, gli intellettuali liberali e borghesi stavano ancora dibattendo delle incongruenze, dei difetti e degli errori della Comune. In segno di protesta, Marx evidenziò le potenzialità per il futuro: proprietà e sfruttamento erano stati sradicati e si era data un’opportunità alla democrazia diretta.
10. L’insegnamento di Bedreddin per noi è duplice. Per prima cosa, egli si unì alla sollevazione popolare. In secondo luogo, credeva nell’uguaglianza e nella condivisione. L’Utopia di Tommaso Moro e lo Hayyibn Yaqdhan di Ibn Tufail abitavano il medesimo mondo dei sogni. E anche noi, oggi, stiamo vivendo quel sogno.
11. Stiamo indicando un buon esempio: guardateci, quello che stiamo facendo è una buona cosa. Ma il governo e i suoi pifferai preferiscono fissare il dito anziché la luna e provano in tutti i modi a calunniarci. Il loro obiettivo è indebolire il movimento mettendoci gli uni contro gli altri. Ma noi non cederemo: guardate nella direzione che stiamo indicando, lì vedrete il mare e gli alberi.
12. «Noi amiamo il rosso della rivoluzione e ci battiamo per salvare il verde». Le stesse persone che hanno scritto questo messaggio sui muri hanno ribattezzato una fermata degli autobus «Fermata per contemplare il cielo», un tributo ai poeti scomparsi.
13. Siamo grati a questi giovani: sono arrivati all’improvviso quando la situazione appariva davvero cupa e hanno tratto in salvo l’umanità dal baratro. Chi li ritiene egoisti e ignoranti è in errore. I manifestanti hanno dato un nome a ciascuna delle undici barricate erette a Gümüssuyu, e su una di queste hanno scritto quello di Abdullah Cömert, scomparso la settimana scorsa. Poi, sull’ultima barricata, quella che si affaccia sul mare, hanno scritto a caratteri cubitali, in un nobile gesto, il nome del compianto rivoluzionario Deniz Gezmis.
14. Da soli non contiamo nulla ma, se ci uniamo, possiamo tantissimo. Se non otterremo quello che vogliamo, le lobby trasformeranno la nostra città - e le nostre vite - in un deserto. Per loro, la storia si riduce a un cumulo di “cocci”, o tuttalpiù a uno strumento per generare profitti; venerano il denaro e null’altro.
15. Vogliono prosciugarci senza alberi né acqua, come quegli innocenti a Kerbala. Noi sappiamo benissimo che loro hanno sparso lacrime per Kerbala mentre mangiavano alla stessa tavola di Yazid. Ecco perché celebriamo l’acqua e gli alberi prima del deserto, e la vita prima della morte.
16. Non smettono un istante di parlare di vandalismo. E la distruzione di Gezi Park, non è forse un caso di vandalismo? Noi rivendichiamo la proprietà pubblica nei modi più pacifici e ripetiamo: non danneggiate la proprietà pubblica!
17. In gioco, qui, non c’è solo l’opposizione a un’idea ma anche la richiesta di qualcos’altro. Solidarietà e cooperazione creano fraternità. Da questa grande energia il paese ha tratto benefici in misura ben superiore a qualsiasi indice azionario. Basterebbe questo per decidere di proclamare l’area un sito protetto.
18. Le persone non sono clienti. Dobbiamo continuare a difendere quello che abbiamo raggiunto. Potremmo organizzare un festival della Fraternità e della Solidarietà il 31 maggio di ogni anno. Una celebrazione della libertà alla quale ciascuno prenda parte con i propri colori e la propria identità; un mondo di eguali nel quale il denaro è obsoleto, nel quale tutti portano ciò di cui «non hanno bisogno» e prendono quello di cui «hanno bisogno». È a questo che le persone anelano, per contrastare la paura del grande capitale.
19. Un poeta ci ricorda che al numero degli abitanti di Istanbul bisogna aggiungere coloro i quali non ci sono più. Per onorare i bei morti, dobbiamo assicurare che la città rimanga protetta per chi vivrà qui in futuro.
20. I ragazzi l’hanno scritto in modo assai appropriato sui graffiti: «Anche se saremo sconfitti, ci resterà in bocca il dolce retrogusto della ribellione».
21. Abbiamo imparato tantissimo, abbiamo tradotto tutte le nostre ribellioni e i nostri sogni passati in una nuova lingua. Abbiamo riscritto da capo il nostro passato.
22. Speranza, sogno, utopia! E ribellione! Come se stesse recitando una poesia, un giovane nella piazza declama ad alta voce: «Insieme a voi, abbiamo riscritto da capo tutte le nostre storie d’amore passate».
Le due anime
Turchia. Il velo e i blue jeans
La classe media di Istanbul è divisa tra miti e mode dell’Occidente e nuovi riti -dell’Islam. Ma unita contro il pugno di ferro di Erdogan
di Bernardo Valli (la Repubblica, 28.06.2013)
Undici anni dopo l’avvento al potere del partito islamico-conservatore di Erdogan, a Istanbul si affiancano distinti modi di vita: quello della borghesia che ha radici nella repubblica laica di Ataturk e quello di chi ha tratto profitto dal miracolo economico targato Akp. Mondi spesso avversi che si sono ritrovati durante le proteste: insieme per dire no all’autoritarismo del primo ministro
Vado a Basaksehir, più di venti chilometri a Ovest dal centro della città, sulla sponda europea, per una visita che sta tra l’esplorazione e l’indagine. Sono all’ambiziosa ricerca di quel che ha provocato le manifestazioni di piazza Taksim. A malincuore mi lascio alle spalle il Bosforo, il Mar di Marmara, il Corno d’Oro, ed entro nei quartieri satelliti della metropoli di quindici milioni di abitanti. Dall’azzurro del mare al grigio del cemento; dai classici minareti di Sultanahmet agli sfacciati grattacieli del miracolo economico turco, in gara con il primato di quello cinese. Prendo l’autostrada per Edirne, l’antica Adrianopoli della Tracia orientale, e lungo il percorso vedo lo straordinario inurbamento di un paese un tempo contadino. Quasi l’ottanta cento della popolazione ha lasciato la campagna per le città. Istanbul non finisce mai. Neppure arrivato a Basaksehir ne vedo l’estrema periferia.
Il primo ministro Erdogan, nostalgico dell’impero ottomano, personaggio invadente, sognatore e moralista, la vorrebbe austera e al tempo stesso ancora più grande, più nuova, alla pari o meglio delle principali capitali del mondo. Non era anch’essa una capitale quando ospitava il califfo? A Erdogan non mancano le idee: vuole un terzo aeroporto; un terzo ponte tra le due sponde del Bosforo; un tunnel sottomarino tra la riva asiatica e quella europea. Vorrebbe spendere quattrocento miliardi di dollari, più della metà del Pil, in opere da costruire prima del 2023, quando si celebrerà il centenario della Repubblica turca, fondata da Mustafa Kemal Ataturk. Le manifestazioni di piazza Taksim sono state anche una reazione, un segno di smarrimento, un capogiro, di fronte a questa valanga di progetti riversati sul Bosforo. Ma c’è qualcosa di più profondo.
A mandarmi a Basaksehir, uno dei trentanove distretti della Grande Istanbul, formato da una costellazione di quartieri con un totale di almeno un milione di abitanti, è stato un sociologo dell’Università Bahcesehir. Me l’ha quasi ordinato. Non sono le sue esatte parole, ma ha detto in sostanza: se ti lasci incantare dal Bosforo, come un turista davanti al Colosseo, non capirai nulla della Turchia d’oggi; se vuoi sapere cosa è accaduto in piazza Taksim devi inoltrarti nella metropoli; attraverso il paesaggio urbano scoprirai il significato degli avvenimenti che nelle prime due settimane di giugno hanno rivelato la nuova società turca.
Per lui, per il professore della Bahcesehir, quegli avvenimenti sono stati qualcosa di simile a una tentata consacrazione della democrazia ancora incerta, interrotta dalla violenza e dal sangue, ma soltanto rinviata. Il primo ministro la pensa in un altro modo, per lui sono stati un attentato alla sicurezza nazionale ordito da forze straniere, e sventato dall’eroica polizia. E così ha cercato di risvegliare la “sindrome di Sèvres”, come i turchi chiamano il complesso d’accerchiamento, di persecuzione, riferendosi al trattato che nel 1920 smembrò l’impero ottomano sconfitto. Un’esagerazione.
In poco meno di vent’anni, in un’area un tempo riservata all’esercito, è stato costruito il distretto di Basaksehir, via via popolato con criteri ben precisi, al fine di garantire l’omogeneità religiosa e un’adeguata osservanza dei precetti annessi. Il tutto in una versione borghese. Insomma una città satellite fatta su misura per gli elettori dell’Akp, il partito islamo- conservatore di Erdogan, che prima di diventare primo ministro è stato sindaco di Istanbul.
Basaksehir è uno dei laboratori in cui è stata concepita, realizzata la nuova classe media. Quella che le telenovela turche hanno pubblicizzato nel mondo musulmano, fino a farne un sospirato modello di Islam moderno, del Ventunesimo secolo, per le primavere arabe.
Dal 1994 in poi si sono insediate in questo ampio spazio urbano famiglie in gran parte a basso e medio reddito, provenienti dai piccoli centri rurali dell’Anatolia e attirate dalla possibilità di diventare proprietarie, grazie ai crediti agevolati. E quindi candidate a una promozione sociale. Erano, lo sono ancora, i tempi gloriosi delle “tigri dell’Anatolia”, del veloce sviluppo economico che ricorda quello delle “tigri” del Sud Est asiatico. Il Pil cresceva e crescevano i redditi individuali.
La mia guida, una sociologa, ha seguito la nascita e lo sviluppo di Basaksehir e la formazione della neo borghesia musulmana che la popola. Dagli abiti delle passanti capisce il loro livello di imborghesimento. Le donne non ancora del tutto liberate dall’impronta contadina nascondono i capelli con foulard multicolori, vistosi. Le più ricche preferiscono copricapo sobri: neri, grigi o marrone. Prima di annodarli sotto il mento, molte ragazze li avvolgono attorno al collo. La loro disinvoltura sarebbe riconoscibile dal modo in cui esibiscono quello che noi chiamiamo impropriamente il “velo islamico”. E comunque lo accompagnano con blue jeans. Si differenziano per l’abbigliamento assai più spigliato, le numerose hostess che abitano a Basaksehir, non distante dall’aeroporto Ataturk di Istanbul. Si distinguono anche le trecento famiglie di ufficiali in pensione, o epurati in seguito al declassamento politico dell’esercito, rimasti nella zona come relitti kemalisti (laici), in un mare musulmano.
Sono eccezioni che mettono in risalto l’omogeneità della neoborghesia religiosa. All’inizio la città satellite non è stata concepita come un insieme di comunità recintate, poi sono stati però innalzati muri di protezione per i quartieri e le case individuali, sono stati moltiplicati i cancelli e assoldati schiere di guardiani per sorvegliare gli ingressi.
Crescevano i redditi e si accentuava l’autosegregazione di ispirazione americana. La quale si è sviluppata insieme al sentimento di vivere in una zona sempre più residenziale, con l’implicita promozione sociale degli abitanti. Così si è affermata la consapevolezza di appartenere ormai a una classe privilegiata e, quel che più conta, di avere raggiunto o di essersi avvicinati alla vecchia borghesia laica, insediata all’estremità nord-ovest di Istanbul.
Il risultato è che undici anni dopo l’avvento al potere del partito islamico-conservatore, nell’ex capitale imperiale si affiancano, sopravvivono o si sviluppano, due distinti modi di vita. I quali si imitano, si invidiano, si ghettizzano, si mischiano. Da un lato una borghesia con le radici nella repubblica laica di Ataturk, dall’altro una borghesia frutto del miracolo economico adesso gestito da un islamismo oscillante tra democrazia e autoritarismo.Benché estranei uno all’altro questi due universi si influenzano a vicenda. Nonostante le origini ben distinte cominciano a disegnarsi linee di convergenza: nel modo di pensare, nei comportamenti, nell’estetica.
A Piazza Taksim la convergenza ha prevalso sulla divisione. Il polarismo non è scomparso, sopravvive, ma le diverse entità hanno trovato punti in comune. Molte ragazze di Basaksehir hanno raggiunto il centro di Istanbul per partecipare alle manifestazioni. I loro foulard islamici si distinguevano tra le capigliature scoperte. E adesso parlano della loro esperienza con emozione. Gümüs, foulard islamico e jeans, e laurea in letteratura americana, si fa attenta quando le dico che le giornate di piazza Taksim mi ricordano, per certi aspetti, il maggio ’68. Le elenco i principali mutamenti provocati dalla rivolta giovanile europea e cito anche una certa liberazione sessuale. Reagisce subito, come se avessi infranto un tabù: «No, non c’è una somiglianza tra quel ’68 e le nostre manifestazioni».
Un professore universitario, Cengiz Aktar, sostiene che piazza Taksim non è stata una reazione laica all’islamismo rampante, ma una generale ripulsa dell’autoritarismo di Erdogan. La sua megalomania sul piano urbanistico e la sua intrusione nella vita intima della gente avrebbero provocato un rigetto, sia tra i laici sia tra i religiosi. Gli uni e gli altri, insieme, hanno girato le spalle a un padre invadente.
Un tempo il primo ministro voleva persino che l’adulterio ritornasse ad essere considerato un reato. Fu dissuaso dalle reazioni europee. La limitazione nel consumo dell’alcol è apparsa a molti un inutile accanimento, poiché non c’è alcolismo in Turchia, e perché colpisce una vecchia tradizione militare kemalista. Negli anni ruggenti della repubblica di Ataturk un ufficiale che non beveva alcol era guardato con sospetto. Alcune idee sono state prese come violazioni della libertà individuale: quella di disciplinare l’aborto, quella di suggerire un uso più attento del taglio cesareo, quella di consigliare almeno tre figli ( o addirittura cinque).
Il 6 giugno scorso viene citato come esempio. Quel giorno ricorreva una festa musulmana e i manifestanti laici, moderati o di sinistra, hanno sospeso l’uso dell’alcol per rispettare i manifestanti religiosi che avevano abbozzato una piccola moschea. Così su piazza Taksim e nell’annesso parco Gezi si è creata un’imprevista unione, avvalorata dal fatto che gli slogan ostili erano soprattutto rivolti contro Erdogan e molto di rado contro l’AKP, il suo partito. Le giovani di Basaksehir (Gümüs compresa) unitesi alla protesta erano elettrici del partito, e penso lo resteranno. Ma non lo saranno più di Erdogan. Come se la caveranno resta un’incognita.
Amo la mia Istambul che si è ribellata all’autoritarismo
di Elif Shafak (la Repubblica, 20.06.2013)
Istanbul assomiglia a una matrioska: apri una bambola e all’interno ne trovi un’altra. È una città di colori e contrasti. Una città di storie non narrate. E al cuore di tutto c’è piazza Taksim, ora sotto una nuvola di gas lacrimogeni.
Tutto ha avuto inizio dalla protesta pacifica per salvare gli alberi di un parco pubblico. Il governo è stato irremovibile nel proposito di abbattere Gezi Park per ricostruire le baracche dell’esercito ottomano, che verrebbero trasformate in un museo o in un centro commerciale. Il governo ha preso questa decisione senza un opportuno dibattito nella società o nei media. La popolazione non ha avuto la possibilità di esprimere il proprio parere. Molti istanbuliti preferivano proteggere il parco che avere un centro commerciale. Tra di loro alcuni hanno finito coll’occupare il Gezi Park con tende e chitarre. Erano giovani, in buona parte. E non necessariamente politicizzati o impegnati in politica.
La repressione della polizia è stata inflessibile e sproporzionata. I giovani ambientalisti disarmati sono stati picchiati e le loro tende sono state date alle fiamme. Il giorno seguente, quando Internet e i media (alcuni media) hanno iniziato a trasmettere le immagini degli agenti della polizia in assetto di combattimento che facevano un uso eccessivo del ricorso alla forza, la società intera è rimasta sconvolta e sgomenta. Centinaia di persone sono scese in piazza. Le donne hanno partecipato percuotendo coperchi e pentole dai balconi. Liberali, cittadini di sinistra, nazionalisti, kemalisti, aleviti, e giovani... nel giro di pochi giorni perfino i cittadini apolitici si sono politicizzati.
In un’intensa lettera indirizzata al Primo ministro, un giovane istanbulita, direttore creativo di un’agenzia pubblicitaria, ha scritto: “Sa perché sono sceso in strada, mio caro Primo ministro? Perché non voglio che mio figlio viva queste stesse cose. Perché voglio che cresca in un paese democratico”.
Gli appelli sinceri e umani come questo sono rimasti inascoltati. I primi giorni per le strade si respiravano speranza e spensieratezza. Questa forma di ottimismo però ha subito lasciato il passo all’amarezza. Come sempre, la violenza della polizia ha innescato la violenza per le strade. Le dimostrazioni sono divampate ovunque come un incendio.
In un attimo si sono registrati tumulti in oltre 70 città. Sono rimaste ferite 2400 persone e i morti sono almeno quattro. Da lì sono nate altre proteste, e altre violenze. Il personaggio al centro di tutto ciò, il Primo ministro Erdogan, avrebbe potuto scegliere un approccio più soft, toni più contenuti. Avrebbe potuto placare la folla. Non lo ha fatto. I suoi discorsi, al contrario, hanno attizzato gli incendi. Ha redarguito i manifestanti, chiamandoli “razziatori”. Ogni suo discorso ha innescato una nuova reazione violenta.
Durante questi 13 giorni di sospensione nei quali piazza Taksim è stata occupata dai dimostranti, sono comparsi manifesti di ogni tipo, con l’effigie di Ataturk, il fondatore della Turchia moderna; con quella di Deniz Gezmis, l’iconico leader della sinistra impiccato negli anni Settanta; con le bandiere turche; con il simbolo della pace. Questi manifesti mettono in luce la eterogeneità dell’opposizione. Persone che di norma non starebbero mai insieme, oggi cantano fianco a fianco in piazza Taksim. A unirle è lo sdegno nei confronti del governo.
Gli eventi non si stanno ancora placando e resta ancora da trovare una soluzione. Dopo giorni di tumulti e tensione, nell’aria si respira l’odore acre dei lacrimogeni, e i cuori sono impregnati di amarezza.
Questa non è la Primavera turca e nemmeno l’Estate turca. Più che altro perché la Turchia è un paese diverso, con una lunga storia di occidentalizzazione, modernità e laicismo dietro di sé. Questo è un bivio per la Turchia e per i politici turchi. Niente sarà più uguale a prima. Questa non è una spaccatura tra “kemalisti” e “islamisti”. All’improvviso il vaso di Pandora è stato aperto, e ne sono usciti nuova rabbia e vecchi rancori accumulatisi nel tempo.
La ragione principale di questi scontri non è l’islamismo, come ipotizzano alcuni commentatori in Occidente. La causa di tutto è l’autoritarismo.
L’autoritarismo ha una lunga storia in Turchia. L’Impero ottomano nacque da una forte tradizione statale. L’élite kemalista modernizzò la società dall’alto verso il basso, poiché credeva in uno stato forte. E così pure il suo evidente avversario, il partito Ak. Ogni qualvolta un’opposizione o la possibilità di un’opposizione prospera, le tendenze autoritarie reagiscono.
In Turchia lo stato è forte e nonostante ciò è trattato come se fosse fragile. È sempre lo stato a essere protetto dalle opinioni critiche dei singoli individui. In una vera democrazia, invece, si proteggerebbe il singolo individuo dallo strapotere statale. Traduzione Anna Bissanti
Come alberi nella piazza perché il mondo giudichi
di Deniz Ozdogan (la Repubblica, 19.06.2013)
Lunedì sera un Uomo si è fermato a guardare. Verso le 18, un Uomo, Erdem Gündüz, si è messo in piedi, immobile, in mezzo a piazza Taksim, con lo sguardo rivolto al Centro Culturale Atatürk, ora chiuso, su cui sono appese le due enormi bandiere turche e il ritratto di Atatürk. È rimasto fermo così quasi per sette ore. La notizia è esplosa nella rete. Sono arrivati altri uomini e altre donne in piazza. Poi la gente in ogni dove, da Smirne a Londra, ha cominciato a “fermarsi”. Nel Palazzo di Giustizia ad Ankara gli avvocati, i deputati nel Parlamento... Perché ieri sera un Uomo si è fermato a guardare.
L’Uomo dopo tutti questi tempi di urla, canti, slogan, spari e morti, dopo tutto quello che in questi giorni è stato detto, ha taciuto. È rimasto fermo e zitto. Fermo e zitto come un albero, dritto e paziente, che cresce, che guarda, che respira e fa respirare. Fermo e zitto come un seme, che dentro di sé ha già tutto, che è figlio di questi giorni ed è speranza per domani. E nel suo silenzio e nella sua immobilità, l’Uomo ha ricordato. L’Uomo si è fatto poesia e ha costretto lo spettatore a giudicare da solo.
La protesta dell’Uomo in piedi ecco l’ultima sfida a Erdogan
Per sei ore il coreografo Erdem Gündüz è rimasto a piazza Taksim senza parlare
Lo sguardo rivolto al ritratto di Ataturk
La polizia di Istanbul lo ha portato via ma il suo gesto è diventato un simbolo della rivolta turca
E migliaia lo hanno imitato
di Marco Ansaldo (la Repubblica, 19.06.2013)
ISTANBUL Quante immagini plastiche ci ha regalato la rivolta laica della Turchia. La prima è quella della ragazza con la giacca rossa, ferma come il passante impavido di Piazza Tienanmen davanti al carro armato, lei qui immolata agli idranti lanciati dalla polizia. Poi è venuto il pinguino con la maschera antigas, dissacrante presa in giro di un’importante tv locale, che nel momento della repressione a suon di lacrimogeni invece di mostrare Piazza Taksim nel fumo, per autocensura diffondeva documentari sui teneri acquatici.
L’ultima foto che ora fa il giro del mondo è quella dell’Uomo in piedi, un giovane coreografo di Istanbul: Erdem Gunduz. L’altra sera si è fermato nel piazzale simbolo della protesta contro il premier islamico Tayyip Erdogan, e trasformandosi in una muta statua umana ha cominciato a fissare l’enorme stendardo rosso con il ritratto del fondatore della Turchia moderna, Mustafa Kemal, cioè Ataturk, ispiratore dei laici. Lo ha fatto senza muoversi, per 6 lunghe ore.
Una protesta solitaria e geniale nella sua semplicità, perché ha superato di colpo i divieti di assembramento emanati dalle autorità dopo le durissime repressioni di Piazza Taksim e del vicino Gezi Park. La gente ha capito. E ha subito protetto l’artista mettendosi ai lati. Alla fine gli agenti lo hanno comunque portato via, non sapendo nemmeno bene loro sulla base di quale accusa.
E’ stato lì che la contestazione, da solitaria, si è fatta comune. Una, dieci, cento persone hanno imitato Gunduz. Anche loro, come l’Uomo in piedi hanno assunto la posa muta, irrigidendosi, lo sguardo fisso sul Padre della patria. E il tam tam delle reti sociali si è messo in azione.
Un fiume in piena. Perché per tutta la giornata, migliaia di angeli, di statue mute e irate, apparivano come per magia qui e là a Istanbul. Alcune nel quartiere di Sisli, davanti alla redazione del giornale turco-armeno Agos, dove nel 2007 era stato ucciso il direttore Hrant Dink, altre davanti al Tribunale. Ad Ankara, la capitale, i curdi si trasformavano in statue di sale davanti al Parlamento. Così anche a Smirne, Antalya, Antiochia, Sivas. Migliaia di persone immobili, silenziose, arrabbiate. Una sfida muta e accusatoria contro Erdogan.«Esprimo un dolore», ha scritto Gunduz, il coreografo provocatore, su Twitter.
Da oggi la protesta ha una formidabilearma in più. Perchél’immagine dell’Uomo in piedi va insieme a quella della nonna che lancia la fionda sui blindati; al pianista tedesco di origine italiana Davide Martello che porta il suo strumento a coda nella piazza della contestazione; all’artista turca Sukran Moral, storica attivista dei diritti umani, arrivata a incidersi la pancia con una lametta facendo scorrere sul suo corpo rivoli di sangue per simboleggiare tutte le vittime.
Chi ha organizzato questa protesta?, chiediamo agli angeli della rivolta. «Nessuno. Tutti», rispondono le statue immobili di Piazza Taksim. A piegare l’impatto di pallottole di gomma e manganelli veri, in Turchia c’è ora una nuova forma di disobbedienza civile. Un atto spontaneo, senza leader, forse travolgente.
Turchia, il governo: sciopero illegale.
Ferito e fermato un fotografo italiano
I sindacati di diverse categorie hanno indetto l’agitazione in segno di protesta contro le violenze della polizia. Il ministro dell’Interno minaccia: "non sarà permessa". Nuovi scontri nella notte, lacrimogeni e cannoni ad acqua contro i manifestanti ad Istanbul e Ankara. Centinaia di arresti: Stefanini, fotoreporter livornese, preso a manganellate e fermato ieri a Taksim *
ISTANBUL - Mentre gli scontri non si placano in Turchia, i sindacati hanno proclamato per oggi uno sciopero generale per protestare contro la violenta repressione delle manifestazioni di piazza da parte della polizia. Dipendenti pubblici, ingegneri e architetti, medici e dentisti si recheranno sui posti di lavoro, dichiareranno la propria contrarietà alle azioni del governo e poi incroceranno le braccia. Ma il ministro dell’Interno turco, Muammer Guler, ha definito l’agitazione "illegale" e ha detto che non verrà pernessa: "Chiedo ai dipendenti pubblici di non partecipare ad azioni illegali", ha detto rispondendo ai giornalisti ad Ankara.
Fotoreporter livornese fermato a Taksim. Dopo un’altra notte di scontri, la diciottesima dall’inizio delle proteste, alle prime ore del mattino le forze di sicurezza hanno usato gas lacrimogeni e cannoni ad acqua contro i manifestanti riuniti ad Ankara e bloccato migliaia di attivisti a Istanbul mentre tentavano di raggiungere piazza Taksim. Sono circa 600 le persone fermate dalla polizia ieri ad Istanbul e Ankara, secondo gli avvocati turchi. Fra loro c’è anche un fotoreporter italiano: il 29enne Daniele Stefanini, livornese, che stava riprendendo con la sua macchina fotografica gli scontri in Piazza Taksim, quando è stato colpito da alcune manganellate.
Ferito, Stefanini, che era in Turchia da qualche giorno per un reportage fofografico, è stato trasportato in ospedale e medicato; quindi è stato portato al posto fisso di polizia, dal quale è riuscito a mettersi in contatto con i genitori e con l’ambasciata italiana. Oggi verrà interrogato dalle autorità turche, conferma la Farnesina, che lo assiste tramite le autorità consolari. Il suo rientro in Italia dovrebbe avvenire domani o mercoledì.
Picchiato giornalista turco, la gente reagisce. I giornalisti sono nel mirino delle forze di polizia: diversi reporter sono stati picchiati o arrestati dalle forze antisommossa. Sul sito di Reporter senza frontiere Europa sono state diffuse fra l’altro le immagini dell’arresto del giornalista turco Gokhan Bicic, fermato e buttato a terra da quattro agenti. Dalle finestre delle case la gente ha urlato ai poliziotti di lasciarlo stare, poi ha iniziato a buttare oggetti di ogni tipo, anche una sedia in plastica, sugli agenti, che hanno comunque trascinato via il cronista.
Gli attivisti dell’opposizione hanno denunciato che la polizia è intervenuta con cannoni ad acqua contro un ospedale vicino a piazza Taksim dove i manifestanti si erano rifugiati. Alcuni hanno anche riferito di essere stati attaccati da sostenitori del governo dell’Akp senza che la polizia intervenisse.
* la Repubblica, 17 giugno 2013
Turchia: proseguono gli scontri a piazza Taksim. ’Agenti chimici negli idranti’
Un milione in piazza per Erdogan, che dice: ’Mio dovere ’ripulire’ Gezi Park’. Cariche e scontri
di Francesco Cerri *
Viale Istiklal, Piazza Taksim, Besiktas, il ponte sul Bosforo: nomi che fanno scattare nella mente di milioni di turisti immagini di vacanze orientali, di cartoline variopinte. Oggi questi posti nel cuore di Istanbul erano zone di guerra. Una guerra, con tanto di sostanze urticanti usati dalle forze dell’ordine, che continua nella notte. Decine di migliaia di persone sono di nuovo scese in piazza nella megalopoli del Bosforo per marciare su Taksim e denunciare il brutale assalto ieri notte della polizia a Gezi Park e ai giovani indignados che lo occupavano.
Un attacco feroce, che ha fatto 800 feriti, fra cui bambini colpiti da proiettili di gomma, decine di persone ’bruciate’ dagli agenti urticanti messi dalla polizia nell’acqua degli idranti - come denunciato dalle foto degli attivisti nelle quali si vedono chiaramente i poliziotti caricare la sostanza ’Jenix’ nei blindati - o soffocate dalle nuvole di gas lacrimogeni. Mentre le forze antisommossa arrestavano i medici che avevano curato i manifestanti feriti, picchiavano un deputato di opposizione, avvocati e giornalisti. E’ in atto "una guerra contro la popolazione", ha accusato la presidente dei Verdi tedeschi Claudia Roth, intossicata dai lacrimogeni.
Una folla enorme si era riversata verso Taksim già nella notte non appena si era sparsa la notizia dell’attacco. Per ore ci sono stati durissimi scontri in tutta la città. I due grandi sindacati di sinistra Kesk e Disk hanno proclamato uno sciopero generale da domani. La guerriglia è ricominciata a fine mattinata. Le forze anti-sommossa, appoggiate da blindati, cannoni ad acqua, fra raffiche di gas lacrimogeni e granate assordanti, hanno impedito l’accesso a Taksim. La polizia ha attaccato con grande brutalità i manifestanti che si avvicinavano pacificamente al cuore della città. Via Istiklal, icona della Istanbul turistica, è stata sommersa sotto i lacrimogeni, mentre centinaia di agenti protetti dietro mezzi blindati la risalivano. Dozzine di giovani sono stati arrestati, ammanettati, allineati, trascinati verso i cellulari, costretti per umiliarli a camminare piegati in due.
Stesse scene a Besiktas, Sisli, Kurtulus, a Gazi, il quartiere alawita di Istanbul. A Kizilay, nel cuore di Ankara, gli scontri sono iniziati a fine mattinata, quando la polizia ha bloccato il feretro del giovane manifestante Ethem Sarisuluk, ucciso proprio a Kizilay da una pallottola nel cervello sparata da un agente. Le forze antisommossa hanno poi attaccato con lacrimogeni e cannoni ad acqua le migliaia di persone che aspettavano pacificamente l’arrivo dei funerali, molte con un garofano rosso in mano. La polizia ha continuato tutto il giorno a sparare - incurante del traffico di auto, bus e taxi in mezzo alla piazza - centinaia di candelotti lacrimogeni, a tiro teso, a altezza d’uomo, verso i manifestanti. Ci sono state manifestazioni e scontri in molte altre città. A Konya i manifestanti sono stati aggrediti da militanti del partito islamico di Erdogan.
A Istanbul, a meno di 10 chilometri da dove stava continuando la battaglia di Taksim, una folla enorme - un milione secondo gli organizzatori - di sostenitori del partito islamico, trasportati da decine di autobus e traghetti, acclamava il premier. Il comizio era stato organizzato per fare una dimostrazione di forza, rispondere alle centinaia di migliaia di giovani scesi in piazza in tutto il paese per chiedere la fine della repressione, più democrazia e le dimissioni del premier. Con il rischio di gettare ulteriore benzina sulle fiamme cha già stanno divampando nel paese. Erdogan ha affermato che era suo dovere "ripulire" Gezi Park.
E ha di nuovo parlato di complotto contro il suo governo da parte di lobby finanziarie, del capo dell’opposizione, della stampa estera, e annunciato ritorsioni contro chi ha simpatizzato con i manifestanti. Tutte le tv turche - anche, e soprattutto, quelle che hanno ignorato la protesta dei giovani - hanno trasmesso in diretta il comizio. Halk tv, la piccola emittente di sinistra che ha sfidato il potere fin dai primi giorni trasmettendo la diretta delle manifestazioni dei giovani, si è presa la soddisfazione di interrompere la diretta con immagini di un documentario sui pinguini. Una delle grandi tv di informazione turche aveva trasmesso appunto un documentario sui pinguini durante i primi durissimi scontri di Piazza Taksim il 31 maggio. Da allora il pinguino con una maschera antigas sul becco è un simbolo della rivolta dei giovani turchi.
*ANSA, 16 giugno 2013, 22:50
Turchia, la denuncia dei manifestanti:
"Azione atroce a Gezi Park, centinaia di feriti"
La polizia è entrata nell’area verde di piazza Taksim, facendo uso massiccio di gas lacrimogeni contro i dimostranti. Nuove manifestazioni nella notte anche ad Ankara e Smirne *
ISTANBUL - Centinaia di feriti e un numero imprecisato di arresti: l’azione della polizia ieri sera a Gezi Park, a Istanbul, è stata "atroce". Lo dichiara sul proprio sito web Taksim Solidarity, gruppo che racchiude varie anime del movimento turco di protesta. Ieri la polizia è entrata intorno alle 20 nell’area verde di piazza Taksim, facendo uso massiccio di gas lacrimogeni contro i dimostranti, che sono stati cacciati dall’area. L’organizzazione precisa che i numeri sono stime iniziali. Intanto, l’ufficio del governatore di Istanbul ha fornito un bilancio assai inferiore, parlando di 44 persone curate in ospedale, nessuna in serie condizioni.
Nuove manifestazioni durante la notte. Nelle ore successive migliaia di persone sono di nuovo scese nelle strade della città, con l’obiettivo di raggiungere piazza Taksim da diverse parti. Le immagini televisive hanno mostrato la gente camminare nelle strade principali e sul ponte sul Bosforo, attaccata con i lacrimogeni dalla polizia che voleva impedirle di arrivare nella piazza al centro delle proteste. Intanto, i dimostranti nelle strade intorno a piazza Taksim hanno alzato barricate improvvisate e tentato di sfuggire ai getti di cannoni ad acqua, ai proiettili di gomma e ai gas lacrimogeni sparati dalla polizia. Gli scontri sono durati ore, fino alle prime ore di oggi. Gli agenti in tenuta antisommossa hanno circondato il Gezi Park per impedire che i dimostranti vi tornassero.
Si protesta anche in altre città. Massicce proteste contro il governo si sono tenute nella notte anche ad Ankara e Smirne. Nella capitale, sono state almeno 3mila le persone che si sono radunate nella John F. Kennedy street, non lontano dall’ambasciata Usa e dal Parlamento. Deputati dei partiti di opposizione si sono seduti a terra in testa alle proteste, sfidando la polizia in assetto antissommossa che è intervenuta. Migliaia di persone hanno manifestato anche a Smirne.
Ruspe a Gezi Park. Ieri ruspe sono entrate a Gezi Park, dove hanno distrutto tende, strutture improvvisate e striscioni allestiti dai dimostranti in due settimane di proteste. Decine di persone sono entrate a fianco della polizia, dotate di elmetti protettivi e giubbotti fosforescenti, incaricate di ripulire l’area verde, cuore delle proteste.
Migliaia di sostenitori di Erdogan a Istanbul. Decine di migliaia di persone sono attese oggi a Istanbul per un evento a sostegno del premier, Recep Tayyip Erdogan. Il comizio, una prova di forza del governo, è destinato a creare tensione. Intanto, i portavoce del partito al governo in Turchia, Giustizia e Sviluppo (AKP), Huseyin Celik, ha detto che il governo ’’deve garantire la protezione della sua gente’’, difendendo l’intervento della polizia a piazza Taksim e parco Gezi.
* la Repubblica, 16 giugno 2013
La linea verde di Istanbul
di Carlo Petrini (la Repubblica, 14 giugno 2013)
Dal ponte di Galata a Gezi Park ci sono tre chilometri e mezzo. Tre minuti di funicolare per arrivare all’imbocco di Istiklal Caddesi, la strada che sfocia nella piazza Taksim. In basso, verso il Corno d’oro, il brulicare umano di sempre: traffico, cantieri aperti, tram modernissimi accanto a vecchi carretti di ambulanti. In alto, la via commerciale della Istanbul moderna. Tre minuti di funicolare sotterranea che sono stati il simbolo di una distanza tra due mondi completamente separati: da una parte la vita quotidiana assolutamente normale, dall’altra le scene di guerriglia urbana riprese dalle televisioni di tutto il mondo.
La raccomandazione era di non salire con la funicolare fino là, per l’aria resa irrespirabile dai lacrimogeni, per gli scontri in corso. Fa un certo effetto vedere la piazza Taksim “liberata” dai manifestanti e il contiguo Gezi Park, dove ancora tende e striscioni colorati spiccano tra gli alberi. Quegli alberi che sono oggi il simbolo di una rivolta forse più grande di quanto ci si aspettasse.
C’è aria di smobilitazione, ma si avverte anche una tensione latente. Al centro della piazza, un uomo anziano con un improbabile impermeabile di nylon giallo sta in piedi immobile e tiene in alto una grande bandiera turca.
La scalinata che dalla piazza sale all’entrata del parco è ancora chiusa quasi completamente dalle barricate, c’è uno stretto passaggio attraverso il quale però le persone circolano liberamente, tra striscioni e cartelli dei più diversi schieramenti. Dentro, chi raccoglie i sacchi a pelo, chi smonta l’accampamento, chi discute seduto in cerchio.
La via Istiklal, di solito affollata, riprende lentamente ad animarsi appena poche ore dopo gli scontri tra la polizia, armata di caschi, idranti e lacrimogeni, e migliaia di giovani, arrivati qui da tanti quartieri della Istanbul metropolitana, attrezzati con mascherine antipolvere ed elmetti da cantiere.
Si ha l’impressione che il fuoco covi sotto la cenere e che questa giornata di tregua, durante la quale Erdogan si è impegnato a dialogare, non sia che una tappa di un percorso più lungo a venire. Il movimento appena nato per difendere gli alberi di Gezi Park minacciati dalla costruzione di un gigantesco centro commerciale (l’ennesimo a Istanbul) è qualcosa di completamente nuovo in questo contesto. Anche all’occhio di un turista senza particolari convinzioni ambientaliste, l’idea che questa macchia di verde nel pieno centro cittadino scompaia appare del tutto illogica.
Non sono soltanto concezioni urbanistiche diverse a confrontarsi aspramente, ma due filosofie di vita, in questa Turchia che cresce a ritmi impressionanti ma fatica a trovare una sintesi tra due mondi culturalmente diversi. Per anni la laicità, imposta anche con la forza dell’esercito, ha sottomesso le istanze religiose della popolazione a maggioranza musulmana; oggi le parti si sono invertite e un governo di ispirazione religiosa sottomette la moderna laicità dei giovani che guardano all’Europa e alla democrazia. Certamente Erdogan gode di una maggioranza elettorale riconosciuta, ma sa anche essere totalmente irrispettoso e arrogante di fronte a questi giovani.
La distanza tra i due mondi si avverte proprio guardando al focolaio di piazza Taksim da una parte e l’umanità immersa nelle quotidiane occupazioni dall’altra, in tutto il resto della città. C’è però un elemento che sembra unire le due anime di Istanbul nel sostegno morale alla protesta per l’abbattimento degli alberi: alle nove di sera - e poi ancora più volte nel corso della serata - le luci delle case a Beyoglu, il vasto quartiere esteso dalle sponde del Bosforo in direzione nord ovest dove tutto questo si svolge, si accendono e si spengono, e dalle finestre aperte delle case la gente batte sulle pentole con gli attrezzi da cucina, facendo salire verso il cielo un costante martellare sonoro, dal timbro metallico, simile al rumore delle cicale che cantano d’estate proprio tra gli alberi che il progetto edilizio del governo vorrebbe abbattere.
A Gezi Park c’era e c’è ancora una piccola postazione di giovani simpatizzanti di Slow Food che durante l’occupazione hanno realizzato un orto. Oggi lo hanno smantellato, preparandosi una via di fuga in vista dello sgombero finale. Defne Koryurek, leader di Slow Food a Istanbul, mi dice: «È stato un gesto quasi spontaneo realizzare una biblioteca e un orto, basati sulla collaborazione e sulla voglia di condivisione. Quest’orto non ha padre né madre, ma è figlio del lavoro di una comunità intera. Per anni, come gruppo, ci siamo opposti ai progetti faraonici di questa città: il terzo ponte sul Bosforo, il nuovo aeroporto nella zona Nord (il più grande del mondo, ndr), e il centro commerciale che dovrebbe prendere il posto di Gezi. Sappiamo sempre cosa dire quando ci opponiamo a qualcosa. Più difficile è portare esempi virtuosi e concreti. L’orto di Gezi rappresentava il nostro modello di sviluppo, ciò che vogliamo fare con la nostra terra. E lo abbiamo curato assieme ai nostri figli, con loro abbiamo piantato semi e piante, perché siano loro a raccoglierne i frutti».
Refika Kortun ha diciotto anni, una generazione in meno di Defne. Racconta di essersi unita ai manifestanti per difendere il parco: «Gezi è occupato dai nostri sogni. L’energia che vivo in questi giorni è splendida, anche se ho paura. Qui abbiamo creato una comunità vera, come mai avevo sperimentato. Una comunità che è nata su Twitter e Facebook e che lì continuerà, anche se dovessero cacciarci da qui». Guardare negli occhi questi giovani, la loro determinazione, la loro passione è guardare a una nuova Turchia, capace di dare valore a cose semplici ma importanti, come gli alberi di un parco.
Turchia, Erdogan incontra i manifestanti: sospesi piani del governo su Piazza Taksim
Ankara, 14 giu. (Adnkronos/Aki) - Il governo di Ankara rispetterà la decisione del Tribunale che prevede la sospensione dei lavori per la demolizione del Gezi Park a Istanbul per la costruzione di un centro commerciale. Lo ha reso noto il portavoce del partito al governo Akp, Huseyin Celik, dopo il vertice di quattro ore nella notte tra il primo ministro Recep Tayyip Erdogan e una delegazione di 16 rappresentati dei manifestanti tra cui membri della ’Piattaforma Taksim’ e otto artisti che hanno espresso il loro sostegno alla protesta.
Facendo riferimento a una sentenza del Tribunale sulla sospensione del progetto che il governo aveva previsto per il Gezi Park, Celik ha detto che se non verrà accolto l’appello presentato dal governo l’area sarà mantenuta a parco. Nel caso in cui il progetto venisse invece approvato in appello, il governo terrà un referendum sul destino di Gezi Park. ’’La Turchia è uno stato di diritto. E’ impossibile che il ramo esecutivo compia un atto illecito. C’è una decisione della Corte e il governo si deve adeguare’’, ha detto Celik, precisando che il parco non sarà toccato fino all’ulteriore pronunciamento del Tribunale. Durante il vertice si è anche discusso dell’uso sproporzionato della forza da parte della polizia turca contro i manifestanti.
’’Hanno chiesto sensibilità su questo argomento. Se verrà provato (che un ufficiale, ndr) ha commesso un reato, sarà punito come prevede la legge’’, ha dichiarato Celik. Durante un incontro con la stampa, il portavoce dell’Akp ha anche ribadito l’appello ai manifestanti ad abbandonare la protesta a Gezi Park. ’’Mi rivolgo ai giovani che fanno parte del movimento ambientalista. Tornate nei vostri caldi letti a casa’’, ha detto.
Gli esponenti della ’Piattaforma Taksim’ hanno espresso la loro soddisfazione per l’impegno del governo a rispettare la decisione della Corte. ’’E’ un atteggiamento positivo al quale noi reagiremo positivamente’’, ha detto il segretario della ’Piattaforma Taksim’ Tayfun Kahraman.
Intanto per oggi pomeriggio i rappresentanti della ’Piattaforma Taksim’ hanno annunciato una cerimonia di commemorazione delle vittime della protesta, quattro finora quelle confermate dalle autorità. Per quanto riguarda la decisione di abbandonare la protesta di piazza, i manifestanti lasceranno che ognuno decida come crede. ’’Tutto è iniziato per la sensibilità rispetto al parco. Le persone sensibili decideranno in proprio, così come da sole hanno deciso di intervenire dopo le violenze’’ della polizia sui manifestanti, ha detto Eyup Muhcu della Piattaforma Taksim.
Tra gli otto artisti che hanno incontrato Erdogan anche Halit Ergenc, primo attore della serie televisiva ’Suleyman il Magnifico’, secondo cui il primo ministro ha ascoltato attentamente i loro timori e le soluzioni proposte. ’’Ci hanno garantito che non compieranno alcuna azione che sia incompatibile con la decisione della Corte’’, ha detto.
Intanto, la polizia turca è tornata a far uso di gas lacrimogeni e di cannoni ad acqua per sedare una manifestazione ad Ankara. La polizia è intervenuta con gli stessi metodi usati nei giorni scorsi per disperdere i 200 manifestanti che stavano bloccando il traffico nella Kennedy Avenue, nei pressi dell’ambasciata degli Stati Uniti. Ne sono seguiti scontri tra agenti e manifestanti e cinque dimostranti sono stati arrestati.
* ADNKRONOS, ultimo aggiornamento: 14 giugno 2013, ore 10:03
Turchia, niente accordo su piazza Taksim
Il governo punta a referendum
Un nulla di fatto nell’incontro tra Erdogan e i manifestanti. Il governo ripropone l’idea di un referendum. La lunga attesa nel parco dopo l’ultimatum del primo ministro trascorsa con la musica di un pianista italo-tedesco *
L’incontro tra il primo ministro turco e i rappresentanti dei manifestanti si è concluso con un nulla di fatto. Non è stata trovata una soluzione alla crisi iniziata con l’occupazione del parco Gezi e le proteste in varie città turche contro la politica del governo. Il governo ha però riproposto un referendum tra gli abitanti di Istanbul sul destino di piazza Taksim e del parco.
"Vogliamo sapere cosa pensa la popolazione di Istanbul, la sua decisione è molto importante per noi" ha detto al termine dell’incontro Huseyin Celik, vicepremier e vicepresidente dell’Akp, il partito di Erdogan.
Il leader turco ieri aveva dato "un ultimo avvertimento" ai manifestanti intimando l’abbandono del parco entro 24 ore. "Staremo nel parco Gezi con le nostre richieste e i sacchi a pelo", era stata la risposta affidata a un comunicato del Taksim Solidarity, il nucleo principale della protesta.
Per molte ore si è quindi temuto un atto di forza da parte della polizia per sgombrare Gezi Park. Nell’attesa i centinaia di manifestanti hanno potuto ascoltare il pianoforte del musicista tedesco di origine italiana Davide Martello che come ieri ha suonato per cercare di fermare la violenza. Ad ascoltarlo, attorno al parco, si sono fermati anche i poliziotti
* la Repubblica, 14 giugno 2013
I mille volti di piazza Taksim la rivoluzione senza leader
Ecologisti, ultrà, studenti e sindacalisti ma nessun partito-guida
Ogni mattina puliscono Geki Parki: «Lo lasceremo meglio di come l’abbiamo trovato»
di Marta Ottaviani (La Stampa, 13.06.2013)
Sono come uno splendido mosaico. Tessere che vanno a comporre una società civile e un sottobosco politico di una Turchia ritrovata e che molti temevano perduto per sempre. Le anime che hanno cercato di salvare Gezi Parki e di dare una scossa alla coscienza democratica del Paese sono decine.
I sindacati, che negli ultimi anni sono tornati a assumere un ruolo nella vita quotidiana del Paese, dopo essere stati praticamente rasi a zero dopo il colpo di Stato del 1980. Organizzazioni ambientaliste, spesso in rotta di collisione con l’esecutivo come la Dogan Dernegi, che per anni ha lottato contro la costruzione della diga sul Tigri ad Hasankeyif, nell’est del Paese, o le associazioni di omosessuali, che da tempo accusano il premier di stretta conservatrice sulla vita quotidiana.
Ci sono le tifoserie di Besiktas, Galatasaray e Fenerbahçe, che hanno dato vita a una sorta di «Triplice Allenza», con tanto di sciarpa commemorativa che chissà quando si rivedrà mai. Ci sono i collettivi di studenti delle università. C’è, ed è una delle presenze più importanti, quella «terza Turchia» formata da giovani ma anche da gente intorno alla mezza età. Vengono da movimenti socialisti e comunisti, non si identificano in nessun partito e spesso non votano. Per loro la piazza è il mezzo non solo per protestare ma per riproporre sulla scena politica movimenti schiacciati dai militari e dimenticati dalla gente. Poi ci sono i curdi che non hanno sposato l’atteggiamento neutro tenuto dal Bdp, il Partito curdo per la Pace e la Democrazia, impegnato con il governo e il Pkk in una difficile trattativa per la fine della lotta armata e la soluzione dei problemi della minoranza e che quindi hanno tenuto un profilo basso in tutta questa faccenda.
E c’è il Chp, il Partito di opposizione e di orientamento laico, ma è una presenza minore. È una piazza che non ha riferimento politici in parlamento. Studenti e lavoratori, che hanno occupato facendo i turni, chi poteva veniva di giorno, chi lavorava gli dava il cambio appena uscito dall’ufficio.
Gezi Parki sorprende per la spontaneità con la quale i manifestanti hanno dato vita a un’occupazione che è cresciuta nel tempo, e sorprende per come persone con un background politico, ideologico, a volte anche sociale, così diverso abbiano potuto convivere insieme per due settimane.
L’organizzazione è stata impeccabile. Nella notte fra martedì e mercoledì, mentre la polizia sgomberava Taksim e attorno al parco si ripetevano le scene di guerriglia urbana senza precedenti, all’interno del parco ci si preparava al peggio. Sono stati isolati alcuni viali per dare vita a un piccolo ospedale. Studenti della facoltà di medicina, con dottori volontari, facevano giri di ricognizione per vedere che non ci fosse gente coinvolta negli scontri. Tanta preoccupazione tra la gente, soprattutto i più giovani, ma anche la consapevolezza che le due settimane di rivolta segnano un punto di non ritorno nella storia del Paese. «Abbiamo già vinto - dicono i tifosi del Besiktas -. Qui ci sono tante Turchie diverse che dicono no a una Turchia che non ci piace».
Dal palco dove le sere prima venivano trasmessi dibattiti, documentari e musica, arrivavano inviti alla calma e aggiornamenti sulla situazione. Sono stati proprio loro ad annunciare che l’hotel Divan, di fronte alla parte nord del parco, aveva messo a disposizione la sua hall al personale sanitario, distribuendo anche generi di primo conforto. I più coraggiosi a un certo punto si sono persino messi a dormire «tanto se caricano, con i lacrimogeni prima ci svegliano di sicuro».
Ieri all’alba il parco era semideserto, è tornato a riempirsi ieri sera per quella che potrebbe essere la loro ultima notte insieme. Ma nonostante tutto, alle prime luci del giorno i ragazzi di Gezi Parki si sono messi a pulire come tutte le mattine. «Abbiamo iniziato a scendere in piazza per il nostro parco - dice Hakan, che studia cinema, viene da Ankara, ma che considera Gezi Parki a Istanbul il suo parco comunque -. Il premier dice che siamo dei saccheggiatori. Anche se ci mandano via glielo lasceremo meglio di come lo abbiamo trovato».
Yasemin Taskin
Giornalista e scrittrice turca: «L’Europa aiuti il mio Paese a preservare la convivenza tra le sue anime. Anche accelerando i negoziati per l’ingresso nell’Ue»
«La piazza giovane sfida i padri»
di U. D. G. (l’Unità 13.06.2013)
«A ribellarsi è la generazione degli Anni Novanta, che non accetta la restrizione dei diritti, delle libertà individuali e che si ribella contro chi vorrebbe modificare forzatamente i suoi stili di vita. È una piazza giovane, non organizzata, che si riconosce si ritrova grazie a Twitter, Facebook, i social network». I protagonisti di Piazza Taksim visti da Yasemin Taskin, scrittrice, corrispondente turca in Italia del giornale Sabah.
La Piazza e il Potere. Occupygezi ed Erdogan. Le due Turchie. Cominciamo dalla Piazza.
«È una piazza giovane, tra i 19 e i 30 anni. È la “generazione ‘90”. Sono ragazzi che vengono principalmente da famiglie borghesi, la gran parte di loro sono universitari, ma ci sono anche giovani lavoratori, manager... Sono scesi in piazza perché sentono per la prima volta messi in pericolo i loro stili di vita, le loro libertà individuali. Inoltre, è una generazione che tiene in gran conto l’ecologia, l’ambiente, e anche in questo senso si sentono usurpati dei loro ideali, espropriati di un diritto, quello al verde che ritengono un diritto importante, da difendere. La cosa che li accomuna è l’ecologia, sono i diritti individuali, è una visione delle libertà che fa del privato un fatto pubblico. È una generazione “apolitica”. Nel senso che a Gezi Park non hanno voluto i partiti né i movimenti politici organizzati. Non hanno leader e non si appoggiano a strutture definite. Sono in rete, si organizzano attraverso Twitter, Facebook... Quella in atto è anche la ribellione dei giovani contri i padri. E in questo senso si scontrano con l’autoritarismo del “padre-primo ministro”».
E qui veniamo al potere. E alla sua espressione massima: il primo ministro Recep Tayyip Erdogan. Il premier sembra aver scelto al linea dura. Perché?
«Erdogan sta governando la Turchia da dieci anni. È stato eletto con elezioni democratiche, ottenendo il 49% dei voti. La genesi del suo potere non ha nulla a che vedere con regimi quali quelli contro cui la piazza si è rivoltata a Tunisi come in Egitto. Da dieci anni, economicamente Erdogan ha portato la Turchia a un livello molto elevato. Il Paese cresce in media del 5-6%. Inoltre, Erdogan è un leader molto apprezzato nell’opinione pubblica mediorientale. Per questo definirlo un dittatore è una forzatura. I risultati ottenuti gli danno la forza di sentirsi forte e adesso vorrebbe andare avanti con altri grandi progetti. Erdogan non cerca il consenso, non perché lo ritenga ininfluente, ma perché pensa che lo abbia già. Da qui le forzature operate».
Quali sono quelle che la «Generazione ‘90» ha ritenuto le più intollerabili?
«L’elenco è lungo. La legge contro l’aborto; il divieto sulla vendita degli alcolici, l’annuncio della chiusura del Teatro statale... Tutti questi divieti hanno allarmato la società civile che ha avuto la netta sensazione di una restrizione dei diritti democratici, Quelli a cui ho fatto riferimento, sono solo gli ultimi divieti. Erdogan ha forzato la mano, convinto di avere il consenso per farlo».
Ha così sottovalutato la piazza?
«Più che la piazza, ha sottovalutato l’incidenza di temi quali l’ecologia, le libertà individuali, hanno nel determinare i comportamenti dei giovani, soprattutto quelli delle fasce più acculturate, delle grandi città. E ha sottovalutato la reazione della Turchia laica, delle donne e degli uomini che, sia nell’ambito pubblico che nella sfera privata, sentono che la loro vita sta cambiando. Che qualcuno intende modificare forzatamente i loro stili di vita, omologandoli ad una visione unilaterale che ritengono inaccettabile».
In questo scenario, come dovrebbe comportarsi, a suo avviso, l’Europa. Cosa dovrebbe fare e cosa, invece, evitare?
«L’Europa, a mio avviso, non dovrebbe vestire i panni del “moralizzatore”, piuttosto dovrebbe aiutare la Turchia a conciliare le sue varie “anime”, perché questa convivenza è una peculiarità preziosa del mio Paese, da preservare e rafforzare. La Turchia ha fatto molte riforme per democratizzare il Paese seguendo l’obiettivo dell’adesione alla Ue. E da quando questo obiettivo si è allontanato, si sono rallentate anche le riforme. Riprendere il cammino dell’adesione all’Ue, definendone i tempi, questo sì aiuterebbe la Turchia a sentirsi e ad essere più libera».
«Ci hanno trattato come terroristi»
Il capo del partito socialdemocratico di Istanbul, Satilmis: «Per il premier è campagna elettorale»
di Claudia Bruno (l’Unità, 13.06.2013)
«Alle sette di mattina la polizia ha iniziato un attacco a Taksim. Abbiamo resistito il più a lungo possibile, dopo due ore gli agenti hanno preso il controllo della piazza e hanno assaltato il nostro quartier generale a Istanbul». Batis Satilmis, capo del partito socialdemocratico turco (Sdp) per la provincia di Istanbul, racconta gli eventi degli ultimi giorni, gli scontri tra polizia e manifestanti che hanno segnato una nuova escalation di violenza nel segno della tolleranza zero annunciata da Erdogan.
«Quarantacinque nostri membri sono stati arrestati e appariranno in tribunale entro 4 giorni per la legge contro il terrorismo continua Satilmis -. Sono stati arrestati anche 50 avvocati nel palazzo di Giustizia perché protestavano contro l’assalto a Taksim, cosa del tutto illegale perché la polizia non può arrestare un avvocato senza l’autorizzazione di un giudice». I manifestanti hanno accusato polizia e governo di aver organizzato «uno show a favore di telecamere», trasmettendo in diretta sulle tv nazionali gli scontri tra poliziotti e ragazzi che lanciavano pietre e molotov.
Alcuni dei manifestanti avevano in mano proprio le insegne dell’Sdp. Ma Satilmis non ci sta, anche se non crede alla montatura: «I membri del nostro partito hanno resistito all’attacco, non abbiamo usato molotov. Il governo e i media ci hanno preso come capri espiatori, come provocatori; ma la resistenza è stata una decisione collettiva. Noi siamo un partito legale e non abbiamo alcun legame con organizzazioni armate. Tutti lo sanno ma cercano di criminalizzarci: se ci trattano come terroristi, allora diventa anche normale arrestare gli avvocati che difendono questi terroristi. Esattamente come hanno fatto con i curdi in passato, e quando dico in passato intendo fino all’anno scorso».
Per cercare di allentare la tensione nel Paese, Erdogan ha incontrato un gruppo di 11 persone tra architetti, artisti e accademici. I rappresentanti dei manifestanti (costituitisi nella Piattaforma di solidarietà a Taksim, di cui fa parte anche l’Sdp) hanno però fatto sapere di non essere stati invitati. Per oggi è previsto un altro incontro tra Erdogan e Hülya Avsar, attrice e cantante turca. Una scelta che Satilmis critica: «Qualcuno alla Cnn ha commentato: “È un po’ come se Obama incontrasse Kim Kardashian per parlare di Occupy Wall Street”. Non hanno mai ascoltato le nostre richieste, né considerato l’idea di negoziare con noi.
Erdogan è stato intransigente sin dall’inizio perché ha un atteggiamento da campagna elettorale. Vede tutto questo come una possibilità di consolidare la propria posizione fra i suoi elettori, è arrabbiato o finge di esserlo. Ha usato la retorica del “mio popolo” contro “i vandali”. Ma dopo un po’ tutti hanno capito che è un modo per unire la base dei suoi elettori dicendo “o noi o loro”».
Una retorica che non intacca però la forza del movimento: «Queste persone hanno visto il loro reale potere per la prima volta, hanno visto il potere della resistenza. Dopo tre morti, oltre 5mila feriti e tutta questa crudeltà, la scorsa notte centinaia di migliaia di persone sono scese per strada in tutto il Paese. E il 90% di loro è nato negli anni ’90: queste persone porteranno un cambiamento in tutti gli aspetti della Turchia, dall’arena politica alla vita di tutti i giorni. Possiamo anche perdere ma abbiamo già vinto qualcosa che non potrà più essere tolto alla popolazione turca: il potere della resistenza, il potere delle persone che è più forte di ogni terrorismo di Stato. Possiamo cambiare, ci speriamo».
Da piazza Tahrir a piazza Taksim l’Internazionale dei giovani
di Timothy Garton Ash (la Repubblica, 13.06.2013)
UN NUOVO anno, un altro paese, una nuova piazza: dopo piazza Venceslao a Praga, piazza Indipendenza a Kiev, piazza Azadi a Teheran, la piazza Rossa a Mosca e piazza Tahrir al Cairo, ora c’è piazza Taksim a Istanbul. Ogni piazza arriva al mondo tramite immagini fotografiche totemiche. Quella della giovane donna in abito rosso, - Ceyda Sungur, docente all’università tecnica di Istanbul - colpita da una nuvola di gas lacrimogeno sparato a distanza ravvicinata da un agente antisommossa. Cambiano i simboli nazionali, le bandiere e i colori - verde in Iran, arancio a Kiev, rosso a Istanbul - ma l’essenza dell’immagine è la stessa. Una giovane donna moderna, urbana, probabilmente laica, affronta l’uomo armato, con il casco, senza volto. Lui rappresenta le forze della reazione, l’autoritarismo e la dominazione, che sia a servizio degli Ayatollah, del presidente Vladimir Putin o di questo aspirante sultano, il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan. Guardando questa iconografia di protesta pacifica sappiamo subito da che parte stiamo. Dalla loro. Sono la nostra gente, noi siamo la loro gente. Influenzati dal suggestivo potere delle immagini scelte dalla tv e dai redattori dei giornali e dalle preferenze spontanee di gruppo sui social media, in qualche modo semi inconsciamente sentiamo che si tratta della solita lunga lotta.
In un certo senso non è una sensazione completamente sbagliata. In tutto il mondo esiste ormai una sorta di Quinta Internazionale di giovani donne e uomini di istruzione superiore, prevalentemente di estrazione urbana che si riconoscono e si relazionano ovunque, da Shanghai a Caracas, a Teheran e a Mosca. Come la generazione del 1968, ma stavolta in tutto il globo, hanno qualcosa in comune. In parte è perché si spostano molto, vivono e studiano in tanti luoghi diversi. Qui a Berlino ho appena visto in tv una studentessa turco-tedesca, o tedesco-turca, di nome Ebru Dursun, che ha preso parte alle proteste, spiegare con calma in un tedesco perfetto quello che sta accadendo e quali sono le aspirazioni dei manifestanti come lei.
Per un altro verso questa sensazione può essere pericolosamente fuorviante. Ciascuna di queste piazze segna un momento diverso in un contesto molto diverso - e anche gli esiti sono stati fortemente contrastanti. A piazza Taksim - finché non è stata brutalmente sgombrata dagli idranti, dai lacrimogeni e dai manganelli della polizia- c’erano anche persone appartenenti alla minoranza Alevi del paese, “musulmani anticapitalisti”, tifosi di tre squadre di calcio rivali, sufi, anarchici e yogi. Tutti uniti da una causa: impedire che Erdogan diventi il nuovo sultano, se dovesse subentrare il prossimo anno come presidente dai poteri estesi e rafforzati.
Rientrato in Turchia da un viaggio all’estero, il premier è salito a bordo del suo bus scoperto e ha arringato i suoi sostenitori: «Da qui saluto le città sorelle di Istanbul, Sarajevo, Baku, Beirut, il Cairo, Skopje, Baghdad, Damasco, Gaza, Ramallah, la Mecca e Medina». Uffa! La maggior parte dei leader politici cede alla vanagloria dopo più di dieci anni al potere. Erdogan, da sempre personaggio autoritario, lo ha fatto a partire dalla sua rielezione nel 2011, dopo la quale ha messo da parte i suoi consiglieri più indipendenti, ma questa è arroganza su vasta scala. Un risultato è già certo: anche se resta al potere non recupererà più la sua reputazione internazionale. Farneticando di “stop alla tolleranza”, di “vandali”, “provocatori” e “terroristi”, è passato da simbolo regionale di speranza a simbolo di paura.
Dobbiamo anche fare chiarezza su ciò che tutto questo non è. Un cartello improvvisato in quella che i dimostranti hanno chiamato “Resistanbul” diceva “Ora Tahrir è Taksim”. Ma Taksim non è mai stata Tahrir, per non dire Tienanmen, perché la Turchia non è una dittatura. È una democrazia elettorale: una democrazia molto imperfetta, certo, in cui lo stato di diritto è eroso, i diritti delle minoranze sono inadeguati, e i mass media oggetto di intimidazione e manipolazione (la Turchia ha messo in carcere più giornalisti della Cina) ma pur sempre una democrazia. E nelle ultime elezioni Erdogan ha conquistato il 50% del voto popolare.
Tutto questo non è neppure ciò che Erdogan lascia minacciosamente intendere che sia: un qualche complotto occidentale. Può darsi che i dimostranti su cui ci piace puntare i nostri teleobiettivi sposino valori che noi consideriamo occidentali ed europei, ma non a seguito di una politica occidentale o europea. Dieci anni fa, quando la gente in Turchia credeva ancora che l’Unione europea davvero facesse sul serio promettendo negoziati mirati all’adesione del paese alla Ue le manifestazioni di questo tipo si potevano considerare tappe di un più ampio cammino nazionale “in direzione dell’Europa”.
Ma ora la fede nella seducente promessa di ingresso nell’Ue è in gran parte svanita. Così i turchi abbracciano quei valori semplicemente in se stessi e per se stessi, non come mezzo mirato a qualche fine geopolitico o economico. Indirettamente si può considerare una cosa positiva. Si tratta allora di una battaglia turca per libertà turche, niente di più, niente di meno.
La settimana scorsa ho chiesto a un acuto osservatore politico turco, fresco di Istanbul, cosa dovrebbero dire i leader europei in risposta a “Taksim”. Lasciate la cosa ai turchi, ha detto. Allora ero d’accordo con lui, ma ora non posso esserlo. Di fronte all’arroganza e alla prepotenza di Erdogan nei confronti della sua gente i leader europei devono pronunciarsi anche se l’aspirante sultano turco si toglie le cuffie della traduzione simultanea mentre l’interlocutore sta parlando, come è accaduto con il Commissario Ue all’allargamento, Stefan Füle.
Ma bisogna comunque trovare un compromesso. Dobbiamo mostrare totale solidarietà a chi si batte per i valori che condividiamo, a quelle giovani donne delle foto in cui istintivamente ci identifichiamo. Alcuni dei dimostranti in effetti sono “noi” nel senso più ristretto del trascorrere quanto meno una parte del tempo in Europa ed essere cittadini europei.
Al contempo dobbiamo riconoscere che non hanno vinto le ultime elezioni ed è improbabile che vincano le prossime. Politicamente un esito realistico è che l’attuale presidente Abdullah Gül, e la sua corrente ora più moderata in seno al partito al potere, potrebbe prevalere. Anche in una democrazia più genuinamente liberale il “modello turco” non equivarrebbe ad una repubblica francese nel Mediterraneo orientale. Nel migliore dei casi andrebbe a combinare laicismo e democrazia riconoscendo l’Islam come religione della maggioranza della popolazione. In quanto tale potrebbe ancora essere un polo di attrazione per gran parte del Medio Oriente esteso, nonché un serio candidato all’adesione all’Unione europea. Se la Turchia si muoverà in quella direzione nei prossimi anni, in parte come risultato di questo momento, i dimostranti colpiti dai gas non avranno versato lacrime invano. Traduzione di Emilia Benghi
Turchia, la polizia riprende la piazza Onu e Usa: ’’Rispettare i diritti’’ *
Ankara, 12 giu. (Adnkronos/Aki/Ign) - E’ stata un’altra notte di proteste, quella appena trascorsa a Istanbul e Ankara, dove la polizia turca è intervenuta con gas lacrimogeni e cannoni ad acqua per disperdere i manifestanti riuniti rispettivamente in piazza Taksim e in piazza Kızılay. Un ulteriore intervento delle forze di sicurezza che fa dubitare che oggi si tenga l’incontro in programma tra il primo ministro Recep Tayyip Erdogan e una delegazione della ’Piattaforma Taksim’.
A Istanbul, la polizia ha usato gas lacrimogeni e proiettili di gomma per disperdere le migliaia di manifestanti riuniti a piazza Taksim, che si sono poi ritrovati nel vicino Gezi Park. All’alba le ruspe sono entrate in piazza Taksim per ripulirla da detriti, barricate e rifugi di fortuna nei quali i manifestanti si erano riparati da quando il 31 maggio è iniziata la protesta contro il governo Erdogan.
Anche ad Ankara la polizia è intervenuta con gas lacrimogeni e cannoni ad acqua venti minuti dopo la mezzanotte per disperdere i manifestanti tra la Kennedy Avenue e Ataturk Avenue, nei pressi dell’ambasciata degli Stati Uniti.
Intanto il Consiglio supremo della Radio e della Televisione turca ha multato una serie di canali televisivi con l’accusa di aver nuociuto allo sviluppo fisico, morale e mentale dei bambini e dei giovani trasmettendo le immagini delle proteste. Tra le emittenti multate ci sono Halk TV, Ulusal TV, Cem TV ed EM TV. Halk TV, in particolare, ha trasmesso in diretta 24 ore su 24 gli eventi di Istanbul mentre i principali media fornivano informazioni limitate sulle manifestazioni in corso. L’emittente era finanziata dal principale partito di opposizione, il Partito del popolo repubblicano, durante la leadership di Deniz Baykal. Da quando è stato eletto nel maggio del 2010, l’attuale leader Kemal Kilicdaroglu ha però tagliato i fondi all’emittente.
L’Organizzazione delle Nazioni Unite e il governo degli Stati Uniti hanno chiesto alle autorità turche di rispettare il diritto alla libertà di riunirsi dei manifestanti. "Siamo preoccupati da qualsiasi tentativo di punire le persone per aver esercitato il loro diritto alla libertà di parola", ha affermato la portavoce del Consiglio Nazionale di Sicurezza, Caitlin Hayden, sottolineando il diritto "di riunirsi" e di "manifestare pacificamente". La portavoce ha anche ricordato che la Turchia è uno stretto alleato degli Stati Uniti e che il Governo Usa auspica che le autorità turche difendano le libertà fondamentali.
Da parte sua, il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha lanciato un appello alla calma e chiesto il rispetto della libertà di riunione e di espressione, sottolineando ’’l’importanza di affrontare e gestire le divergenze attraverso il dialogo", ha dichiarato il suo portavoce Martin Nesirsky. "Le proteste devono essere pacifiche e il diritto a riunirsi e la libertà di espressione rispettati, in quanto principi fondamentali di uno stato democratico", ha concluso.
"Da parte della polizia turca c’è stata una reazione sproporzionata" alle manifestazioni di Gezi Park, "come hanno ammesso anche le autorità del Paese" ha detto il ministro degli Esteri, Emma Bonino, in un’informativa alla Camera sulla situazione in Turchia, sottolineando che in Italia c’è "apprensione per gli eventi" in corso e che l’"uso sproporzionato della forza" da parte della polizia o il "fermo di decine di avvocati" non possono essere "una soluzione accettabile". "Manifestare è un diritto irrinunciabile - ha rimarcato Bonino - e il ricorso alla forza è spesso espressione di debolezza’’.
Secondo il ministro degli Esteri, poi, ’’è un errore guardare alla Turchia con un occhio offuscato da modelli ingannevoli. Si è parlato di primavera turca, ma non è così. I turchi non sono arabi e piazza Taksim non è piazza Tahrir". Per il ministro, le manifestazioni contro il governo in corso da due settimane in Turchia, "ricordano più le manifestazioni viste nei nostri paesi, come Occupy Wall Street", che le proteste della Primavera araba.
* ADNKRONOS, ultimo aggiornamento: 12 giugno 2013, ore 12:27
Franco Rizzi, fondatore di Unimed: «La protesta rivela l’incapacità di risolvere, per ora, il problema del rapporto tra Islam e democrazia»
«Negli scontri si consuma la crisi del modello turco»
di U.D.G. (l’Unità, 12.06.2013)
Quello adottato da Erdogan è l’atteggiamento di un politico che ha una concezione autoritaria della democrazia. In questi anni, in molti hanno propagandato il “modello turco”, ma questo modello sta mostrando l’incapacità, per ora, di risolvere il problema del rapporto tra Islam e democrazia». A sostenerlo è il professor Franco Rizzi, direttore di MedArabNews e fondatore dell’Unimed (Unione delle Università del Mediterraneo), autore di Dove va il Mediterraneo? (Ed.Castelvecchi), in questi giorni nelle librerie.
Il premier turco Recep Tayyip Erdogan ha praticato «tolleranza zero» contro i manifestanti di piazza Taksim. Cosa c’è dietro questa prova di forza?
«C’è un leader che ha una concezione autoritaria della democrazia. Il comportamento di Erdogan non nasce dal nulla, ma deriva anche dal confronto che la Turchia ha avuto con l’esperienza delle “Primavere arabe”».
E cosa ha determinato questo confronto in rapporto agli eventi di questi giorni?
«Nel primissimo momento, di fronte alle manifestazioni di piazza Taksim a Istanbul, Erdogan ha puntato decisamente sull’uso della forza, come avvenne in Tunisia e in Egitto. In un secondo momento, visto che la repressione non pagava, Erdogan ha cercato di demonizzare i manifestanti, sostenendo che erano dei terroristi, violenti, sovversivi... Ma visto che neanche la demonizzazione pagava poi ha cercato il compromesso del dialogo. Almeno a parole. Ma non credo che questo “dialogo” porterà dei risultati soddisfacenti, soprattutto se lo scontro nella piazza, come è già avvenuto, vedrà scendere in campo i sostenitori di Erdogan».
Il che ci porta a guardare più da vicino la rivolta di Piazza Taksim, di Ankara, di Smirne...
Quali sono, a suo avviso, i tratti più significativi di questa rivolta?
«Non c’è solo un filo conduttore. Va detto, innanzi tutto, che la difesa dell’unico polmone verde di Istanbul non era affatto strumentale, ma rispondeva ad un bisogno e una sensibilità ecologica reale, diffusa, soprattutto tra i giovani. Su questa sensibilità si sono innestati malesseri che derivano dal modo autoritario con cui Erdogan pensa di governare il Paese. Il tutto avviene su una narrazione della Turchia in cui era praticata la divisione tra religione e Stato e una realtà in cui l’obiettivo principale era l’islamizzazione della società».
In cosa si è inverato questo tentativo, messo in atto dall’Akp, il partito di Erdogan, di islamizzare la società turca?
«Penso, per fare alcuni esempi emblematici, al dibattito sul velo, alla legge che proibisce di bere alcolici dalle 22 alle 6 e mai entro una certa distanza dalle moschee. Penso al fatto che i ragazzi non devono avere atteggiamenti amorosi in pubblico. Questa rivolta è anche contro l’arroganza del potere e della sua determinazione a invadere anche la sfera della vita di tutti i giorni».
C’è chi legge questa rivolta come la protesta della Turchia laica. È una lettura corretta?
«Sicuramente una componente di questo genere esiste, ma non credo che sia poi gestita direttamente dal partito “kemalista”. I caratteri di questa protesta sono molto più spontanei e, a mio avviso, si innestano su un malessere che riguarda ancora il Sud del Mediterraneo e che mette alla prova quel “modello turco” molto propagandato e che deve fare i conti con una realtà multiforme e che sta dimostrando l’incapacità, per ora, di risolvere il problema del rapporto tra Islam e democrazia».
In questo scenario, quale ruolo ha l’Europa?
«Dopo aver tentennato sull’entrata o meno della Turchia nell’Unione europea, il governo Erdogan ha messo in atto una politica all’insegna di un protagonismo nel Mediterraneo. Di fronte agli avvenimenti a cui stiamo assistendo, il ruolo dell’Europa non può che essere marginale. L’Europa non può che fare da spettatrice e invocare, così come hanno fatto gli stati Uniti, un atteggiamento da parte del governo Erdogan meno violento e più rispettoso della dialettica democratica».
Un ruolo da spettatrice. Ma questo non è per l’Europa una ammissione di sconfitta?
«Una cosa sono le motivazioni che hanno portato alle manifestazioni di piazza Taksim, altra cosa sono gli equilibri geopolitici. Rimane la considerazione che l’Europa non esprime nessuna politica estera, e non solo sulla vicenda turca».