Appello di GIUSI NICOLINI,
sindaco di Lampedusa
"Sono il nuovo Sindaco delle isole di Lampedusa e di Linosa. Eletta a maggio, al 3 di novembre mi sono stati consegnati già 21 cadaveri di persone annegate mentre tentavano di raggiungere Lampedusa e questa per me è una cosa insopportabile. Per Lampedusa è un enorme fardello di dolore. -Abbiamo dovuto chiedere aiuto attraverso la Prefettura ai Sindaci della provincia per poter dare una dignitosa sepoltura alle ultime 11 salme, perché il Comune non aveva più loculi disponibili. Ne faremo altri, ma rivolgo a tutti una domanda: quanto deve essere grande il cimitero della mia isola?
Non riesco a comprendere come una simile tragedia possa essere considerata normale, come si possa rimuovere dalla vita quotidiana l’idea, per esempio, che 11 persone, tra cui 8 giovanissime donne e due ragazzini di 11 e 13 anni, possano morire tutti insieme, come sabato scorso, durante un viaggio che avrebbe dovuto essere per loro l’inizio di una nuova vita. Ne sono stati salvati 76 ma erano in 115, il numero dei morti è sempre di gran lunga superiore al numero dei corpi che il mare restituisce.
Sono indignata dall’assuefazione che sembra avere contagiato tutti, sono scandalizzata dal silenzio dell’Europa che ha appena ricevuto il Nobel della Pace e che tace di fronte ad una strage che ha i numeri di una vera e propria guerra. Sono sempre più convinta che la politica europea sull’immigrazione consideri questo tributo di vite umane un modo per calmierare i flussi, se non un deterrente. Ma se per queste persone il viaggio sui barconi è tuttora l’unica possibilità di sperare, io credo che la loro morte in mare debba essere per l’Europa motivo di vergogna e disonore.
In tutta questa tristissima pagina di storia che stiamo tutti scrivendo, l’unico motivo di orgoglio ce lo offrono quotidianamente gli uomini dello Stato italiano che salvano vite umane a 140 miglia da Lampedusa, mentre chi era a sole 30 miglia dai naufraghi, come è successo sabato scorso, ed avrebbe dovuto accorrere con le velocissime motovedette che il nostro precedente governo ha regalato a Gheddafi, ha invece ignorato la loro richiesta di aiuto. Quelle motovedette vengono però efficacemente utilizzate per sequestrare i nostri pescherecci, anche quando pescano al di fuori delle acque territoriali libiche.
Tutti devono sapere che è Lampedusa, con i suoi abitanti, con le forze preposte al soccorso e all’accoglienza, che dà dignità di esseri umane a queste persone, che dà dignità al nostro Paese e all’Europa intera. Allora, se questi morti sono soltanto nostri, allora io voglio ricevere i telegrammi di condoglianze dopo ogni annegato che mi viene consegnato. Come se avesse la pelle bianca, come se fosse un figlio nostro annegato durante una vacanza".
Giusi Nicolini
Appell von Giusi Nicolini,
Bürgermeister von Lampedusa
„Ich bin der neue Bürgermeister der Inseln Lampedusa und Linosa. Nachdem ich im Mai gewählt wurde, schon 21 Leichen von Menschen mir übergegeben worden sind, die Lampedusa zu erreichen versuchten, und dies ist für mich etwas unerträgliches. Für Lampedusa ist all dies eine riesige Leidlast. Wir mussten die anderen Gemeinden der Provinz zu Hilfe rufen, um eine würdige Begrabung den letzten 11 Leichen geben zu dürfen, weil es in unserem Friedhof keine leeren Grabnische mehr gibt. Wir werden davon noch weitere bauen, aber ich stelle jetzt all Ihnen eine Frage: wie groß muss der Friedhof meiner Insel sein? Ich schaffe es nicht, zu verstehen, wie eine solche Tragödie als etwas normales betrachtet werden kann, wie man sich aus dem alltäglichen Leben die Vorstellung wegschaffen darf, dass z.B. 11 Menschen, unter denen 8 sehr jungen Frauen und zwei kleine 11- und 13-jährige Junge, all zusammen sterben, wie am letzten Samstag, während einer Reise die für sie den Anfang eines neuen Lebens bedeutete. 76 gerettet worden sind, aber insgesamt waren sie 115, die Zahl der Tote ist immer viel mehr als die der Leiche, die das Meer zurückgibt. Ich bin wegen die Angewöhnung empört, die alle wahrscheinlich angesteckt hat, ich bin wegen das Schweigen Europas schockiert, das vor kurzem mit dem Friedensnobelpreis ausgezeichnet worden ist und das einem Massenmord mit Kriegsanzahlen gegenüber noch schweigt. Ich bin fest davon überzeugt, dass die europäische Einwanderungspolitik diesen Blutzoll als eine Weise betrachtet, um den Fluss zu verringern, sogar abzubrechen. Für all diese Menschen ist die Reise auf den Lastkähnen die einzige Möglichkeit der Hoffnung, ihre Tod auf hoher See sollte für ganzes Europa Grund der Scham und des Schandflecks sein. Der einzige Stolzgrund bieten uns die Seeleute des italienischen Staats, die menschlichen Leben bis zu 140 Seemeilen von Lampedusa entfernt retten, wahrend die von der vorigen italienischen Regierung Libyen Gadafis geschenkten Schnellboote jeden Hilferuf ignorieren. (...) Man muss dies wissen, dass Lampedusa und ihre Einwohner Italien und dem ganzen Europa Würde geben. Ich will eine Beileidmitteilung je Ertrunkene bekommen, als ob er weiße Haut hätte, als ob er unser Sohn anlässlich des Urlaubs ins Meer erstorben wäre.“
Appel de GIUSI NICOLINI,
maire de Lampedusa
„Je suis le nouveau maire des îles Lampedusa et Linosa. Elue au mois de mai, déjà le 3 novembre je recevais 21 cadavres de personnes noyées alors qu’elles essayaient de regagner le rivage de Lampedusa et cela est pour moi quelque chose d’insupportable. Pour notre île il s’agit d’une énorme charge de douleur. Nous avons été obligés d’appeler au secours les autre maires de la province pour donner digne sépulture aux derniers 11 corps, puisque il n’y avait plus de niches mortuaires disponibles. On en bâtira d’autres, mais je demande à tout le monde : combien doit être grand le cimetière de notre île ? Je ne parviens pas à comprendre comment puisse-t-on considérer normal, détourner de la vie quotidienne l’idée que 11 êtres humains, parmi lesquels 8 femmes très jeunes et deux petits garçon âgés de 11 et 13 ans, puissent mourir tous ensemble, comme samedi dernier, pendant un voyage qui aurait dû être le début d’une nouvelle vie. On en a sauvé 76, mais ils étaient 115, le nombre des morts est toujours très supérieur à celui des corps que la mer rend à la terre ferme. Je suis choquée par l’accoutumance qui contamine tout le monde, je suis choquée par le silence de l’Europe, qui vient de recevoir le Prix Nobel pour la Paix et qui se tait vis-à-vis d’une hécatombe qui a les dimensions d’une véritable guerre. Je suis de plus en plus convaincue que la politique européenne de l’immigration considère ce sacrifice de vies humaines soit un moyen pour réduire, si non de dissuader, le flux migratoire. Si pour ces gens le voyage à la mer sur des bateaux délabrés est toujours la seule possibilité d’espérer, je crois que leur mort à la mer doit être pour l’Europe raison de honte et de déshonneur. Dans cette très triste page d’histoire que nous écrivons maintenant la seule raison d’orgueil sont les hommes de mer de l’Etat italien, qui sauvent vies humaines à 140 milles marins de Lampedusa, tandis que ceux qui se trouvent à 30 milles des naufragés et disposent de très rapides vedettes côtières, que le précédent gouvernement italien a fait cadeau à Gaddafi, ignorent leurs appels au secours. (...) Tous doivent savoir que c’est Lampedusa, que ce sont ses citoyens, qui donnent dignité à ces personnes, dignité à l’Italie et à l’Europe entière. Si ces morts sont seulement nos morts, pour chacun d’eux je veux recevoir une lettre de condoléance, comme s’il avait la peau blanche, comme s’il était un de nos fils noyé pendant les vacances à la mer.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Ecco un buon esempio dell’Europa dei banchieri. Noi tutti siamo per loro meno di numeri, solo portafogli da svuotare e non esseri umani con una dignità.
Sono certo che i padri fondatori dell’Europa unità non avessero in mente uno scempio di tale portata. Sta a noi, con il nostro impegno e il nostro dissenso a modificare tale situazione e a reclamare dignità, solidarietà ed equità.
Antonio C.
Così Vittorio restò umano
di Egidia Beretta Arrigoni (il manifesto, 13 novembre 2012)
Il suo «battesimo» come scudo umano, nel primo viaggio in Palestina, fu proprio con i piccoli. Fuori dalle scuole ad attenderli non c’erano i genitori ma i carri armati e Vittorio, con altri internazionali, a frapporsi fra di loro. Quei soldati aspettavano solo il lancio di una pietra per puntargli i cannoni addosso. Quando ci sentivamo per telefono, da Gaza, udivo spesso un gran frastuono di sottofondo. Erano i bambini. «Se tu sapessi, mamma, quanti bambini ci sono a Gaza! Sono qui sotto che mi stanno chiamando perché mi vedono affacciato alla finestra e vogliono che vada da loro.»
Era un’affinità spirituale, intima, quasi mistica, quella che Vittorio aveva con i ragazzini. Era la gioia nel riconoscersi simili, l’innocenza ritrovata. Ancora adesso, quando mi invitano nelle scuole per parlare di lui, mi accorgo di come i bambini mi seguano con occhi incantati.
«L’estate scorsa a Nablus mi sono reso conto, puntando gli occhi in aria, di quale potenza di suggestione abbia la fantasia dei bambini. Chiusa da mesi e mesi, le strade semideserte, le piazze ridotte a un cumulo di macerie, in aria si scorgeva la sfida dei bambini. Guardata verso l’alto, Nablus appariva come una città in festa, centinaia e centinaia di aquiloni ne coloravano il cielo in vortici di volo, come a dichiarare al mondo un segno di libertà a cui tutti questi uomini in miniatura agognano. I soldati sparano spesso contro gli aquiloni, sono il primo bersaglio dopo i lampioni per strada di notte. Ma ad ogni aquilone distrutto, il giorno dopo se ne presentano di nuovi più belli e colorati. "Possono rinchiuderci, toglierci il cibo, l’acqua e anche la luce, ma non potranno mai privarci dell’aria, del cielo e della nostra voglia di sognare", mi mormora un bambino impegnato a sciogliere la matassa dei suoi sogni incastrati su un’insegna arrugginita». (Vittorio, Nablus, estate 2003)
Quei bambini, il bersaglio più comodo. «Sfilano timorosi con gli occhi rivolti in alto, arresi ad un cielo che piove su di loro terrore e morte; timorosi della terra che continua a tremare sotto ogni passo, che crea crateri dove prima c’erano le case, le scuole, le università, i mercati, gli ospedali, seppellendo per sempre le loro vite». (Vittorio, Gaza City, 7 gennaio 2009).
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Non si uccidono così neanche i gattini. «Recandomi verso l’ospedale Al Quds dove sarò di servizio sulle ambulanze tutta la notte, correndo su uno dei pochi taxi temerari che zigzagando ancora sfidano il tiro a segno delle bombe, ho visto fermi a un angolo della strada un gruppo di ragazzini sporchi, coi vestiti rattoppati, tali e quali i nostri sciuscià del dopoguerra italiano, che con delle fionde lanciavano pietre verso il cielo, in direzione di un nemico lontanissimo e inavvicinabile che si fa gioco delle loro vite. La metafora impazzita che fotografa l’assurdità di questi tempi e di questi luoghi. Restiamo umani.» (Vittorio, Gaza City, 8 gennaio 2009).
Vittorio si era innamorato di Handala, questo bambino palestinese creato dalla matita di Naji Ali che gira le spalle al mondo perché il mondo volta le spalle a lui. Se l’era fatto tatuare su un braccio e raccontava dell’entusiasmo che aveva suscitato fra i palestinesi del campo profughi di Beddawi, in Libano. Tutti conoscevano la storia di Handala. Che un ragazzo italiano lo portasse con sé, forse significava che Handala aveva trovato un amico e aveva finalmente deciso di girarsi. Dopo la morte di Vittorio il disegnatore brasiliano Carlos Latuff li unì in un disegno. Un’immagine che è diventata universale. Vittorio, con la sua pipa e il berretto da marinaio, si gira sorridendo verso Handala tenendolo per mano; il bambino, ancora di spalle, alza però il braccio a indicare la «V». «V» di vittoria e «V» di Vittorio?
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Da Nablus i suoi racconti iniziarono a farsi più duri, taglienti come coltelli, cominciarono le descrizioni delle case occupate, dei check point, delle corse in ospedale. I check point a volte potevano rappresentare la differenza che passa tra la vita e la morte. File interminabili di persone, molti vecchi, ammalati, donne incinte, che attendevano di poter tornare a casa o recarsi al lavoro o in ospedale. A volte chiudevano all’improvviso e si doveva aspettare la notte intera prima che riaprissero. È facile intuire la rabbia e l’angoscia provate da Vittorio di fronte a questi evidenti soprusi.
Portava spesso una maglietta dei Nirvana, una specie di portafortuna, e raccontava che quei «bambocci», come lui definiva i soldati israeliani ai check point, innamorati del rock americano, ammiravano trasognati la maglietta, e aprivano i cancelli più in fretta.
«Check-point. Mi sono mosso un paio di giorni fa verso Nablus. Giunto innanzi alle porte della città ho veduto una fila di 200 persone sotto un sole cocente che soffrivano e soffocavano per il caldo impietoso e nel tentativo di tornare a casa. Io ultimo della fila, mi preoccupavo del rischio disidratazione che le ore di attesa sotto trentacinque gradi mi avrebbero potuto ben presto riguardare, quando qualcuno mi ha messo a braccetto il più anziano e malato di tutti: "Tu puoi passare, tu puoi passare, tu puoi far passare quest’uomo". Allora ho baciato la mano tremante di questo vecchio arabo, e sussurrandogli le poche parole che conosco della sua lingua tanto per tranquillizzal ci siamo incamminati verso il filo spinato e il cannone del carro armato sembrava riprenderci come in un film. Ho percorso 150 metri fra i bambini piangenti, carrozzelle con infanti e carretti cosparsi di alimenti che si sfaldavano al sole e verdura e frutta che veniva depredata da sciami di insetti. Donne disperate pregavano sotto vesti soffocanti. Uomini tristi e accovacciati in attesa del loro turno. Di fronte al gabbiotto dove il mio passaporto veniva sfogliato con dovizia di domande, ho recitato per benino la parte del turista capitato lì per caso (per caso, a Nablus sotto assedio?) e mi sono stupito ancora una volta della poca arguzia di questi ragazzini vestiti da soldati. Sono scivolato via senza problemi con il baba sottobraccio che mormorava incessantemente parole di benedizione in mio favore». (...)
«A volte il check-point chiude improvvisamente, allora intere famiglie sono costrette a dormire per strada in attesa che pigri ufficiali di servizio decidano di riaprire le imposte la mattina seguente. Un dottore di Ramallah mi ha mostrato i dati che segnano le morti durante le lunghe attese ai posti di controllo, un centinaio di persone in cura di dialisi decedute nei primi due anni di Intifada. E quante madri con un bimbo in grembo, in attesa di un cesareo, sono morte al di là del filo spinato?» (Vittorio, Nablus, estate 2003).
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Sabato 27 dicembre Vittorio mi chiamò verso le 11 del mattino e con sgomento mi annunciò che Gaza era sotto attacco. I bombardamenti erano iniziati. La domenica ci fu la prima strage di bambini. Durante la Messa ascoltai le parole dell’Antico Testamento e mi parvero scritte per le mamme di Gaza. Le pubblicai su Guerrilla. «28 dicembre 2008 - Santa messa nel IV giorno dell’Ottava di Natale - Santi innocenti martiri - Dal Vangelo secondo Matteo: «Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande. Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più» - Geremia, 31, 15.
Io sono Rachele e migliaia di madri con me. Quando finirà questo olocausto? «Caro Vittorio, in questa ultima mezzanotte dell’anno siamo qui, io e papà, ad ascoltare i botti che diventano i rumori della guerra. Vediamo le facce e gli auguri ipocriti in tv e pensiamo a te, a voi. Nelle nostre calde case, al sicuro, solo minimamente riusciamo a essere voi e a provare quel che provate. Ci aiutano le tue parole. Hai il dono di saper trasformare in parole - e che parole! - i pensieri, i convincimenti e i sentimenti. È anche questa una missione e la stai compiendo molto bene». (...) «Non ti faccio auguri da formuletta, mi auguro e ti auguro che tu tenga in buon conto la tua vita, che è preziosa, per le future battaglie che ti aspettano nell’anno che verrà. Ti pensiamo sempre e ti abbracciamo. Mamma e papà». (da Egidia a Vittorio, 31 dicembre 2008).
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La motivazione e l’obiettivo dell’attacco addotta dal governo israeliano era la distruzione di Hamas. Ma non solo il gruppo non venne distrutto, riuscì al contrario a consolidare il proprio potere, ristabilendo anche, in quelle circostanze, rapporti migliori con Al Fatah. Chi pagò il prezzo dei bombardamenti furono gli abitanti di Gaza: Piombo fuso si trasformò in una carneficina di civili, soprattutto bambini.
«Quando le bombe cadono dal cielo da diecimila metri, state tranquilli, non fanno distinzioni fra bandiere di Hamas o Fatah esposte sui davanzali. Non esistono operazioni militari chirurgiche: quando si mette a bombardare l’aviazione e la marina, le uniche operazioni chirurgiche sono quelle dei medici che amputano arti maciullati alle vittime senza un attimo di ripensamento, anche se spesso braccia e gambe sarebbero salvabili. Non c’è tempo. Bisogna correre, le cure impegnate per un arto seriamente ferito sono la condanna a morte per il ferito successivo in attesa di una trasfusione». (Vittorio, Gaza City, 31 dicembre 2008).
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La fine dei bombardamenti su Gaza non riportò la normalità in quella terra straziata. Ci fu la conta dei morti, oltre 1400, in ampia maggioranza civili. Vittorio partecipò a numerosi funerali. Ogni cosa sembrava sospesa, non si poteva ricostruire perché le macerie invadevano le strade, si viveva nelle tende, c’era poco da mangiare. Si rimpastava il vecchio pane ammuffito, o si utilizzava la farina che veniva data normalmente agli animali. Israele non lasciava passare nulla attraverso i valichi, perché considerava pericolosa ogni merce, a iniziare dal cemento, dal ferro, dal vetro, ma nulla scuoteva il mondo dall’apatia verso il popolo palestinese martoriato.
Dopo le bombe, le distruzioni, le morti, Vittorio non fu più lo stesso. Riprese a uscire con i pescatori e con i contadini, ma ci confidò gli incubi a occhi aperti che popolavano le sue giornate e le sue notti. Non passava giorno senza che ricevesse richieste di interviste da radio, giornali, televisioni. Era sempre disponibile; sperava, attraverso i media, di poter comunicare a sempre più persone ciò che stava vivendo il popolo di Gaza. Gli interessava molto poco la celebrità; si stupiva se in una manifestazione compariva il suo motto: «Restiamo umani».
«Cara famiglia, spero che ora converrete con me che la decisione di voler tornare quaggiù, e subito, era la decisione più giusta. Immaginatevi se non ci fosse stato nessuno a raccontarlo questo massacro...». (...)
«Soprattutto, adesso che ho modo di leggiucchiare le centinaia di mail che ho ricevuto, pare che la forza delle mie parole abbia veramente scosso le coscienze, riscosso ciò che di umano in molti si era assopito. Sono stati giorni d’inferno, e continuano a essere durissimi. Potevamo morire, siamo sopravvissuti. L’inferno non è certo finito. Io in particolare, minacciato di morte da più parti, se sono rimasto vivo è perché non sono stato lasciato solo, preda di questo moloch fascista assetato di sangue. Non lasciato solo da migliaia di persone, ma soprattutto dalla mia famiglia, le mie radici affettive. Non so se mi sto guadagnando un posto in paradiso, certo è che lenire l’inferno di questi innocenti è una vita che vale la pena di essere vissuta... Restiamo umani». (Vittorio, Gaza City, 27 febbraio 2009).