VISITA DI BENEDETTO XVI IN SINAGOGA. UNA TRISTE FARSA
“Deus caritas est” [Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006]!
Nell’anniversario del “Giorno della memoria”, il 27 gennaio, non poteva essere ‘lanciato’ nel ‘mondo’ un “Logo” ... più ‘bello’ e più ‘accattivante’, molto ‘ac-captivante’!!!
FARE COME GIOVANNI XXIII E GIOVANNI PAOLO II: RESTITUIRE L’ANELLO A GIUSEPPE!!!
di Dominique Greiner et Frédéric Mounier
La Croix, del 23 dicembre 2009 (traduzione: www.finesettimana.org)
Dopo la proclamazione di Pio XII come “venerabile”, sabato, molte personalità e movimenti ebraici esprimono la loro delusione e la loro incomprensione, a poche settimane dalla visita di Benedetto XVI alla sinagoga di Roma, prevista per il 17 gennaio.
Il rabbino Marvin Hier, direttore del Centro Simon Wiesenthal a Los Angeles, si è detto lunedì “stupefatto” da questa decisione. Per lui, “Pio XII si è rifugiato nel silenzio” e non si è levato contro i tiranni quando gli ebrei erano perseguitati.
Il presidente del Congresso ebraico mondiale, più prudente, invita alla prosecuzione degli studi storici: per Ronald Lauder, una beatificazione di Pio XII sarebbe “inopportuna e prematura” finché “gli archivi sul periodo cruciale 1939-1945 resteranno chiusi e finché non sarà stabilito un consenso sulla sua azione - o inazione - riguardo alla persecuzione di milioni di ebrei nell’Olocausto”. Chiede l’apertura “immediata” di tutti gli archivi esistenti, al fine di dissipare i dubbi che sussistono. La sua richiesta si unisce a quella dello Stato di Israele, che ha comunque espresso il suo rifiuto ad occuparsi di un processo di beatificazione che “non lo riguarda”.
Il riconoscimento delle virtù di Pio XII getta turbamento anche negli ambienti impegnati nel dialogo interreligioso. In un comunicato, l’Amicizia ebraico-cristiana in Francia (AJCF) definisce “inaccettabile” la decisione di Benedetto XVI, che “scandalizza non solo le autorità ebraiche ma anche un gran numero di cristiani”.
Per l’AJCF il problema non è sapere se Pio XII ha dato un aiuto diretto o indiretto per salvare degli ebrei durante la guerra, “ma l’assenza della sua parola pubblica che denunciasse il massacro degli ebrei”: “La vera questione è quella della responsabilità del Pastore supremo della Chiesa cattolica nell’illuminare il popolo cristiano con i suoi insegnamenti, indipendentemente dalle circostanze, in nome delle esigenze della Parola di Dio di cui è il primo interprete nella tradizione cattolica.”
Vista dal Vaticano, la richiesta di accesso alla totalità degli archivi del periodo che va dal 1939 al 1944 non costituisce un ostacolo in sé. “Non c’è niente da nascondere”, dichiara il direttore della Sala stampa della Santa Sede: “Gli archivisti ci spiegano che devono classificare 16 milioni di foglietti, 15000 buste, 2500 dossier”, giustifica padre Federico Lombardi. Quegli archivi dovrebbero essere aperti integralmente tra cinque o sei anni, una volta terminato il lavoro di classificazione.
Nell’immediato, la Santa Sede vuole evitare l’annullamento della visita di Benedetto XVI alla sinagoga di Roma, prevista per il 17 gennaio. Sono stati presi contatti in questo senso tra la comunità ebraica romana, potenza invitante, e la Segreteria di Stato. Mordechay Lewy, ambasciatore di Israele presso la Santa Sede, si è detto “fiducioso” per lo svolgimento di questo “evento storico”.
Interrogato dall’agenzia di stampa italiana Ansa, il cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, ha ritenuto “la visita di Benedetto XVI alla sinagoga di Roma molto importante anche per la comunità ebraica”: “Spero che possa aver luogo, spiega il cardinale tedesco, incaricato delle relazioni religiose con l’ebraismo. Ma questa decisione spetta agli ebrei. Non ho avuto conoscenza di alcun passo inteso ad annullare questa visita”.
Il clima dell’incontro, se dovesse essere mantenuto, viene dato dalla prima pagina di Pages juives, il bollettino della comunità ebraica di Roma: il papa attraversa il Tevere - la sinagoga di Roma è dall’altra parte del fiume rispetto al Vaticano - in equilibrio su un filo, con due cartelli: su uno sta scritto “dialogo”, sull’altro “conversione”. Dall’altro lato del fiume si staglia la sinagoga, irta di cartelli... contrastanti: “Basta con la preghiera del Venerdì santo!”, “Grazie per questa visita!”, “Ricordati della Shoah!”, “Apriamo il dialogo!”, “Rinchiudi i negazionisti!”, “Rispetta la diversità!”
A Benedetto XVI occorrerà trovare le parole giuste per restaurare una fiducia intaccata.
La visita in Sinagoga è ormai un passaggio decisivo per i Papi, segno dell’«imprescindibile legame» tra la Chiesa e gli ebrei
Contro violenza e guerre una fratellanza religiosa
di Andrea Riccardi (Corriere della Sera, 18.01.2016)
«Secondo la tradizione giuridica rabbinica, un atto ripetuto 3 volte diventa chazaqà, consuetudine fissa» - così ha detto il rabbino Di Segni nel tempio di Roma. Alludeva alla terza visita di un Papa alla sinagoga, quella di Francesco: «Il segno concreto di una nuova era dopo tutto quanto è successo nel passato». Ormai la visita è un passaggio decisivo per i Papi, segno dell’«imprescindibile legame» tra Chiesa e ebrei (per usare le parole di Francesco). Davvero un’era nuova. Gli ebrei romani, per secoli, sono stati costretti all’umiliazione durante il corteo del Papa neoeletto verso il Laterano.
Oggi invece la Chiesa li cerca come fratelli che conosce da vicino. Il Papa, nella parte più toccante del suo discorso, ha condiviso il dolore degli ebrei di Roma per la deportazione nazista (fatto molto sentito dalla comunità): «Le loro angosce, le loro lacrime non devono mai essere dimenticate». L’«imprescindibile legame» non è un’astrazione: «Non accogliamo il Papa per discutere di teologia», ha spiegato Di Segni. Ha aggiunto: «Accogliamo il Papa per ribadire che le differenze religiose non devono però essere giustificazione all’odio e alla violenza, ma ci deve essere invece amicizia».
Di Segni ha fatto un discorso non formalmente dialoghista ma denso di responsabilità. Quella a cui i leader religiosi sono chiamati innanzi al terrorismo, ma pure ai grandi vuoti della società. Il senso di urgenza del rabbino ha trovato eco nel Papa, che ha dichiarato con forza come la violenza sia «in contraddizione con ogni religione degna di questo nome». La fede faccia crescere - ha aggiunto Francesco - la «benevolenza» verso ogni persona. Una santa alleanza tra religioni? In realtà giunge a maturazione il processo inaugurato da Giovanni Paolo II ad Assisi nel 1986, quando auspicò «energie per un nuovo linguaggio di pace, per nuovi gesti di pace... che spezzeranno le catene fatali delle divisioni ereditate dalla storia». I processi nel mondo religioso non sono facili né lenti, ma spesso irreversibili.
Camus, Pio XII e il linguaggio “chiaro”
di Franck Nouchi (Le Monde, 20 gennaio 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)
Sono state alcune immagini intraviste nei telegiornali del fine settimana, appena il tempo di vedere papa Benedetto XVI varcare la soglia della sinagoga di Roma. Atmosfera in apparenza cordiale, niente lasciava trasparire il turbamento suscitato nella comunità ebraica italiana dall’annuncio della prossima beatificazione di Pio XII. Segno che questa visita rivestiva un carattere eccezionale, si notavano tra i presenti personalità come l’arcivescovo di Parigi - il cardinale André Vingt-Trois -, il patriarca di Gerusalemme, il grande rabbino di Haifa e Andrea Riccardi, presidente della comunità di Sant’Egidio.
Evocando l’atteggiamento del Vaticano durante la Shoah, il papa ha detto che la Sede apostolica aveva “condotto un’azione di aiuto, spesso sconosciuta e discreta”. Alla fine della cerimonia, dei discendenti di deportati hanno consegnato a Benedetto XVI una lettere firmata da diversi sopravvissuti: “A quell’epoca, noi siamo stati abbandonati da tutti. Che questo silenzio di tutti non sia un silenzio nel futuro.”
Per il momento, non potendo avere accesso agli archivi del Vaticano sul pontificato di Pio XII, dobbiamo accontentarci del lavoro degli storici e di qualche testimonianza.
In una lettera inviata a Le Monde, il grande rabbino di Strasburgo, René Gutman, ci invita a rileggere il testo di Albert Camus. In “L’incroyant et les chrétiens” (Actuelles, 1948), l’autore di Lo straniero scriveva: “Ho a lungo atteso in quegli anni spaventosi che una grande voce si levasse a Roma (...). Mi hanno spiegato dopo che la condanna era stata davvero emessa. Ma che era stata espressa nel linguaggio delle encicliche che non è affatto chiaro. La condanna era stata emessa, ma non era stata compresa! (...) Quello che il mondo si aspetta dai cristiani è che i cristiani parlino, a voce alta e chiara, e che esprimano la loro condanna in maniera tale che mai il dubbio, mai un solo dubbio, possa sorgere nel cuore dell’uomo più semplice.”
Quattro anni prima, in Combat (datato 29 dicembre 1944), Camus esprimeva già lo stesso sentimento: “Da anni aspettavamo che la più grande autorità spirituale di questo tempo si decidesse a condannare in termini chiari le imprese delle dittature. (...) Il nostro segreto desiderio era che ciò fosse detto nel momento stesso in cui il male trionfava e in cui le forze del bene erano imbavagliate. (...) Diciamolo chiaramente, avremmo voluto che il papa prendesse posizione, proprio in quegli anni vergognosi, e denunciasse quelle che bisognava denunciare.”
In fondo, è questa la grande lezione. Di fronte a degli avvenimenti gravi, dire i fatti, alto e forte, non foss’altro che per semplice spirito di solidarietà. Mai rifugiarsi nell’astruso. Sempre fare in modo di essere compresi da tutti. Un silenzio glaciale accompagnava tutti coloro che era portati via verso i campi di morte.
COME CONIUGARE CATTOLICESIMO, EBRAISMO, ISLAM ... SECONDO LA LINEA DELL’ECUMENISMO DI GUERRA .
LA RISATA DI PIRANDELLO: PER LA CHIESA CATTOLICA, SAN GIUSEPPE E’ ANCORA UN "GOJ", UNO STRANIERO.
LA LEZIONE DI EDUARDO DE FILIPPO: "L’ORO DI NAPOLI" - UN CONSIGLIO TERAPEUTICO
di Giancarlo Zizola (la Repubblica, 18 gennaio 2010)
Indietro non si torna. Parola di Papa. La dottrina del Concilio Vaticano II sugli Ebrei costituisce - ha detto in Sinagoga - un punto fermo irreversibile. Di più, ha impegnato la Chiesa cattolica in questo solco. Una chiamata in causa che ricade come una sconfessione sulle correnti ostinatamente antisemite del lefebvrismo ultracattolico, troppo frettolosamente perdonato. L’assicurazione filoconciliare di Benedetto XVI introduce una variante nella disputa sulla continuità del Vaticano II rispetto alla tradizione della Chiesa. Se c’è un punto del Concilio in cui la critica alla tradizione di molti secoli è indubitabile, questo è la dichiarazione "Nostra Aetate" sugli Ebrei e le altre religioni non cristiane.
L’impegno contratto dal Papa si traduce in un riconoscimento del valore permanente delle deliberazioni conciliari, tanto più ragguardevole in un’ora in cui vengono raggiunte da processi involutivi. Significa anche ammettere che la tradizione della Chiesa è fatta non solo di ripetizioni del passato, ma anche di ricerca di forme veritative più autentiche ed ampie di quelle precedenti. Questa Sinagoga bis del papato prova che il dialogo ebraico-cristiano si radica nella struttura istituzionale del mondo ebraico e della Chiesa romana. Certe diffidenze ebraiche sono motivate dalla storia, che mette in scena una continua alternanza fra persecuzione e meno larghi periodi di tolleranza. Ora il fatto che da Giovanni XXIII al Papa attuale siano già cinque i Papi favorevoli al dialogo con l’ebraismo, dovrebbe assicurare i timorosi che questa opzione non è congiunturale, ma si fonda sulla messa in valore di elementi fondamentali comuni anteriormente eclissati.
Certo, Ratzinger mostra di preferire il tavolo teologico a quello politico. Come fa leva nel suo magistero sulla formazione biblica e teologica di un cattolicesimo troppo a lungo distratto o illuso dalle massificazioni wojtyliane, così punta sulla rieducazione di ebrei e cattolici per migliorare una conoscenza reciproca, che sembra generalmente carente. E ha risolto positivamente - non c’era da dubitarne - la questione della salvezza promessa per sempre al Popolo dell’Alleanza. Ma se avesse scelto di lasciare in guardaroba le cautele diplomatiche e seguire Riccardo Pacifici sui carboni ardenti dei silenzi di Pio XII e della politica anti-israeliana dell’Iran, non gli sarebbe stato difficile ricordare che furono i persiani a liberare gli ebrei dall’esilio babilonese, a riportarli a Gerusalemme e ricostruire il Tempio.
Una visita "teologica" ha saputo paradossalmente individuare un progetto di collaborazione. I partner hanno preferito discutere delle cose da fare insieme piuttosto che misurarsi sulle rispettive visioni identitarie. Ciò che manca alle religioni monoteistiche non è generalmente la loro reciproca fraternità. Essa giace dentro ciascuna di esse, come il cuore che pulsa segretamente e fa vivere. Ciò che manca a questi mondi religiosi è l’audacia di farsi Arca di Alleanza fra loro perché il mondo viva e l’arca della pace appaia nel futuro del mondo.
Sia il Papa che il rabbino hanno squarciato il velo su questo futuro inedito: la persuasione comune è che la vera Terra Promessa è al di là delle terre già raggiunte, è la Terra che è stata promessa non ad una religione particolare ma all’Uomo come tale, perché - ha suggerito Di Segni - «l’Uomo è santo», non la terra. Una intuizione decisiva per laicizzare le derive teocratiche nazionalistiche e i fondamentalismi incombenti.
A sua volta il Papa ha chiesto di trasformare la fede comune nell’Unico Dio in atto critico dei nuovi dei e vitelli d’oro, - la razza, lo Stato - che mettono a repentaglio l’identità stessa dell’Uomo. Un invito familiare al linguaggio dell’Ebreo Errante, mai quieto nelle logiche e interessi costituiti, preoccupato di salvare la differenza dai processi di omologazione per non abbandonare la storia ai suoi despoti. Ha chiesto alleanza nell’impegno di tradurre la Torah in un impegno etico globale sulla dignità della vita, la famiglia, l’ecologia, la pace. Infine, il tempo delle religioni monoteistiche è il tempo dell’Uomo: non avrebbero significato, in un mondo secolarizzato, se fossero appena interessate ciascuna alla propria sopravvivenza e se si accanissero a lottare fra loro, immemori dello scopo comune. Il solo significato possibile che resta loro è di lavorare perché questa Terra sia salvaguardata e la promessa di Dio così adempiuta.
Gherush92
Committee for Human Rights
SPAZIO AL DISSENSO DEMOCRATICO
DURANTE LA VISITA
DEL PAPA IN SINAGOGA
Il via alla beatificazione di Papa Pacelli rappresenta il caso più grave e doloroso di antisemitismo e nel rapporto tra ebrei e cristiani dopo la shoah. La pretestuosa e assurda separazione tra giudizio storico e giudizio religioso su Pio XII, contenuta nell’ultimo comunicato del portavoce del Vaticano padre Lombardi, non calma lo sgomento, anzi lo accresce.
Separare il giudizio storico dal giudizio religioso significa confermare che santità cristiana, perfezione evangelica ed eventuali comportamenti delinquenziali possono coesistere, come è successo per numerosi santi cristiani. Fra i tanti citiamo tre esempi illustri, tutt’ora venerati: San Bellarmino che mandò al rogo Giordano Bruno, eretici ed ebrei, San Crisostomo che scrisse otto omelie contro i Giudei e Pio IX che richiuse le porte del ghetto di Roma.
Nonostante l’aspra polemica in corso a livello mondiale, il Consiglio della Comunità Ebraica di Roma in poche ore decide di accontentarsi della dichiarazione di Lombardi, di confermare la prossima visita del papa nella sinagoga di Roma e di rimandare la valutazione sul silenzio di Pio XII al giudizio degli storici.
"Il Consiglio della Comunità Ebraica di Roma, allargato alle istituzioni ebraiche italiane, ai rabbini e ai sopravvissuti ai campi di sterminio, ribadisce l’importanza del dialogo interreligioso di cui la prossima visita di Benedetto XVI alla Sinagoga di Roma e’ una tappa fondamentale. Questo evento, che gli ebrei vedono con grandi attese, non deve pero’ essere inteso come un avallo sul contenzioso storico che riguarda la scelta di silenzio di Pio XII. Si attende che la verita’ possa emergere attraverso la ricerca e la valutazione degli storici su tutti i documenti dell’epoca”.
Il Consiglio, avvalendosi del potere mediatico che gli viene accordato dalla stampa, si aggiudica il diritto di prendere una decisione per tutti, favorevoli e contrari, dopo avere consultato, a suo dire, alcuni presunti “saggi”. Non ci sembra che il Consiglio sia competente su una questione di tale rilievo e non avrebbe dovuto agire autonomamente su un tema tanto delicato, o almeno avrebbe dovuto evidenziare che esiste anche un dissenso su questo problema.
I fatti e gli eventi di Pio XII, il papa della shoah, sono tutti tristemente noti. Non esistono storici o accademici che possono dare risposta, non esiste un consiglio che possa pronunciarsi, non esistono esperti, archivi o documenti. Gli unici specialisti competenti sono le vittime e il giudizio rimane agli ebrei, nessuno escluso, insieme ai rom, agli omosessuali, alle donne e ai dissidenti che morirono o persero i loro familiari nei campi. Il giudizio rimane ai sopravvissuti, ai discendenti dello sterminio, ai milioni di morti. Teniamo presente le parole di Piero Terracina, sopravvissuto ai campi di sterminio:
“Del silenzio della Chiesa e in particolare di Pio XII ne abbiamo sempre parlato. Di una cosa resto convinto: che se quel 16 ottobre del ’43, quando avvenne la razzia degli ebrei romani dal Ghetto, quando per due giorni restarono chiusi nel Collegio militare di via della Lungara, a 300 metri dal Vaticano, il Papa fosse uscito, avesse fatto un cenno, un gesto... . Se solo avesse aperto le braccia, ... gli ebrei romani non sarebbero stati deportati. Anzi, silenzio più totale. Eppure Himmler ha atteso due giorni prima di partire, si dice che aspettasse le reazioni del Vaticano”.
L’espressione del dissenso resta così relegata alla fatica e al dolore dei singoli la cui voce non possiede i mezzi e la forza per essere ascoltata. E’ sconcertante ma sembra confermato che il 17 gennaio la sinagoga di Roma resterà aperta solo a pochi invitati “scelti” per accogliere Benedetto XVI e che questo evento significherà un’ulteriore tappa verso la beatificazione di Pio XII. Alcuni ebrei, delegando il giudizio ad alcuni storici, magari compiacenti, accettano di fatto, a nome di tutti, il processo di beatificazione e il giudizio definitivo che ne deriva.
Non è vero che la beatificazione di Pio XII è solo affare interno della chiesa. Dietro questa banale affermazione si nasconde una posizione cinica e qualunquista. La testimonianza della memoria storica è un dovere e non può essere limitata o confinata in ristretti ambiti, né mortificata da faccende mondane. Noi non vogliamo la beatificazione di Pio XII.
Chiediamo ampio e duraturo dibattito pubblico che coinvolga l’ebraismo mondiale e le voci di tutte le vittime e che sia concesso il giusto spazio per la protesta democratica durante la visita del papa.
NO ALLA VISITA DEL PAPA IN SINAGOGA
NO AL CROCIFISSO IN SINAGOGA
Sostieni Gherush92
Committee for Human Rights
gherush92@gherush92.com
Il pontificato delle precisazioni
Che cosa sarebbero mai delle virtù religiose incapaci di operare la giustizia concretamente?
di Vito Mancuso (la Repubblica, 24.12. 2009)
Un’altra piccola gaffe? Un’altra marcia indietro? Un’altra necessaria e non prevista "precisazione"? Abbiamo già assistito alla precisazione sull’islam dopo il discorso di Ratisbona. E poi alla precisazione sulla revoca della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani con le concomitanti dichiarazioni negazioniste di mons. Williamson, alla precisazione sulla preghiera del venerdì santo per la conversione degli ebrei.
Ora va forse interpretata allo stesso modo la dichiarazione di ieri della Sala stampa vaticana sulla travagliata via verso la beatificazione di Pio XII? Quello che è certo è che sei mesi fa padre Gumpel, il gesuita tedesco postulatore della causa di beatificazione di Pio XII, aveva dichiarato tra lo stupore del mondo che papa Pacelli non riusciva a salire agli onori dell ’altare perché Benedetto XVI era intimidito dalle pressioni del mondo ebraico.
Padre Gumpel naturalmente poi aveva smentito dicendo che era stato (anche lui) frainteso, e una settimana fa, quando si era venuti a conoscenza che Benedetto XVI aveva firmato insieme i decreti sulle virtù eroiche di Giovanni Paolo II e di Pio XII, l’idea che papa Ratzinger potesse essere intimorito dal mondo ebraico nella sua ferma determinazione di beatificare quanto prima papa Pacelli risultava del tutto inverosimile. Oggi però non è più così.
Oggi l’ennesima precisazione a cui è stato costretto il direttore della Sala stampa vaticana padre Lombardi a seguito delle proteste del mondo ebraico dimostra che Benedetto XVI non se la sente di ignorare la voce ebraica.
Non ne è capace? Non si sente sufficientemente forte per farlo, gestendo la beatificazione di Pio XII come un affare del tutto interno alla Chiesa, così come Giovanni Paolo II aveva gestito la beatificazione di Edith Stein (filosofa ebrea convertita al cattolicesimo, suora carmelitana col nome di Teresa Benedetta della Croce, morta ad Auschwitz nel 1943, beatificata nel 1987, canonizzata e proclamata patrona d ’Europa nel 1998) nonostante le proteste di alcuni settori del mondo ebraico?
Oppure invece Benedetto XVI ha a cuore immensamente il dialogo col mondo ebraico (il frutto più bello del Vaticano II dopo secoli e secoli di inimicizia e persecuzioni) e non lo vuole compromettere in nessun modo e per questo è propenso persino a rallentare nella sua ferma determinazione di beatificare papa Pacelli?
Chissà come stanno davvero le cose, non ci sono elementi per poter risolvere la questione, io posso solo dire che mi piace pensare che per Benedetto XVI il dialogo col mondo ebraico sia molto più importante della beatificazione di un suo predecessore. Il che, se è vero, significa che il dialogo con l’ebraismo ha per Ratzinger un valore immenso, perché non ci sono dubbi che egli voglia quanto prima giungere alla beatificazione di Pio XII e porre un altro tassello per anestetizzare del tutto il carattere innovativo del Vaticano II e le sue interpretazioni in tal senso.
Pio XII è il papa che aveva rimosso dall’insegnamento ed esiliato i teologi poi nominati periti conciliari da Giovanni XXIII e che furono l’anima del Vaticano II. La sua beatificazione corrisponderebbe a una definitiva sedazione dell’effervescenza conciliare, al compimento della restaurazione, per la gioia dei lefebvriani che finalmente potrebbero considerare il ritorno nel seno della Chiesa cattolica. E quanto questo sia nel cuore di Benedetto XVI è sotto gli occhi di tutti.
Se non ci fossero le proteste ebraiche sarebbe solo questione di pochissimo tempo, ma le proteste ebraiche ci sono e per questo le mormorazioni di padre Gumpel di sei mesi fa vanno prese molto sul serio. Ma a quale prezzo ieri è stata proposta la precisazione vaticana? Al prezzo di una duplice disgiunzione: quella pratica di Pio XII da Giovanni Paolo II nel loro percorso verso la beatificazione, e quella teologica delle virtù religiose dalle azioni concrete sul piano storico.
Sulla prima disgiunzione non c’è molto da dire se non esserne felici, se non altro per non ripetere la triste esperienza di un Giovanni XXIII beatificato insieme a Pio IX, al cui proposito invito i lettori che lo desiderassero a confrontare il "Sillabo" di Pio IX con la "Gaudium et spes" del concilio voluto da papa Giovanni per rendersi conto della abissale differenza tra i due papi.
Sulla seconda disgiunzione invece ci sarebbe molto da dire. In che senso, come scrive padre Lombardi, «la valutazione riguarda essenzialmente la testimonianza di vita cristiana data dalla persona (il suo intenso rapporto con Dio e la continua ricerca della perfezione evangelica) e non la valutazione della portata storica di tutte le sue scelte operative»? In che senso la vita cristiana non riguarda le scelte operate storicamente? Non ha insegnato forse Gesù a proposito dei profeti che «dai loro frutti li potrete riconoscere» (Matteo 7,20)? E come insegna tutta la teologia morale a partire da san Tommaso d’Aquino, la virtù non è eminentemente pratica?
Che cosa sarebbero mai delle virtù religiose incapaci di operare la giustizia concretamente? La Sala stampa vaticana ci ha proposto una inusitata distinzione, sconosciuta alla Bibbia e alla tradizione spirituale. Il papa teologo, diviso tra il desiderio di beatificare il suo predecessore preconciliare e i timori evocati da padre Gumpel, ha costretto il suo portavoce a una pericolosa e maldestra innovazione teologica
Le parole di Wojtyla contro le persecuzioni e il sogno di Toaff
di Luigi Accattoli (Corriere della Sera, 17 gennaio 2010)
C’era chi piangeva tra gli ebrei quando Wojtyla entrò nella sinagoga e a noi giornalisti maschi avevano dato la kippah da mettere in testa: sono le immagini più vive che conservo. Wojtyla e Toaff si abbracciarono due volte. Il papa chiamò «fratelli» quattro volte gli ebrei, che gli batterono le mani nove volte. La parola più importante di Giovanni Paolo fu quella con cui deplorò le «persecuzioni» che gli ebrei ebbero a subire nella storia da parte dei Papi.
Anche l’evento del 13 aprile di 24 anni fa cadde di domenica pomeriggio, come quello di oggi. Con me nella sinagoga c’era Elèmire Zolla, che era affascinato dal copricapo del rabbino e mi faceva domande alle quali non sapevo rispondere: «Incredibile, è più solenne del Papa!» Il suo pezzo per il Corriere della Sera avrebbe avuto un incipit folgorante, a ricordo di quando l’apostolo Pietro parlò per la prima volta in Roma, per l’appunto in una sinagoga e da lì «ebbe inizio il nostro ciclo storico».
Il Papa recitò il salmo 133 e il rabbino il salmo 124. «Com’è bello e com’è dolce / che i fratelli vivano insieme» disse Wojtyla. «Chiedete pace per Gerusalemme, / vivano sicuri quelli che ti amano» rispose Toaff. Non era solo la prima volta che un Papa entrava in una sinagoga, ma era anche la prima preghiera pubblica di un Papa con un ebreo. A sorpresa Giovanni Paolo chiamò «fratelli» gli ebrei, anzi: «fratelli maggiori». «Cari amici e fratelli ebrei e cristiani» disse iniziando il discorso. Poi ricordò l’apertura ai «fratelli ebrei» di Giovanni XXIII. Insistendo sul legame tra ebraismo e cristianesimo esclamò: «Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori». Infine invitò ebrei e cristiani di Roma a una convivenza «animata da amore fraterno».
Il massimo degli applausi l’ebbe quando deplorò le persecuzioni: «Ancora una volta, per mezzo mio, la Chiesa deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli ebrei in ogni tempo da chiunque. Ripeto: da chiunque». Non nominò i Papi che furono responsabili di maltrattamenti degli ebrei, ma quella ripetizione delle parole «da chiunque» stava appunto a chiarire che il riferimento era anche a loro. Poco prima, del resto, aveva parlato il presidente della Comunità ebraica di Roma Giacomo Saban ricordando i Papi che facevano bruciare i libri ebraici e Paolo IV che istituì il ghetto nel 1555, riducendo gli ebrei «a miseria economica e culturale, privandoli di alcuni dei più fondamentali diritti».
Dopo che il Papa se ne era andato, rientrando nella sinagoga Toaff si incontrò con don Vincenzo Paglia, oggi vescovo di Terni e allora parroco di Santa Maria in Trastevere: «Non sembra un sogno?» gli chiese. «E’ un sogno dal quale non mi voglio svegliare», gli rispose don Paglia.
Shoah, Pacifici: silenzio di Pio XII duole ancora
Di Segni: "Il silenzio dell’uomo non sfugge al giudizio di Dio"*
ROMA - Papa Benedetto XVI e’ arrivato, poco prima delle 16:30, al Ghetto di Roma dove, da Largo XVI Ottobre, si e’ diretto a piedi verso la Sinagoga. All’arrivo e’ stato accolto dal presidente della Comunita’ ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, e dal presidente delle Comunita’ ebraiche italiane, Renzo Gattegna.
Nel suo discorso di saluto, Pacifici ha fatto riferimento alla polemica sul processo di beatificazione di Pio XII: ’Il silenzio di Pio XII di fronte alla Shoah duole ancora come un atto mancato’. ’Forse non avrebbe fermato i treni della morte -ha detto Pacifici- ma avrebbe trasmesso, un segnale, una parola di estremo conforto, di solidarieta’ umana, per quei nostri fratelli trasportati verso i camini di Auschwitz’.
E’ la terza visita di Ratzinger ad una Sinagoga, dopo Colonia (agosto 2005) e New York (aprile 2008). La visita avviene a 24 anni dal memorabile ingresso di Giovanni Paolo II nella Sinagoga romana che, il 13 aprile del 1986, fu il primo pontefice romano ad entrare in un tempio ebraico dopo San Pietro.
Benedetto XVI, prima di entrare in Sinagoga, ha sostato davanti alla lapide che ricorda la tragica deportazione del Ghetto di Roma del 16 ottobre 1943, dove ha deposto una corona di fiori, e ha stretto le mani ai sopravvissuti dell’attentato del 9 ottobre 1982 in cui morirono 37 persone tra cui un bimbo di 2 anni.
PACIFICI: SILENZIO PIO XII DUOLE, UN ATTO MANCATO "Il silenzio di Pio XII di fronte alla Shoah, duole ancora come un atto mancato. Forse non avrebbe fermato i treni della morte, ma avrebbe trasmesso, un segnale, una parola di estremo conforto, di solidarietà umana, per quei nostri fratelli trasportati verso i camini di Auschwitz". E’ uno dei passaggi del discorso in sinagoga di Riccardo Pacifici davanti a papa Benedetto XVI. "In attesa di un giudizio condiviso, auspichiamo - ha detto ancora -, con il massimo rispetto, che gli storici abbiano accesso agli archivi del Vaticano che riguardano quel periodo e tutte le vicende successive al crollo della Germania nazista".
DI SEGNI AL PAPA, SILENZIO UOMO NON SFUGGE GIUDIZIO DIO "Il silenzio di Dio o la nostra incapacità di sentire la Sua voce davanti ai mali del mondo, sono un mistero imperscrutabile. Ma il silenzio dell’uomo è su un piano diverso, ci interroga, ci sfida e non sfugge al giudizio". Così il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, nel suo intervento nella sinagoga di Roma al cospetto di papa Benedetto XVI, con un riferimento che appare rivolto a Pio XII.
IL PAPA: LA S. SEDE AGI’ CON DISCREZIONE Papa Benedetto XVI ha ricordato la deportazione degli ebrei di Roma e "l’orrendo strazio" con cui vennero uccisi ad Auschwitz. In quell’occasione - ha detto il pontefice - "la Sede Apostolica svolse un’azione di soccorso, spesso nascosta e discreta".
PAPA: PIAGA DELL’ANTISEMITISMO SIA SANATA PER SEMPRE Possano le piaghe dell’antisemitismo e dell’antigiudaismo "essere sanate per sempre": è l’auspicio fatto da papa Ratzinger nel discorso alla Sinagoga di Roma. Benedetto XVI ha ricordato come la Chiesa non abbia mancato di deplorare le "mancanze dei suoi figli e sue figlie, chiedendo perdono per tutto ciò che ha potuto favorire in qualche modo le piaghe dell’antisemitismo e dell’antigiudaismo".
Il "dramma singolare e sconvolgente della Shoah" rappresenta "il vertice di un cammino di odio che nasce quando l’uomo dimentica il suo Creatore e mette se stesso al centro dell’universo". Lo ha affermato Benedetto XVI nel suo discorso pronunciato nella Sinagoga di Roma.
DI SEGNI, VISITA HA RASSERENATO CLIMA - Il risultato della visita del Papa in sinagoga è, secondo il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, "decisamente positivo, ma dovremo rifletterci ancora". "Penso che il Papa, nel suo intervento - ha commentato durante una conferenza stampa svoltasi subito dopo - abbia detto cose molto importanti e contribuito a rasserenare l’atmosfera".
Il papa in sinagoga
di Piero Stefani
in “Koinonia-Forum” n. 185 del 27 gennaio 2010
La visita di Benedetto XVI al Tempio maggiore di Roma ha fornito un contributo decisivo a inscrivere nella prassi l’atto da parte dei papi di recarsi alla principale sinagoga della città di cui sono vescovi. La scelta della comunità ebraica romana (ricordata da Rav Di Segni nel suo discorso) di allestire una mostra dedicata ai pannelli settecenteschi con cui gli ebrei erano costretti a salutare il pontefice appena eletto nel suo percorso verso san Giovanni in Laterano appare, perciò, felicemente simbolica. A partire dalla svolta conciliare, si è progressivamente affermato un rovesciamento grazie al quale tocca al vescovo di Roma dare un omaggio non forzato alla comunità ebraica della sua città. Il semplice fatto di aver varcato la soglia del Tempio maggiore diviene, in Benedetto XVI, conferma piena della irreversibilità del cammino intrapreso con il Vaticano II.
La visita ha ribadito l’accettazione piena dell’esigenza, più volte ricordata da parte ebraica, secondo la quale il dialogo si svolge fra soggetti di pari dignità. Ciò è reso possibile solo riferendosi a qualcosa di comune. In questa luce va colto il richiamo ai Dieci Comandamenti (o Dieci Parole come ha ripetuto più volte il papa rifacendosi all’uso ebraico) declinati soprattutto in relazione a tre aspetti comuni: la lotta contro l’idolatria (e sullo sfondo di ciò va tenuta presente anche la denuncia dell’aberrazione nazista), la protezione della vita e la santità della famiglia. Ancor più corale è stato poi il richiamo all’impegno per la salvaguardia del creato. Su questo fronte la comune eredità biblica può giocare un ruolo di riferimento non ambiguo. Anzi, su queste basi, è ben ipotizzabile un allargamento nei confronti dell’islam o meglio di quelle sue componenti (alcune delle quali presenti per la prima volta tra gli ospiti della sinagoga) che accettano il confronto positivo con tradizioni, come quella ebraica e cristiana, che si presentano sempre più come custodi dell’antico ethos occidentale.
L’aver assunto questa linea ha condotto Benedetto XVI a riconquistare credito agli occhi degli ebrei e ad attenuare le punte polemiche legate sia alla nuova formulazione della preghiera del Venerdì Santo nel messale latino di Pio V, sia al processo di beatificazione di Pio XII. Il recupero di questa atmosfera più distesa ha però comportato il pagamento di alcuni prezzi, ivi compreso il consapevole mancato chiarimento di alcuni punti che, posti temporaneamente sotto il moggio, potranno, forse, riemergere in futuro e dar luogo a nuovi equivoci.
La volontà di presentare la visita come una normalizzazione ha condotto inevitabilmente alla precomprensione che essa fosse percepita da tutti sotto l’ombra protettiva di quella storica compiuta da Giovanni Paolo II nel 1986. Il richiamo in tale direzione è stato esplicito ancor prima che iniziassero i discorsi, (tutti peraltro concordi nel richiamarla). A renderlo evidente è stato l’incontro, avvenuto prima dell’ingresso nel Tempio, tra Benedetto XVI e il novantacinquenne rav Elio Toaff. Quel gesto ha assunto il ruolo quasi di chiave ermeneutica di tutto quanto sarebbe avvenuto dopo.
La visita di papa Ratzinger avrebbe potuto assumere un significato in se stesso pienamente storico solo se egli avesse rivendicato a se stesso a pieno titolo la propria appartenenza alla Germania. Se Benedetto XVI avesse imboccato questa via, egli non sarebbe stato colto come il secondo papa che visitava la sinagoga di Roma, ma come il primo papa tedesco a farlo. Questa linea però avrebbe comportato la scelta di affrontare senza reticenze il tema complesso e ambiguo dei rapporti tra Chiesa cattolica e regime nazista. A distanza di molti decenni, appare infatti sempre più netto che il giudizio sull’ideologia nazista espresso dalla Chiesa cattolica negli anni trenta non risolve in sé il problema dei rapporti effettivi sempre e comunque intrattenuti dalla S. Sede con il Terzo Reich.
Ogni discorso storico su Pio XII può sensatamente avvenire solo tenendo conto di questa parziale divaricazione. Situazione che non viene certo risolta appellandosi all’opera, unanimemente riconosciuta, di aiuto agli ebrei compiuto a opera di molti cattolici.
Benedetto XVI ha preferito non imprimere un forte segno personale sulla visita. In un certo senso, egli, per far crescere il dialogo tra ebrei e cristiani, ha voluto presentarsi come un semplice anello di una catena aperta in avanti. Per far ciò ha accettato che le due religioni fossero declinate in modo tale da confermare le loro identità attuali, fatto rivendicato con un certo orgoglio da parte ebraica, specie in relazione a un dichiarato aumento della pratica religiosa nel proprio seno. In particolare, non si è alzata alcuna parola precisa da parte del papa nei confronti della piena identificazione ebraica con lo Stato d’Israele. Questa posizione è stata articolata in linguaggio religioso da rav Di Segni - il quale ha giudicato lo stato una conseguenza diretta delle promesse bibliche - e in chiave politica (connotata in modo palesemente antislamico) dal presidente della comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici. In questo contesto, Benedetto XVI ha opportunamente richiamato l’appello alla pace da lui effettuato nel corso del suo viaggio in Israele nel maggio scorso; ma non ha detto nulla nei riguardi della distinzione tra promessa della terra e forma stato che pur si presenta conforme tanto all’autentica eredità biblica quanto alle stesse modalità in cui è avvenuto il riconoscimento dello stato d’Israele da parte della Santa Sede. Né il papa si trovava nelle condizioni di pronunciare parole precise sulla condizione dei palestinesi sia per denunciare le loro, spesso, drammatiche condizioni di vita, sia per alludere ai processi di degenerazione civile e politica presenti nell’intera area.
Il prezzo più significativo pagato da Benedetto XVI è stato però il suo silenzio teologico sui punti che da parte ebraica sono considerati limiti invalicabili per l’effettuazione dei dialogo. Si tratta in pratica proprio della questione, di cruciale importanza, che sta dietro alla formulazione della preghiera per gli ebrei contenuta nella liturgia latina del Venerdì Santo. Il problema in effetti non è quello della conversione intesa come invito agli ebrei di entrare nella Chiesa, ma quello di come affermare tanto l’azione universale di salvezza compiutasi in Gesù Cristo, cuore dell’annuncio evangelico, quanto il fatto che l’alleanza tra Dio e il popolo di Israele è perenne. Si tratta di un tema antico e contemporaneo, ma sconosciuto per tutti i lunghi secoli in cui la Chiesa ha pubblicamente dichiarato la revoca dell’alleanza e la possibilità di coniugare solo in un remoto passato l’elezione d’Israele. Temi di non minor difficoltà emergono in relazione ai rapporti tra i due Testamenti. Ratzinger ha più volte ripetuto che l’Antico Testamento non sarebbe un testo cristiano se non parlasse di Cristo. Sotto la cupola azzurra del Tempio maggiore doveva avvolgere questa sua convinzione nel silenzio.
Tutte le valutazioni fin qui compiute hanno una loro peso e una loro pertinenza; resta comunque la sensazione che, di fronte ai discorsi pronunciati domenica scorsa, alto sarebbe stato lo sconcerto di una persona mossa dalla convinzione - in linea di principio ben fondata - stando alla quale ebraismo e cristianesimo siano due religioni messianiche.