IDEE
Uno dei problemi della storia italiana dell’ultimo secolo e mezzo è segnato da élites che non hanno saputo andare oltre gli interessi particolari
Classi dirigenti senza senso nazionale?
di Lorenzo Ornaghi (Avvenire, 5 marzo 2011)
L’unificazione italiana impone alle élite degli Stati preunitari una serie di gigantesche sfide, di cui la più difficile da vincere è proprio quella «culturale». Prima ancora che le minoranze economico-industriali e finanziarie - a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento - comincino a diventare, nel Nord dell’Italia soprattutto, le élite prevalenti in quanto protagoniste creative e rappresentative della rapida modernizzazione di vaste aree del Paese, la realizzazione dello Stato unitario modifica radicalmente e irreversibilmente lo «spazio», territoriale e politico-istituzionale, che aveva storicamente costituito l’ambiente di tutte le élite preunitarie.
In un tale ambiente, ciascuna di queste ultime riteneva fissa (e forse adeguatamente protetta, almeno per un periodo non breve di tempo) la propria collocazione ai vertici delle rispettive gerarchie sociali, storicamente costruite, legittimate e articolate secondo le proprietà ereditate, i latifondi e i grandi traffici mercantili, o consolidatesi non da molto con l’esercizio delle professioni alto-borghesi e intellettuali. Le tante e spesso minuscole «parti», da cui sono pressoché sempre state composte nel loro succedersi le più stabili conformazioni sociali del popolo italiano, hanno prodotto nel corso dei secoli altrettanto numerose, e spesso assai piccole, minoranze direttive o élite.
Ciò che però non può non cambiare, con il costituirsi dello Stato-nazione, è proprio il rapporto delle tante e differenti élite non già (o non soltanto) tra di loro, bensì e soprattutto con la «classe eletta di governo», ossia con la «nuova» élite politica, detentrice del monopolio delle più rilevanti decisioni politiche, oltre che della «rappresentanza/rappresentazione» dell’intero Paese. Ed è costretto a dover cambiare, questo rapporto, proprio per effetto della radicale trasformazione - territoriale e politico-istituzionale, appunto - dello «spazio» in cui erano cresciute e si erano ambientate le élite pre-unitarie. Gli antichi «centri», con la loro città-capitale, rischiano di diventare «periferie».
E la contiguità delle tradizionali élite (una contiguità anche e soprattutto fisica) al potere politico, si rovescia in una «distanza» che non può essere colmata o accorciata senza un sovrappiù di impegno e di azione genuinamente politica da parte delle élite. Sta qui la difficile sfida «culturale». In modo non troppo dissimile dallo sforzo a cui sono oggi chiamate le élite nazionali che intendano restare élite nello «spazio» dell’Europa dentro il sistema globale, alle classi dirigenti degli Stati preunitari - per poter continuare a essere tali nella nuova realtà che si andava imponendo - occorreva dotarsi di una nuova «visione».
Nuova, poiché comportava una riconsiderazione di sé e del proprio ruolo nel presente e nella preparazione dell’incombente futuro. Nuova, poi e in particolare, poiché una tale visione si sarebbe dovuta allargare sino a ridisegnare il proprio rapporto non solo con le creative élite che già si profilavano nel campo industriale, ma anche e soprattutto con la classe politica collocata al «centro» delle istituzioni statali e nella posizione di comando dell’intero processo di graduale realizzazione dello Stato-nazione. Si potrebbe ancora oggi ripetere, con ricchezza di argomenti e prove storiche, che all’Italia sono mancate in questi centocinquant’anni, e continuano a mancare, élite autenticamente nazionali. Vale a dire, élite che - pur magari afferrando a proprio vantaggio ciò che dagli eventi viene dischiuso all’apparenza come rischio o azzardo, ma che sotto la scorza si presenta come positiva e irripetibile opportunità - si fanno portatrici di un interesse nazionale e responsabilmente lo perseguono, nella consapevolezza che esso, allungandosi di necessità su un tempo lontano, può richiedere il parziale sacrificio dei propri interessi frazionali e più immediati.
La constatazione che al nostro paese fanno quasi «naturalmente» difetto le élite, e che - anche quando esse esistano, più o meno facilmente visibili e riconoscibili - restano immature e incapaci di svolgere il ruolo di classe dirigente, accompagna con sin eccessiva frequenza tutta la storia unitaria italiana. Sottovalutare una simile registrazione sarebbe però un grave errore. Così, ogni discorso sulle élite in Italia e sul loro effettivo ruolo tra politica e società continua a essere il racconto, se non di una «assenza», di una possibilità che, sempre auspicata o sognata, è rimasta inafferrabile o incompiuta.
Con ogni probabilità, tuttavia, ben più del persistente lamento sull’assenza di élite e sulla latitanza di una vera classe dirigente conta - oggi soprattutto - apprestarsi finalmente a formare le une e preparare l’avvento dell’altra. È questo infatti il solo modo «per superare la presente crisi». Che è tanto più minacciosa, quanto più fa emergere in modo simultaneo il progressivo avvitamento di ogni sistema di partito e l’insufficiente adempimento delle promesse della democrazia dei «moderni».
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L’INTERVENTO
Tutti, pochi o nessuno?
Il testo del rettore dell’Università Cattolica, Lorenzo Ornaghi, che pubblichiamo è tratto dal volume «L’interesse dei pochi, le ragioni dei molti», in libreria per i tipi di Einaudi da martedì 8 marzo. Il libro presenta gli interventi di una ventina di studiosi (da P. Donati a L. Canfora, da C. Galli a F. Remotti, da E. Galli della Loggia a M. Salvadori) che saranno protagonisti della Biennale Democrazia 2011 in programma dal 13 al 17 aprile a Torino. Introdotto da un saggio di Gustavo Zagrebelsky, il volume si pone come ’testo preparatorio’ alla discussione che avrà luogo nella Biennale intitolata «Tutti. Molti. Pochi» e incentrata sul rapporto fra democrazie e oligarchie.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
La nostra storia
Aurelio Musi: le tre vie verso la modernità del Mezzogiorno
di Emilio Gin (Corriere dela Sera, 10.10.2022)*
Il saggio di Aurelio Musi, Mezzogiorno moderno. Dai Viceregni spagnoli alla fine delle Due Sicilie (Salerno editrice), offre una sintetica ma rigorosa ricostruzione e un’interpretazione complessiva delle vicende del Mezzogiorno dal periodo spagnolo all’unificazione politica dell’Italia. La piena integrazione nella storia italiana ed europea e, al tempo stesso, l’originalità di una via napoletana, di una via siciliana e di una via sarda allo Stato e alla società moderni costituiscono il filo conduttore del racconto. Le sue tappe si snodano lungo una storia ricca e avvincente compresa fra l’eredità medievale, l’inserimento in quadri più ampi di integrazione politica - il catalano-aragonese, lo spagnolo, l’asburgico, il napoleonico, il borbonico, il sabaudo, - la fine del Regno delle Due Sicilie, l’ingresso nell’Italia unita. Per la prima volta viene qui presentata una storia del Mezzogiorno italiano moderno comprensivo della Sicilia e della Sardegna che, pur con i loro caratteri specifici, ne hanno fatto e ne fanno parte integrante e ineliminabile.
Nella storia del Mezzogiorno d’Italia Musi distingue tre vie verso la modernità: una via napoletana, una via siciliana, una via sarda. Si tratta di tre percorsi che non contraddicono la relativa unità di caratteri del Mezzogiorno d’Italia come comunità economica, sociale, politica e culturale, differente rispetto alle altre due aree del paese, quella centrale e settentrionale, caratterizzate da forme diverse dell’insediamento, del paesaggio agrario, delle attività non agricole, da una più articolata composizione e dinamica sociale, da uno sviluppo politico-istituzionale tra Medioevo e prima Età moderna, rappresentato in prevalenza dal passaggio dal Comune al Principato allo Stato regionale. La relazione fra questi caratteri ha profondamente segnato la modernità dell’Italia centro-settentrionale.
La rappresentazione delle tre vie vuole piuttosto sottolineare alcuni elementi distintivi riferibili soprattutto alle dinamiche e alle modalità di traduzione del rapporto fra Stato e società.
La via napoletana alla modernità è andata caratterizzandosi per alcuni compromessi che hanno ispirato la condotta del soggetto protagonista, il potere sovrano, nei confronti della nobiltà feudale e della capitale Napoli. Il primo compromesso ha teso a realizzare uno scambio fra la Monarchia spagnola, che ha riconosciuto al baronaggio il ruolo di forza sociale ed economica egemone, dotata di giurisdizione, in cambio dell’obbedienza alla Corona, titolare del potere politico unico e indivisibile. Il secondo compromesso ha teso a realizzare un equilibrio rispetto al primo, attraverso il riconoscimento alla capitale del suo primato nel Regno, del ruolo di partner politico principale della Monarchia e di uno statuto privilegiato, in cambio dell’assoluta fedeltà dei sudditi napoletani al re.
In Sicilia invece il primato della capitale, Palermo, pure essa sede di Corte viceregia nell’età spagnola, dell’amministrazione centrale, del Parlamento generale del Regno, è stato più tormentato, non ha acquistato nella prima Età moderna, durante il governo spagnolo, lo stesso riconoscimento, la stessa visibilità, la stessa rappresentazione di Caput Regni toccate a Napoli. E ciò per vari motivi. In primo luogo il monocentrismo urbano del Mezzogiorno continentale - una grande metropoli con quasi quattrocentomila abitanti agli inizi del Seicento, poche medie città di circa ventimila abitanti, una miriade di centri minori - si oppone al policentrismo della Sicilia, in cui convivono città di medie dimensioni con decine di migliaia di abitanti e il loro distacco demografico dalla capitale non è così marcato come per Napoli.
In secondo luogo la storia della Sicilia è stata segnata dal dualismo fra Palermo e Messina: un dualismo non solo di natura economico-sociale - Palermo, città del grano, sede del baronaggio egemone con la sua forte rappresentanza parlamentare; Messina, città della seta, di ceti artigiani e mercantili scarsamente rappresentati nel governo e nel Parlamento dell’isola -, ma anche di natura politica perché Messina ha conteso in diverse congiunture a Palermo lo status di capitale del Regno.
Certo in Sicilia la linea politica della Monarchia spagnola non è stata molto diversa da quella seguita a Napoli: ma il compromesso con la feudalità ha finito per prevalere nella sua versione più conservatrice, e il baronaggio, grazie anche alla sua forte e condizionante rappresentanza nel Parlamento di Palermo, ha inciso con la sua pressione giurisdizionale in forme più consistenti e per una durata più lungo rispetto a quelle del Regno napoletano. Insomma si può a giusta ragione sostenere che in Sicilia il compromesso abbia rappresentato uno scambio ineguale, più favorevole al baronaggio che alla sovranità monarchica.
La via sarda allo Stato moderno nell’età spagnola è stata caratterizzata da tre fattori in particolare: le istituzioni pubbliche come fonte di reddito per i ceti privilegiati; il rafforzamento di togati e nobili attraverso percorsi abbastanza simili a quelli del Regno di Napoli; le tensioni interne alle rappresentanze cetuali (nobili e militari di alto grado, vertici ecclesiastici, sindaci e alti funzionari delle città), interne al Parlamento sardo. Ma l’esperienza storica sarda fu segnata dal diverso percorso che essa ebbe a compiere.
Dopo la conclusione del lungo governo spagnolo, la storia dell’isola fu condizionata soprattutto dall’influenza degli eventi bellici e degli equilibri internazionali che da essi scaturirono, influenza ancor più condizionante rispetto a quella degli altri territori del Mezzogiorno. Furono la guerra di successione austriaca a differenziare, come nel Medioevo, il percorso storico di Sardegna, Regno di Napoli e di Sicilia: la prima graviterà nella sfera di influenza savoiarda; il secondo, prima asburgico, poi dal 1734 borbonico.
Tutto sommato, la continuità iberica dei Regni di Napoli e Sicilia non si interrompe nemmeno nel ventennio degli Asburgo d’Austria che avevano sottolineato il legame “imperiale” con gli Asburgo di Spagna, conservando sia la figura del viceré sia altre istituzioni degli Austrias. Con l’avvento dei Savoia in Sardegna, in particolare a partire dalla metà del Settecento, la discontinuità con la lunga storia aragonese e spagnola si accentua, anche se la struttura politico-istituzionale e la giurisprudenza civile e penale restano quelle ispaniche sino al primo Ottocento.
Musi comunque a ragione osserva che in tutti e tre i regni meridionali appartenenti alla Spagna la Corona è stata il soggetto politico protagonista del passaggio alla modernità. Ha creato lo Stato, cioè la forma di organizzazione politica più moderna; la disciplina, cioè il rapporto fra capacità di comando di chi governa e disponibilità all’obbedienza, alla fedeltà da parte dei sudditi, grazie all’adozione di strumenti di equilibrio fra dominio e consenso; ha favorito un processo di riarticolazione dei ceti sociali grazie soprattutto al loro rapporto con la macchina amministrativa e all’occupazione dei posti dell’apparato; ha stimolato lo sviluppo di forme di contrattazione tra le istituzioni monarchiche e i ceti a vario titolo rappresentati. Si tratta di processi comuni ai tre regni meridionali: mostrano alcune specificità determinate dal particolare rapporto che in ognuno di essi si è venuto a sviluppare fra lo Stato e la società e al differente legame dinastico.
Tutte e tre le parti del Mezzogiorno hanno poi sviluppato, nel corso dei secoli, un ruolo di primo piano nel Mediterraneo: un’indicazione non solo storica, ma anche di prospettiva geoeconomica e geopolitica, un carattere che rende ancor più preziosa quest’ultima opera di Aurelio Musi.
Intervista. Gerardo Bianco: elezione del capo dello Stato? Rischio svolta autoritaria
L’ex ministro Dc sulla proposta del centrodestra: presidenzialismo stravolge la Costituzione. Serve un risveglio dei cattolici, le parole del Papa in Canada erano rivolte a noi
di Angelo Picariello (Avvenire, martedì 2 agosto 2022)
«Il presidenziasmo? Sarebbe uno stravolgimento della Costituzione. In nome del populismo si seppellisce la nostra democrazia parlamentare, e potrebbe diventare l’avvio di una svolta autoritaria». Gerardo Bianco, passati i 90 anni, dedica la sua vita alla lettura e a tenersi informato. Nella gloriosa Dc è stato tante cose (capogruppo alla Camera più volte, ministro della Pubblica istruzione) e poi è stato segretario del Partito popolare.
Considerato uno degli storiografi più autorevoli di questa cultura politica, oggi ai margini dalle proposte politiche che vanno per la maggiore, si dice preoccupato per una «carenza di consapevolezza » che registra fra i cattolici, una sorta di mix di delusione e diserzione. -Il suo ragionamento parte da lontano. Da quello che il Papa ha inteso dirci con la sua visita in Canada: «Al di là della rappresentazione mediatica poco più che folkloristica, essa è stata un rivolgersi a noi, come San Paolo ai Colossesi, un invito a tutto l’Occidente a non smarrire sé stesso. Proprio la nostra crisi di identità ha consentito a Putin di scatenare la sua offensiva, un tentativo di disgregazione in atto che è di carattere culturale prima che bellico».
E questo c’entra con la campagna elettorale?
C’entra eccome, perché nei confronti di un popolo che sembra aver smarrito la sua identità la politica rispolvera il vecchio motto latino panem et cicencences, con proposte prive di una visione solidale, d’insieme, volte solo a catturare fasce di consenso sociale. La tradizione politica dei cattolici è un’altra cosa, non può nemmeno rifugiarsi in un’acritica idolatria del Pil, mentre ancora una volta il Papa ci sollecita a superare un consumismo sfrenato, indifferente al futuro del pianeta.
Che cosa occorre invece?
Serve un risveglio dei cattolici. Una nuova presa di coscienza. I grandi assenti sono i temi delle ultime Settimane sociali, delle grandi encicliche. Manca una vera consapevolezza del ruolo svolto dai cattolici nell’unità d’Italia, e nella promozione del progetto europeo.
Forse un momento così difficile lo si può paragonare solo al primo dopoguerra e agli anni di piombo.
Quella uscita dalla guerra era un’Italia poverissima, che seppe aprire una prospettiva di crescita, non basata su un’idea di benessere per il benessere, ma sulla sua forza morale. Penso al ruolo, umile ma dignitoso, svolto sul piano internazionale da De Gasperi nell’opera di ricostruzione; penso al sacrificio di Moro e al suo insegnamento negli anni di piombo, ma penso soprattutto al ruolo svolto da grandi costituenti come Dossetti, La Pira, Mortati, Fanfani, lo stesso Moro. Che seppero imprimere alla nostra Carta costituzionale il principio della centralità della persona umana. E ai movimenti anti-sistema seppero opporre la centralità dei corpi intermedi, un concetto di cui vedo scarsa consapevolezza, anche fra i cattolici.
Ma il problema della governabilità richiede, e non da oggi, una riforma delle istituzioni.
Se l’obiettivo fosse davvero questo sono altre le proposte da prendere in esame: ad esempio il modello del cancel-lierato, molto più compatibile con il nostro impianto costituzionale, e la sfiducia costruttiva, che imporrebbe a chi mette in crisi un governo di indicare contemporaneamente una soluzione alternativa.
E il presidenzialismo?
Si muove in tutt’altra direzione, mira proprio al superamento dei corpi intermedi su cui si basa il nostro assetto istituzionale. Un concetto mutuato dalla Dottrina sociale cristiana, richiamato già dalla Rerum novarum, di cui pochi si ricordano, in diretto collegamento alla centralità della persona umana che in questi organismi sviluppa la sua libertà, anche in nome del principio di sussidiarietà inserito nella nostra Carta costituzionale. Si vorrebbe ora passare a un modello, il presidenzialismo, che ha mostrato ovunque i suoi limiti: lo si è visto negli Usa, ma nell’America del Sud è stata la strada che ha aperto a una deriva istituzionale gravissima, che pari pari rischia di ripetersi in Italia.
Il centrodestra ha vinto già altre volte, in Italia.
Stavolta a vincere non sarebbe il centrodestra, ma la destra. E il vero rischio che vedo è lo stravolgimento della Costituzione, se avesse i numeri per poterlo fare da sola.
A sinistra quali rischi vede, invece?
Vedo il rischio del riproposi di modelli ormai superati, che hanno poco a che vedere con un’impostazione come la nostra. Mentre trovo giusto, invece, che essa porti alla luce le istanze dei ceti più deboli, come è naturale che altre forze portino avanti soprattutto quelle dei ceti produttivi. Poi toccherebbe a noi, come cattolici, il favorire - in nome del bene comune - che si tenga conto di tutti i fattori in gioco, senza idolatrare nessuna ideologia o classe sociale. Ma perché ciò avvenga c’è bisogno di una nuova presenza, e di un nuovo protagonismo, da mettere in campo.
«Il Mose è lo scandalo mondiale sulle opere pubbliche più grande della nostra storia recente»
Disastro annunciato: hanno pagato, si fa per dire, i corrotti. Ma gli incompetenti non saranno chiamati a risponderne
di Massimo Cacciari (L’Espresso, 05 Aprile 2021) 05 Aprile 2021
Occorre purtroppo continuare a parlare del Mose poiché si tratta del più grande scandalo mondiale in tema di lavori pubblici nell’intera storia del secondo dopoguerra. E di una vergognosa devastazione di risorse del nostro Paese che dura ormai da un trentennio. La parte destinata a corruzione e tangenti, passata quasi in giudicato, è quella quantitativamente meno rilevante. Sono le deficienze complessive del progetto, sotto tutti i profili, che sono costate miliardi di euro e continueranno a costarli, se si vuole in qualche modo «salvare» l’opera, almeno nel senso che di quando in quando le paratoie possano sollevarsi. Di tutto potrei stupirmi fuorché della denuncia della dottoressa Ramundo e del professor Paolucci.
Loro illustri colleghi avevano già ricordato cose analoghe fin da quando il progetto delle dighe mobili venne approvato. Che dico approvato! Esaltato, magnificato, sostenuto contro ogni evidenza da tutti i governi e tutti i ministri dei Lavori Pubblici succedutisi nel Bel Paese tra anni ’90 e nuovo millennio. Con la complicità della totalità o quasi dei media nazionali. E contro le posizioni, i documenti, le analisi, gli studi promossi dalle Amministrazioni comunali che ho diretto, 1993-2000, 2005-2010. Chi è interessato, può facilmente rintracciare tutta la documentazione, presentata a Comitati tecnici, Consigli superiori dei Lavori Pubblici, Corte dei Conti, provveditori e ministri di ogni colore. Tutti sapevano, o sarebbero stati tenuti a sapere.
Votai contro, unico, in Comitato inter-ministeriale per la salvaguardia di Venezia, mettendo agli atti le ragioni del mio radicale dissenso, e mi arresi. Il fronte era invincibile, dal Governo alla Regione, Galan e Zaia, dalle Associazioni di categoria tutte, alla Confindustria, alla stragrande maggioranza di tecnici impiegati dal Consorzio, a tv e giornali (con la lodevole eccezione della Nuova Venezia),e via cantando. Capitolo ben triste della storia civile patria.
Il problema della corrosione, drammatico come si evince dalle parole di Ramundo e Paolucci, è uno dei tanti irrisolti. Vi è quello del traffico portuale. Vi è quello del soggetto che dovrebbe gestire il sistema e decidere del suo funzionamento in condizioni critiche. Vi è quello straordinario della manutenzione in generale.
Quando il sottoscritto chiedeva disperatamente ne venisse esplicitato il costo, si parlava di 30-40 milioni all’anno, ora questa cifra dovrà essere almeno raddoppiata. Chi scoverà queste risorse per i prossimi anni, nella situazione in cui si trova il Paese? E senza manutenzione il Mose semplicemente si disfa, come risulta chiaro dalle lettere di dimissioni dei due ex consulenti. Chi dovrà pagare per questo annunciato disastro? Finora hanno pagato, si fa per dire, soltanto corrotti e corruttori. Ma incompetenti lautamente remunerati e compagnia bella non devono pagare? Chi ha fatto il collaudo non si è accorto della qualità dei materiali utilizzati? Chi doveva dirigere il tutto non ha avuto notizia della mancata manutenzione? Come salvare il salvabile?
Un’unica via: trovare i soldi necessari per fare tutto quello che Ramundo e Paolucci direttamente e indirettamente richiedono e affidare a loro o a gente seria come loro, che non deve obbedire a nient’altro che alla propria coscienza, il lavoro da fare e la gestione dell’opera.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
FLS
Dieci punti per il Piano di Rilancio
Ricostruire l’Italia, con il Sud
Se si vuole davvero avviare la ricostruzione del Paese, il Piano di Rilancio deve coniugare sviluppo e coesione sociale, riducendo le disparità e valorizzando il Mezzogiorno.
di AA.VV. (Il Mulino, 09-03.2021) *
L’Italia si trova di fronte all’occasione irripetibile di avviare la sua «ricostruzione» coniugando sviluppo e coesione sociale, per giocare un ruolo di primo piano nell’Europa del prossimo decennio.
Per tale ragione, a nostro avviso, l’obiettivo di ridurre le disparità di genere, generazionali e territoriali - per molti aspetti strettamente collegate nelle aree più deboli del Paese - dev’essere al centro del Piano di Rilancio e di tutti i suoi interventi, coerentemente con la complessiva impostazione comunitaria del programma Next Generation EU.
Dunque, lo sviluppo del Mezzogiorno dev’essere un grande obiettivo del Piano: per la rilevanza dei divari interni al Paese, che in base ai criteri di riparto comunitari hanno determinato la dimensione del finanziamento destinato all’Italia; per motivi di uguaglianza fra i cittadini e di rispetto del dettato costituzionale; per motivi di efficienza economica: gli investimenti nel Mezzogiorno hanno un moltiplicatore più elevato e determinano impatti sull’attività produttiva dell’intero sistema nazionale.
Il recupero del ritardo accumulato dall’Italia in Europa si supera tenendo insieme le parti del Paese in una strategia di sviluppo comune. Come nella logica del Next Generation EU, il Piano deve valorizzare le complementarità e le interdipendenze produttive e sociali tra i Nord e i Sud, riconoscendo che i risultati economici e il progresso sociale dei Nord dipendono dal destino dei Sud e viceversa. Nella sua attuale formulazione il Piano non dà garanzia che le sue risorse saranno investite con questo indirizzo, e ancor meno che ci saranno effetti sulla riduzione delle disparità e sulla crescita del Mezzogiorno e quindi dell’intero Paese. Per questo, a nostro avviso, il Piano dovrebbe essere riformulato:
La semplice allocazione di risorse non garantisce tuttavia il cambiamento del Sud e del Paese. Pertanto, a nostro avviso, il Piano dovrebbe anche:
Senza una migliore capacità amministrativa e coerenti politiche ordinarie i risultati conseguiti con il Piano non potranno essere mantenuti nel tempo, l’Italia non sarà davvero «ricostruita» e non potrà contare in Europa.
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Laura Azzolina, Università di Palermo / Luca Bianchi, economista / Carlo Borgomeo, Fondazione con il Sud / Luciano Brancaccio, Università Federico II Napoli / Luigi Burroni, Università di Firenze / Domenico Cersosimo, Università della Calabria / Leandra D’Antone, storica / Paola De Vivo, Università Federico II Napoli / Carmine Donzelli, editore / Maurizio Franzini, Università La Sapienza Roma / Lidia Greco, Università di Bari / Alessandro Laterza, editore / Flavia Martinelli, Università Mediterranea Reggio Calabria / Alfio Mastropaolo, Università di Torino / Vittorio Mete, Università di Firenze / Enrica Morlicchio, Università Federico II Napoli / Rosanna Nisticò, Università della Calabria / Emmanuele Pavolini, Università di Macerata / Francesco Prota, Università di Bari / Francesco Raniolo, Università della Calabria / Marco Rossi-Doria, maestro / Isaia Sales, Università S. Orsola Benincasa Napoli / Rocco Sciarrone, Università di Torino / Carlo Trigilia, Università di Firenze / Gianfranco Viesti, Università di Bari
La crisi.
Convocato al Quirinale. Nuova missione per «Supermario», ecco chi è Draghi
Caratterialmente è riservato e cordiale, fermo - ne sanno qualcosa persino i "falchi tedeschi"-, ma non freddo. E profondo conoscitore dei meccanismi della finanza internazionale
di Marco Girardo (Avvenire, mercoledì 3 febbraio 2021)
È già passato alla storia, non solo economica, per aver salvato con quell’ormai famoso «whatever it takes» la moneta unica e quindi l’Europa. Ora Mario Draghi proverà a tenere insieme l’Italia. Ci si sofferma sempre sulla prima parte della frase pronunciata il 26 luglio 2012, a Londra, durante una conferenza dall’allora presidente della Bce; ma tutto il credito istituzionale che il banchiere centrale poteva allora sfoderare stava in quello che disse subito dopo: «And believe me, it will be enough», «e credetemi, sarà abbastanza».
Un conto è difendere l’euro dalla speculazione fosse anche geopoliticamente pilotata, altro un Paese come il nostro dalle sue fragilità politiche. Ci proverà con il suo curriculum non politico, ma da servitore civile, l’unico abito che Draghi si sente di indossare e che può indossare.
Di quei panni un po’ più larghi di quelli da tecnico puro si é vestito per larga parte della sua vita professionale. Nato nel 1947 (ha 73 anni), studi al prestigioso istituto Massimiliano Massimo, la severa scuola dei gesuiti della capitale dove come tutti giocava anche a calcio (istituto che ha formato anche figure come l’imprenditore Luca Cordero di Montezemolo e l’ex capo della Polizia, Gianni De Gennaro), allievo di Federico Caffè alla Sapienza di Roma e specializzazione al Mit di Boston, negli anni Novanta entra ai vertici tecnici del Tesoro come direttore generale e poi, dopo un breve passaggio alla Goldman Sachs, nel 2005 diventa il nono governatore di Bankitalia, succedendo ad Antonio Fazio, costretto alle dimissioni.
Ha ricoperto i ruoli di presidente del Financial Stability Board e del Financial stability forum, mentre dal 2011 al 2019, ultimo incarico di altissimo prestigio, ha guidato la Banca centrale europea diventando, nelle cronache economiche, "super Mario".
Keynesiano di formazione e profondo conoscitore dei meccanismi della finanza internazionale per professione, Mario Draghi é caratterialmente riservato e cordiale, fermo - ne sanno qualcosa persino i "falchi tedeschi"-, ma non freddo.
Al chiuso della sua casa ai Parioli, quartiere elegante di Roma, ha sempre lasciato trapelare poco della sua vita privata, a partire dalla giovane età in cui perse entrambi i genitori e si prese cura dei fratelli. Anche se fece apparire la moglie in una celebre battuta che fece lasciando la Bce alla guida della Lagarde: «Il futuro? Chiedete a mia moglie, ne sa di più lei», disse; ovvero chiedete a Maria Serenella Cappello, esperta di letteratura inglese, pare di origini nobili (è imparentata alla lontana con i granduchi di Toscana). La coppia ha due figli: Federica e Giacomo, ambedue laureati. In casa c’è poi un bracco ungherese, il cane a cui Draghi è molto affezionato.
Defilatissimo rispetto alla politica, il banchiere ha la capacità di mantenere grande equilibrio, senza mai nascondere le sue opinioni. La sua maturità precoce ne ha sviluppato la personalissima religione del lavoro in cui la puntualità é un comandamento: il suo orologio, come racconta la biografia di Jana Randow e Alessandro Speciale, é regolato con cinque minuti di anticipo.
Non basteranno certo le lancette di Draghi a garantire che l’Italia rispetti il suo appuntamento con il Next generation Ue, ma é sicuro che il civil servant convocato dal presidente della Repubblica per l’alto e arduo compito di salvaguardare la tenuta economica e sociale del Paese nel bel mezzo dell’emergenza pandemica farà «whatever it takes».
QUI IL SUO INTERVENTO AL MEETING DI RIMINI DEL 2020
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RIPENSARE L’EUROPA!!! --- NUOVE SFIDE. “In Europa si va avanti insieme nella libertà”. Il discorso integrale di Mario Draghi ("Premio De Gasperi") (13.09.2016).
FLS
Dichiarazione del Presidente Mattarella al termine dell’incontro con il Presidente della Camera Fico *
«Ringrazio il Presidente della Camera dei Deputati per l’espletamento - impegnato, serio e imparziale - del mandato esplorativo che gli avevo affidato.
Dalle consultazioni al Quirinale era emersa, come unica possibilità di governo a base politica, quella della maggioranza che sosteneva il Governo precedente. La verifica della sua concreta realizzazione ha dato esito negativo.
Vi sono adesso due strade, fra loro alternative.
Dare, immediatamente, vita a un nuovo Governo, adeguato a fronteggiare le gravi emergenze presenti: sanitaria, sociale, economica, finanziaria. Ovvero quella di immediate elezioni anticipate.
Questa seconda strada va attentamente considerata, perché le elezioni rappresentano un esercizio di democrazia.
Di fronte a questa ipotesi, ho il dovere di porre in evidenza alcune circostanze che, oggi, devono far riflettere sulla opportunità di questa soluzione.
Ho il dovere di sottolineare, come il lungo periodo di campagna elettorale - e la conseguente riduzione dell’attività di governo - coinciderebbe con un momento cruciale per le sorti dell’Italia.
Sotto il profilo sanitario, i prossimi mesi saranno quelli in cui si può sconfiggere il virus oppure rischiare di esserne travolti. Questo richiede un governo nella pienezza delle sue funzioni per adottare i provvedimenti via via necessari e non un governo con attività ridotta al minimo, come è inevitabile in campagna elettorale.
Lo stesso vale per lo sviluppo decisivo della campagna di vaccinazione, da condurre in stretto coordinamento tra lo Stato e le Regioni.
Sul versante sociale - tra l’altro - a fine marzo verrà meno il blocco dei licenziamenti e questa scadenza richiede decisioni e provvedimenti di tutela sociale adeguati e tempestivi, molto difficili da assumere da parte di un Governo senza pienezza di funzioni, in piena campagna elettorale.
Entro il mese di aprile va presentato alla Commissione Europea il piano per l’utilizzo dei grandi fondi europei; ed è fortemente auspicabile che questo avvenga prima di quella data di scadenza, perché quegli indispensabili finanziamenti vengano impegnati presto. E prima si presenta il piano, più tempo si ha per il confronto con la Commissione. Questa ha due mesi di tempo per discutere il piano con il nostro Governo; con un mese ulteriore per il Consiglio Europeo per approvarlo. Occorrerà, quindi, successivamente, provvedere tempestivamente al loro utilizzo per non rischiare di perderli.
Un governo ad attività ridotta non sarebbe in grado di farlo. Per qualche aspetto neppure potrebbe. E non possiamo permetterci di mancare questa occasione fondamentale per il nostro futuro.
Va ricordato che dal giorno in cui si sciolgono le Camere a quello delle elezioni sono necessari almeno sessanta giorni. Successivamente ne occorrono poco meno di venti per proclamare gli eletti e riunire le nuove Camere. Queste devono, nei giorni successivi, nominare i propri organi di presidenza. Occorre quindi formare il Governo e questo, per operare a pieno ritmo, deve ottenere la fiducia di entrambe le Camere. Deve inoltre organizzare i propri uffici di collaborazione nei vari Ministeri.
Dallo scioglimento delle Camere del 2013 sono trascorsi quattro mesi. Nel 2018 sono trascorsi cinque mesi.
Si tratterebbe di tenere il nostro Paese con un governo senza pienezza di funzioni per mesi cruciali, decisivi, per la lotta alla pandemia, per utilizzare i finanziamenti europei e per far fronte ai gravi problemi sociali.
Tutte queste preoccupazioni sono ben presenti ai nostri concittadini, che chiedono risposte concrete e rapide ai loro problemi quotidiani.
Credo che sia giusto aggiungere un’ulteriore considerazione: ci troviamo nel pieno della pandemia. Il contagio del virus è diffuso e allarmante; e se ne temono nuove ondate nelle sue varianti.
Va ricordato che le elezioni non consistono soltanto nel giorno in cui ci si reca a votare ma includono molte e complesse attività precedenti per formare e presentare le candidature.
Inoltre la successiva campagna elettorale richiede - inevitabilmente - tanti incontri affollati, assemblee, comizi: nel ritmo frenetico elettorale è pressoché impossibile che si svolgano con i necessari distanziamenti.
In altri Paesi in cui si è votato - obbligatoriamente, perché erano scadute le legislature dei Parlamenti o i mandati dei Presidenti - si è verificato un grave aumento dei contagi.
Questo fa riflettere, pensando alle tante vittime che purtroppo continuiamo ogni giorno - anche oggi - a registrare.
Avverto, pertanto, il dovere di rivolgere un appello a tutte le forze politiche presenti in Parlamento perché conferiscano la fiducia a un Governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica
Conto, quindi, di conferire al più presto un incarico per formare un Governo che faccia fronte con tempestività alle gravi emergenze non rinviabili che ho ricordato.
Grazie e buon lavoro».
* FONTE: QUIRINALE.
Editoriale
Arriva Draghi. Missione compiuta
di Norma Rangeri (il manifesto, 03.02.2021)
Missione fallita, missione compiuta.
Matteo Renzi ha ottenuto l’obiettivo che si era prefisso: distruggere la maggioranza di governo, annientare il centrosinistra e tirare la volata a un governo di unità nazionale, consegnando il paese nelle mani di un salvatore della patria che ha un nome e cognome: Mario Draghi, incaricato, ieri sera, dal presidente Mattarella, di formare un ministero di salute pubblica.
Sono ore drammatiche, sottolineate dal tono e dalle parole del Capo dello Stato che, parlando in diretta televisiva, ha informato il paese delle sue determinazioni.
Mattarella ha spiegato perché le elezioni anticipate non sono ritenute un’alternativa possibile in questo momento e perché è invece necessario avere subito un governo capace di affrontare la situazione sanitaria e dunque di centrare l’obiettivo del Recovery fund.
Siamo di fronte se non a un azzeramento certamente a una micidiale riduzione degli spazi democratici, a un vero e proprio commissariamento del paese, come capitò con Monti e come non capita in nessun paese europeo, e segnatamente in una congiuntura storica come quella che stiamo vivendo.
Si annullano le differenze politiche e si affidano le sorti del nostro paese a un illustre economista. Che solo il paravento di una falsa coscienza può definire un tecnico.
E quando la politica fa un passo indietro per lasciare il campo a uomini della finanza, vuol dire che la democrazia gode di una cattiva, pessima salute.
Un motivo in più per tenere alta la guardia.
COSTITUZIONE, CORTE COSTITUZIONALE, E CONTI PUBBLICI ("FISCAL COMPACT"): DEUS CARITAS EST ... *
Sul dogma dell’infallibilità della magistratura
Al di là della solita sfida giustizialismo contro garantismo
Rieccoci, spunta il complotto universale ogni volta che si parla di Why not e De Magistris in termini articolati, obiettivi e con lo sguardo al rapporto inquieto tra politica e magistrati, anche non più in servizio.
di Emiliano Morrone ("il coraggio della verità" - 10.11.2019)
Lo confermano reazioni scomposte a un mio articolo apparso di recente su Iacchitè, piene di congetture - non nuove - sul mio conto, spinte sino al sospetto di interessi personali dietro le mie scuse a Tonino Saladino, arrivate a 12 anni dal suo coinvolgimento in Why not, capitolo che la giustizia ha chiuso con una pronuncia della Cassazione che rimanda al verdetto del primo grado, per cui «il fatto non sussiste». Di fronte a questa formula possono sussistere ancora dubbi e “correttivi epistemologici”? È lecita la dietrologia permanente sulla non colpevolezza - Leonardo Sciascia avrebbe detto «in senso proprio tecnico» - di Agazio Loiero e degli altri ex accusati? Ed è corretto sostenere a oltranza il dogma dell’infallibilità dei magistrati, senza distinzione alcuna sull’operato dei singoli e senza un sussulto interiore se fra di loro c’è per giunta chi ha cenato con propri indagati?
Tra i commenti contro quella mia riflessione su Iacchitè ne ho letti di suggestivi; in uno vengo perfino accostato al governatore della Regione Calabria, Mario Oliverio, come suo vecchio amico per la comune provenienza da San Giovanni in Fiore. Collegarmi a Oliverio è come ritenere Sacchi e Trapattoni apparentati dallo schema a zona.
Tangentopoli fu in Italia uno spartiacque: segnò l’inizio della delegittimazione della classe politica nel suo complesso: tutta sporca, tutta marcia, tutta castale, con la conseguenza di trasformare il motto di Heidegger, «ormai solo un dio può salvarci», in «ormai solo un Monti, solo un Draghi può salvarci». La morte della politica risale al ’92, l’anno di Maastricht. Ora abbiamo i rubinetti chiusi, i parlamenti ratificanti e i bilanci vincolati assieme ai leader del momento, a obsolescenza programmata come tv, cellulari e lavatrici.
Allora galoppò la spettacolarizzazione mediatica di Tangentopoli, in nome dell’audience e dunque della pubblicità commerciale. Perciò si radicò e diffuse l’idea della magistratura come potere buono, sano, giusto, provvidenziale, l’unico affidabile cui letteralmente votarsi e abbandonarsi. Dominò il pensiero che davanti alle connivenze e complicità politiche generali le Procure esercitassero una funzione suppletiva, di intervento e di bonifica delle sale di comando. Poi questo pensiero si consolidò: nacque il partito dei magistrati capitanato da Antonio Di Pietro e concentrato sulle denunce, spesso fondate, di abusi, violazioni, trattative di potere per il potere. L’Italia dei Valori diventò il riferimento politico dei movimenti per la verità sulle stragi degli anni ’90, sugli omicidi di mafia, sui silenzi permanenti dello Stato. Di Pietro, con cui lavorai fianco a fianco, era impeccabile: onnipresente, carismatico, attento, bersagliato dal mainstream, dall’intero arco parlamentare e addirittura colpito in “casa” propria. Penso, per esempio, alla sua (op)posizione nei confronti del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, da molti definita come estrema. E penso alla scelta dell’ex magistrato di piazzarsi a sinistra della sinistra, prima che Idv, perduta la partita del rovesciamento di Berlusconi tramite il “pentito” Fini, si squagliasse a stretto giro dal discusso servizio di Report sulle proprietà dello stesso Di Pietro.
C’è un fatto contraddittorio ed emblematico, però, che tanti non sanno o non ricordano. Il disegno di legge per l’introduzione del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale - che, malgrado l’“avvertimento” contenuto nella (sempre dimenticata) sentenza numero 275/2016 della Consulta, ha subordinato i diritti fondamentali, tra cui quello alla salute, alla disumanità dei conti pubblici - fu intanto d’iniziativa dei deputati dell’Idv Cambursano, Donadi, Borghesi, Cimadoro, Di Giuseppe, Di Stanislao, Messina, Mura, Paladini, Palagiano, Palomba e Piffari. E va rammentato che all’epoca, a mia memoria, soltanto il giurista Giuseppe Guarino, più volte ministro, tuonò contro il Fiscal compact, che costituì la base di quell’operazione disastrosa, bollandolo come «illegale».
Ora, questi pochi ma significativi elementi non sono sufficienti a farci rivedere l’assunto dell’insindacabilità assoluta della magistratura, generato e alimentato da un intero sistema che ha confinato il dissenso critico, la ricerca della verità oggettiva e storica e il ruolo precipuo della politica, la quale - per richiamare il filosofo Salvatore Natoli - ha da fare con il progetto per il bene comune e non con il mero governo della contingenza?
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
ITALIA!!! TUTTI. MOLTI. POCHI: E NESSUNA COGNIZIONE DELL’UNO, DELL’UNITA’!!! L’Italia e le classi dirigenti senza senso nazionale. Uno dei problemi della storia italiana dell’ultimo secolo e mezzo è segnato da élites che non hanno saputo andare oltre gli interessi particolari.
Federico La Sala
Iniziativa
Manifesto per l’Università: Manfredi (Crui), “educare i giovani ad affrontare il cambiamento con curiosità e attenzione agli altri”
Manifesto per l’Università è un documento molto importante che è stato condiviso alla Conferenza dei rettori e dalla Conferenza episcopale per definire una piattaforma di valori comuni intorno ai quali portare avanti l’educazione dei nostri giovani, a partire dal tema dell’inclusione, della tolleranza, della comprensione degli altri nella diversità, della democrazia, che sono valori fondanti della formazione, mettendo al centro l’uomo e l’attualità dell’umanità”. Lo dichiara al Sir Gaetano Manfredi, presidente della Crui (Conferenza dei rettori delle Università italiane) e rettore dell’Università degli studi di Napoli “Federico II”, a margine della firma, oggi pomeriggio a Roma, del Manifesto per l’Università sottoscritto da Cei e Crui. “Oggi - aggiunge - sono in atto grandi trasformazioni culturali, digitali, geopolitiche. Dobbiamo educare i giovani ad affrontare il cambiamento con curiosità e attenzione agli altri. È necessaria quest’alleanza che parte dalla cultura”. Dicendosi molto fiducioso dei frutti che potrà dare l’iniziativa, Manfredi ricorda che a livello concreto la collaborazione con le Università cattoliche già esiste, ma adesso, grazie al Manifesto, diventerà ancora più efficace. (AgenSir, 15-05.2019)
Russo (Cei) e Manfredi (Crui).
Vescovi e rettori firmano un Manifesto per l’Università
Tra gli obiettivi la possibilità di stipulare accordi tra atenei e diocesi per percorsi formativi che pongano al centro la persona
Enrico Lenzi (Avvenire, giovedì 16 maggio 2019)
«Alleati» per affrontare le «nuove sfide» per offrire alle nuove generazioni una università che sia «comunità di studio, di ricerca e di vita». È il cuore del «Manifesto per l’università» che la Conferenza dei rettori italiani (Crui) e la Conferenza episcopale italiana (Cei) hanno sottoscritto ieri nella sede romana della Crui, presenti il presidente dei rettori italiani, Gaetano Manfredi (che guida la Federico II di Napoli) e il segretario generale della Cei, il vescovo Stefano Russo.
Un Manifesto che «esprimendo concordanza di vedute», vuole porre le basi per un lavoro di collaborazione con la «costruzione di reti, al fine di promuovere la cittadinanza globale e lo sviluppo sostenibile». Il documento, infatti, nella sua prima parte, declina alcuni punti di convergenza che Crui e Cei hanno individuato sull’essenza dell’Università. Del resto la Chiesa italiana da sempre è attenta al mondo della scuola, dell’università e della ricerca, ritenendolo fondamentale per la costruzione del futuro. Posizioni spesso espresse anche dalla Conferenza dei rettori, che si è trovata a dover guidare in questi ultimi decenni diverse fasi critiche e di riforma del settore accademico.
I nove punti del Manifesto, delineano con chiarezza l’idea di università che serve al Paese. Una università che garantisca «il diritto all’educazione e alla cultura per rispondere alle vocazioni e alle attitudini di ciascuno», in una realtà che deve «essere una comunità di studio, di ricerca e di vita, dove la persona sia al centro dei percorsi formativi». Questo porre la persona al centro, nasce dal fatto di «promuovere un umanesimo solidale». Non può mancare «una cultura del dialogo e della libertà», in un sistema dove funzioni «autonomia e sussidiarietà». Università che sappia «integrare competenze formali e quelle informali», sapendo creare «una rete globale che faciliti lo scambio culturale e la mobilità di studenti e docenti», adoperandosi per «uno sviluppo integrale e sostenibile», con attenzione alla «cultura digitale». In questo quadro, Crui e Cei si impegnano a «favorire lo scambio reciproco di esperienza e informazioni», inserendo «nei programmi per la formazione moduli che diano conto dell’unitarietà della dimensione spirituale e culturale». Il tutto «valorizzando una didattica attenta alla persona e orientata alla formazione di una coscienza critica e solidale». Anche per questo c’è l’impegno a «favorire la nascita di accordi e protocolli a livello territoriale tra atenei e singole diocesi, che sappiano promuovere quella che viene chiamata «la terza missione» dell’università: didattica, ricerca e applicazione concreta di quanto prodotto.
Il “sacro dovere” e l’erosione della costituzione
di Francesco Palermo *
La costituzione è il perimetro entro il quale si può muovere la politica con le sue scelte discrezionali. È il ring nel quale il legittimo conflitto di idee deve svolgersi secondo regole prestabilite, la cui interpretazione è affidata a degli arbitri, i più importanti dei quali sono la Corte costituzionale e il Presidente della Repubblica. È pertanto non solo legittimo ma anzi doveroso che la politica ricorra ad argomentazioni costituzionali per giustificare le proprie azioni e le proprie tesi, perché solo dentro la costituzione può svolgersi la politica. La costituzione è, per certi aspetti, la versione laica del principio di esclusività tipico della religione: non avrai altro Dio all’infuori di me. E non può esserci politica al di fuori della costituzione.
Come troppo spesso accade anche con la religione, però, non è raro che i precetti vengano piegati ad interpretazioni funzionali alla preferenza politica del momento. E che tale torsione venga compiuta non già dagli arbitri, bensì dai giocatori.
Un esempio di particolare interesse si è registrato in questi giorni, quando il ministro dell’interno ha invocato l’articolo 52 della costituzione per giustificare la propria politica in materia di sbarchi. Nelle due pur diverse vicende della nave Diciotti da un lato e della nave Sea Watch dall’altro, il ministro Salvini ha rivendicato la scelta di negare l’accesso ai porti italiani come un obbligo costituzionale, fondato sul “sacro dovere” di ciascun cittadino alla “difesa della patria”, previsto appunto dall’articolo 52 della costituzione.
La disposizione non ha naturalmente nulla a che vedere con le questioni di cui si tratta. Il suo ambito di riferimento è esclusivamente la difesa militare, come si evince dai lavori preparatori e dagli altri commi dell’articolo, che prevedono rispettivamente l’obbligatorietà del servizio militare, nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge, e la natura democratica dell’ordinamento delle forze armate. È per questo che l’articolo 52 non fu oggetto di particolare dibattito in assemblea costituente, impegnata a sottolineare il carattere pacifista della costituzione. Non a caso il testo definitivo è praticamente identico a quello della prima bozza, caso rarissimo nei lavori della costituente. Erano tutti d’accordo su una previsione che doveva dare copertura costituzionale al servizio militare e alle forze armate.
Il ministro dell’interno trasforma invece quella previsione - estrapolandola dal contesto - in una sorta di diritto di resistenza. Peraltro ponendolo in capo al governo, ossia all’organo contro il quale il diritto di resistenza si esercita, nei pochi ordinamenti in cui è previsto. Non solo. Il richiamo al “sacro dovere” della “difesa della Patria” ha una forte portata simbolica. In primo luogo, la formulazione è nota anche ai cittadini meno familiari con la costituzione, quindi suona plausibile. In secondo luogo, richiama il gergo militare, anche grazie all’espressione ottocentesca della disposizione (“sacro dovere”), figlia di un’epoca in cui la guerra era ancora drammaticamente presente negli occhi e nelle menti dei costituenti. Soprattutto, l’invocazione di quel segmento dell’art. 52 è un abile gioco retorico: prima lo stacca dal contesto militare in cui è collocato, poi lo ricollega a tale contesto, facendo intuire che “l’invasione” dei profughi sia un atto di guerra nei confronti del Paese, contro cui occorre difendersi. Anche militarmente. Dunque senza essere soggetti alla costituzione, ma al diritto eccezionale del tempo di guerra, in cui vale quasi tutto.
Il rischio di una simile operazione, per quanto scaltra sotto il profilo politico e mediatico, è quello di depotenziare il carattere normativo della costituzione, di eroderne il ruolo di limite e di parametro dell’attività politica. Un’erosione che continua da tempo, trasversalmente alle forze politiche, e di cui questo caso è solo l’esempio più recente. Così facendo si arriva però a cancellare la funzione di garanzia della politica che è il compito principale della costituzione. Non può sfuggire la pericolosità di questo crinale. O forse sì. E infatti l’operazione funziona proprio in quanto alla gran parte degli elettori questo ruolo della costituzione - il più importante - sfugga. Si continua così a ballare sulla nave che affonda. Dimenticando che non è “solo” quella dei migranti, ma quella della costituzione. Su cui siamo imbarcati tutti...
* 31.01.2019 - "Il sacro dovere e la sua torsione populista" (Il Mulino)
Federico La Sala
Memoria
Massimo Castoldi, il libro
Il coraggio dei maestri antifascisti
La storia di dodici insegnanti che si opposero alla dittatura. Lo studioso porta alla luce per Donzelli esempi eroici di educatori perseguitati e uccisi dal regime di Mussolini
di CORRADO STAJANO *
Com’è importante la figura del maestro in una società civile. Sotto una dittatura, poi, quanto pesano la sua dignità, il suo coraggio per far sì che i bambini a lui affidati crescano nel rispetto delle regole dei rapporti umani cancellate dal regime, qualsiasi regime. È uscito da Donzelli un libro di Massimo Castoldi, professore di Filologia italiana all’Università di Pavia, studioso della memorialistica della Resistenza: Insegnare libertà. Storie di maestri antifascisti. Un libro amaro, doloroso, commovente, utile a far capire perché quel passato deve davvero passare per sempre, soprattutto oggi che il fascismo sembra venga guardato con indulgenza. (Sere fa, durante il programma di Lilli Gruber, Luciano Canfora spiegò con limpidezza a un giornalista di idee nerastre, ignorante anche nel linguaggio, che cosa significa la parola fascistoide, purtroppo tornata nel clima di una certa politica del nostro tempo).
Nei primi vent’anni del Novecento, scrive Massimo Castoldi, il maestro elementare aveva acquistato una centralità nella vita socio-culturale del Paese: era impegnato nella lotta contro l’analfabetismo, per un’istruzione sempre più diffusa, per cercar di sanare i mali dell’epoca, le malattie, la fame, la precarietà delle condizioni igienico-sanitarie. Compito del maestro non era soltanto quello di insegnare a leggere e a scrivere, ma anche a vivere meglio, a creare una comunità in cui gli uomini e le donne fossero rispettosi di se stessi e degli altri. Sono gli anni delle leghe contadine, delle Società di Mutuo soccorso, delle università popolari, dei circoli operai, delle cooperative, delle Camere del lavoro, delle casse rurali, del socialismo umanitario nascente.
Poi il fascismo che frantumò ogni idea di libertà: «I bimbi d’Italia si chiaman balilla». Piccoli soldati in uniforme, con moschettini modello ’38, forse fieri del loro dissennato giuramento d’obbligo: «Giuro di eseguire gli ordini del Duce e di servire con tutte le mie forze e se necessario col mio sangue la causa della Rivoluzione fascista». Poveri bambini ignari. Coi maestri in orbace e il pugnaletto alla cintura.
Ma c’erano anche gli altri, i disubbidienti della libertà che spesso rischiavano il posto e anche la vita come Carlo Cammeo trucidato nel 1921 a Pisa sulla soglia della sua classe, come Salvatore Principato, fucilato dai fascisti della «Muti» in piazzale Loreto a Milano, per ordine dei tedeschi, nel 1944. Il libro non vuole fare un elenco di chi si oppose, vittima della dittatura fascista. È la storia di dodici maestri e maestre che seppero far fronte, ma è anche l’analisi di una società minuta e spesso sconosciuta.
Sono vicende tristi, quelle raccontate da Massimo Castoldi. Come la vita di Alda Costa, la maestra di cui scrisse Giorgio Bassani nelle Cinque storie ferraresi: la Costa è la Clelia Trotti del racconto, socialista riformista, appassionata alla condizione sociale dei bambini, contro la guerra, vittima delle persecuzioni dei fascisti che la insultavano sui loro giornali e a Bologna, nel 1922, l’aggredirono in trecento, le strapparono le vesti, le sputarono addosso, la costrinsero a bere l’olio di ricino perché si era rifiutata di inneggiare al fascismo. Fu denunziata, non rispettava l’obbligo del saluto romano e seguitava a rivendicare la sua fede socialista. Sospesa, licenziata, inviata al confino alle isole Tremiti per cinque anni, arrestata di nuovo quando il federale fascista Ghisellini fu giustiziato a Ferrara: la vicenda è narrata nel film La lunga notte del ’43.
Popolano il libro nomi di uomini e di donne che non sono passati alla storia, ma che spiegano nel profondo che cosa fu il fascismo. Anselmo Cessi, un maestro cattolico che infastidiva i fascisti per la sua appassionata azione sociale nel Mantovano, fu ucciso nel 1926 mentre passeggiava con la moglie a Castel Goffredo; Mariangela Maccioni, una maestra antifascista sarda - 90 alunni - angariata perché si era rifiutata di fare una lezione sul Duce, sospesa più volte dall’insegnamento. Alla sua morte scrisse sul «Ponte» Salvatore Cambosu: «C’era in lei la forza e la gentilezza antica dell’ulivo».
E poi Abigaille Zanetta, socialista, antimilitarista, comunista, espulsa dalla scuola dal podestà di Milano Ernesto Belloni, «per non sufficiente adattamento alle direttive politiche del governo», arrestata, incarcerata, cercò di sopravvivere con qualche lezione privata. Non ebbe neppure la gioia della Liberazione. Morì un mese prima.
Con il medesimo destino di perseguitati coraggiosi, tra gli altri, Fabio Maffi, Carlo Fontana, Aurelio Castoldi, Giuseppe Latronico, Anna Botto, la maestra di Vigevano che portò l’intera scolaresca alla messa funebre per il partigiano Carlo Alberto Crespi e finì poi a Ravensbrück nel forno crematorio, Salvatore Principato, già ricordato, uno dei quindici martiri di piazzale Loreto, intellettuale attivo nel lavoro culturale, partigiano socialista, dentro e fuori di prigione. Il suo nome resta, per sempre, nelle poesie di Salvatore Quasimodo, Alfonso Gatto, Franco Loi.
Quanto contano le parole nel far rivivere la memoria smarrita della libertà e della giustizia. Le pagine di questo libro lo documentano.
Così l’Uomo Nuovo abbatte il sapere delle élite decadute
Come si è arrivati alla scissione tra classe dirigente e popolo? Perché si perde fiducia nella rappresentanza? Come la politica è arrivata al suo grado zero? Riflessioni dopo l’intervento su “Repubblica” di Alessandro Baricco
di EZIO MAURO (la Repubblica, 11 Gennaio 2019)
La prima domanda, leggendo il breve saggio di Alessandro Baricco, è se possiamo vivere senza un’élite. La seconda è quanto tempo impiegheremo a considerare élite questa nuova classe di comando che ha spodestato la vecchia. E la terza, quella che conta, è dove, come e quando ha sbagliato il ceto dirigente del Paese, fino a suicidarsi nella disapprovazione generale del cosiddetto popolo ribelle. Fino a trasportare il termine élite [...].
Al via l’anno accademico.
Università, nuove strade per interpretare il futuro
Unire tecnica, professionalità e capacità di giudizio
di Lorenzo Caselli (Avvenire, giovedì 1 novembre 2018)
Del generale rimescolamento di carte dei processi scientifici, culturali e formativi l’Università è chiamata a ripensare se stessa, a riposizionarsi rispetto a una situazione complessa, in movimento, ricca di contraddizioni. La formazione trascende oggi i suoi ambiti tradizionali e viene ad assumere perlomeno un duplice ruolo: da un lato, essa si configura quale risorsa economica e quale fattore di competitività del sistema Paese; dall’altro, come fondamentale diritto di cittadinanza ovvero come garanzia di libertà rispetto a più futuri possibili.
Il cambiamento è oggi sempre più rapido, i cicli di vita delle conoscenze, delle tecnologie, dei prodotti, dei servizi si accorciano sempre di più. Le esperienze acquisite attraverso lo studio, il lavoro e la ricerca si bruciano in tempi molto brevi. L’Università deve sapersi misurare con esigenze formative sempre più diversificate e articolate nell’ambito di un nuovo intreccio studio-lavoro. Occorre pertanto saper riflettere in termini dinamici, pensare a persone che nell’arco della vita svolgeranno percorsi individuali e collettivi il cui esito sarà dato dalla loro qualità intrinseca, qualità alimentata dalla formazione, ma anche dalla rete delle condizioni e delle occasioni di promozione e di valorizzazione esistenti nel sistema sociale. Un giovane per potersi muovere efficacemente nell’ambito di questa rete di opportunità non ha bisogno tanto o soltanto di nozioni, ha bisogno piuttosto di "saper essere" e quindi "di saper fare". Più specificatamente deve essere posto in grado di definire e risolvere problemi; deve imparare a conoscere i codici dei sistemi nei quali opera; deve essere capace di controllare i processi, pronto all’innovazione e all’accumulo del sapere, disposto a cooperare costruttivamente.
L’Università è chiamata a misurarsi non soltanto con esigenze formative sempre più diversificate, ma anche con una ricerca pervasiva e multidirezionale, che va avanti attraverso l’ibridazione dei saperi. Certamente nell’ambito della ricerca anche le imprese e le istituzioni devono fare la loro parte. Il problema non è però quello di giocare allo scaricabarile. Occorre semmai creare le condizioni per un incontro costruttivo tra la ricerca di base, sempre più necessaria, la ricerca applicata e la diffusione dell’innovazione sul territorio dando vita a nuove funzioni e a nuove strutture collaborative. Per soddisfare tali esigenze, per procedere in direzione di un suo riposizionamento strategico, l’Università deve dotarsi di una capacità di lettura del cambiamento nonché di promozione, non subalterna o acritica, di interfacce con il sistema socioeconomico territoriale, concorrendo anche a proiettare i sistemi locali in cui essa opera in un contesto internazionale più ampio. Nel contempo, l’Università deve realizzare una capacità moltiplicativa e diversificata dei suoi servizi, mettendo a fattore comune più facoltà o scuole, più dipartimenti, rompendo tutta una serie di compartimenti stagni sia organizzativi sia comunicativi che oggi impediscono sovente la consecuzione delle indispensabili masse critiche.
Ci troviamo nell’ambito di una situazione universitaria complessa, dinamica, articolata, che non può però essere ridotta alla chiave interpretativa e normativa del solo "mercato". Anche se dal mercato possono derivare all’Università stimoli molto utili in termini di autonomia, di spinta all’innovazione, di capacità di competere, di rispondere alle esigenze del sistema, essa non può però essere definita dal mercato e non può porsi a valle delle sue convenienze. In altre parole, per l’Università non esiste soltanto il mercato, esiste la società, la società civile, nel suo complesso e nelle sue articolazioni. Esistono domande di ricerca non economiche in senso stretto, ma che ciò non ostante sono meritevoli di essere perseguite. C’è la competizione, ma c’è anche la solidarietà. Esistono le tecniche, le professionalità, ma esiste anche la cultura.
C’è una questione ineludibile dalla quale non si può prescindere. Che tipo di uomo, o meglio di giovane, preparare per il domani? Per tentare un abbozzo di risposta crediamo sia utile ripartire dai due ruoli fondativi dell’Università, quello di essere ad un tempo istituzione di ricerca e soggetto di formazione. La produzione del sapere e la sua socializzazione critica sono intimamente connessi, o meglio, tali dovrebbero essere. L’Università è luogo fatto di laboratori, ma anche di aule, è popolata da ricercatori e da giovani, da giovani portatori di una speranza di futuro. E proprio il rapporto con i giovani può avere per i docenti una valenza quasi epistemologica e metodologica. Il rapporto con i giovani, vissuto in maniera feconda, può garantire all’Università la possibilità di proiettarsi al di fuori dell’immediato, dell’interesse contingente. Con altre parole può contribuire ad evitare di cadere in ottiche meramente positivistiche che finiscono per rinchiudere l’Università in una razionalità limitata e scettica.
Pur nella complessità e contraddittorietà delle situazioni, si apre per l’Università la possibilità di strade nuove. Da parte di molti si percepisce ormai che il progresso e la modernità non possono esaurirsi in un mero assemblaggio di innovazioni tecnico scientifiche trainate dalla sola domanda di mercato. Il mondo dei valori, la sostenibilità, le istanze etiche e spirituali non possono essere messe tra parentesi. Sempre più ci si interroga sulla necessità di radicali cambiamenti di paradigma. Il sapere deve essere al servizio dell’uomo, di ogni uomo, di tutto l’uomo. La comunità universitaria è chiamata a cogliere e ad esplicitare la costitutiva umanità dell’agire scientifico, nell’insieme delle sue dimensioni. Ciò significa quindi saper operare con la coscienza del limite. Il sapere rinvia sempre a qualcosa d’altro: vi è un principio di non appagamento. Coscienza del limite dunque e nel contempo della destinazione universale della scienza.
L’Università può recuperare il suo privilegio costitutivo e strutturale, che è quello di offrire una visione del mondo che non è strettamente tecnico professionale, ma che permette di capire le tecniche e le professionalità, collegandole a una più generale capacità di giudizio. In un’epoca di esasperati specialismi, l’Università deve farsi anche propositrice di idee generali. Idee generali come quelle di giustizia, di dignità delle persone, di democrazia, di cittadinanza, di solidarietà sono il sale della nostra coscienza individuale e collettiva, e una Università a servizio di tali idee non solo non è meno autonoma, ma può ritrovare il senso più autentico della propria missione.
* Professore emerito Università di Genova
DUE VOLTI (E DUE NARRAZIONI) DELL’ITALIA - E DELLA CHIESA. Quale avvenire? *
La deriva della xenofobia
Senza vergogna
di Marco Tarquinio (Avvenire, sabato 4 agosto 2018)
Stiamo attraversando un tempo difficile, duro e bello come ogni tempo difficile, amaro come ogni tempo in cui nel nome di una Legge solo proclamata e di doveri solo parolai, e che ignorano e stritolano i diritti dei più deboli, si mette in questione l’umanità e l’uguaglianza stessa degli esseri umani. Senza vergogna. Ma la fragilità e la dignità della vita, di ogni vita umana, non si riconoscono dal passaporto e non si possono prendere in alcun modo in ostaggio. E le leggi non si applicano solo per stanare e "fermare" lo straniero, ma come ha sottolineato anche la nostra lunga inchiesta sul caporalato per far sì che chi è straniero di origine e italiano di lavoro non venga incluso e integrato soltanto nel (e dal) "lato oscuro" del nostro Paese.
È in tempi proprio come questi che a noi cristiani è chiesto di dare ragione in modo più limpido della nostra speranza. Ma non è un dovere solo nostro. Perché a tutti - ma proprio a tutti - è laicamente chiesto, se vogliamo tener saldo il patto di civile convivenza e la misura comune che contiene le nostre differenze e le compone in armonia, di sentirci impegnati a tener care e preservare le radici (troppo a lungo negate o date per scontate) dell’umanesimo che dà linfa, forza e capacità inclusiva alla nostra civiltà comune.
Questo tempo italiano è specialmente difficile perché ci mette davanti a due volti (e due narrazioni) dell’Italia, che invece o è una o non è.
Perché sarebbe un’Italia umanamente fallita - e del default più sconvolgente: il default della cultura e della fede che l’hanno unita prima di ogni azione politica - quel Paese bifronte che ci si ostina a voler scolpire non nel marmo, ma in grevi nuvolaglie di slogan xenofobi da social network e di parole e atti violenti che si vorrebbe derubricare a «sciocchezze». La «goliardata» che ha sfigurato il viso di Daisy Osakue non è la controprova di un’Italia serena e vaccinata dal razzismo: per rendersene conto, basta leggere ciò che è stato scatenato addosso a questa giovane donna, cittadina italiana di origine nigeriana.
Inqualificabile. Io continuo a vergognarmene. Anche se suo padre, a quanto risulta, non è stato uno stinco di santo e ha pagato il suo debito con la giustizia. E me ne vergogno anche se i tre aggressori a colpi di uova sono "bulli" e non adepti di uno dei manipoli razzisti che sparlano, sputano, menano e sparano (grazie a Dio, quasi sempre a vuoto) in giro per l’Italia.
Non sono l’Italia e non la rappresentano l’Italia. Ma - come ho scritto - ne deturpano i lineamenti, sino a sfigurarli. E allora non si può far finta di niente. Di costoro e per costoro ci dovremmo vergognare tutti, e ancor di più visto che ci viene spiegato e quasi intimato di dire e scrivere che non esistono e che comunque sono la logica reazione alla "violenza portata dagli stranieri". Ma proprio come i poveri, i violenti non hanno passaporto e non hanno patria. Ai poveri patria e passaporto sono negati. Ai violenti interessano solo come arma, e perciò non interessano affatto.
L’Italia non può essere ridotta a un ring di risentimenti etnici. Chi ha responsabilità lavori per evitarlo.
P.S. A quanti in queste settimane hanno ritenuto di ricordarci che i buoni cattolici e i giornali di ispirazione cattolica, prima e invece che delle persone costrette a migrare, dovrebbero preoccuparsi della vita non nata e ancora troppe volte abortita in Italia e in Europa - vita nascente che da appassionati di umanità e di scienza amiamo e rispettiamo sin dal primo istante come testimoniano le pagine del giornale - mi sento di rispondere con parole più grandi di noi: se non siamo capaci di amare e di essere giusti con coloro che vediamo, come potremo mai amare ed essere giusti con coloro che (ancora) non vediamo?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA COSTITUZIONE ITALIANA, IL CRISTIANESIMO, E LA TRADIZIONE DELLA MENZOGNA CATTOLICO-ROMANA.
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
IL SONNO MORTIFERO DELL’ITALIA. In Parlamento (ancora!) il Partito al di sopra di tutti i partiti.
Federico La Sala
Gli Stati generali della retorica
di Tomaso Montanari (Il Fatto Quotidiano, 17 novembre 2012)
I ripetuti, forti e argomentati “vergogna!” che giovedì hanno clamorosamente cambiato l’agenda dei cosiddetti ‘Stati generali della cultura’ sono l’unico risultato concreto (ma imprevisto e imbarazzante) della retorica sulla ‘costituente della cultura’ che il Sole 24 Ore alimenta ossessivamente da nove mesi. Ma la montagna ha partorito un topolino interessante.
Il parterre schierato sul palco del teatro romano ‘Eliseo’ rappresentava in modo impeccabile l’ossificazione mortuaria della cultura italiana. E come si può chiedere di indicare nuove prospettive a chi ha imbottigliato la cultura italiana in una strada senza uscita?
Fa piacere sentire Giuliano Amato che riscopre l’articolo 9 della Costituzione: ma come non ricordare che l’ormai permanente blocco indiscriminato delle assunzioni dei giovani ricercatori italiani o dei soprintendenti fu inventato proprio da lui? E il danno è stato molto più grave dei pochi benefici ottenuti risparmiando su quei comparti strategici. Che il ministero per i Beni culturali sia “un morente ibernato” è verissimo: ma come non stupirsi che a dirlo sia uno dei congelatori, quell’Andrea Carandini che si precipitò a presiederne il Consiglio superiore quando Salvatore Settis sbatté la porta a causa del maxi-taglio da un miliardo e 300 milioni di euro disposto da Tremonti e subìto da Sandro Bondi?
E non parliamo dei ministri in carica: Lorenzo Ornaghi sale sul palco per dire “meno Stato e più privati”. Niente male per un ministro della Repubblica che dovrebbe invece difendere la dignità e i finanziamenti del sistema di tutela (un tempo) migliore del mondo. E quando un ragazzo gli urla: “Lei parla come un economista, non come un ministro della cultura”, il malcapitato ex rettore della Cattolica mormora che “non si può dire che questo governo non abbia fatto nulla per i beni culturali”. E invece è proprio così, tanto che Ornaghi non riesce a fare un solo esempio concreto.
Che il vento sia bruscamente cambiato se n’è reso conto il direttore del Sole, che nell’editoriale di ieri ha abbandonato la retorica vetero-craxiana sulla cultura come giacimento economico da cui estrarre reddito, e ha parlato della priorità della tutela del patrimonio, finalmente indicandolo come un valore in sé, e non come l’ennesimo strumento del mercato.
In tutto questo, l’affondo del capo dello Stato è apparso provvidenzialmente fuori degli schemi: in tempi di crisi si devono dire molti no, “ma alla cultura bisogna dire molti sì”. Certo, uno si chiede perché Napolitano abbia controfirmato la nomina a ministro dei Beni culturali dell’unico ministro non tecnico del governo Monti: nomina che è stata un vero segnale di disprezzo per la cultura. Ma non è mai troppo tardi, e la frustata presidenziale al governo e all’establishment culturale ha fatto capire che è finito il tempo in cui la pomposa definizione di ‘Stati generali’ può designare un teatrino in cui i responsabili dello sfascio si parlano addosso commentando lo sfascio medesimo. Se non altro di questo siamo gratissimi al Sole 24 Ore.
Terza edizione dell’iniziativa del Sole 24 Ore
Presenti i ministri Franceschini e Giannini
Cultura, Stati generali a Roma
Un ecosistema da rilanciare
di Pier Luigi Sacco (Il Sole-24 Ore, 19.06.2014)
Si tengono oggi a Roma, al l’Auditorium Conciliazione, gli Stati generali della cultura organizzati dal Sole 24 Ore. L’iniziativa, nata dalla pubblicazione sulla Domenica del Manifesto per la cultura, è alla III edizione. I lavori iniziano alle 9,45. Partecipano il ministro della Cultura Franceschini e quello del l’Istruzione e dell’Università Giannini.
Solo cinque anni fa, il giornalista francese Frédéric Martel pubblicava un libro molto influente, Mainstream, nel quale passava in rassegna il panorama mondiale della produzione culturale e creativa. La sua conclusione era netta: per quanto si stesse assistendo a un’impressionante moltiplicazione dei centri geografici di produzione di contenuti culturali anche in paesi economicamente emergenti, il predominio statunitense sulla scala globale appariva sostanzialmente indiscusso.
Lo scenario di oggi è alquanto diverso. Paesi come la Corea del Sud sono rapidamente diventati giganti della produzione culturale, capaci di penetrare non più soltanto nei mercati asiatici ma in quelli del Medio Oriente (e in prospettiva probabilmente in Europa). La Cina sta aprendo un numero impressionante di nuovi musei e centri di produzione multimediale. Alcuni paesi del Golfo aspirano a diventare i nuovi attrattori del grande turismo culturale con investimenti senza precedenti in strutture museali di ultima generazione. E questi sono solo alcuni degli esempi più eclatanti di un movimento tettonico. La centralità degli Stati Uniti in un simile contesto è sempre più in discussione, e a maggior ragione ciò vale per l’Europa, e quindi per l’Italia.
Siamo di fronte a una fase di cambiamento di straordinaria portata, le cui conseguenze possono essere previste solo in parte, ma per la quale almeno una certezza l’abbiamo: per essere competitivi in paesi come il nostro bisognerà saper innovare, produrre e attrarre talenti e competenze, sviluppare nuovi modelli di business e al tempo stesso salvaguardare l’autenticità e il valore di ricerca della sperimentazione culturale contemporanea così come del patrimonio culturale e paesistico.
Ma non è più solo una questione di policentrismo geo-culturale. È anche, sempre più, una questione di senso individuale e sociale dell’esperienza culturale. Per accedere ai contenuti culturali non è più indispensabile (per quanto consigliabile) recarsi negli spazi deputati. L’esperienza culturale può oggi accadere in qualsiasi ambiente e in qualsiasi situazione, con il semplice ausilio di uno smartphone o di un tablet, e presto di tecnologie indossabili.
Inoltre, la produzione stessa dei contenuti culturali è oggi sempre più diffusa e generalizzata: tutti noi produciamo continuamente contenuti, più o meno interessanti, più o meno originali, ma in ogni caso questa nuova situazione produce un fondamentale mutamento di prospettiva, nel quale il pubblico «passivo» diventa invece sempre più attivo, consapevole, partecipe, e sempre più co-creatore dell’esperienza piuttosto che semplice utilizzatore.
Non sono scenari futuribili, è quello che accade oggi, sotto i nostri occhi, se soltanto vogliamo vederlo. E le conseguenze sono importanti e profonde: occorrerà sempre più pensare alla cultura non più come un settore specifico dell’economia e della società, per quanto importante, ma piuttosto come un vero e proprio ecosistema che si connette con tutte le principali dimensioni della vita sociale ed economica: dalla salute all’innovazione, dalla sostenibilità ambientale alla coesione sociale, ovvero con tutte quelle dimensioni che hanno un rapporto diretto con la qualità della vita e con le determinanti fondamentali dei comportamenti individuali e collettivi.
In Italia, per quanti sforzi si stiano oggettivamente facendo per dare impulso a un sistema da troppo tempo trascurato nelle priorità delle scelte politiche e mortificato nei suoi ancora grandi talenti e competenze, siamo decisamente indietro, e se davvero vogliamo dare seguito alle nostre ambiziose affermazioni circa un futuro modello nazionale di sviluppo fondato sulla cultura, dobbiamo andare molto al di là di un volonteroso potenziamento di un modello di valorizzazione turistico-culturale del patrimonio che si fonda su una logica di produzione e disseminazione culturale sostanzialmente vecchia di decenni.
In particolare, non è sufficiente lavorare su un salto di qualità dei canali digitali di promozione del nostro turismo culturale (che è necessario e che sta fortunatamente avvenendo), ma bisogna appunto lavorare sulla natura stessa dell’esperienza culturale e del suo rapporto con l’intera società e con l’intera economia del nostro paese.
Le nuove priorità sono, ad esempio, l’aumento delle competenze culturali e dei livelli di partecipazione attiva dei nostri cittadini, oggi ben sotto la media europea, il raggiungimento di standard di connettività digitale adeguati ai nostri obiettivi di posizionamento competitivo (e anche questi ben sotto la media europea), la digitalizzazione del patrimonio (che è molto, molto di più della semplice scansione digitale dei contenuti, e per capirlo basta una semplice visita al sito di Europeana, la biblioteca digitale europea), lo sviluppo di modelli di business che tengano conto della fisiologica evoluzione (leggi, in prospettiva: dissoluzione) dell’attuale regime della proprietà intellettuale, e in ultima analisi l’elaborazione di una chiara strategia di sviluppo del sistema della produzione culturale e creativa, possibilmente supportata, come accade oggi in tutti i paesi europei più competitivi nel settore, da un’agenzia di sviluppo nazionale che impieghi le migliori competenze disponibili (come ad esempio Nesta nel Regno Unito o Kultur Styrelsen in Danimarca).
Vaste programme, osserverà qualcuno. E magari è vero. Ma se è così, sarà allora il caso di rinunciare anche ai nostri vasti proclami su cultura e futuro, e puntare su opzioni di sviluppo diverse, più realistiche e modeste. Se invece crediamo davvero che la cultura sia uno dei settori chiave per ricostruire la nostra economia, sarà bene rendersi conto che l’asticella è molto, molto in alto, e che sarà bene iniziare ad allenarsi sul serio e prendere una rincorsa bella lunga. C’è chi lo sta facendo da tempo, e non aspetta certamente noi.
LA MISERIA DELLA CULTURA ITALIANA E LA RICCHEZZA DEL MENTITORE ISTITUZIONALIZZATO. Note di premessa sul tema:
PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE. CARO PRESIDENTE NAPOLITANO, CREDO CHE SIA ORA DI FARE CHIAREZZA. PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI ... (Federico La Sala)
Con Napolitano per la Costituente *
È il momento degli Stati Generali della Cultura per tirare le fila, con l’intervento del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, del Manifesto lanciato dal Sole 24 Ore il 19 febbraio scorso «per una Costituente della cultura». Sotto l’alto patronato della Presidenza della Repubblica, sono organizzati da Sole 24 Ore, Accademia dei Lincei e Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, e si terranno a Roma al Teatro Eliseo, il 15 novembre, alle 11. Introdurrà i lavori Giuliano Amato.
Seguiranno un cortometraggio di Vincenzo Cerami («Appunti per un film sulla rinascita italiana») e la tavola rotonda «Cultura, l’emergenza dimenticata del Paese», introdotta e moderata dal direttore del Sole 24 Ore Roberto Napoletano, che presenterà l’«Indice24» della cultura (di cui Pier Luigi Sacco in questa pagina e Fabrizio Galimberti all’interno anticipano i contenuti), con le indicazioni economiche sul quadro competitivo globale e sulle possibilità concrete di sviluppo senza fondi pubblici dell’industria culturale italiana. Intervengono i ministri Fabrizio Barca, Lorenzo Ornaghi e Francesco Profumo, e Ilaria Borletti Buitoni, Ilaria Capua, Andrea Carandini, Lamberto Maffei, Carlo Ossola.
L’intervento del presidente della Repubblica chiuderà la mattinata. Nella sessione pomeridiana, «Fare economia della cultura. Idee e proposte», moderata dal responsabile della «Domenica» Armando Massarenti, intervengono Alessandro Laterza, Emmanuele Emanuele, Pier Luigi Sacco, Roberto Grossi, Antonio Cognata, Paolo Galluzzi, Gabriella Belli, Walter Santagata, Massimo Monaci, Guido Guerzoni, Alberto Melloni. Le conclusioni sono affidate al ministro Corrado Passera.
Per partecipare è necessario registrarsi online entro le ore 12 del 14 novembre nel sito
L’evento verrà trasmesso
in diretta streaming
e potrà essere seguito su twitter:
#SGCultura12
La “Costituente” per la cultura * *
1 Una costituente per la cultura
Cultura e ricerca sono capisaldi della nostra Carta fondamentale. L’articolo 9 della Costituzione «promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Sono temi intrecciati tra loro. Perché ciò sia chiaro, il discorso deve farsi economico. Niente cultura, niente sviluppo. "Cultura" significa educazione, ricerca, conoscenza; "sviluppo" anche tutela del paesaggio.
2 Strategie di lungo periodo
Se vogliamo ritornare a crescere, se vogliamo ricominciare a costruire un’idea di cultura sopra le macerie che somigliano a quelle su cui è nato il risveglio dell’Italia nel dopoguerra, dobbiamo pensare a un’ottica di medio-lungo periodo in cui lo sviluppo passi obbligatoriamente per la valorizzazione delle culture, puntando sulla capacità di guidare il cambiamento. Cultura e ricerca innescano l’innovazione, e creano occupazione, producono progresso e sviluppo.
3 Cooperazione tra i ministeri
Oggi si impone un radicale cambiamento di marcia. Porre la reale funzione di sviluppo della cultura al centro delle scelte del Governo, significa che strategia e scelte operative devono essere condivise dal ministro dei Beni Culturali con quello dello Sviluppo, del Welfare, della Istruzione e ricerca, degli Esteri e con il premier. Il ministero dei Beni Culturali e del paesaggio dovrebbe agire in coordinazione con quelli dell’Ambiente e del Turismo.
4 L’arte a scuola e la cultura scientifica
L’azione pubblica contribuisca a radicare a tutti i livelli educativi, dalle elementari all’Università, lo studio dell’arte e della storia per rendere i giovani i custodi del nostro patrimonio, e per poter fare in modo che essi ne traggano alimento per il futuro. Per studio dell’arte si intende l’acquisizione di pratiche creative e non solo lo studio della storia dell’arte. Ciò non significa rinunciare alla cultura scientifica, ma anche assecondare la creatività.
5 Pubblico-privato, sgravi ed equità fiscale
Una cultura del merito deve attraversare tutte le fasi educative, formando i cittadini all’accettazione di regole per la valutazione di ricercatori e progetti di studio. La complementarità pubblico/privato, che implica l’intervento dei privati nella gestione del patrimonio pubblico, deve divenire cultura diffusa. Provvedimenti legislativi a sostegno dei privati vanno sostenuti con sgravi fiscali: queste misure presentano anche equità fiscale.
* Il Sole 24 Ore, 25 febbraio 2012
Un dubbio manifesto: la cultura della Domenica
di Tomaso Montanari (Il Fatto Quotidiano, 09.03.2012)
Ci sarebbero molte ragioni per non prendere sul serio il manifesto «per una costituente della cultura» lanciato dal giornale di Confindustria: prima tra tutte «una determinata opacità, oscillante tra convenzionale deferenza per le competenze umanistiche e indifferenza o fatale estraneità al tema» (così, perfettamente, Michele Dantini sul “Manifesto”).
Tra gli stessi firmatari molti confessano (ovviamente in privato) di trovare il testo irrilevante («Me l’hanno chiesto, son cose che passano come acqua»), mentre altri raccontano di esser stati inclusi a loro insaputa, o addirittura dopo un diniego. Ma la solenne adesione dei ministri Passera, Profumo e Ornaghi e il successo che il “manifesto” sta riscuotendo nel paese più conformista del mondo, significano che esso ha interpretato nel modo più rassicurante un’opinione diffusa. Al famoso “la cultura non si mangia” di Giulio Tremonti, il giornale di Confindustria oppone un discorso che vuol essere «strettamente economico»: “la cultura si mangia eccome”.
Niente di nuovo: è questo il dogma fondante del trentennale pensiero unico sul patrimonio culturale, per cui «le risorse non si avranno mai semplicemente sulla base del valore etico-estetico della conservazione, [ma] solo nella misura in cui il bene culturale viene concepito come convenienza economica» (Gianni De Michelis, 1985). Su questo dogma si fonda l’industria culturale che sta trasformando il patrimonio storico e artistico della nazione italiana in una disneyland che forma non cittadini consapevoli, ma spettatori passivi e clienti fedeli.
È a questo dogma che dobbiamo la privatizzazione progressiva delle città storiche (Venezia su tutte), e un’economia dei beni culturali che si riduce al parassitario drenaggio di risorse pubbliche in tasche private, socializzando le perdite (l’usura materiale e morale dei pochi “capolavori” redditizi) e privatizzando gli utili, senza creare posti di lavoro, ma sfruttando un vasto precariato intellettuale.
È grazie a questo dogma che prosperano le strapotenti società di servizi museali, che lavorano grazie a un opaco sistema di concessioni e che stanno fagocitando antiche istituzioni culturali e cambiando in senso commerciale la stessa politica del Ministero per i Beni culturali.
È in omaggio a questo dogma che la storia dell’arte è mutata da disciplina umanistica in “scienza dei beni culturali” (e infine in una sorta di escort intellettuale), e che le terze pagine dei quotidiani si sono convertite in inserzioni a pagamento. Appare, insomma, realizzata la profezia di Bernard Berenson, che già nel 1941 intravide un mondo «retto da biologi ed economisti dai quali non verrebbe tollerata attività o vita alcuna che non collaborasse a un fine strettamente biologico ed economico». Di tutto ciò il manifesto confindustriale non si occupa, preferendo affermare genericamente che «la cultura e la ricerca innescano l’innovazione, e dunque creano occupazione, producono progresso e sviluppo».
Naturalmente questo è vero, ed è giusto dire che anche dal punto di vista strettamente economico investire in cultura “paga”. Ma il pericolo principale di questa stagione è la debolezza dello Stato e la voracità con cui i privati declinano la valorizzazione (leggi monetizzazione) del patrimonio. E che il manifesto del Sole non intenda per nulla smarcarsi da questa linea dominante, induce a crederlo il nome del primo firmatario, quell’Andrea Carandini che è un guru del rapporto pubblico-privato nei beni culturali, visto che è riuscito ad autoerogarsi fondi pubblici per restaurare il castello di famiglia chiuso al pubblico.
Né tranquillizza il fatto che il “manifesto” fosse accompagnato da un articolo di fondo del sottosegretario Roberto Cecchi, artefice del più smaccato trionfo degli interessi privati in seno al Mibac (dal caso clamoroso del finto Michelangelo alla svendita del Colosseo a Diego della Valle). Induce, infine, a più di un dubbio la sede stessa in cui il “manifesto” è comparso, quel Domenicale che da anni pratica (almeno nelle pagine di storia dell’arte) un elegante cedimento delle ragioni culturali a quelle economiche, con lo sdoganamento di “eventi” impresentabili e di “scoperte” improbabili.
Un meccanismo approdato a una filiera completa: 24 Ore Cultura produce le mostre (per esempio l’ennesima su Artemisia Gentileschi), Motta (dello stesso gruppo) ne stampa i cataloghi, il «Domenicale» le vende con una pubblicità martellante. Dopo il pirotecnico lancio iniziale, il «Domenicale» ha dedicato ad Artemisia altre quattro pagine, con foto di Piero Chiambretti che visita la mostra e con l’immancabile sfruttamento intensivo della condizione femminile di Artemisia (stupro incluso). Così, una mostra mediocre che si apre con la commercialissima trovata di un letto sfatto che si tinge del rosso della verginità violata di Artemisia si trova a essere la mostra più pompata della storia italiana recente.
È forse pensando a questo tipo di esiti che il “manifesto” consiglia l’«acquisizione di pratiche creative, e non solo lo studio della storia dell’arte»? Più che un programma per il futuro, la santificazione del presente. La risposta vera a quanti affermano che la “cultura non si mangia” è, innanzitutto, che «non di solo pane vive l’uomo»: la nostra civiltà non si è mai basata solo su un «discorso strettamente economico», e la cultura è una delle pochissime possibilità di orientare le nostre vite fuori del dominio del mercato e del denaro. Il punto non è «niente cultura, niente sviluppo», ma: lo sviluppo non ci servirà a nulla, se non rimaniamo esseri umani. Perché è a questo che serve la cultura.
Sarebbe stato assai meglio se, invece del fumoso e conformista “manifesto” confindustriale, gli intellettuali italiani avessero sottoscritto una dichiarazione antiretorica e pragmatica come quella pronunciata, qualche anno fa, da uno dei massimi storici dell’arte del Novecento, Ernst Gombrich: «Se crediamo in un’istruzione per l’umanità, allora dobbiamo rivedere le nostre priorità e occuparci di quei giovani che, oltre a giovarsene personalmente, possono far progredire le discipline umanistiche e le scienze, le quali dovranno vivere più a lungo di noi se vogliamo che la nostra civiltà si tramandi. Sarebbe pura follia dare per scontata una cosa simile. Si sa che le civiltà muoiono.
Coloro che tengono i cordoni della borsa amano ripetere che “chi paga il pifferaio sceglie la musica”. Non dimentichiamo che in una società tutta volta alla tecnica non c’è posto per i pifferai, e che quando chiederanno musica si scontreranno con un silenzio ottuso. E se i pifferai spariscono, può darsi che non li risentiremo mai».
di Paolo Conti (Corriere della Sera, 27.11.2011)
VENEZIA - «La presenza della religione nell’ambito pubblico è soprattutto necessaria per poter guardare con speranza al futuro delle democrazie e, quindi, al domani dei popoli che nelle democrazie continuano a vedere lo strumento migliore per promuovere la libertà e la creatività dell’uomo». Parole di Lorenzo Ornaghi, neoministro per i Beni culturali, alla prima uscita pubblica, e per di più su un tema così vasto e impegnativo, che richiama subito le prospettive affrontate nel recente convegno di Todi sul rinnovato impegno dei cattolici nella politica italiana. Ornaghi parla durante il «Dialogo sulla religiosità e la laicità dell’Europa» organizzato nell’ambito dei «Dialoghi tra cultura e mercato» previsti dal Salone europeo della cultura 2011. Il ministro si confronta con Julia Kristeva, nota linguista e psicoanalista, tra i non credenti invitati da Benedetto XVI ai recenti confronti di Assisi.
Dall’Ottocento in poi, per Ornaghi, il progresso e lo sviluppo economico «portavano con sé la contrazione e la perdita di valore del «sacro», sempre più sfidato (e talvolta irriso) dalla «razionalità» che guidava gli «avanzamenti». Ma ora le grandi ideologie del Novecento sono cadute e la loro fine «ripropone la questione di "come vedere" il progresso e "quale senso" riconoscere nella Storia». Il neoministro sottolinea che «sacro e senso religioso non comportano il totale "rifiuto della modernità", non sono una sorta di ritorno del "rimosso" e del "premoderno". La "Rivincita di Dio" non è la rivincita del passato. È, al contrario, la visione del futuro, a partire da una comprensione realistica del presente». Ornaghi, che cita spesso il pontefice, descrive anche la crisi attuale della democrazia contemporanea: «Vive di "ragioni" che non riesce a garantire, o che riesce a garantire con sempre maggiore difficoltà. Fondando la propria legittimazione sulla promessa di un benessere materiale, la democrazia si trova a operare su un terreno precario, sempre più instabile». C’è insomma una rinnovata «domanda del senso di convivere».
A scanso di equivoci Ornaghi spiega che «è possibile concepire la partecipazione dei credenti al dibattito pubblico e la pubblica manifestazione della loro fede come articolazioni differenti della razionalità. Come espressioni, per usare la formula di Habermas, di un disaccordo ragionevolmente prevedibile». Sia chiaro, aggiunge, che ciò non significa certo che «la religione debba puntare a indicare o a imporre a credenti o non credenti le norme morali dell’azione politica». Piuttosto la religione dovrà «aiutare la ragione nella ricerca delle soluzioni, in un continuo cammino».
Il ministro ha anche incontrato sia il sindaco Giulio Orsoni che il presidente uscente della Biennale di Venezia, Paolo Baratta. Ornaghi non ha ancora sciolto il nodo della sua riconferma, riservandosi il tempo di approfondire: «Se le decisioni vengono strattonate lasciano delle imperfezioni».
Benigni tuttodantedemocrazia
di Piergiorgio Odifreddi *
Ieri sera, al Palaolimpico di Torino, ad applaudire Benigni c’ero anch’io. Non era la prima volta che assistevo alle sue lezioni spettacolo, ma non l’avevo mai sentito commentare il sesto canto del Purgatorio: anzi, credo che fosse appunto una novità, commissionata da Zagrebelski per coniugare lo forma dello spettacolo-apertura con la sostanza della Biennale della Democrazia.
La prima parte dell’esibizione, come ormai di norma per i monologhi di Benigni, è stata un fuoco d’artificio di satira politica. Sfottendo il premier, che a Lampedusa non aveva trovato di meglio che dimostrare agli isolani la sua vicinanza comprando una villa nell’isola, Benigni ha annunciato che avrebbe comprato Palazzo Madama, e trasformato l’adiacente Palazzo Reale in un Casinò: Casinò Royale, appunto.
L’unica battuta politica che è caduta nel gelo della sala è stato il riferimento al fatto scandaloso che il Partito Democratico torinese presenterà come candidato alle prossime elezioni comunali Giusi La Ganga: uno degli ex notabili del Partito Socialista di Craxi, condannato a un anno e otto mesi per tangenti nella prima fase di Mani Pulite, e oggi ripescato sulla base della logica autolesionista del Pd.
La grande maggioranza del pubblico sugli spalti del Palaolimpico era composta di giovani, che probabilmente non avevano mai sentito parlare di La Ganga. La grande maggioranza dei notabili sotto il palco, che invece lo conoscevano benissimo, ha finto di dimenticarsene, tenendo in serbo gli applausi per le più scontate battute su Berlusconi. Se Benigni fosse stato il John Lennon del Concerto Reale del 4 novembre 1963, avrebbe causticamente incitato gli spalti ad applaudire, e la platea a far tintinnare i propri gioielli democratici.
Quanto a me, ricordo e non dimentico, e ho deciso che non voterò alle comunali: già la candidatura a sindaco di un dinosauro ex-comunista era difficile da digerire, ma la candidatura a consigliere di un ladro ex-socialista va oltre la misura. Secondo Benigni, si tratta di un tentativo di combattere Berlusconi scendendo sul suo terreno: il che fa ridere come battuta, ma fa piangere come politica. E allora, non ci resta che piangere, senza votare.
Affrontando Dante, Benigni ha poi mostrato di aver assimilato le Lezioni di letteratura di Nabokov, secondo il quale chi legge è infantile se si interessa alla storia, adolescenziale se ricerca una morale, e maturo se si preoccupa della struttura dell’opera. Agli infantili l’attore ha raccontato di Dante, Virgilio, Beatrice e Sordello. Agli adolescenziali il politico ha suggerito paragoni fra la “serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta, non donna di provincia ma bordello” di allora e di oggi. Ai maturi l’esegeta ha offerto interessanti spunti sugli accenti degli endecasillabi danteschi, che cadono quasi sempre sulla sesta sillaba, ma in momenti cruciali finiscono sulla settima o sull’ottava.
L’unico appunto che si potrebbe fare è che le due parti dello spettacolo, la satira politica e la lettura dantesca, sono state diacroniche, invece che sincroniche. Benigni ha troppo rispetto per Dante (nel senso letterale che ne ha più del dovuto) per pensare di poter leggere solo una parte di un canto. Purtroppo, l’inizio del sesto del Purgatorio è una lista di nomi che dicevano qualcosa allora, ma niente ora. Tentare di spiegare il tutto ha allungato oltre misura lo spettacolo, al limite della capacità di concentrazione e dell’interesse.
Il motto leninista “meglio meno, ma meglio” avrebbe suggerito di concentrarsi sull’invettiva politica, e di attaccarsi a quella per la satira dell’attualità, a partire dal “bordello”. Ma è sciocco voler insegnare ai gatti ad arrampicarsi: la standing ovation che l’ha salutato la fine delle due ore e mezzo dimostra che il Benigni nazionale ha fatto centro ancora una volta. Resta da vedere se, come diceva Dante nella Tredicesima Lettera, la poesia può veramente incitare all’azione. O se, usciti dal Palaolimpico, le belle parole si dimenticheranno e cederanno il posto ai brutti voti.
La sparata di Asor Rosa
"Stato d’emergenza per salvare la democrazia"
Ferrara: è golpe. La replica: bisogna reagire
È eversivo invocare l’intervento di polizia e carabinieri? Lo sarei se invocassi la rivolta
Nessuna critica a Napolitano. Dobbiamo accettare o meno la fatalità di un bis del ’22
Berlusconi manda in frantumi le regole e l’assetto democratico e repubblicano
Certo, la mia è una forzatura. Serve a farsi capire meglio e a focalizzare l’attenzione
di Goffredo De Marchis (la Repubblica, 14.04.2011)
ROMA - Per evitare che la storia si ripeta, che l’Italia torni alle condizioni del 1922 (alba del fascismo) o precipiti nella deriva della Germania del ‘33 (avvento di Hitler) Alberto Asor Rosa propone una strada: dichiarare lo stato di emergenza, congelare le Camere, chiamare al governo Carabinieri, Polizia di stato e magistratura. Il professore, ex parlamentare del Pci, descrive il suo progetto in un editoriale sul manifesto di ieri. La democrazia è già collassata, scrive Asor Rosa citando i precedenti del Novecento. Per colpa «di Berlusconi e dei suoi più accaniti seguaci».
L’articolo scatena, com’era prevedibile, Giuliano Ferrara che a Qui Radio Londra attacca a testa bassa accostando impropriamente Eugenio Scalfari e la Repubblica ad Asor Rosa e alla sua tesi: «C’è chi propone il colpo di Stato contro il governo eletto dai cittadini. Asor Rosa spiega con chiarezza un progetto politico che è di Repubblica. Del resto il professore fa parte della cricca di Scalfari». Ribatte a muso duro Asor Rosa: «C’è un’unica cricca lobbistica ed è quella notoriamente guidata dal presidente del Consiglio, ed i pericoli che ha provocato per la democrazia italiana sono pesantissimi». Asor Rosa però conferma la sua assurda exit strategy al berlusconismo. Lui stesso la definisce paradossale: «Pensavo mi chiamasse uno psichiatra, non un giornalista», dice rispondendo al telefono.
Se anche lei sa che il paradosso ha aspetti eversivi perché lo ha scritto? Propone di reagire alle regole calpestate violando tutte le regole. E gli amici del Cavaliere, come Ferrara, ci sguazzano. Bel risultato.
«Da tempo immemorabile Ferrara non rappresenta più nulla. Ma l’alternativa quale sarebbe? Tacere? Il mio ragionamento è chiaro, soprattutto nelle premesse. C’è un’obiettiva frantumazione delle regole ed è opera del capo del governo. L’atteggiamento etico politico di Berlusconi mette in discussione l’assetto democratico e repubblicano. Se tutto questo è vero, e secondo me è vero, bisogna porsi il problema di come se ne esce».
Ma lei immagina una «prova di forza» che è l’opposto della democrazia.
«La mia proposta è una forzatura e le forzature servono a farsi capire meglio. A focalizzare l’attenzione sulle premesse».
Poteva fermarsi a quelle.
«No, anche perché non credo che lo stato d’eccezione sia contro la nostra Costituzione».
Congelare le Camere, affidare i poteri alle forze dell’ordine. Dove ha letto queste cose nella Carta?
«Non sono un costituzionalista ma invito tutti a valutare bene gli articoli 87 e 88 della Costituzione. E a vedere cosa se ne ricava in un momento di rischio della democrazia. Se qualcuno mi dimostra che la democrazia in Italia non è a rischio accetto la confutazione. Altrimenti dobbiamo fare tutto il possibile per evitare il peggio».
Quegli articoli riguardano i poteri del presidente della Repubblica. Napolitano non sta già facendo moltissimo per respingere leggi inaccettabili e comportamenti fuori controllo?
«Non ho nessuna critica da muovere a Napolitano. Ma tutti abbiamo di fronte una responsabilità storica: accettare o meno la fatalità di quello che accade come avvenne nel ‘22 e nel ‘33. La prospettiva politica si è enormemente aggravata. E chiede un impegno che va oltre il semplice accettare o respingere leggi».
Lei soffia sul fuoco, non è anche questo pericolo? Per fortuna sono parole isolate.
«È eversivo, è soffiare sul fuoco invocare l’intervento di Polizia e Carabinieri? Sono organi dello Stato. Sarei eversivo se invocassi la rivolta popolare. Ma non lo faccio. Chiedo solo che la democrazia e lo Stato si autodifendano».
Un uomo con la sua storia di sinistra che invoca i generali. Non è in imbarazzo?
«L’apprezzamento per la polizia e i carabinieri fa parte della maturazione quasi secolare di cui sono portatore».
Una commedia da tre soldi
di Franco Cordero (la Repubblica, 14.04.2011)
Ha dell’allucinatorio il voto con cui la Camera berlusconiana qualifica reato ministeriale l’oggetto della causa postribolare pendente a Milano e intima al Tribunale d’astenersene: vale uno zero giuridico, perché i trecentoventi o quanti siano non hanno il potere che s’illudono d’esercitare; è come se un questore emettesse condanne penali o, arrogandosi funzioni ultraterrene, l’Olonese presidente del Consiglio distribuisse indulgenze à valoir nell’ipotetico purgatorio.
Scene d’una sgrammaticata commedia da due soldi, i cui attori improvvisano. Se la res iudicanda sia reato comune o ministeriale, lo diranno i giudici: data una condanna, l’appellante ripropone la questione; qualora soccomba anche lì, gli resta il ricorso in Cassazione. I cervelloni credono d’avere sferrato un colpo da maestri: «dichiariamo improcedibile l’accusa» (il clou esoterico sta nel predicato), «così il Tribunale, spalle al muro, deve ammettersi incompetente o sollevare un conflitto d’attribuzioni e tutto rimane sospeso». Ogni sillaba manda il suono delle monete false. Gli onorevoli straparlano, ossequenti al regime egomaniaco. Ipse dixit: è ai ferri corti col «brigatismo giudiziario», tale essendo nel suo universo deforme l’idea che la legge vincoli anche l’impunito ricchissimo; castigherà le toghe proterve, bisognose «d’una lezione»; e i famigli rabberciano norme à la carte.
La «sovranità del Parlamento» (i berluscones la vantano almeno due o tre volte pro die) è formula italiota d’una monarchia assoluta prima che s’installino gli embrioni del futuro Stato costituzionale: le attuali Camere sono cassa armonica dell’esecutivo; vi siedono persone ignote agli elettori; le nominano agenti del beneplacito sovrano.
Chiaro quale sia il modello: platee stupefatte dalla droga mediatica forniscono voti; lassù, accessibile soltanto alle baiadere, siede Dominus Berlusco, ogni mattina più ricco (quanto sia disinteressato, attento solo al bene collettivo, fuori della mischia d’affari, lo dicono sordi ringhi con cui accoglie l’estromissione dalle Generali della devota lunga mano Cesare Geronzi). Niente vieta che vecchi organi rimangano, anzi conviene tenerli in piedi, finti vivi, palcoscenico d’una troupe innocua: Sua Maestà ne prende uno o una qualunque nel mucchio e li addobba; voilà, diventano ministri o figure analoghe; gerarchie adoranti esercitano poteri subordinati in conflitto permanente; griglie selettive escludono i diversi.
Tale struttura subpolitica connota un Paese solo geograficamente europeo, dal futuro miserabile perché lo sviluppo economico richiede tensione psichica, cultura, lavoro duro, regole ferme, mentre qui regnano privilegi parassitari, variegato malaffare, gusti fraudolenti, mente corta, animule spente. Confessa una vocazione ministeriale, né punta basso aspirando alla Farnesina, la svelta figliola che, secondo l’accusa, sovrintendeva alle ospiti della reggia: nei dialoghi intercettati coltiva un argot dal percussivo registro turpiloquo; e sotto accusa d’avere gestito prostitute, conferma la candidatura.
Qui s’indigna uno che scrive in décor grammaticale, storpiando impetuosamente i concetti: non marchiamole con quel nome (nei Tre moschettieri Milady porta una P impressa a fuoco sulla spalla); sono damigelle intente allo scramble mondano; è risorsa anche il corpo. Lo stesso maestro pensatore sventola liberalismo sui generis e culto berlusconiano, classico ossimoro del genere «sole nero» o «ghiaccio bollente». Gli aneddoti dicono a che punto siamo nella corsa al Brave New World.
La malattia italiana non risponde più alla solita farmacopea. L’Unico squaglia gravi accuse in falsa ilarità turpiloqua, spaventando persino gli obbligati a ridere. Rebus sic stantibus, è imputato in quattro sedi. Da tre pendenze rognose lo liberano due leggi che le Camere votano sul tamburo, tagliando ancora la prescrizione e seppellendo d’un colpo l’intero processo, appena scadano dei termini. La terza toglie al giudice il vaglio del materiale probatorio offerto dalle parti: se la difesa indica mille testimoni, saranno escussi tutti, in mesi e anni, finché suoni la campana; l’aula chiude i battenti; non se ne parla più.
I giudizi diventano materia volatile: dibattimenti fluviali, processi brevi, larghe sacche d’oblio; fantasie carnevalesche da Nave dei matti? No, leggi italiane. L’ordinaria prassi politica risulta impotente contro l’abuso sistematico, tanto l’ha pervertita Re Lanterna. Temendo la sfiducia, compra degli oppositori (gesto automatico, gli viene naturale: cambiano uniforme, esigono i prezzi, li incassano; il transito non è finito, sappiamo dal coordinatore. La secessione nel Pdl inalberava insegne virtuose ma i bei giochi durano poco. Le anime transumano salmodiando motivi edificanti.
Di questo passo, la legislatura compie l’intero ciclo: tra due anni divus Berlusco s’insedia al Quirinale, portandovi i divertimenti che sappiamo (accadeva sotto Rodrigo Borgia, Sua Santità Alessandro VI; vedi monsignor Iohannes Burckardus, cerimoniere impeccabile e cronista meticoloso nel Liber notarum: domenica sera 31 ottobre 1501 danno spettacolo orgiastico «quinquaginta meretrices honestae»); presiede il consiglio l’attuale guardasigilli, viso spirituale; nella ratio studiorum dei licei appare una nuova materia, Arte dell’osceno. Tale essendo il presumibile futuro, è questione capitale come scongiurarlo: discutiamone perché i tempi stringono; tra poco il fuoco lambirà le polveri (scriveva Walter Benjamin, cultore d’allegorie e metafore).
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
L’anticipazione/ Un brano dell’intervento di Zagrebelsky alla Biennale Democrazia sul potere "diabolico" di alcuni segni
Un blocco di potere economico e politico senza valori caratterizza la nostra epoca
Il senso delle istituzioni è ormai diventato un ferrovecchio di cui fare a meno
I padroni dei simboli
Così parole e immagini diventano propaganda
Anticipiamo una parte dell’intervento che terrà giovedì alla Biennale Democrazia
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 12.04.2011)
Secondo una classica visione della struttura delle nostre società, esse sono costruite su tre funzioni, riguardanti rispettivamente la politica, l’economia e la simbologia. Queste funzioni conformano rispettivamente le volontà, le necessità e le mentalità. Quale di queste tre funzioni sia più importante, sarebbe difficile dire. Forse nessuna, il che è quanto dire che tutte e tre sono ugualmente necessarie.
Non abbiamo nozione di alcun gruppo di individui costituiti in società senza un potere politico, senza un’attività rivolta alla provvista dei beni materiali, senza una funzione destinata al nutrimento delle menti. Se tutte e tre le funzioni sono necessarie, quella simbolica è però l’unica che dia un senso, un significato d’insieme alle altre due, che ci dica perché stiamo e vogliamo stare insieme.
La teoria dice che nelle società bene organizzate, cioè equilibrate, le tre funzioni sono reciprocamente indipendenti; una sorta di tripartizione dei poteri sociali. La storia ci dice invece che, essendo in questione il potere, ciascuna delle tre tende a imporsi sulle altre due e ad asservirle. Si potrebbe tratteggiare la storia delle nostre società come un continuo spostamento del baricentro da uno all’altro, all’altro ancora e così distinguerle a seconda del predominio del "politico", dell’"economico" o del "simbolico". Il potere simbolico, tuttavia, di tutti è il più sottile e pervasivo, ma fra tutti il più debole. Non ha dalla sua né la forza fisica, né quella dei bisogni materiali ed è perciò sempre stato il terreno più esposto alla capitolazione. Di una relativa, anche se sempre contestata, autonomia ha goduto nel periodo medievale, quando era monopolizzato dalla Chiesa e dai suoi ministri, forti d’una certificazione divina. La Chiesa è stata effettivamente, allora, una formidabile fucina di simboli politici, avendo di fronte a sé un potere civile fragile e bisognoso di sostegno e l’economia curtense non rappresentando un centro di potere competitivo. Ma questo monopolio è venuto meno da quando la cosiddetta secolarizzazione delle società ne ha rotto la compattezza, aprendo a visioni del mondo d’altra matrice, orientate al regno di quaggiù dove vige non il dogma unico ma la pluralità delle opinioni. Nel regno di quaggiù, poi, la funzione simbolica si è trovata a fare i conti, con sproporzione di mezzi, con la politica, che dispone dello Stato e dei suoi poteri coercitivi, e con l’economia basata sulla concentrazione di capitali immensi, capaci di tutto condizionare, se non comperare.
Chi sono dunque i padroni del mondo simbolico nel quale oggi viviamo? Se ci chiediamo chi muove le parole, le immagini, le cose che esprimono simbolicamente i valori, le aspirazioni, in genere le idee che plasmano le nostre società, andremmo probabilmente a cercarli in quel blocco di potere economico e politico chiamato lobbicrazia, che caratterizza in senso ormai sempre più chiaramente nichilistico la nostra epoca. Un’epoca definita come quella del "finanzcapitalismo" e del "grande saccheggio", del valore estraibile dagli esseri umani e dagli ecosistemi. È in quella compenetrazione d’interessi che nasce la commissione di schemi di pensiero, valori e modelli di comportamento, alla quale rispondono centri di ricerca, accademie, think-tanks, "opinionisti" ai quali la visibilità e il successo sono assicurati dalla misura della loro consonanza. L’influenza sul pubblico è poi assicurata dall’accesso a strumenti di diffusione capillari e omologanti.
La funzione simbolica diventa così una funzione passiva e servente. I simboli, strumentalizzati, imbrogliano circa il loro senso. Promettono il bene di chi li consuma e invece promuovono il bene di chi li produce. Si traducono in propaganda e in pubblicità. Il loro ideale è la società come superficie tutta liscia su cui scorrere liberamente. Se increspature all’omologazione vi sono, riguardano il folklore o l’arte d’avanguardia; l’uno a benefizio dei molto semplici, l’altra a beneficio dei molto raffinati. Ma non sono loro, quelli decisivi per i padroni dei simboli: è la massa quella che conta.
Il simbolo è un terzo tra due persone; in ogni caso è un segno riconosciuto dalle parti in causa che, essendo comune, non è proprio di nessuna di essa. Ciò che è di tutti, in certo senso, non è di nessuno in particolare. Il simbolo non si appiattisce e nessuno vi si può confondere. Solo così può svolgere i suoi compiti di unificazione, diffusione di fiducia, promozione di lealtà e di sentimento d’appartenenza. Se qualcuno se ne impadronisce, governandone i contenuti, inculcandoli come propaganda o come pubblicità nella testa degli altri, facendone così strumento di governo e di dominio delle coscienze, il simbolo cambia natura. Allora, può diventare strumento di trasformazione degli uomini in masse fanatizzate, può diventare il diapason del potere totalitario.
Lo strumento del demagogo opera la più ardita delle identificazioni politiche: il popolo nel suo capo e il capo nel suo popolo. Il capo è organo del popolo e il popolo è organo del capo. Sono la stessa cosa. In questa identificazione, viene a mancare lo spazio per simboli "terzi" perché il capo stesso è il simbolo: il segno di tutti valori, le aspettative, le speranze convergenti del suo popolo.
Napoleone, Franco, Mussolini, Hitler, Stalin, Mao, Castro, i nord-coreani Kim Jong-il e Kim il-Sung e, esemplarmente, l’orwelliano Grande Fratello rappresentano le figure moderne di questo genere d’identificazione. Essi stessi, nella loro corporeità, vera o fittizia, si sono proposti immediatamente come simboli politici, cioè come fattori unificanti, e così hanno fagocitato le istituzioni e le leggi, cioè quegli strumenti della convivenza che gli uomini si sono dati, costruendole su simboli "terzi". Sono soverchiate dagli uomini del potere che esibiscono il loro volto, la loro voce, le loro fattezze, mille volte riprodotti, ritrasmessi, amplificati. Si sono cioè trasformati essi stessi, direttamente, in istituzione e legge.
Il simbolo si confonde col corpo e viceversa. Così, tutte le distinzioni che vengono da una lunga storia del diritto pubblico tra persona privata e carica pubblica svaniscono. Le regole sono "impicci", le costituzioni "gabbie", la legalità angheria Il "senso delle istituzioni", che distingue l’etica pubblica dalla morale privata, diventa un ferrovecchio su cui si può ironizzare. Le dimore personali sono equiparate ai palazzi delle istituzioni, anzi sono interscambiabili. La fortune private sono intoccabili come se fossero pubbliche e quelle pubbliche sono disponibili come se fossero private. Queste e altre confusioni si giustificano non come privilegio del capo, ma come diritto del popolo, tanto più in quanto il primo sia stato eletto dal secondo e l’elezione sia concepita come investitura salvifica. Tutto deriva infatti dall’identificazione simbolica del capo con il popolo e del popolo con il capo. L’arbitrio del capo, simbolicamente, non è più tale, ma diventa l’onnipotenza del popolo, che può esibirsi come la forma più pura di democrazia.
Questa versione del simbolo, però, è la sua estrema corruzione diabolica. Potremmo dire è il Lucifero dei diaboli. Infatti, si traduce nell’esaltazione del potere personificato, che è l’esatto contrario di ciò che ci attendiamo dai simboli politici: essere fattore d’unificazione "terzo", cioè impersonale, cioè nemico d’ogni demagogia Si traduce, infine, in un rischio mortale per la società stessa. La scomparsa della persona fisica, coincide con la fine del simbolo, cioè di ciò senza cui essa non sta insieme. La dissoluzione del corpo fisico del capo finisce così per coincidere con la dissoluzione del corpo sociale, cioè con instabilità, disordini, lotte fratricide. Ecco il prezzo che pagano i popoli quando si mettono nelle mani di qualcuno dicendogli: vai, noi ci riconosciamo in te, perché tu ti riconosci in noi.
La proposta dei vescovi sui “problemi cruciali” é il “consolidamento di una democrazia governante”, vale a dire prevalenza dei poteri sui diritti, rafforzamento dell’esecutivo, sistema elettorale maggioritario, legge che regoli la democrazia interna ai partiti: ma i padri della Costituzione l’avevano respinta, allora che neutralità é?
La Chiesa non può essere “neutra” (al fianco del potere) quando il paese precipita nella disperazione
di Raniero La Valle *
C’è un caso serio che si è aperto nella Chiesa italiana e nella stessa comunità civile. È un’agenda di “problemi cruciali” e di cose da fare (detta “un’agenda di speranza per il futuro del Paese”) che è stata presentata dai vescovi a conclusione della recente Settimana Sociale dei cattolici tenutasi a Reggio Calabria. Che qualcuno si preoccupi di quel che ci sarebbe da fare in questo povero Paese per riaprire i cuori alla speranza è certamente una cosa positiva, come è positivo dire che tra le cose più ragionevoli e giuste da fare ci sia di accogliere gli stranieri.
È motivo però di grande sconforto e allarme trovare che i “primi temi” indicati siano quelli attinenti al “consolidamento di una democrazia governante” (espressione che nell’attuale gergo politico indica la prevalenza dei poteri sui diritti) e che questi temi vengano identificati così: a) rafforzamento dell’esecutivo; b) sviluppo del federalismo; c) sistema elettorale maggioritario; d) bipolarismo; e) legge che disciplini la vita dei partiti e ne regoli la democrazia interna (ipotesi discussa, ma respinta, alla Costituente); e tutto ciò in una “forma di governance” che si preferisce definire “poliarchica” invece che democratica, con un richiamo non pertinente a Benedetto XVI che nell’enciclica “Caritas in veritate” usava sì il termine “poliarchico”, ma non per incoraggiare una frammentazione feudale dei poteri negli ordinamenti interni, bensì per sostenere una pluralità dei poteri sul piano internazionale, contro il mito di un unico governo mondiale e di un unico Impero.
In questo complesso di tesi e di programmi politici proposto ora dai vescovi è riconoscibile l’ideologia propria di un gruppo minore del Partito democratico vicino a Veltroni; ma la Chiesa che c’entra? L’opzione che essa in tal modo propone all’Italia si presta in effetti a due gravi critiche, una nel merito, l’altra nel metodo. Sul piano del merito la piattaforma politica avanzata dalla Conferenza episcopale sembra non tenere conto della drammaticità della situazione italiana, oggi dominata da un potere oltracotante e corruttore, che non viene mai nominato, grazie alla scelta indicata dal Rettore della Cattolica, Ornaghi, di fare un’analisi intenzionata a “restare neutra rispetto agli schieramenti politici”.
Ora, nell’astrazione di un Paese assunto senza schieramenti politici, senza partiti, senza alcun giudizio sulle pratiche del governo in atto, sulle sue politiche e le sue leggi, l’idea della CEI è che sia “indilazionabile il completamento della transizione istituzionale”, nel senso indicato di una prevalenza dell’esecutivo, del maggioritario, del bipolarismo, del federalismo. Invece, sulla base dell’esperienza disastrosa dell’ultimo ventennio molti italiani pensano a un ripristino della rappresentanza, a una riabilitazione del Parlamento, a uno sviluppo del pluralismo delle culture politiche e dei partiti, e ad elezioni veritiere basate su un voto libero ed eguale.
Siamo, certo, nell’opinabile. Ma rispetto ai fini specifici della Chiesa ragioni non troppo opinabili dovrebbero spingerla a opzioni opposte a quelle adottate: il bipolarismo, nella settaria versione italiana, ha rotto infatti l’unità spirituale del Paese, ha spronato a una legislazione e a provvedimenti amministrativi spietati contro la vita degli stranieri (anche quella nascente), ha seminato rancore ed odio, e lascia per cinque anni incontrollato il governo anche se decide guerra, politiche di impoverimento e nucleare. Inoltre, con la complicità del maggioritario, ha separato dalla politica il movimento cattolico ed esclude ogni forma di partecipazione autonoma dei cattolici alla competizione tra i partiti.
Sul piano del metodo la pronunzia ecclesiastica si presenta come fatta in nome di “noi tutti come Chiesa e come credenti, chiamati al grande compito di servire il bene comune della civitas italiana”; e benché formalmente il documento sia riconducibile al Comitato organizzatore della Settimana, esso è stato approvato dal Consiglio permanente della CEI, mentre lo stesso Comitato è un’articolazione permanente della Conferenza episcopale, presieduto com’è da un vescovo nominato da lei e incaricato com’è di monitorare il seguito da dare alla Settimana mettendosi in relazione, quasi come alto Direttorio, con “le diverse forme di presenza capillare dei cattolici nella società italiana”.
Il documento, come è proprio dei migliori documenti ecclesiastici, chiama a testimoni apostoli, evangelisti e profeti, fa appello al tesoro dell’attuale magistero pontificio ed episcopale, chiede conferma al Concilio, unisce cielo e terra, eucaristia e politica, si rivolge non a una parte, ma a tutti i cattolici e a tutti gli italiani, e parla in nome della fede. Ma in base a quale carisma sceglie tra l’una o l’altra legge elettorale e forma di governo, e in base a quale sussidiarietà si sostituisce, nel dettare l’agenda politica, alla responsabilità dei cattolici come cittadini, così come dei cittadini non cattolici?
INTERNET E DEMOCRAZIA
Biennale 2011, realizzare la democrazia nell’età della Rete
a cura di Giuseppe Futia *
Nel discutere di democrazia e Internet le idee più suggestive sono legate all’adozione di strutture politiche e di comportamenti che nascono ed evolvono in un sistema decentralizzato. Una democrazia emergente che lo scrittore Clay Shirky ha ricondotto all’espressione “il potere di organizzare senza organizzazione”. Una democrazia che ricomincia dal basso e che secondo Joi Ito, già presidente di Creative Commons, consentirà di ottenere risposte innovative da parte dei cittadini alla risoluzione di problemi complessi che riguardano la comunità.
Si tratta di scenari realizzabili soltanto attraverso una trasformazione profonda delle nostre società. E tuttavia, Internet dischiude nuovi orizzonti nella definizione del concetto di potere da un punto di vista ideologico e culturale. A tal proposito, l’edizione 2011 di Biennale Democrazia, che si svolgerà a Torino dal 13 al 17 aprile, dedica ampio spazio al tema "Internet e Democrazia".
Si comincia venerdì 15 aprile alle ore 18 presso il Teatro Gobetti con l’incontro dal titolo “Potere del Web, potere nel Web”, al quale parteciperanno Juan Carlos De Martin, co-direttore del Centro NEXA, Maurizio Ferraris, docente di Filosofia teorica presso l’Università di Torino e Carlo Infante, presidente e managing director di Urban Experience. A partire dai rivolgimenti che si sono scatenati in diversi Paesi del Nord Africa, i relatori discuteranno dell’immenso potere della Rete nel sostenere i movimenti di natura democratica.
Sabato 16 aprile alle ore 16.30 presso il Teatro Carignano si svolgerà il keynote del Prof. Lawrence Lessig, docente presso la Harvard Law School, intitolato “Alla luce del Sole. La natura della corruzione del congresso USA”. A seguire, una discussione che coinvolgerà lo stesso Lessig, Amelia Andersdotter, la più giovane europarlamentare eletta nelle liste del Piratpartiet (Partito Pirata) svedese, Andrea Rossetti, docente di Filosofia del diritto e Informatica giuridica all’Università Milano-Bicocca, coordinati da Juan Carlos De Martin.
“Open Data / Open Democracy. Idee e tecnologie per la democrazia” è il titolo dell’appuntamento di domenica 17 aprile ore 11, presso la Cavallerizza Reale. Durante l’incontro verranno presentati i progetti finalisti del Torino Open Data Contest, iniziativa della Città di Torino, del Centro NEXA e del CSI Piemonte, resa possibile dall’Incubatore di Imprese Innovative del Politecnico di Torino e dal consorzio TOP-IX. A tal proposito, verrà discussa l’inedita alleanza tra pubbliche amministrazioni, creativi e informatici per sviluppare applicazioni e servizi per il cittadino a partire dalla miniera d’oro informativa che sono i dati pubblici.
Domenica 17 aprile alle ore 16.30 Anna Masera, giornalista de La Stampa e blogger del Guardian, incontra Amelia Andersdotter nell’appuntamento dal titolo “PiratPartiet. I partiti politici e il Web”: attraverso le parole della più giovane deputata del Parlamento europeo, il racconto di come un movimento che nasce e viaggia sulla Rete può influenzare le democrazie moderne.
Per ulteriori informazioni, visita il sito di Biennale Democrazia 2011 (http://biennaledemocrazia.it).
* La Stampa, 8/4/2011
Il potere sottosopra
Nei 150 anni dell’unità d’Italia, Torino si conferma centro del pensiero politico: dal 13 al 17 aprile, affronterà con "Tutti. Molti. Pochi", il problema delle oligarchie. Ovvero, quando il normale sistema democratico si capovolge a favore di un’élite
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 05.04.2011)
Biennale Democrazia è un luogo di discussione civile per la formazione di un’opinione pubblica consapevole. È un laboratorio pubblico permanente, articolato in una serie di momenti preparatori e di tappe intermedie (laboratori per le scuole, iniziative destinate ai giovani, seminari di discussione) che culminano, ogni due anni, in cinque giorni di appuntamenti pubblici: lezioni, dibattiti, letture, forum internazionali e momenti diversi di coinvolgimento attivo della cittadinanza.
In questa seconda edizione di Biennale Democrazia, intitolata Tutti. Molti. Pochi, l’attenzione si ferma in modo particolare sulle derive oligarchiche che minacciano le democrazie contemporanee, nella sfera economica, in quella culturale e in quella politica. La presenza di élite o classi dirigenti capaci di assumere su di sé responsabilità pubbliche e onori corrispondenti è, entro certi limiti, un fenomeno fisiologico delle democrazie. Patologica è invece la concentrazione oligarchica del potere in circoli sempre più ristretti, sempre più potenti, sempre più impermeabili alle domande e al controllo dei cittadini.
Una discussione pubblica su questi temi ha un significato particolare in una fase storica nella quale l’interruzione dei canali di dialogo tra i cittadini e i decisori pubblici determina nel nord Africa la reazione delle popolazioni e si accompagna, anche nel ricco Occidente, a povertà e diseguaglianze crescenti, a insicurezza sociale, a una generalizzata incapacità di dare forma al futuro.
In cinque giorni di lezioni e dibattiti con la partecipazione attiva dei cittadini, Biennale Democrazia sottopone ad analisi i grandi fenomeni contemporanei che danno corpo al "potere dei pochi" a danno dei molti: l’economia finanziarizzata, che sembra aver scaricato sulla società il peso della propria incapacità di regolarsi autonomamente, la contrazione delle garanzie nel mondo del lavoro, il rapporto strumentale dell’uomo con l’ambiente, l’autoreferenzialità crescente nel ceto politico.
Nelle lezioni e nei numerosi momenti di discussione con i cittadini non si guarda però a questi fenomeni come a problemi insolubili, ma come a sfide aperte per le democrazie contemporanee che, qui e ora, chiedono nuove risposte, e a volte le trovano. Nell’impegno sociale per uno sviluppo sostenibile, per un diverso rapporto tra i sessi e tra le generazioni o, ancora, nei movimenti di reazione all’ingiustizia sociale diffusi sulla Rete e, più in generale, in quell’assunzione di responsabilità da parte dei giovani e dei cittadini che Biennale Democrazia si è data il compito di promuovere.
La rivoluzione promessa? Possiamo ancora farla. Tutti noi
Quella che segue è una parte dell’introduzione di Gianfranco Pasquino al libro «La rivoluzione promessa. Lettura della Costituzione italiana» (Bruno Mondadori) , da giovedì in libreria
di Gianfranco Pasquino (l’Unità, 15.03.2011)
Le Costituzioni moderne sono soprattutto carte che codificano le libertà; sanciscono diritti e doveri dei cittadini; delineano i rapporti fra cittadini e le istituzioni; specificano la divisione dei poteri e i limiti del loro esercizio a opera di ciascuna istituzione e di coloro che vi sono preposti. Oggi, possiamo affermare con sicurezza che le Costituzioni danno forma a un sistema politico, e potremmo aggiungere che dove non c’è una Costituzione non esiste, pur con la luminosa eccezione della Gran Bretagna, democrazia. Tutti i sistemi politici che si sono affacciati alla democrazia, negli ultimi trent’anni alcune decine, si sono dati Costituzioni il cui elemento centrale è rappresentato dal riconoscimento e dalla garanzia dei diritti dei cittadini. Molto spesso i rispettivi costituenti hanno approfittato della possibilità, qualche volta una vera e propria necessità, di scrivere la Carta costituzionale per delineare anche il tipo di sistema politico, sociale ed economico da loro preferito. Nessuna Costituzione contemporanea potrebbe oggi fare a meno di offrire spazio al mercato e alla concorrenza economica. Né potrebbe tralasciare di regolamentare tutto quello che attiene all’istruzione, al lavoro, alla salute dei suoi cittadini.
Tra il 1946 e il 1948 i costituenti italiani ebbero la grande opportunità di collaborare alla stesura della prima vera e propria Carta costituzionale della Repubblica democratica italiana. Da uno dei più autorevoli di loro, per statura intellettuale e conoscenza del diritto, Piero Calamandrei, vennero contributi significativi, ma anche forti critiche al testo approvato. In particolare, Calamandrei, giurista positivista, manifestò forte contrarietà alle norme programmatiche, quelle che indicano quanto deve essere fatto, che, per l’appunto, delineano un programma. Quando, pochi anni dopo la promulgazione, Calamandrei si trovò a fare un bilancio, ancorché preliminare, della Costituzione italiana, affermò con una frase memorabile che era una«rivoluzione promessa in cambio di una rivoluzione mancata».
Negli articoli della Costituzione, addirittura nel suo impianto complessivo, stava un disegno di trasformazione dei rapporti politici, sociali ed economici che, almeno in parte, rifletteva le grandi e nobili aspirazioni della Resistenza, ovvero la «rivoluzione mancata».
Quella di Calamandrei non era soltanto una frase a effetto. Purtroppo la fase di applicazione della Costituzione non si è mantenuta fedele alle sue promesse e alle norme programmatiche. La storia della Repubblica italiana spiega il perché delle inadempienze, ma non può giustificarle, anche se la guerra fredda (1946-1989) sicuramente non facilitò scelte che la Costituzione suggeriva e incoraggiava. In seguito, lo strapotere dei partiti, ovvero la partitocrazia, tutt’altro che un fenomeno inevitabile e meno che mai insito nella Costituzione italiana, provocò non poche inadempienze e distorsioni costituzionali.
Da più di tre decenni, ormai, l’attenzione si è spostata e si è concentrata sulle istituzioni e sulla loro riforma, spesso addirittura esclusivamente sul sistema elettorale, nella ricerca spasmodica della formula che convenga maggiormente a partiti che si sono alquanto indeboliti, ma che rimangono gli attori politici dominanti. È probabile che i costituenti, non soltanto Calamandrei, guarderebbero preoccupati, se non addirittura inorriditi, alle proposte particolaristiche di cambiamento delle regole e delle istituzioni. Preoccupazione e orrore non deriverebbero affatto da una loro difesa a oltranza, come fanno alcuni politici, giuristi e intellettuali italiani, di tutto il testo costituzionale quasi fosse un oggetto sacro. Al contrario, pochi di loro riterrebbero la Costituzione immodificabile poiché le modalità delle eventuali modifiche sono chiaramente indicate e regolate. I costituenti non meritano l’appellativo di «conservatori istituzionali». Si chiederebbero, però, se la classe politica italiana ha davvero operato per tradurre la rivoluzione promessa in quelle riforme politiche, sociali ed economiche che renderebbero migliore l’Italia.
La lettura del testo costituzionale, effettuata senza interferenze politicizzate e senza paraocchi ideologici, consente di cogliere in molti articoli le potenzialità tuttora vive di una trasformazione profonda dell’Italia, anche grazie al suo inserimento, previsto in maniera lungimirante, negli organismi europei e nelle istituzioni internazionali.
Credo che sia doveroso sottolineare che i problemi politici, sociali, economici e istituzionali italiani non hanno nessuna radice negli articoli della Costituzione, anche se alcuni articoli sono, senza dubbio, da rinfrescare e da ritoccare, talvolta anche da riscrivere. Ma la rivoluzione promessa è ancora tutta davanti a noi, perseguibile e conseguibile. La Repubblica alla quale i costituenti hanno affidato il compito ambiziosissimo ed esigentissimo di rimuovere gli ostacoli che «impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale» siamo noi, cittadini e detentori di cariche politiche a tutti i livelli. La responsabilità maggiore è sempre quella di chi ha più potere politico, ma qualsiasi rivoluzione, anche pacifica, da effettuarsi attuando le norme programmatiche, ha bisogno diunampio sostegno popolare e di una convinta partecipazione di cittadini informati. Sono entrambi elementi che una buona conoscenza della Costituzione è in grado di costruire e potenziare. Era la speranza dei costituenti italiani. È rimasta tale.
Tutti i diritti riservati © 2011, Pearson Italia, Milano - Torino. Prima edizione: marzo 2011
Riformano i magistrati, non la giustizia
di Gian Carlo Caselli (il Fatto, 16.03.2011)
La sedicente riforma della Giustizia ideata dal governo, non è un’operazione indolore per la sicurezza dei cittadini. Le ripercussioni negative sul versante delle indagini saranno tante. Anche per le inchieste di mafia. Chi studia l’evoluzione delle mafie constata che per realizzare i loro affari esse hanno bisogno di commercialisti, immobiliaristi, operatori bancari, amministratori e uomini delle istituzioni (la cosiddetta “borghesia mafiosa”). Sempre più si infittiscono gli intrecci con pezzi del mondo politico e dei colletti bianchi. I transiti di denaro sporco nell’economia illegale si intensificano. Spesso le istituzioni criminali e quelle legali si contrastano, ma senza volontà di annientarsi, nel senso che sono piuttosto alla ricerca di equilibri.
Diventa sempre più difficile - allora - stabilire la linea di confine fra lecito e illecito all’interno delle attività economiche, finanziarie e produttive. Per impedire che risuonino ancora oggi le parole di Giovanni Falcone circa il timore che “non si voglia far luce sui troppi, inquietanti misteri di matrice politico-mafiosa per evitare di rimanervi coinvolti”, è necessario allora che le indagini di mafia siano condotte da una magistratura assolutamente autonoma e indipendente, nonché dotata di strumenti capaci di esplorare in profondità anche il lato oscuro e segreto delle mafie. Proprio il contrario di quel che risulta obiettivamente ricollegabile alla pseudo-riforma della Giustizia voluta dal governo. Una riforma che quand’anche abbia - come scopo di partenza - “solo” quello di vendicarsi dei magistrati, alla fine potrebbe causare risultati obiettivamente devastanti. Quanto meno finché la politica italiana continuerà a discostarsi massiccia-mente dagli standard europei con conseguenze da trarre - doverosamente - in caso di accertato coinvolgimento in comportamenti illeciti.
Una “spia” dei veri obiettivi della riforma si può trovare nel fatto che le novità si collocano tutte all’interno del titolo 4° della parte seconda della Costituzione. Questo titolo, che oggi è denominato “La magistratura”, nella riforma diventa “La giustizia”. Come volevasi dimostrare: si tratta di riformare i magistrati, non la giustizia. E non basta cambiare l’etichetta della bottiglia perché uno sciroppo diventi barolo. Ma torniamo agli effetti oggettivi della riforma. Possiamo prendere singolarmente - una per una - le modifiche in programma, oppure l’intiero pacchetto.
Le indagini in mano alla politica
SEMPRE avremo lo stesso identico risultato: il trasferimento del “rubinetto” delle indagini (cioè dei controlli di legalità) dalle mani della magistratura a quelle del potere politico, governo e/o Parlamento. Con conseguente riduzione degli spazi d’intervento autonomo della magistratura e quindi dei controlli indipendenti sulle violazioni di legge commesse dai potenti. Con il rischio anzi che tali controlli causino al magistrato coraggioso guai non di poco conto, dalle ispezioni ministeriali (addirittura elevate al rango costituzionale), alle bufere scatenate da quanti vorranno strumentalmente approfittare delle nuove norme sulla responsabilità dei magistrati.
L’analisi di alcuni punti della sedicente riforma offre decisive conferme, anche per le inchieste di mafia.
Il Csm riformato - la riforma prevede lo sdoppiamento del Csm, la riduzione del numero dei membri “togati”, la loro nomina col fantozziano sistema dell’estrazione a sorte (una grottesca lotteria che rappresenta anche una discriminazione mortificante, posto che i membri “laici” continueranno a essere eletti dal Parlamento in seduta comune), il divieto di adottare atti di indirizzo politico (cioè pratiche a tutela dei magistrati vilipesi perché scomodi). Viene di fatto azzerata la stessa ragion d’essere del Csm: governo autonomo della magistratura e tutela della sua indipendenza. Il magistrato che debba scegliere tra diverse opzioni, egualmente possibili nel perimetro dell’interpretazione della legge, non sentendosi più tutelato da un Csm ridotto ad organo di semplice amministrazione, ci penserà ben bene prima di esporsi alle rappresaglie impunite del potente di turno. Figuriamoci quale impulso potrà derivare alle indagini su quella vischiosa zona grigia che consente agli affaridi mafia di prosperare!
1) AZIONE PENALE E POLIZIA GIUDIZIARIA NELLE MANI DELLA POLITICA L’azione penale a parole resta obbligatoria, ma dovrà essere esercitata “secondo i criteri stabiliti dalla legge” , vale a dire che sarà la politica a stabilire chi indagare e chi no: ed è improbabile che essa mostrerà particolare zelo per gli intrecci tra pezzi del suo mondo e la mafia . Quali che siano tali criteri, poi, resta il fatto che non sarà più direttamente la magistratura a disporre della polizia giudiziaria, che pertanto prenderà ordini dal governo (ministero degli interni per la polizia di stato; difesa per i carabinieri; economiaperlaGdF).Lapolitica,in sostanza, avrà in mano il rubinetto delle indagini e potrà regolarlo col contagocce tutte le volte che ci sia il rischio di scoprire qualcosa di troppo degli “inquietanti misteri” di cui parlava Falcone.
2) ASSOLTI PER SEMPRE Con clamorosa violazione della “parità delle armi” tra accusa e difesa, mentre l’imputato condannato potrà sempre ricorrere in appello, il pm non lo potrà fare in caso di assoluzione dell’imputato, salvo che “nei casi previsti dalla legge”. Ora, sarà impossibile (per non perdere la faccia) che tra questi casi non rientrino i delitti di mafia, ma che ne sarà del cosiddetto “concorso esterno”? Senza questa figura è impensabile che si possano colpire anche le collusioni con la mafia, ma poiché il delitto non esiste (lo sostiene il presidente Berlusconi!), si può scommettere che sarà fortemente a rischio la possibilità per il pm di appellare le assoluzioni per “concorso esterno”: la linea di demarcazione fra lecito e illecito tenderà sempre più allo sfumato evanescente e per la cosiddetta “borghesia mafiosa” ci sarà da brindare.
3) L’INDIPENDENZA DEL PM “ABROGATA” PER LEGGE A spazzare definitivamente ogni possibile dubbio circa le effettive conseguenze della riforma provvede infine il nuovo - se approvato - art. 104 della Costituzione (quello che non a caso introdurrebbe la separazione delle carriere...), laddove stabilisce “che l’ufficio del pubblico ministero è organizzato secondo le norme dell’ordinamento giudiziario che ne assicurano l’autonomia e l’indipendenza”. In sostanza, autonomia e indipendenza del pm non sono più valori di rango costituzionale tutelati dalla Carta fondamentale, ma optional rimessi alla legge ordinaria, che pertanto la politica potrà cambiare a suo piacimento senza neanche il fastidio delle procedure e delle maggioranze qualificate previste per le norme costituzionali. Vale a dire che la politica non avrà in mano soltanto il “rubinetto” delle indagini, ma avrà in sua balia direttamente il pm. Per cui è difficile pensare che vorrà orientarlo verso inchieste che potrebbero scoprire segreti inquietanti di colletti bianchi e/o politici per favori scambiati con la mafia o affari fatti insieme. Ed è persino superfluo notare che tutto ciò che colpisce in prima battuta il pm avrà inevitabilmente un effetto domino sui giudici: perché se al pm non è consentito indagare su certe materie, esse non arriveranno mai sul tavolo del magistrato giudicante. Un pericolo che non si può correre
COME si vede, gli scenari futuri sono cupi e se si vuole che la lotta alle mafie non rischi di diventare un esercizio di facciata, ma sia un’azione incisiva, la riforma costituzionale in cantiere dovrebbe essere riconsiderata: perché le conseguenze negative che ne potrebbero obiettivamente derivare (obiettivamente: anche a prescindere dall’orientamento di questa o quella maggioranza politica contingente) costituiscono un pericolo da non correre.
A Potenza, nella XVI Giornata antimafia della memoria e dell’impegno, organizzata da Libera per il 19 marzo, si discuterà anche di questo.
Giustizia, ma quale dialogo: dieci ragioni per dire no
di Furio Colombo (il Fatto, 13.03.2011)
“Gentile Furio Colombo,
sono una casalinga demoralizzata e incazzata, ma purtroppo del tutto impotente. Mi permetto un piccolo sfogo sulla sua pagina perché mi fa sentire un po’ meno sola di fronte all’attuale, allucinante situazione italiana. Ma come è possibile, mi chiedo, che a un presidente del Consiglio imputato in quattro processi sia offerta collaborazione per riformare ‘insieme’ la giustizia?
Curatola Gabriella”.
L’osservazione è semplice e netta e difficile da eliminare. Penso che rappresenti lo stato d’animo di tanti cittadini, che forse voteranno a sinistra e forse no e stanno col fiato sospeso per vedere se il brusio di favore alla grande riforma di Berlusconi, che comincia a sentirsi tra le file dell’opposizione e nelle dichiarazioni di alcuni con nome e ruolo di prima fila nel Pd, diventerà davvero un modo di partecipare alla grande riforma costituzionale della Giustizia italiana. Ovviamente, in tempo di elezioni, la grande riforma apparirà in testa alla lista dei successi del gruppo Berlusconi (inteso sia come partito sia come azienda) e tra le colpe non perdonabili dell’opposizione in generale e del Pd in particolare.
Bisogna ammettere che l’infiltrazione nelle file e nelle teste dei parlamentari e degli opinionisti di area Pd dell’idea, dopotutto, sulla giustizia si può collaborare, è avvenuta con cautela e bravura , cominciando dalle colonne del Riformista, dai suoi opinionisti di prima fila e dai suoi ex, molto stimati e molto invitati nella vetrine Tv come “rappresentanti della sinistra”. La trovata è stata di iniziare subito il dialogo, (ma anche la zuffa va bene, l’importante è partecipare al gioco) sulle singole parti, innovazioni, trovate e articoli del progetto di legge Berlusconi-Ghedini-Alfano. Qui l’importante è di impedire che si manchi di rispetto al grandioso evento che cambierà la vita italiana, e che tutti, anche gli avversari, prendano sul serio la prova di forza (e di vittoria) che sta per attraversare come una valanga non resistibile il Parlamento mercenario che oggi decide a nome della Repubblica italiana.
MERITA UNA riflessione la possibilità che i Radicali eletti nel Pd, alla Camera e al Senato, accettino di lavorare alla riforma della Giustizia secondo Berlusconi. Penso che sia un errore, che però è coerente con tutte le cose dette e fatte dal partito di Pannella e Bonino (condivise o no dai compagni di strada dei Radicali in tutti questi anni). Infatti i Radicali, che si battono da decenni per una loro riforma della Giustizia (molto prima del 1994, anno che l’uomo di Arcore indica come data di nascita del suo progetto) vedono Berlusconi accostarsi al loro percorso e non viceversa.
Io non accetterei monete da un falsario, persino se sembrano identiche a quelle vere, e credo che a un certo punto scatterà la ben nota intransigenza di quel gruppo politico, e ci sarà una netta rottura, come è accaduto in passato. O almeno lo spero.
Meno facile è mobilitare contro Berlusconi le piazze, le donne, la raccolta di firme, una platea vasta e diversa, come sono gli elettori e I cittadini vicini al Pd, per poi chiedergli all’improvviso di rassegnarsi a discutere di giustizia “insieme”, mentre cominciano, a uno a uno, i processi a carico del grande timoniere della giustizia italiana. E infine, eventualmente, tornare in piazza e poi mobilitarsi per votare contro.
Propongo dunque le dieci ragioni da offrire al Pd per non partecipare in alcun modo alla riforma della Giustizia Berlusconi-Ghedini-Alfano.
1) La riforma nasce come “punizione” e come “vendetta”, e come tale viene annunciata. Anzi è stata rilanciata di colpo dopo l’incriminazione del premier per l’affare Ruby (concussione e prostituzione minorile);
2) Le imputazioni contestate al capo del governo italiano sono troppo gravi, anche come simbolo e immagine del Paese nel mondo, per poter intrattenere una discussione “insieme” sui problemi della giustizia e dei giudici;
3) Berlusconi ha invocato come ragione fondante della sua riforma la vicenda di “Mani Pulite”, il maggior evento di lotta contro la corruzione in Italia. Con la sua nuova legge - promette - la lotta giudiziaria alla corruzione non potrà mai più verificarsi in Italia;
4) Berlusconi è stato coinvolto, in accertate vicende giudiziarie (alcune ancora in corso) nel reato di corruzione di giudici. In altre parole, ha pagato e comprato giudici. Il suo partito-azienda, i suoi avvocati-deputati e lui stesso non possono accostarsi all’argomento “giustizia” e “riforma della Giustizia”, senza suscitare, sospetto e discredito;
5) La maggioranza di cui Berlusconi dispone è una maggioranza in parte comprata. La mancanza di “vincolo di mandato”, indicato dalla Costituzione, non sana questo grave aspetto o sospetto di corruzione. Meno che mai in una legge che riforma vita e attività dei giudici;
6) Berlusconi, personal-mente e attraverso il suo Giornale, ha definito i giudici “un cancro”, “un gruppo eversivo”, una “associazione a delinquere”, una aggregazione di poveri matti. Ci si può associare?;
7) Nell’annunciare che la legge costituzionale di riforma della Giustizia era sul punto di essere presentata in Parlamento, Berlusconi ha detto, riferendosi alla sua “persecuzione: “Così questa storia indegna finirà per sempre”. In tal modo e intenzionalmente, ha voluto rendere chiara per tutti la natura della nuova legge costituzionale: non renderà mai più possibile l’incriminazione dei potenti;
8) È evidente, ripetuta e vistosa la intenzione del premier e dei suoi avvocati di sterilizzare uno dei tre poteri su cui si fonda lo Stato democratico, il potere giudiziario, dopo avere ottenuto il controllo del Parlamento attraverso una poderosa e sfacciata campagna acquisti, e avere stabilito un record di ore di presenza su tutte le reti televisive, di Stato e private, e mentre sono in corso attività finanziarie per alterare gli equilibri di potere in uno dei due maggiori quotidiani italiani ancora indipendenti;
9) Berlusconi ha bisogno di complici. L’Italia è oggetto di scrutinio attento da parte delle democrazie e dell’opinione pubblica democratica del mondo. Una legge che riformi drasticamente il sistema giudiziario italiano, sotto bandiera Berlusconi, sarebbe guardata, fuori dall’Italia, con il sospetto che merita. È indispensabile per lui e i suoi avvocati, avere ben più che i “responsabili” a tariffa che hanno abbandonato altri partiti per offrirgli reputazione, lealtà e voto. Ora occorrono complici che siano la prova della buona fede di questa avventura;
10) La legge di riforma costituzionale della Giustizia non può arrivare sul tavolo del capo dello Stato senza i nomi e le firme di almeno una parte della opposizione e, soprattutto, di una parte del Pd in funzione di garanzia notarile.
Ecco dove il Pd si presenta al Paese come una opposizione invalicabile oppure come il complice necessario di Berlusconi. La campagna elettorale che ci sarà subito dopo si decide qui.
La corona littoria
di Nicola Tranfaglia (il Fatto, 12.03.2011)
Gli italiani, tra i popoli europei, appaiono quelli che mostrano maggiore difficoltà a trovare i fili della propria storia e lo si avverte in queste settimane nelle quali sono incominciate le celebrazioni, avversate dalla maggioranza e dalla Lega in particolare, per i centocinquant’anni della nostra unità.
Ma, come era prevedibile, il problema maggiore si tocca quando si parla della dittatura fascista. Il tentativo, durato più di vent’anni di parlarne come di un incidente, o addirittura una parentesi senza conseguenze, ha avuto illustri sostenitori (a cominciare da Benedetto Croce) ma poi ha dovuto cedere il passo all’identificazione di una dittatura nuova e con tratti moderni che non è arrivata per caso, ma sulla base di antichi difetti della nostra unificazione e soprattutto dei governi liberali. Questa dittatura, se è caduta, è stato soprattutto per le vicende militari e l’azione di gruppi minoritari anche se estesi in tutto il paese che hanno lottato eroicamente contro i nazisti e i fascisti insieme con le truppe angloamericane sbarcate sulla Penisola.
SE LA GUERRA non avesse costretto le istituzioni fondamentali della società italiana, il Vaticano e la monarchia sabauda a dissociarsi dal dittatore, questi sarebbe durato altri trent’anni come avvenne puntualmente a Francisco Franco in Spagna e a Salazar in Portogallo. Del resto la Repubblica sociale italiana di Mussolini tra il 1943 e il 1945 era vissuta soltanto come stato satellite e subalterno della Germania di Hitler essendone complice nella deportazione degli ebrei e degli oppositori politici come nella crudele politica razziale. Questa considerazione pone agli storici che continuano a ragionare fuori degli stereotipi problemi di interpretazione e analisi sia del sistema di potere del regime sia del comportamento politico e culturale delle istituzioni che hanno sostenuto e condiviso il potere con il dittatore romagnolo.
Le polemiche sull’atteggiamento dei pontefici e di Pio XII in particolare sono state assai forti e nuovi documenti americani, inglesi e italiani che pubblicherò nel prossimo autunno accresceranno ancora lo sconcerto nel mondo cattolico più vicino a quel papato.
Ma c’è un’altra istituzione politica che ha avuto un ruolo decisivo nell’instaurazione e nella sopravvivenza della dittatura e ha fatto bene Paolo Colombo a dedicare un saggio analitico e puntuale a La monarchia fascista 1922-1940 (Il Mulino editore, pagine 264, 25 euro) che ricostruisce con precisione il processo attraverso il quale venne instaurata la diarchia di fatto tra il dittatore romagnolo e Vittorio Emanuele III, il funzionamento che si stabilì successivamente con le leggi fascistissime e la progressiva cancellazione di norme fondamentali dello Statuto Albertino, il contrasto sempre maggiore tra il cerimoniale monarchico e la liturgia di regime fino allo scontro aperto e al crollo della dittatura nel periodo culminante della Seconda guerra mondiale.
L’autore si ferma al 1940 quando l’Italia entra in guerra al fianco di Hitler e dimostra con pagine di grande chiarezza come Vittorio Emanuele III avesse abbracciato armi e bagagli la veste della monarchia fascista di cui restano testimonianze dirette e incontestabili come quella del fascista Giuseppe Bottai che nel 1938 scrive una considerazione difficilmente contestabile chiusa da un interrogativo in parte retorico: “Il problema dei rapporti tra il Re e il Duce sembra risolto da una cordiale intesa tra i due uomini, nonostante la difficoltà di far convivere nel rapporto le funzioni di Re e di Duce. La duttilità giuridica degli italiani può andare oltre la normalizzazione empirica del binomio, traendone nuovi valori e significati? “
LO STORICO delle istituzioni sottolinea “la natura profonda di un dilemma che pare difficile sciogliere in maniera definitiva: vediamo il fascismo cercare di impadronirsi dell’impianto di feste e celebrazioni costruito nel tempo dal sistema liberale con infissa bene nel centro la dinastia del padre della patria e il suo apparato simbolico: ma vediamo il re prestarsi in innumerevoli occasioni al gioco propagandistico del regime. È il fascismo che sta fagocitando la monarchia o è quest’ultima che si rivela capace di garantirsi una visibilità pubblica e l’indispensabile flusso di vitali risorse simboliche avvalendosi dei canali comunicativi approntati dal governo di Mussolini?”
L’esposizione dei fatti dimostra in maniera difficilmente contestabile che la monarchia diventa a tutti gli effetti una dinastia del fascismo trionfante dal momento in cui il sovrano sabaudo nega al presidente del Consiglio liberale Facta la firma al decreto di stato d’assedio per la progettata marcia su Roma fascista del 28 ottobre 1922 e prosegue negli anni successivi con alcuni scontri simbolici come quello che si verifica subito dopo l’impresa di Etiopia e la creazione dei primi marescialli dell’impero che vedono Mussolini e il re appaiati nella nuova carica di regime.
Ma le scaramucce tra i due giungono allo scontro mortale soltanto quando la guerra è persa, gli angloamericani sbarcano in Sicilia e nel Lazio e i gerarchi fascisti, appoggiati dal re e dal Vaticano, tolgono la fiducia nel Gran Consiglio del 25 luglio 1943 a Mussolini come comandante supremo delle forze armate fasciste. Ed è così che dopo ventuno anni che la complessa diarchia alla fine crolla e il regime cade clamorosamente.
Non si dialoga con chi insulta i giudici
di Giovanni Maria Bellu *
"La sovranità in Italia è passata dal Parlamento al partito dei giudici". (Bonn, 10 dicembre 2009). “Ci sarebbe da chiedere una commissione parlamentare che dica se, come credo io, c’è un’associazione a delinquere nella magistratura.” (29 settembre 2010, dopo la festa per il 74° compleanno). "E’ una vergogna, ormai siamo una Repubblica giudiziaria commissariata dalle procure" (Bruxelles, 2 febbraio 2011).
Sono solo alcuni tra i più recenti attacchi lanciati contro la magistratura dallo stesso presidente del Consiglio che ha appena varato la riforma "epocale" della giustizia. Quale sia lo scopo, l’abbiamo già scritto: creare un gigantesco alibi preventivo in caso di condanna per il caso Ruby. Già i maggiordomi mediatici stanno preparando il terreno alla tesi dell’eventuale condanna (per prostituzione minorile!) come ritorsione. E d’altra parte Berlusconi, nel suo protervo candore, ha immediatamente confermato quel che l’ha animato nel sostenere con tanto accanimento la riforma "epocale": il desiderio di vendicare l’Italia da Tangentopoli. E di umiliare i pubblici ministeri. Sul punto è stato esplicito: "Il pm - ha detto - per parlare con il giudice dovrà fissare l’appuntamento e battere con il cappello in mano e possibilmente dargli del lei".
L’allarmante novità è che - nonostante le parole chiarissime dette dai vertici del Pd e dell’Idv - in alcuni settori dell’opposizione stanno riemergendo i “dialoganti”, che sono in sostanza l’ala sinistra del vasto movimento dei "cerchiobottisti". Quelli che dicono: “Stiamo a vedere, sentiamo, può darsi che si tratti di una buona riforma”.
A parte il fatto che è una pessima riforma, e che i principali destinatari, i giudici, l’hanno subito qualificata come tale, credono davvero i “dialoganti” che una riforma tanto delicata per il Paese (e certo meno urgente di tante altre) possa essere fatta con un personaggio che da anni insulta la magistratura? E che lo fa dalla posizione dell’indagato e dell’imputato di fatti gravissimi? Non hanno il dubbio che questa riforma sia entrata nell’agenda politica solo perché il premier è nei guai?
E’ in atto un tentativo di rilancio dell’’idea secondo cui l’essere antiberlusconiani è una forma di “fanatismo giustizialista” e non, come dovrebbe essere ormai evidente, una banale norma di igiene civile. E’ l’idea in base alla quale prima di definire "regime" una struttura di potere che corrompe la politica, si dovrebbe attendere di essere incarcerati o mandati in esilio. L’aspetto più triste è che queste posizioni tornano a galla proprio mentre si consolida la convinzione che il governo Berlusconi-Scilipoti protrarrà l’agonia un po’ più del previsto. Che pena.
* l’Unità, 09 marzo 2011
Inadatto al compito
di Concita De Gregorio (l’Unità, 10 marzo 2011)
In dissenso con un buon numero di opinioni lette ieri su giornali di destra di sinistra e di centro - opinioni argomentate, ironiche, pensosissime o sagaci - vorrei spiegare qui in modo chiaro perché ritengo che nessuna riforma della giustizia si possa e si debba discutere con questo governo. Lo dirò in pochissime parole, credo che bastino: non si riforma la giustizia con chi è imputato. Sarebbe certamente urgente e necessario mettersi al lavoro per rendere la giustizia più efficace, per dare più strumenti a chi la amministra. Purtroppo, però, non siamo in condizioni di farlo per via del fatto che il Presidente del Consiglio si trova in questo momento sotto processo come lo è stato innumerevoli volte in passato, quasi senza soluzione di continuità, quasi che la sua passione per la politica fosse in qualche modo collegabile alla sua esigenza di mettersi in salvo dalle conseguenze dei suoi gesti. Quasi che.
Non ci si siede ad un tavolo a discutere di giustizia se dall’altra parte del tavolo c’è qualcuno che con ogni mezzo si sottrae alla giustizia stessa: non è, come posso dire, un interlocutore all’altezza del compito. C’è un conflitto di interesse endemico: il suo interesse ad avere una giustizia che gli convenga confligge a priori, per il solo fatto di esistere, con l’interesse collettivo. Non c’è bisogno di entrare nel merito, anzi non lo si può fare.
Allo stesso modo non si discute di riassetto del sistema radiotelevisivo con chi ne detiene il monopolio, errore già occorso in passato e dal quale evidentemente non si è tratto alcun insegnamento. Semplicemente: si impedisce a chi detiene il monopolio del sistema radiotelevisivo di governare. Poi eventualmente, se costui preferisce fare politica al fare miliardi per la sua famiglia con le sue aziende, allora cede realmente le sue tv, si candida e corre con gli stessi mezzi economici e mediatici degli altri, se eletto diventa un valido interlocutore per discutere persino di tv. O di giustizia, o di scuola, o di impresa.
Se così non fosse - se questo non fosse un principio fondativo delle democrazie rappresentative - a capo dei governi dei paesi occidentali ci sarebbero gli uomini più ricchi dei medesimi paesi, i Murdoch e i Bill Gates, i signori dei colossi informativi sarebbero tutti presidenti e i miliardari corruttori (ce ne sono a tutte le latitudini) anzichè rispondere delle loro malefatte sarebbero tutti lì a riformare i sistemi-giustizia a loro misura. Possiamo dunque annoverare l’esigenza di una vera e rapida riforma del processo fra le ragioni che dovrebbero determinare le dimissioni di Berlusconi e il rapido ricorso alle urne. Non succederà, perché dopo aver permesso che l’uomo col più straordinario potere mediatico ed economico del paese si candidasse alla guida del medesimo non possiamo ora aspettarci che divenga ragionevole, acceda alla causa comune, si interessi al bene di tutti e non pretenda, come deve sembrargli ovvio, di continuare ad occuparsi del suo.
Davvero è tutta colpa di Rodari e don Milani?
di Giorgio Pecorini (il manifesto, 6 marzo 2011)
«Don Milani, che mascalzone!» proclamava su Repubblica del 30 giugno 1992 Sebastiano Vassalli. L’ottimo scrittore (51 anni allora) ricordava d’esser stato insegnante da giovane ma soprattutto fondava la propria sentenza sul giudizio che un professore e preside e ispettore ministeriale in pensione, Roberto Berardi, aveva espresso nel libriccino «Lettera a una professoressa: un mito degli anni Sessanta», edito da Shakespeare and Company.
Mascalzone il Milani, spiegava Vassalli, perché «maestro improvvisato e sbagliato manesco e autoritario». E autore con quella "Lettera" di «un libro bandiera più adatto a essere impugnato e mostrato nei cortei che a essere letto e meditato un atto di calcolata falsificazione della realtà e di violenta demagogia». Un libro, gli garantiva Berardi, inteso «con altre forze disgregatrici ad abbassare il livello della scuola dell’obbligo a danno dei ceti più indifesi, e a creare disordine anche nelle scuole superiori» mirando a obiettivi «ben più ideologici (in senso contestativo) che scolastici».
Passano 19 anni ed ecco Cesare Segre proclamare il 24 febbraio sul Corriere della Sera che lo sfascio della cultura e della scuola italiane «è conseguenza anche della pedagogia di don Milani e Gianni Rodari», responsabile di una «didattica facile che ha cancellato la capacità di studiare».
L’illustre accademico fonda la propria sentenza nell’ultimo libro di Paola Mastrocola, appena pubblicato da Guanda: «Saggio sulla libertà di non studiare». E tanto gli piace che recensendolo vi si identifica fino a condividerne, addirittura radicalizzandola, la diagnosi sul come e perché in Italia lo studio sia «compromesso e svuotato»: «Il suo bersaglio polemico è la didattica di don Milani e di Rodari, che comunque diedero un appoggio, autorevolissimo, a tendenze già in atto. Don Milani predicò contro il babau del nozionismo svalutando il concetto di nozione come conoscenza» sino a frenare l’aspirazione dei propri allievi alla liberazione dai «lavori contadini» per tenerli vincolati al territorio e bloccare in loro «qualunque aspirazione al miglioramento mentale ma anche economico».
Quanto a Gianni Rodari, Mastrocola scopre e Segre conferma, «promuoveva la trasformazione dell’insegnamento in gioco, la vittoria della fiaba sulla razionalità e sulla storia. L’aula scolastica si trasformava in palcoscenico o in laboratorio, e gli scolari, distolti dallo studio, mettevano allegramente in gara la loro pretesa inventività». È così che entrambi spingono i nostri poveri ragazzi «ad aderire all’internazionale dell’ignoranza».
E qui chi abbia anche soltanto un minimo di conoscenza diretta e onesta di quel che Milani e Rodari hanno fatto detto e scritto nelle loro vite non sa se più indignarsi o dolersi. Ma è davvero possibile che persone acculturate, investite di così alta responsabilità sociale quale l’insegnamento, non possano leggere senza pregiudizi e paraocchi? Non riescano a vedere le diverse, anche contradditorie realtà dell’esistenza fuori dall’aula in cui lavorano?
Verrebbe voglia di domandare che cosa sanno davvero e che cosa pensano delle ricerche e delle sperimentazioni del Movimento di cooperazione educativa e del lavoro di insegnanti tipo Mario Lodi, Bruno Ciari, Margherita Zoebeli in cui s’incarnano quelle «tendenze già in atto» che Segre denuncia oggi come rovina del nostro sistema educativo e che nel ’92 Berardi chiamava «forze disgregatrici».
Mi contento di trascrivere, a nostro personale conforto, due frasi brevi: «La scuola - spiega Milani nella "Lettera ai giudici" - siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. È l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare il loro senso della legalità, dall’altro la volontà di leggi migliori cioè il loro senso politico».
E Rodari, recensendo "Lettera a una professoressa" quasi con le stesse parole di Pasolini in una famosa intervista: «Un libro urtante, senza peli sulla lingua, spara a zero in tutte le direzioni, non risparmia nessuno. Di una sincerità a volte brutale, di una ingenerosità scostante. Con tutto ciò il più bel libro che sia mai stato scritto sulla scuola italiana. Da quel libro abbiamo tutti da imparare: maestri, genitori, professori, giornalisti, uomini politici».
Mi torna alla mente, a questo punto, l’immagine suggeritami 19 anni fa dell’accoppiata Berardi-Vassallo: quella dei ciechi del famoso quadro di Bruegel che tenendosi permano finiscono insieme nel precipizio. A loro si attaccano ora Mastrocola e Segre: il trenino s’allunga in un bunga-bunga pedagogico!
di Bruno Forte (Il Sole 24 Ore, 6 marzo 2011)
Come la Chiesa vede l’unità d’Italia? Un episodio del pontificato di Giovanni XXIII, il "Papa buono", può aiutare a rispondere a questa domanda. È la primavera del 1961, precisamente l’11 aprile, quando il Pontefice riceve in visita ufficiale il Capo del governo italiano, Amintore Fanfani. Le parole pronunciate dal Papa in quell’occasione hanno grande eco sulla stampa, in un ventaglio di giudizi contrapposti. Il Pontefice fa, tra l’altro, due affermazioni. La prima riguarda i rapporti fra la Chiesa e l’Italia: «La singolare condizione della Chiesa cattolica e dello Stato italiano - due organismi di diversa struttura, fisionomia ed elevazione, quanto alle caratteristiche finalità dell’uno e dell’altro - suppone una distinzione e un tal quale riserbo di rapporti, pur fatti di garbo e di rispetto, che rendono tanto più gradite le occasioni dell’incontrarsi...».
Con quel suo fraseggiare a volte un po’ ridondante, il Papa dipinge in maniera precisa la distinzione e il genere dei rapporti fra le due sponde del Tevere: i termini usati, "riserbo", "garbo", "rispetto", mettono bene in luce la necessaria distanza e la comune appartenenza a una medesima storia e a uno stesso destino. Subito dopo Giovanni XXIII afferma: «La ricorrenza che in questi mesi è motivo di sincera esultanza per l’Italia, il centenario della sua unità, ci trova, sulle due rive del Tevere, partecipi di uno stesso sentimento di riconoscenza alla Provvidenza del Signore, che pur attraverso variazioni e contrasti, talora accesi, come accade in tutti i tempi, ha guidato questa porzione elettissima d’Europa verso una sistemazione di rispetto e di onore nel concetto delle nazioni grazie a Dio depositarie, sì, oggi ancora, della civiltà che da Cristo prende nome e vita».
Si sente in queste parole la competenza dello storico (tale era Angelo Giuseppe Roncalli, per formazione storico della Chiesa) e la finezza del diplomatico (a lungo rappresentante pontificio), pervase entrambe da una benignità pastorale, che priva la prima di ogni saccenteria e la seconda di ogni furbizia. Il "Papa buono" non nasconde nulla («pur attraverso variazioni e contrasti, talora accesi...») e mette l’accento su quanto gli sta veramente a cuore: l’Italia, nel suo rapporto costitutivo con il cristianesimo e con l’Europa.
Cinquant’anni dopo queste parole non hanno perso nulla del loro valore: prive di ogni retorica celebrativa, aiutano a far memoria onestamente dei momenti drammatici e delle tensioni attraverso cui si fece l’unità del paese. Nei confronti della causa italiana la posizione dei cattolici fu tutt’altro che unanime e concorde: le tesi dei fieri oppositori si affiancarono a quelle dei sostenitori entusiastici, mentre non pochi furono partigiani di un federalismo, che beneficiasse delle garanzie offerte dall’autorità morale del Papa.
Due mi sembrano gli orizzonti evocati da Giovanni XXIII, che val la pena di richiamare anche per l’imminente celebrazione del 150° anniversario dell’unità d’Italia: il cristianesimo e l’Europa. Sotto entrambi i profili l’Italia si è andata costruendo nel corso di questo secolo e mezzo e il da farsi resta ancora così tanto che la memoria si risolve in sfida e agenda per l’avvenire. Anzitutto, va sottolineata la rilevanza del cristianesimo per la nostra identità nazionale: senza di esso l’Italia sarebbe inconcepibile, con buona pace dei laicisti di turno e di quanti danno voce ai vari, possibili pregiudizi storiografici e culturali. Incontrandosi con l’eredità greco-romana e, più tardi, in un rapporto spesso dialettico con i processi emancipatori della modernità, l’anima cristiana ha plasmato il nostro paese. Una riprova altissima dell’importanza di questo contributo all’identità della nazione italiana viene da una delle pagine più significative della nostra storia: la promulgazione della Costituzione repubblicana. È in particolare al personalismo d’ispirazione cristiana che la nostra legge fondamentale deve la sua fonte più ricca in materia di valori.
Essa era stata compendiata nel cosiddetto Codice di Camaldoli, elaborato al termine di una settimana di studio tenutasi nel luglio del 1943 nel monastero camaldolese presso Arezzo, cui avevano partecipato una cinquantina di giovani dell’Azione cattolica e della Federazione universitaria cattolica italiana (Fuci), con l’intento d’individuare le linee dello sviluppo del paeseuna volta finita la guerra. Nel testo emergeva non solo l’idea della centralità della persona umana nella futura organizzazione dello Stato e della sua economia, ma anche la proposta di un sistema di partecipazione statale, che traduceva nella nostra realtà produttiva l’idea della corresponsabilità e della solidarietà nazionale.
Senza il rispetto della dignità della persona, e dunque di tutto l’uomo in ogni uomo, quale che siano la sua storia, la sua cultura e i mezzi di cui dispone, non ci sarà nazione italiana. E, parimenti, senza solidarietà l’idea d’Italia concepita dai padri costituenti rischia di essere totalmente svuotata: sottolinearlo è più che mai urgente, in un momento in cui il tanto parlare di federalismo potrebbe oscurare l’imprescindibile necessità che il nostro sia un federalismo solidale, e giammai un patto a vantaggio dei più forti, dannoso per i più deboli. In questo senso la memoria si fa dovere di vigile profezia per tutti.
L’altro orizzonte evocato da Giovanni XXIII e più che mai valido per le celebrazioni dell’unità italiana è quello dell’Europa: nello spirito dei padri fondatori - De Gasperi, Adenauer, Schuman - l’appartenenza alla casa comune europea vuol dire superamento degli egoismi nazionalistici e regionalistici, respiro aperto alla mondialità e all’interculturalità, senso profondo di responsabilità verso i valori costitutivi dell’identità europea. Accanto al rispetto dei diritti umani e delle libertà individuali, Europa vuol dire coniugazione sapiente di localismi e di solidarietà, di globalità e di attenzione alla ricchezza delle identità regionali e nazionali, di salvaguardia delle radici e di accoglienza dell’altro e del diverso. Per l’Italia questo significa rifiuto di logiche egoistiche e settarie e impegno perché la comune responsabilità europea si affermi negli scenari internazionali dove sono in gioco la costruzione della pace, il rispetto dei diritti umani, l’impegno per la giustizia.
Celebrare l’unità della nazione italiana nell’orizzonte dell’idea europea può aiutare a liberarci da ogni ripiegamento su noi stessi, o peggio ancora su una parte sola del paese, spingendoci a un’azione di stimolo e di supporto a politiche europee all’altezza delle radici culturali e spirituali che ci uniscono. Queste radici comprendono l’idea cristiana di persona e di storia orientata a un fine, l’idea di democrazia, contributo prezioso della grecità classica, cui si connette il dovere del rispetto delle ragioni altrui, e il diritto romano, con la sua esigenza di una giustizia giusta, rapida ed efficace nella tutela dei più deboli e dei diritti di tutti.
Celebrare l’unità è allora raccogliere il testimone di quanti hanno dato il meglio di sé, fino al sacrificio della vita, perché in questi 150 anni si andassero imponendo le urgenze dei diritti personali, l’idea di partecipazione democratica universale, e un senso del diritto e della legalità, che per troppi aspetti sembrano ancor lungi dall’essere realtà compiuta.
Al di là di ogni retorica, un esame di coscienza è richiesto in primo luogo a chi ha responsabilità pubbliche ed è tenuto a coltivare qualità morali che siano all’altezza del compito. Ricordare l’unità realizzata vuol dire rinnovare l’impegno a portarne a compimento i valori costitutivi. Ciò che iniziò ieri è appello per l’oggi e per il domani, un’occasione di salutare risveglio per tutti, la sfida di un "non ancora" che parte dal "già", iniziato 150 anni fa.
* Bruno Forte è arcivescovo di Chieti-Vasto
L’avanzata dei responsabili tra paradosso e spudoratezza
di Ermanno Rea (la Repubblica, 7 marzo 2011)
Che in Italia la responsabilità sia una merce piuttosto rara è cosa nota: me lo insegnò già al ginnasio un originale professore di storia che mi diede da leggere una sintesi delle famose tesi di Lutero: impara, ragazzo, impara. Siamo uno strano paese, sempre in bilico tra paradosso e spudoratezza. Oggi si autodefiniscono «responsabili» quei parlamentari, transfughi da varie formazioni politiche, che sono corsi a puntellare il traballante baraccone governativo. Naturalmente, dicono, in maniera del tutto disinteressata, animati da genuino amore per il premier calunniato, insomma senza alcuna ricompensa, in cambio di nulla.
Siamo sinceri: che gli onorevoli in questione affermino amenità simili, e si costituiscano ufficialmente in «gruppo dei responsabili», ci può anche stare: chi dirà mai che si è lasciato sedurre da qualche succosa promessa politica (per esempio dalla riconferma sicura del mandato parlamentare in caso di elezioni) o addirittura da un bel gruzzolo di contanti (mai lasciare tracce bancarie)? Allarmante invece è il fatto che il titolo di «responsabili», sempre meno velato d’ironia, sia riuscito ad affermarsi nel comune gergo televisivo e giornalistico, per cui Tizio e Caio, come che sia, sono dei «responsabili»; piaccia o no, incarnano una delle massime virtù civili e politiche e perciò sono esempi da imitare. Prendiamo Scilipoti. Nei telegiornali è decisamente un «responsabile». Lo stesso accade a Razzi e a Galearo: fanno parte dell’«area dei responsabili», insomma sono la quintessenza della «responsabilità», senza scherzi. La gente ascolta: qualcuno se la ride ma altri ci credono.
Ricordo lo splendido verso di J. Ramòn Jimenez: «Intelligenza, dammi il nome esatto delle cose». Fino a qualche tempo fa conoscevamo ancora il significato delle parole, almeno in parte. Poi, lentamente, esso è come evaporato, si è fatto via via più ambiguo, fino a inglobare il suo stesso contrario, equiparando per esempio «responsabilità» e «irresponsabilità», o per lo meno oscurando i loro confini agli occhi dei più.
Naturalmente la corruzione del linguaggio è soltanto la spia della corruzione generale. Accade anche fuori d’Italia? Forse. Non però in maniera così incisiva, così spudorata. Chi altri sa mentire come noi? Chi altri sa negare l’evidenza con altrettanto trasporto? Prendiamo Berlusconi. È un autentico maestro in questo campo. Alla maniera di un famoso personaggio femminile di Stendhal che, scoperta dall’amante attraverso il buco della serratura tra le braccia di un altro uomo, smentisce l’adulterio con delirante fatuità (ma come, voi credete più ai vostri occhi che alle mie parole?) egli pretende un credito assoluto, anzi cieco, quale che sia la balla che propina.
Si dirà: ma da dove saltano fuori simili personaggi? Possibile che siano soltanto frutti di stagione senza progeniture culturali? Senza precedenti storici? Forse è arrivato il momento che tutti noi italiani cominciamo a interrogarci più seriamente sul nostro passato e sulle nostre perverse eredità, scoprendo che cosa significa veramente la parola «responsabilità». E scoprendo anche che la propria coscienza - perfino quella di un politico corrotto - vale forse qualcosa di più di centocinquantamila euro che, a ben pensarci, è cifra alquanto modesta, soprattutto per chi, in quanto parlamentare, gode di un reddito più che rispettabile. Dio, che paese di straccioni perfino nella corruzione! Ma siamo caduti veramente così in basso?
Dobbiamo prendere atto che la democrazia deve sempre fare i conti con la sua naturale tendenza alla riduzione del potere nelle mani di élites
Il potere illegale e corruttivo del denaro di cui si occultano il possesso e la gestione per poter corrompere ogni altro ambito della vita sociale
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 05.03.2011)
Che sulla democrazia - come su ogni altra forma di governo - incomba il pericolo del disfacimento, è un dato d’esperienza che non può essere negato. Le forme di governo sono vitali se sono animate da un principio, un ressort, secondo l’espressione di Montesquieu. Il ressort della democrazia è la virtù repubblicana. Quando la molla è totalmente dispiegata e dunque non ha più forza da sprigionare, quello è il momento d’inizio della decadenza. La questione, gravida di conseguenze pratiche, è se l’esito finale del processo corruttivo sia o non sia inevitabile. Se non è evitabile, tanto vale rassegnarsi e, se mai, lavorare per il dopo. Se è evitabile, la democrazia come ideale politico non perde di valore, pur in presenza di difficoltà. Possiamo dire la stessa cosa prendendo a prestito l’espressione di Norberto Bobbio, "le promesse non mantenute della democrazia", e chiederci: queste promesse possono o non possono essere mantenute? (...) Che cosa possiamo rispondere a questa cruciale domanda? È necessario prendere atto di questo apparente paradosso: mentre da parte dei potenti della terra si accentua la loro dichiarata adesione alla democrazia, cresce e si diffonde lo scetticismo presso chi studia l’odierna morfologia del potere e presso coloro che ne sono l’oggetto e, spesso, le vittime.
Per secoli, democrazia è stata la parola d’ordine degli esclusi dal potere per contestare l’autocrazia dei potenti; ora sembra diventare l’ostentazione di questi ultimi per rivestire la propria supremazia. Presso i cittadini comuni, non c’è (ancora?) un rovesciamento a favore di concezioni politiche antidemocratiche. C’è piuttosto un accantonamento, un fastidio diffuso, un «lasciatemi in pace» con riguardo ai panegirici della democrazia che, sulla bocca dei potenti, per lo più trasmettono ideologia al servizio del potere e, nelle parole dei deboli, suonano spesso come vuote illusioni. C’è, in breve, una reazione anti-retorica alla retorica democratica. Quando si sente esclamare con fastidio: "tanto sono tutti uguali" (quelli della cosiddetta classe dirigente), questo non significa forse che la democrazia ha perso di valore presso questi cittadini, che la considerano semplicemente la vuota rappresentazione o l’occultamento di un potere dal quale essi sono comunque esclusi? Una "teatrocrazia", è stato detto. L’esito potrà essere l’astensione o l’adesione passiva e routinaria: in entrambi i casi, un distacco. Lo scetticismo a-democratico dal basso fa da pendant alla retorica democratica dall’alto.
Il paradosso sopra segnalato si scioglie pensando alle capacità mimetiche o camaleontiche della democrazia, rispetto alle quali è imbattibile. Sotto le sue spoglie ideologiche si può comodamente annidare mimetizzandosi, cioè senza mettersi in mostra (questo è il grande vantaggio), perfino il più ristretto e il meno presentabile potere oligarchico. Le forme democratiche del potere possono essere un’efficace maschera dissimulatoria. È stato così in passato e così è anche nel presente. Basta consultare la storia. Essa ci dice che la democrazia, come parola, può contenere l’anti-democrazia, come sostanza. Anzi, oggi il potere antidemocratico ha bisogno di passare per la porta rassicurante della democrazia (...)
Realisticamente o, come si dice, "sperimentalmente", dobbiamo prendere atto che la democrazia deve sempre fare i conti con la sua naturale tendenza alla riduzione del potere in poche mani, nelle mani di élites. Gli studi in proposito sono numerosi; le loro teorizzazioni presentano diverse varianti e le conclusioni cui pervengono non sono necessariamente in opposizione alle esigenze minime della democrazia. Ma le cose cambiano quando dalle élites si passa alle oligarchie, anzi a quella che è stata definita la "ferrea legge delle oligarchie": una legge che esprime una tendenza endemica, cioè mossa da ragioni interne ineliminabili, sia della democrazia sia delle stesse élites. Questa tendenza è denunciata concordemente dai critici della democrazia, i critici sia di destra che di sinistra. Il che è quanto dire che la denuncia è corale e che coloro che proclamano l’ideale del governo del popolo sono o degli ingenui o degli impostori. La "ferrea legge" si basa sulla constatazione che i grandi numeri, quando hanno conquistato l’uguaglianza, cioè il livellamento nella sfera politica, cioè quando la democrazia è stata proclamata, e tanto più è proclamata allo stato puro, cioè come democrazia immediata, senza delega, per ragioni strutturali ha bisogno di piccoli numeri, di gruppi di potere ristretti. Non basta.
L’oligarchia non è però l’élite. L’oligarchia si potrebbe dire così è l’élite che si fa corpo separato ed espropria i grandi numeri a proprio vantaggio. Trasforma la res publica, in res privatae. Poiché, poi, questa è una patente contraddizione rispetto ai principi della democrazia, occorre che queste oligarchie siano occulte e che esse, a loro volta, occultino il loro occultamento per mezzo del massimo di esibizioni pubbliche. La democrazia allora si dimostra così il regime dell’illusione. Il più benigno dei regimi politici, in apparenza, è il più maligno, in realtà. Il "principio maggioritario", che è l’essenza della democrazia, si rovescia infatti nel "principio minoritario", che è l’essenza dell’autocrazia: un’autocrazia che si appoggia su grandi numeri, ma pur sempre un’autocrazia e, per questo, più pericolosa, non meno pericolosa, del potere in mano a piccole cerchie di persone che possono sostenersi solo su se stesse.
(...) Le oligarchie nascoste di cui stiamo parlando, per il sol fatto d’essere tali, tendono naturalmente, anzi necessariamente, all’illegalità e alla corruzione. Poiché le oligarchie del nostro tempo sono costruite e finalizzate all’accaparramento di ricchezza sempre questo: pecunia regina mundi il potere di cui si parla oggi è il potere illegale e corruttivo del denaro di cui si occultano il possesso e la gestione per poter corrompere ogni altro ambito della vita sociale. È una tendenza "naturale", per l’ovvia, antropologica legge del potere che già Montesquieu ha chiarito, nella sua crudezza: chi detiene il potere, se non incontra limiti, è portato ad abusarne.
Le oligarchie del nostro tempo non incontrano altri limiti se non quelli rappresentati da altre oligarchie. Ma l’abuso come limite all’abuso è semplicemente una complicazione dell’abuso. È anche una tendenza "necessaria", perché i regimi dei pochi sono incompatibili con la legalità uguale per tutti. Le oligarchie hanno bisogno di privilegi, cioè di leggi che valgono solo per loro, diverse da quelle che valgono per tutti gli altri. O, quanto meno, hanno bisogno che le leggi generali e astratte siano interpretate e applicate a loro in modo tale da non contraddire l’esistenza dell’oligarchia stessa. Ciò che occorre loro è una "giustizia dei pari", diversa da quella comune; un "foro speciale" non di giudici imparziali, ma di giudici amici. "Un’aristocrazia ha scritto Tocqueville, e noi potremmo senz’altro dire: un’oligarchia non potrebbe lasciarsi sfuggire i suoi privilegi senza cessare d’essere una aristocrazia". La legalità uguale per tutti lo si comprende senza spiegazioni è incompatibile con la divisione della società in appartenenti ed esclusi dal potere oligarchico. Quando, alla fine, nel senso comune si sommano due percezioni: l’estraneità al potere e la sua illegalità e corruzione, ecco la miscela esplosiva che può indurre a chiedere che la si faccia finita con la democrazia, se essa, in concreto, significa queste cose.
Che dire, allora? La democrazia è destinata a trasformarsi in oligarchia; l’oligarchia è in se stessa disuguaglianza di fronte alla legge; l’illegalità e la corruzione sono la conseguenza. Allora, dunque, alla domanda se le promesse della democrazia siano tali da non poter essere mantenute, la risposta sembra che debba essere: sì, non possono essere mantenute. Si fondano le democrazie e si mette in moto un processo destinato alla rovina delle società. Fermiamoci un momento, però, prima di questo passo fatale, del quale, se lo facessimo leggermente, ci dovremmo presto pentire, perché, abbandonata la democrazia, avremmo solo autocrazie e le autocrazie non sono un rimedio, sono anzi l’accentuazione dei mali.
(...) Potremmo forse dire così: la democrazia non è nel senso che non può essere l’autogoverno del popolo che si afferma durevolmente. È invece la possibilità istituzionalizzata, dunque resa stabile secondo procedure riconosciute e accettate, di combattere e distruggere sempre di nuovo le oligarchie ch’essa stessa nutre dentro di sé. Una definizione in negativo, dunque: qualcosa che si qualifica per essere contro un’altra. Da questo punto di vista, la democrazia è tutt’altro che un ideale impossibile. È invece una possibilità, cioè una serie di strumenti che spetta a noi di utilizzare, per tradurre in pratica l’avversione alle oligarchie. Se gli strumenti esistono e non sono utilizzati, non si può dire che non c’è democrazia, ma si deve dire che la democrazia (come possibilità) c’è e ciò che manca è la pratica della democrazia. Allora, la responsabilità dello scacco non deve essere addossata alla democrazia come tale, ma deve essere assunta da noi, incapaci di utilizzare le possibilità ch’essa ci offre. Se cediamo all’accidia della democrazia, è perché prevale sulla libertà morale il richiamo del gregge e la tendenza gregaria, che sono il lato biologico profondo degli esseri umani che l’avvicinano agli altri esseri viventi, come ha messo in luce Sigmund Freud nel suo studio sulla psicologia delle masse. Ma il gregge è una possibilità, non un destino.
(....) Diciamo così, a costo di cadere nell’enfasi: la democrazia vuole potenti gli inermi e inermi i potenti; vuole forti i giusti e giusti i forti. È per questo che i suoi nemici mortali sono le concentrazioni oligarchiche del potere. Contro le concezioni ireniche della democrazia, non possiamo pensare ch’essa sia il regime che definitivamente pone fine ai conflitti, eliminandone le cause. Il suo tempo non è quello in cui tutto è pacificato. Non è il regno dell’armonia, della giustizia e della concordia. È illusione che sia il luogo ove "il lupo dimorerà con l’agnello, il leopardo si sdraierà accanto al capretto, il vitello e il leoncello pascoleranno insieme, il lattante si trastullerà sulla buca della vipera" (Isaia, 11, 1-9). Questo sarà, se mai sarà, il tempo messianico. Finché ci sarà politica, ci saranno conflitto, ingiustizia e discordia. La questione non è come eliminarli, ma come affrontarli.