Editoriale

Fuggire, correre, emigrare. Ma resta l’amore, come scriveva Paolo di Tarso

sabato 14 agosto 2010.
 

Stanotte sono andato a dormire con una frase di Giampaolo Spinato, «lasci ai suoi sogni le bestemmie che urgono per vivere, o a un’altra vita, forse».

Ho guardato indietro e avanti, in casa pacchi di libri, fogli, scritti. Parole, storie. Chiusi per l’ennessimo trasferimento, per disporre in diverso ordine quella memoria di testi, capitoli del mio pensiero, della mia vita. E’ la pratica d’ogni emigrato, forse una necessità personale, esistere nella sfera degli altri.

Non hai sede, tutto è temporaneo, fugace. Ti consoli con la filosofia, robusta o spicciola. Poi un sorriso all’amico aiutante, Alessandro "Testa 57, oggi 62", puntualmente in ritardo ma presente. Pile di scontrini, biglietti di viaggio, appunti dimenticati, lettere di denuncia, locandine d’iniziative: gennaio 2008, a Messina con Sonia Alfano; giugno 2007, Festival internazionale della Filosofia in Sila; ottobre 2010, in Friuli con Saverio Alessio. E, ancora, una nota del 2008 ad Andrea Vianello, per segnalare a "Mi manda Rai 3" il caso d’una giovane rovinata dalla presunzione d’un chirurgo; nel 2009 una fitta corrispondenza con l’Asl di Pescara che sospese l’accompagnamento ad Antonella, terribili e mortificanti pastoie burocratiche, ingiuste, sino alla morte della mia amica, a cui tenni la mano, l’ultima volta, il 31 dicembre scorso in una stanza dei Riuniti di Bergamo.

A un anno quasi, non ho accettato che Antonella è andata via all’improvviso; senza che abbia potuto ripeterle che sono, e resto, un «cafone calabrese», che c’è un mio libro che l’aspetta, che la mafia, pure quella di chi s’è blindato nell’indifferenza per lasciarti vuoto e dolore, non è più forte dei puri. Avrei voluto ancora passeggiare con lei per le vie del centro della nostra Bergamo, e portarla all’Orio Center o in cima a San Vigilio, e da lì guardare la città ascoltandola raccontarsi.

E’ nato Massimo, un dono, e ho sentito sua mamma, la figlia d’Antonella, con la gioia della vita che continua, dell’amore che non finisce, si replica, s’infonde. Quell’amore che non ho saputo esprimere come semplice artigiano di parola, e neppure provare fino in fondo nella mia vita di viaggi, corse, scontrini, fughe, stazioni.

Mi sento come l’amico Mauro Minervino che descrive il suo peregrinare inquieto per la statale 18, arteria della costa tirrenica calabrese. Solo che lui in Calabria ci vive, ci dimora sempre nel suo patire, nel suo sperare. E’ lì, anche se da osservatore vagante, antropologo perenne, pesce fuor d’acqua, alieno pericoloso agli occhi del potere. Uno strano personaggio per tanti, abituati all’orrore del cemento che ha devastato quasi ogni angolo della terra, selvaggia e struggente. Io non ci sono più, invece: ci torno col cuore nella mia Calabria; a volte, e per un attimo, col corpo dissociato dalla mente, che fa i conti col lavoro, le scadenze, le bollette, la spesa, i piatti, i panni, i sogni di giovane appeso alla sua precarietà. Di ragazzo che canta spontaneamente ogni mattina, con l’animo latino d’allegria malinconica; di uomo che non brama postazioni di comando, figa e conti all’estero.

Spulciando fra le carte degli ultimi cinque anni, ho rivisto il quadro del mio vagare. Le battaglie, gli slanci, le figure incrociate, conosciute, rimaste, perdute. Massimiliano, il mio compagno di banco del liceo, anche lui mi ha salutato di colpo in questo anno: un assurdo incidente in moto, eppure non correva mai, non sbagliava mai, tanto era attento, scrupoloso, ricco dentro. Chissà se l’emigrazione non ci avesse dispersi; chissà, se non ci fosse stato questo fenomeno che abbiamo accettato collettivamente, forse per sentirci al passo coi tempi, reputandolo inevitabile e perfino necessario. E Domenico, insieme alle medie, spentosi in ospedale in due settimane. Una malattia impensabile, proprio quando aveva dato un senso alla sua vita. Penso a suo figlio, stesso nome, nato poi, in questo mondo d’incertezza, ambiguità e resistenza viva.

Rammento che i miei genitori a settant’anni hanno dovuto stabilirsi al Nord per curarsi «fuori regione», come dice l’amministrazione pubblica, e ho davanti l’immagine di Salvatore Borsellino, incontrato nei miei andirivieni da idealista testardo. Salvatore che mi fa una carezza come padre; Salvatore che mi volge i suoi occhi teneri e mi passa la tensione dei bambini, i soli aperti alle possibilità, che scrivono con le virgole, senza mettere punto.

Rileggo, poi, le mie lettere d’amore, i bigliettini, le frasi che non sono mai uscite in pubblico e forse nemmeno entrate in privato. E in tutta questa tempesta di emozioni, so che gli aquilani una casa non ce l’hanno, che molti operai hanno perso il lavoro e devono campare famiglia. Aziende che hanno chiuso, studenti che non avranno la borsa di studio e manco una stanza, grazie alla riforma cieca della ministra Gelmini e della destra illiberale al governo.

Sul finire dell’anno, ho visto da vicino la storia di Lea Garofalo, sciolta nell’acido perché aveva scelto di parlare con la giustizia, di combattere la ’ndrangheta che l’aveva costretta a fuggire. Molto più di me, che ho negli altri, e soprattutto nei più giovani, la mia casa senza affitto.

Ci sono ancora motivi e pagine, capitoli di lotta. Ed è per questo che il mio cuore è ancora carico di passione, d’amore.

Ciascuno «lasci ai suoi sogni le bestemmie che urgono per vivere, o a un’altra vita, forse».

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Emiliano Morrone e Carmine Gazzanni


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