L’invenzione dell’altalena che salvò le ragazze di Atene
di Eva Cantarella (Corriere della Sera, 28.08.2010)
Pochi giochi ci hanno reso felici, nell’infanzia, come l’altalena: la sensazione di volare, di toccare il cielo, il vento tra i capelli... Un gioco semplice, universale. Vien fatto di pensare che sia sempre esistito. Ma i greci non la pensavano così. L’altalena, per loro, aveva un luogo e un momento di nascita ben precisi, e anche, quantomeno ad Atene, una importantissima funzione sociale. A raccontarci quale fosse questa funzione è, come sempre, un mito. Nella specie, un mito poco noto, ma legato a uno celeberrimo: quello degli Atridi raccontato da Eschilo nell’Orestea.
La perfida Clitennestra, che d’accordo con il suo amante Egisto ha ucciso il marito Agamennone, viene uccisa dal figlio Oreste, che vuole - e nella mentalità dell’epoca deve - vendicare il padre. Ma, anche in quel mondo, il terribile mondo della vendetta, il matricidio è una colpa inespiabile.
Perseguitato dal rimorso Oreste fugge, inseguito, oltre che dalle Erinni che vogliono fargli pagare il terribile gesto, anche dalla sorellastra Erigone, la figlia che Clitennestra ha avuto da Egisto.
Ma quando giunge ad Atene Oreste viene assolto: «Il vero genitore - decreta la dea Atena, esprimendo quel che pensavano se non tutti, quantomeno molti greci - non è la madre, bensì il padre». A questo punto Erigone, disperata, si impicca. Senonché, quando la notizia si sparge, le vergini ateniesi, come se fossero state contagiate, prendono a impiccarsi in massa. La città rischia di estinguersi.
Preoccupatissimi, gli ateniesi si precipitano a interpellare l’oracolo di Apollo, che suggerisce un rimedio: basta costruire delle altalene, così che le ragazze possano dondolarsi nell’aria, come quelle che si impiccano, ma senza perdere la vita. La città è salva, gli ateniesi sono felici, le ragazze ateniesi ancor più di loro, e l’altalena diventa il gioco preferito delle ragazze di tutti i tempi.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IN NOME DELL’EMBRIONE, UNA VECCHIA E DIABOLICA ALLEANZA
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?!
FLS
Classici.
Aristofane, la satira declinata al femminile
Una nuova edizione di “Lisistrata” curata da Perusino e tradotta da Beta è l’occasione per evidenziare come il grande autore greco metta in scena le donne con credibile efficacia
di Rosita Copioli (Avvenire, sabato 30 gennaio 2021)
Non c’è un’opera di Aristofane che non sia intrisa di una profonda passione civile e politica, nel senso più autentico dei termini. Perfino le più aeree, a fantasia sfrenata, le più surreali e metafisiche e mitiche, come le Nuvole o Gli uccelli, sono le satire più sorprendenti che siano state inventate nel gioco del paradosso: una reazione a catena che non finisce mai, di fronte all’assurdità, alla stupidità, all’egoismo, al sopruso dei singoli, delle città, di quella Atene che in perenne lotta contro Sparta sta vorticosamente precipitando verso l’auto-annientamento con la guerra del Peloponneso: dissidi interminabili, rotazioni di regimi demagogici e oligarchici, altro che democrazia, sanguinose battaglie, perdite di libertà, pur essendo scampati dall’invasore persiano grazie all’eroico sforzo comune, ma pronti a finire in bocca ai macedoni.
Quello di Aristofane è un mondo plurale, un brulichio di voci, di caratteri, a specchio della società contemporanea, che più sono parossisticamente aderenti alla realtà, più viaggiano verso l’universale. Aristofane, un genio del realismo fantastico, che usa la parodia con l’esuberanza e la disinvoltura di chi sa muoversi tra cielo e terra, tra l’infimo e l’altissimo, con la pesantezza e la leggerezza che solo il teatro di Shakespeare potrà avere. Lo guidava il senso dell’unità, del principio, dell’ordine, del piacere e della bellezza, tutti nascosti, proprio segreti, nello straripante mondo che raffigurava portando sempre all’estremo ogni tensione, ogni plurale possibilità.
Le tre commedie di Aristofane che hanno protagoniste le donne, scritte dal 411 al 391, sono al plurale. Contemporanea alle Tesmoforie (411) e pur avendo una protagonista guida, anche Lisistrata mette in scena un intero genere ( Valla Mondadori, ottima cura di Franca Perusino, efficace traduzione di Simone Beta: pagine 350, euro 50). Se dagli Acarnesi e dalla Pace Aristofane percorre tutte le strade per illustrare l’insensatezza comune che lo farà volare attraverso le Nuvole, e con gli Uccelli per descrivere i sofismi che sgretolano il buon senso e per colpire perfino Socrate; se si innalza in utopie e ribellioni e fughe del mondo fino a Nubicuculia, come il miglior antenato di Swift - mentre scenderà fin nell’Ade con Dioniso per riportare la poesia dell’odiosamato Euripide e di Eschilo sulla terra rovinata - con la trilogia al femminile Aristofane compie un viaggio altrettanto u- topistico e impercorribile: quello delle Amazzoni, o del governo femminile, in una escalation inarrivabile sotto tutti gli aspetti della immaginazione reale, fisica e prorompente, con le ali di quel dio Riso al quale credette Apuleio, e che Fellini onorò sempre, rinominandolo apposta nel Satyricon.
Nelle Tesmoforie il bersaglio femminile è un Euripide che ne mostrerebbe troppi difetti, ma poi se ne esce con la sua Elena in palinodia, e il gioco aggressivo finisce con un ritorno a casa, nell’ordine primitivo. Lisistrata bersaglia la dissennata litigiosità dei maschi guerrafondai, che più sono sobri e razionali, più trovano pretesti e cavilli di guerra, mentre la grande, saggia ebbrezza dionisiaca, di cui le donne sembrano le segrete protettrici, con il loro piacere inebriante, porta una sapienza superiore, la conciliazione e quella pace ’irragionevole’, che è l’unica via per la salvezza.
Perciò usano a ricatto l’estremo rimedio, quello dell’astensione dal sesso - e, se costrette, dal piacere - chiamando tutto il genere femminile delle città nemiche, Atene e Sparta, a giurare il patto di astinenza che dispiace a loro stesse, ma costringerà gli uomini a cessare la loro bellicosità, in nome del theleian kyprin, il piacere femminile, l’estasi dei riti della notte, sacri ad Afrodite. Come nelle Tesmoforie, la volgarità e l’oscenità si sfrena: cori di vecchi che portano il fuoco contro cori di vecchie che minacciano d’inondarli d’acqua per impedirgli di riprendere l’Acropoli di cui si sono impossessate con il tesoro che serve alla guerra, tra gli insulti e le scene più volgari, i quadri esilaranti della frustrazione del desiderio sceneggiati dalla coppia di Cinesia e Mirrina, e l’incontro degli ambasciatori resi impotenti dallo stesso urgere del loro classico strumento di potenza, il fallo. Lisistrata vincerà, anche sulle sue stesse amiche che non reggono la prova e tentano di defezionare con pretesti ridicoli; fiera di essere nominata con il proprio nome, per la virtù di un amore di patria superiore, con la splendida educazione che lei e le compagne hanno ricevuto. È riuscita a evitare la guerra. Ritorna all’ordine che accetta.
Come scrive Franca Perusino, « Lisistrata è una commedia al femminile, non una commedia femminista». Pochi anni dopo, nel 391, in quell’Atene decaduta e turpe, che le ombre di Eschilo e Sofocle, di Socrate e Platone hanno disertato, Le donne all’assemblea si spingeranno oltre. Le donne mascherate da uomini conquistano la maggioranza e impongono il comunismo, economico ed erotico. I giovani, prima di accoppiarsi con le coetanee, devono soddisfare le vecchie. È il trionfo della parodia più travolgente, che non risparmia nulla, nemmeno l’oscenità, le idee, il senso del mondo, lo stesso autore.
Certo, Aristofane non può accarezzare un pensiero femminista. Ma pur seguendo la molteplicità e la mutevolezza delle Nuvole, lo concepisce: non possiamo non vedere che queste commedie al femminile sono quanto di più ardito sia stato immaginato nei secoli. Di recente, l’ornitologo Richard O. Prum nell’Evoluzione della bellezza (Adelphi) cita l’esempio di Lisistrata per sostenere che l’evoluzione estetica, non quella adattativa, conta di più, ed è stata messa in atto dal genere femminile, anche per fare smorzare al partner maschile l’aggressività.
La scelta estetica non è tanto quella visiva, quanto quella legata alla sinestesia del piacere. Come sostiene Lisistrata, se le donne dovessero subire l’atto sessuale e non partecipassero col loro stesso piacere, gli uomini se ne stancherebbero presto. La reciprocità dell’eros, sostenuta in concordia da Lisistrata e dall’etologo Prum sembra ovvia e naturale, ma, chissà perché, nei secoli non tutti l’hanno pensata così. Anzi! L’aveva pensato il meraviglioso Aristofane, l’unico a cui Platone nel Simposio fa spiegare l’eros col mito degli esseri sferici primordiali, tragicamente segati in due da Zeus per la loro superbia, le cui metà non finiscono di attrarsi da allora, in conflitto.
NEL REGNO DI EDIPO: "L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE", L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO... *
Appello di una femminista alle donne cristiane che sono contro il Congresso mondiale delle famiglie
di Luisa Muraro (Libreria delle donne, 29 Marzo 2019) *
Care amiche, vorrei sottoscrivere il vostro Appello contro il Congresso delle famiglie a Verona. Sono d’accordo con quello che dite, in primo luogo che la famiglia non è un’entità naturale ma un’istituzione culturale, che quasi sempre mostra una forte impronta patriarcale.
A me e a voi, suppongo, è chiaro che prima della famiglia, comunque intesa, c’è la diade formata da una donna e dalla creatura che lei ha concepito e portato al mondo. È un rapporto molto speciale, che precede i dualismi tipici della cultura maschile: la donna che accetta di entrare nella relazione materna, alla sua creatura dà la vita e insegna a parlare, le due cose insieme. Ed è un “insieme” che si tende, come un ponte insostituibile, sopra l’abisso della schizofrenia umana.
Vorrei ma non posso sottoscrivere il vostro Appello perché, nella difesa delle nuove forme familiari, non c’è una critica di quelle che si costituiscono da coppie che, sfortunatamente o naturalmente sterili, invece di adottare, si fanno fare la creatura a pagamento.
Da donne cristiane, mi aspettavo una calorosa difesa dell’adozione e un’energica richiesta della sua estensione a persone e coppie finora escluse dalla legge. Ma, ancor più, essendo voi donne, mi aspettavo una difesa della relazione materna libera e responsabile così come oggi è diventata possibile. Invece, parlate solo di genitorialità, usate cioè una parola tipica del linguaggio neutro-maschile. E a voi che parlate del corpo femminile come luogo di spiritualità incarnata, chiedo: che famiglia è mai quella che nasce con il programma esplicito, messo nero su bianco, di cancellare la relazione materna che si sviluppa con la gestazione in un intimo scambio biologico e affettivo?
Voi, a differenza di tanti cattolici, leggete la Bibbia e sapete che la cosiddetta gravidanza per altri, ossia la donna che partorisce senza diventare madre, corrisponde pari pari ad antiche usanze del patriarcato, usanze che sembravano superate. Le ultime pagine del Contratto sessuale di Carole Pateman, parlano proprio di questo sostanziale arretramento. Detto alla buona, ci sono “nuove” famiglie che di nuovo hanno solo la tecnologia.
A proposito: che cosa pensano di tutto questo gli uomini vicini a voi, i vostri compagni di fede e d’impegno politico? Perché non compaiono nel vostro Appello? Mi è venuto un sospetto, di ritrovarmi davanti a quel noto comportamento maschile che è di nascondersi dietro a una o più donne quando si vuol far passare pubblicamente qualcosa che è contro le donne. Devo portare degli esempi? Ma, se questo non fosse vero, scusatemi.
* www.libreriadelledonne.it, 29 marzo 2019
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Cultura e civiltà. L’ordine simbolico della madre.....
NEL REGNO DI EDIPO. L’ordine simbolico di "mammasantissima"
"L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE": L’ALLEANZA CATTOLICO-"EDIPICA" DEL FIGLIO CON LA MADRE!!!
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
DOC.
APPELLO DI DONNE CRISTIANE CONTRO IL CONGRESSO MONDIALE DELLE FAMIGLIE
Le donne presenti all’incontro nazionale sul tema “I nostri corpi di donne, da luogo del dominio patriarcale a luogo di spiritualità incarnata” (Roma dal 22 al 24 marzo 2019 - Casa Internazionale delle donne), manifestano il profondo sconcerto per il sostegno che alcune Istituzioni politiche e religiose hanno dato al Congresso mondiale delle famiglie, che vuole riportarci su posizioni retrograte e omofobe.
Siamo donne che da molti anni hanno intrapreso un percorso per liberarsi dalle gabbie di un sistema religioso, sociale e politico, impregnato di patriarcato.
Quanto lavoro per uscire da un mondo di istituzioni, di segni, di linguaggi che continuamente riproducono una immagine stereotipata della donna “sposa e madre”, una disparità di poteri, di diritti, di autorevolezza.
Che tristezza adesso constatare che alcune Istituzioni pubbliche patrocinano un Congresso mondiale sulla famiglia impropriamente definita “naturale”.
C’è ben poco di naturale in questa istituzione sociale fondata sul matrimonio nata come forma di contratto sociale e religioso, in un determinato contesto storico.
La famiglia “naturale” non esiste, esiste una struttura familiare che ha dato molto alla società, ma che ora è in crisi e in cambiamento. Non serve uno sguardo nostalgico al passato, serve il coraggio di dire che possono esistere vari modelli di famiglia che sperimentano forme anche nuove di solidarietà, genitorialità basate sull’amore e il rispetto reciproci.
Denunciamo che gli slogan utilizzati e gli obiettivi proposti sono la quint’essenza del dominio patriarcale, responsabile della violenza sulle donne, di cui ci siamo liberate e di cui non vogliamo il ritorno.
Chiediamo quindi che le istituzioni pubbliche non finanzino e non diano il patrocinio a iniziative discriminatorie e intolleranti.
Diritto & mito
Edipo e l’equilibrio di poteri
di Mauro Campus (Il Sole-24 Ore, Domenica, 20.05.2018)
Interrogare i classici per meglio interpretare la contemporaneità è uno degli esercizi cui ogni società matura dovrebbe rivolgersi costantemente. Il nostro rapporto con le radici del pensiero moderno dovrebbe essere automatico perché esse riflettono le caratteristiche delle comunità che nei secoli si sono fondate guardandole. Per i popoli che si sono culturalmente legittimati sul repertorio mitografico fluito dalle esperienze che i classici riassumono e riordinano, tale esercizio è saldato a basilari caratteri identitari. Da questa consapevolezza nasce l’esigenza di due giuristi come Marta Cartabia e Luciano Violante di misurarsi con Edipo, Antigone e Creonte. Com’è intuibile, l’analisi proposta, pur accarezzando a tratti l’approccio filologico, non ha alcuna pretesa di spiegare nuovamente l’enorme messe di riferimenti all’ordine sociale che i miti sintetizzano, si propone piuttosto di indagare le intersezioni fra quei riferimenti e la percezione contemporanea della giustizia e di un efficiente ordine sociale. Si tratta di un ragionamento la cui curvatura riflette la vita professionale dei due autori, i quali hanno sperimentato e sperimentano i dilemmi che un alto ufficio istituzionale pone.
Per quanto Cartabia e Violante riconducano l’analisi al piano giuridico presentissimo in Edipo Re e Antigone, il montaggio del loro ragionamento finisce per incrociare - seppur per allusione - l’attualità politica che, vista da quella prospettiva, richiama le evidenti incrinature dell’equilibrio dei poteri che connotano lo stato di salute della democrazia e della rappresentanza. Si tratta di temi che, sebbene i due saggi (Edipo Re di Cartabia, Antigone di Violante) si tengano correttamente lontani dall’oggi, lo descrivono però con perfezione adamantina. Ma il tentativo di non cadere nell’esplicitazione dei richiami al presente è in realtà limitato dall’universalità dei personaggi e delle vicende affrontate nelle due conversazioni.
Il perimetro in cui si articola la riflessione parallela dei due autori è definito dal conflitto tra legge umana e legge divina, tra coscienza individuale e ragion di Stato. Questa è la quinta con cui i due testi stabiliscono una dialettica che guarda i modi attraverso i quali la società occidentale si è costruita, riconosciuta e, poi, è entrata in una crisi che pare a tratti irreversibile, specie quando ancora si confronta con la contrapposizione che dovrebbe immaginarsi superata: quella tra lex e ius. E se Antigone è da sempre un interlocutore privilegiato di chi ne ha osservato la dimensione giuridica, invece i riferimenti all’equilibrio dei poteri e ai dilemmi con i quali chi governa dovrebbe dialogare sono presentissimi in Edipo. Egli è un monarca posto dinanzi alla rovina della città che regge, Tebe, dopo l’assassinio del padre e l’incesto con la madre. È quel crimine che lo colloca al centro di un complesso gioco dei punti di vista, delle ottusità, degli arcani, delle riluttanze dei protagonisti. È il conflitto tra la legge degli avi e la nuova legge della città: un conflitto irrisolto nel V secolo a.C. che ricorda le linee di faglia che la crisi delle democrazie fa sperimentare agli evolutissimi regimi capitalisti contemporanei.
Con il tempo la tendenza a identificare ciò che è buono e giusto con ciò che è consentito dalla legge e ciò che è male con quello che la legge proibisce ha costruito l’identità dell’Occidente e ha alimentato la fiducia nelle virtù del sistema democratico. Un sistema che ha fatto superare la condizione di coro al popolo e lo ha reso cittadino e attore. Ed è da cittadini che ci sentiamo sollevati dalla responsabilità personale di decidere che cosa è buono e che cosa non lo è, ma è nell’esperienza della cittadinanza - pure così confortevolmente mediata - che torna centrale il dilemma tra ciò che è religione, ciò che è morale e quello che il diritto può regolare.
Il limes tra queste realtà appare ancora incerto e problematizzato dall’assenza di entità divine capaci di comporre conflitti apparentemente insanabili. Comporre quelle distinzioni ed equilibrarle è però necessario alla civiltà. Sono gli uomini che ora devono - attraverso la mediazione - conciliare tendenze potenzialmente conflittuali e quindi interpretare (o reinventare) lo spirito con cui Atena convinse le Eumenidi a partecipare alla vita della città. Fu quello il modo per interrompere i loro incantesimi e garantire l’edificazione di un futuro florido.
Eva Cantarella
Padri che dominano troppo
di Nicola Gardini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 13.03.2016)
Admeto, come leggiamo in Euripide, aveva ottenuto dagli dèi di poter evitare la morte nel caso in cui qualcuno si offrisse al suo posto. Il giorno arrivò e si offrì l’irreprensibile moglie, Alcesti. I genitori, benché anziani, si guardarono bene dal sostituirsi a lei. Al funerale Admeto li rinnegò entrambi. Alcune delle parole rivolte al padre sono diventate il titolo dell’ultimo saggio di Eva Cantarella Non sei più mio padre, pubblicato da Feltrinelli. È un proclama rivoluzionario: la biologia, che non è certo riscrivibile, qui si dà per convenzione, per pratica sociale, per politica. E davvero Eva Cantarella mostra che il rapporto padre-figlio o, più latamente, tra generazioni nella Grecia antica è questione di potere; vale come istituzione giuridico-economica prima ancora che legame d’amore o esperienza affettiva.
I padri dominano, i figli subiscono. Se fanno di testa loro, sono semplicemente disobbedienti, non significa che siano artefici del proprio destino (come, invece, i figli scapestrati dei moderni romanzi di formazione). La relazione paternalistica si mantiene più o meno incontestata, almeno sulla base delle testimonianze pervenuteci, dal periodo arcaico a quello della morte di Socrate. Padri dominatori, perfino uccisori dei propri figli compaiono nella mitologia delle origini, che si fonda, guarda caso, proprio sul racconto di una competizione padre-figlio (Urano-Crono). Il figlio può, con un castrante falcetto, prevalere, ma sarà a sua volta padre dominatore. Anche Zeus ha la meglio su Crono. Sebbene con lui, finalmente, la catena di violenza familiare si interrompa, Zeus continua ad avere autorità assoluta sui figli; il suo potere paterno non si mette in dubbio. E così non si mette in dubbio quello di Odisseo.
Molti, valutando i fatti dell’Odissea, parlano di una maturazione di Telemaco. Eva Cantarella dimostra che Telemaco resta figlio e basta; quel che fa lo fa perché così vuole il padre. Lo stesso vediamo nella tragedia, in cui si esprime la voce della nuova polis. Già ho citato il caso di Admeto. Si pensi anche all’emblematico caso di Ippolito, che soccombe alla maledizione del padre, o a quello di Oreste, che si fa matricida per vendicare il padre. Insomma, il figlio sta per il padre, o sottostà al padre. E quando, come Edipo, si affranca da lui con la violenza, non trova alcuna felicità.
Le prime vere contestazioni del modello tradizionale, come risulta dalla commedia di Aristofane, cominciano solo verso la fine del quinto secolo, quando Atene, per effetto della guerra, entra in crisi e i figli cercano di ridefinire le proprio ragioni e funzioni, anche prendendo i padri a sberle. Da padre adesso fa uno come Socrate: un padre elettivo, che decostruisce qualunque rapporto di potere, autorizzando l’indipendenza e l’autosufficienza intellettuale del figlio. E immagine del nuovo figlio è, pur con tutti i suoi lati riprovevoli, un Alcibiade: ubriaco di troppa libertà, reso arrogante proprio dall’amore di Socrate, disobbediente e irriverente per principio, trionfante nella catastrofe.
Non sei più mio padre, che presto verrà completato da una seconda parte su Roma, aggiunge un sostanziale capitolo al racconto della civiltà antica che Eva Cantarella va componendo con sapienza e con eleganza da molti anni. I meriti del suo metodo sono grandi: rigore nell’utilizzo delle fonti (letterarie e no), chiarezza nella presentazione degli argomenti anche più ardui, una lucidità critica che, tendendo alla condensazione, sa però illuminare la complessità dei contesti, anche quando sfumino nel buio dell’indocumentabile. Un’altra cosa degna di lode: qui non si cade mai nella trappola dell’attualizzazione. Lo sguardo resta fermamente, scientificamente storico, come già nelle altre bellissime indagini sull’omosessualità e sulla donna per le quali Eva Cantarella è diventata celebre.
Tuttavia il lettore non può non sentire che la trattazione di temi come questi, che parlando di identità e di responsabilità, di giustizia e di benessere sociale, risponde a interrogativi e a problemi attualissimi. Finito di leggere Non sei più mio padre, dobbiamo domandarci: Chi sono i padri oggi? E i figli? I politici, lo sappiamo, stanno cercando di dare risposte e qualche felice soluzione sembra già a portata di mano (la legge Cirinnà). Pensiamoci tutti a queste domande. Ci troviamo davanti a grandi e concrete occasioni di rinnovamento, come ai tempi di Socrate. Possiamo tutti riformarci come padri e come madri, favorendo la crescita e la libertà e l’uguaglianza. Non costringiamo le nostre società all’ennesima dose di cicuta.
Johann Jakob Bachofen
La monumentale ricerca del giurista e antropologo svizzero torna in una nuova edizione senza perdere il suo fascino originario
Il padre del matriarcato
Tradusse leggi, indagò miti, lesse documenti. Così il genio di Bachofen svelò al mondo l’antico diritto e il potere storico delle donne
di Emanuele Trevi (Corriere della Sera, La Lettura, 31.01.2016)
Quando pubblicò Il matriarcato, nel 1861, Johann Jakob Bachofen, svizzero di Basilea, aveva appena superato i quarantacinque anni: età più considerevole ai suoi tempi che oggi, ma nemmeno a quei tempi veneranda. Era il rampollo di una delle più insigni (e ricche) famiglie patrizie della sua città, e fin da giovane si era consacrato a studi severissimi, nelle migliori università tedesche ed europee, diventando precocemente uno dei massimi esperti del diritto romano. Aveva a sua volta insegnato, e ricoperto importanti cariche di magistrato, come volevano le tradizioni del suo ceto. Ma era libero di vivere seguendo esclusivamente le sue inclinazioni, e finì per dedicarsi esclusivamente alla sua fame di sapere, e alla passione per i viaggi.
Spirito laborioso e metodico, la sua erudizione in fatto di storia antica, archeologia, mitologia divenne immensa. I paesaggi della campagna romana o del Peloponneso non erano diversivi turistici, ma occasioni per affinare e precisare le sue conoscenze storiche. È difficile fare illazioni sull’uomo capaci di perforare la severa dignità delle apparenze. Che si sia sposato solo a cinquant’anni, dopo la morte della madre amatissima, è un fatto che non può essere interpretato con i maliziosi criteri odierni.
Anche a guardare i suoi ritratti, che sembrano l’esatto contrario dell’immagine dell’artista romantico, sarebbe impossibile sospettare in Bachofen uno spirito talmente geniale e visionario da rasentare la follia. Di sicuro, durante la lunga fatica che doveva portarlo alla pubblicazione del Matriarcato , il suo entusiasmo era nutrito dalla consapevolezza di una scoperta capace di rivoluzionare tutto ciò che si sapeva sulla storia del mondo greco-romano, e più in generale delle antiche civiltà mediterranee. Non era il solo uomo del suo tempo ad avere accumulato un sapere quasi inconcepibile per un singolo individuo. Ma un erudito, di per sé, è solo il proprietario di un’immensa massa di macerie, informe e tarlata di contraddizioni. Pochi sono in grado di compiere quel salto mortale che solo può condurre dal sapere al comprendere. E ancora minore è il numero di coloro a cui tocca in sorte il pensare qualcosa che nessuno ha mai pensato prima.
Nonostante la compostezza dello stile, alieno da inutili effusioni, queste emozioni trapelano nitidamente nelle prime righe del Matriarcato , ora riedito da Einaudi, che sono la promessa di un viaggio mai tentato dallo spirito umano. «La presente opera affronta un fenomeno storico di cui pochi tennero conto e di cui nessuno valutò a fondo la portata. Le scienze che studiano l’antichità hanno continuato a ignorare fino ad oggi il diritto materno: nuova è tale espressione, e sconosciuta è la condizione familiare che essa designa».
Ecco l’oggetto misterioso, o meglio la chiave d’accesso al mistero che è la nostra storia, quando cerchiamo di decifrarne le origini. Noi diamo al capolavoro di Bachofen un titolo, Il matriarcato , che rende omaggio alla sua idea più memorabile e affascinante. Ma il titolo originale è Das Mutterrecht , ovvero il diritto materno. Il matriarcato o la ginecocrazia, ovvero «il potere delle donne», non è un’oscura favola, ma una fase capitale della storia umana. Un’epoca in cui la madre prevale sul padre nel sentimento dell’esistenza, così come è testimoniato dai miti, dai racconti degli storici, dalle leggi.
Per ricostruire quest’epoca dimenticata, Bachofen passa al vaglio, con sovrumana pazienza, le migliaia di testimonianze che ha raccolto (a un certo punto, appare anche una poesia del «conte Leopardi»!). Erodoto racconta che gli abitanti della Licia ereditavano il nome della madre e si trasmettevano i beni in linea femminile. Non è la notizia bizzarra di uno storico curioso di costumi esotici, ma la tessera di un immenso puzzle le cui tessere sono sparse su tutte le rive del Mediterraneo. Il potere delle donne è un istituto giuridico e nello stesso tempo un sistema simbolico, un’interpretazione totale della vita, una religione. La mano sinistra prevale sulla destra, la notte sul giorno, la luna sul sole. Dei fratelli, è l’ultimo nato il più importante. Tra gli esseri viventi prevale un senso di pace e fratellanza, conseguenza della consapevolezza di essere generati dalla stessa terra e di dover presto ritornare, con la morte, nel suo grembo.
Bachofen immaginò quest’epoca della storia umana con tanta intensità che ne immagino addirittura il paesaggio fisico, nel quale la vegetazione palustre, simbolo della spontaneità della vita, soverchiava i campi arati. Il fatto è che Bachofen, e proprio in questo consiste il fascino indelebile delle sue pagine, non distingue un mito da una legge, la testimonianza approvata di uno storico dalla decorazione di un vaso o di una tomba. Non ci sono documenti antichi più o meno «veri» di altri. Esistono solo modi diversi di tradurre la stessa esperienza umana. Anche le parole di un eroe di Omero sono un documento storico.
In una pagina che meriterebbe di figurare in tutte le antologie della prosa, Bachofen interpreta alla luce del diritto materno un bellissimo e celebre episodio dell’ Iliade. Prima di affrontarlo in duello, il greco Diomede chiede al suo avversario, Glauco, notizie sulla sua stirpe. Diomede è un greco, figlio di una cultura patriarcale, fondata sulla discendenza dai padri e sulla sottomissione della donna. Per lui è naturale chiedere cavallerescamente al nemico chi sia suo padre. Ma Glauco è un Licio. E gli risponde da Licio. In pratica, dichiara a Diomede che la sua domanda è insensata, dal suo punto di vista. Non esistono i padri e i figli, dice Glauco a Diomede, perché gli uomini sono come le foglie. Nascono tutti dallo stesso tronco e quando viene il loro momento cadono tutti a terra nello stesso modo. Nessuno discende da nessuno.
Bachofen considera questi versi di Omero, sempre ammirati per la loro bellezza, il riflesso di una condizione di esistenza, vale a dire di qualcosa che ha avuto luogo nella realtà. Un’organizzazione sociale e religiosa fondata sul predominio della madre e destinata a essere soppiantata, non senza conflitti molto aspri, dal principio maschile e paterno.
Distacchiamoci adesso dal grandioso scenario dipinto da Bachofen per considerarne il totale insuccesso tra i contemporanei. Da un certo punto di vista, il poderoso libro di Bachofen sembrava fatto apposta per non essere letto da nessuno. Alla solita meditazione sulla genialità e la solitudine bisogna aggiungere il ricordo ben più concreto di un tipografo folle, che ebbe l’assurda idea di mescolare un testo già lungo e impegnativo con le migliaia di note che dovevano corredarlo di tutte le indicazioni bibliografiche ed erudite. Ne venne fuori quello che il nostro più importante studioso di Bachofen, Furio Jesi, ha definito «un orrido groviglio» stampato su due colonne. Poteva capitare che una frase, cominciata a una data pagina, finisse soltanto a metà di quella successiva.
Che cosa ne avrà pensato l’autore? In qualche modo, quella catastrofe aveva qualcosa di simile alla sua mente poderosa e labirintica. Fatto sta che quando, dopo la sua morte, la vedova e il figlio provvidero a una ristampa, ripeterono la stessa assurdità, accompagnata questa volta da un numero esorbitante di errori di stampa. Forse non erano del mestiere, ma si sarebbero comportati così se Bachofen si fosse molto lamentato della prima edizione?
Lui era morto a settantadue anni, nel 1887, nel più completo isolamento intellettuale. Non cambiò mai idea, a quanto pare, su quella «poesia della storia», come la definiva, che era l’epoca del potere femminile. Sarebbe stato assurdo obiettargli che il matriarcato, come l’immane guerra tra i sessi che ne aveva dichiarato la fine e instaurato il potere del maschio, erano cose accadute solo nella sfera del mito e non sul piano della realtà. Perché tutta l’impresa di Bachofen si basa su un atto di fede fondamentale: il mito è realtà, traccia di una realtà vissuta non meno di un utensile o delle rovine di un’abitazione o di una norma giuridica. «Abbiamo di fronte a noi non finzioni, ma destini vissuti», affermava con una certezza che si addice più al poeta romantico che al filologo.
Ma la sorte del Matriarcato è tutt’altro che un argomento malinconico. Semmai, è una lezione istruttiva sulla potenza delle grandi visioni, che, come certi organismi naturali, resistono e si rafforzano nelle condizioni avverse, sanno aspettare il loro momento. A volte bastano dieci lettori per traghettare un capolavoro misconosciuto sulle acque oscure della dimenticanza. Oggi Il matriarcato ci appare pienamente comprensibile a un livello della verità che non è quello dell’archeologia o della storia del diritto, ma quello delle opere d’arte.
Più che a Friedrich Nietzsche, che non ne nutriva una grandissima stima, Bachofen sembra accostabile all’altro grande profeta inascoltato del suo tempo, Herman Melville. Potremmo affermare che Il matriarcato sta alla storia antica come Moby Dick sta alla caccia alla balena. In entrambi i casi, si tratta di una lettura indimenticabile, di quelle capaci di trasformare la vita. In ogni forma di espressione umana, nel romanzo come negli studi storici, esistono regole fondate sul buon senso e su una certa dose di conformismo. Ma se in determinati momenti non spuntassero fuori spiriti eretici e infiammati come Melville e Bachofen, tutto il resto si ridurrebbe al ben misero bottino delle carriere accademiche e dei premi letterari.
Unire cielo e terra serve a ridare un senso al mondo
di Raimon Panikkar (Corriere della Sera, 28 agosto 2010)
Negli ultimi giorni Raimon Panikkar aveva sulla scrivania un saggio dal titolo «Religione e corpo», un contributo del 1996 per la «Revista de filosofía» di Barcellona. Stava elaborando tali pagine, non ancora tradotte in italiano, per le opere complete. Diamo un estratto di questo scritto a cui lavorava.
Nel corso dei millenni l’uomo è stato attratto, spesso ossessionato e talvolta affascinato, da due forze che i mistici chiamerebbero trascendenza e immanenza, i poeti cielo e terra, i filosofi spirito e materia. L’uomo si è dibattuto tra questi due poli attribuendo di volta in volta più importanza all’uno o all’altro, disprezzando, trascurando o magari negando realtà all’uno dei due (la materia è male, il corpo è schiavitù, il tempo è illusione) oppure viceversa (il cielo non esiste, lo spirito è mera proiezione, l’eternità un sogno).
La religione, intesa quale dimensione umana che potremmo chiamare religiosità, messa di fronte al problema del significato della vita ha oscillato tra questi due poli senza riuscire a dimenticare completamente l’altro. Carpe diem: la terra è troppo attraente per non godere dei suoi piaceri. Fuga mundi: il mondo è troppo fugace per riporvi la nostra fiducia.
Non v’è dubbio, tuttavia, che molte delle principali religioni ai nostri giorni hanno decisamente spostato la bilancia verso il trascendente, lo spirituale, l’ultraterreno. «Come andare in cielo» è il compito della religione; «come vanno i cieli» è l’incombenza della scienza: è stata questa la materia di discussione tra uno scienziato (Galileo Galilei) e un teologo (Roberto Bellarmino).
La dicotomia è stata letale per entrambi. La religione è bandita dagli affari umani e la scienza diventa una specialità astratta, avulsa dalla vita umana. La religione diventa un’ideologia e la scienza un’astrazione. In entrambi i casi il corpo è praticamente irrilevante. Compito della nostra generazione, se non vogliamo contribuire all’estinzione dell’homo sapiens, è di tornare a celebrare l’unione tra cielo e terra, quello hieros gamos o sacra unione di cui parlano tante tradizioni, non esclusa la cristiana.
Lo studio delle tradizioni religiose dell’umanità ci mostra che «scienza» (per non usare altri termini) ha voluto dire qualcosa più che descrizione empirica di comportamenti «religiosi» e delle loro interpretazioni «scientifiche» e che religione non è riducibile a pratiche o credenze definite «religiose» dal punto di vista della razionalità intesa nel senso in cui l’ha interpretata il cosiddetto illuminismo. Dicendo «scienze» non vogliamo escludere alcuna forma di coscienza né di saggezza.
Nel dire «religioni» non vogliamo cadere nel monopolio di questa parola da parte di istituzioni («religiose»); ci riferiamo invece a quel nucleo ultimo di ogni cultura, e anche di ogni vita umana, che si crede dia un certo senso alla vita.
È molto significativo che la parola polisemica «religione» sia stata ritenuta poco meno che sconveniente in alcuni ambienti e che si sia voluto sostituirla con «spiritualità». Ciò però dimostra che l’allergia alla parola «religione» è solo superficiale, dato che la parola «spirito» potrebbe farci cadere a sua volta in un altro «ghetto» esclusivo degli «spiritualisti». Se si critica la religione in quanto oasi chiusa che esclude i cosiddetti non-credenti, la spiritualità a sua volta potrebbe essere intesa come la confederazione di religioni in antitesi a coloro che negano ciò che è spirituale. Sin dai tempi di Confucio si sa che esiste una politica delle parole.
(traduzione di Milena Carrara Pavan)
La metafora della follia
di Michele Serra (la Repubblica, 29.08.2010)
Una rissa tra ginecologi in una sala parto, con scambi di pugni e vetri infranti, non è neanche classificabile nella già notevole casistica della "malasanità". È piuttosto uno di quei sintomi di ammattimento sociale che turbano per la loro irriducibilità a qualunque regola, non parendo vero che proprio in quel luogo, e nell’urgenza di un cesareo, siano due medici a usare violenza, prima che a loro stessi, alla fragilità di una madre e di un bambino affidati alle loro cure.
Entrambi, madre e figlio, hanno avuto conseguenze gravi (danni cerebrali per il neonato) al termine di un parto difficile. La direzione sanitaria dell’ospedale di Messina fa sapere che la rissa non è avvenuta in presenza della madre, e che il cesareo avrebbe comunque presentato gravi difficoltà. Vero o non vero (la versione del padre non coincide affatto), rimane lo sgomento per un episodio che sarebbe solamente surreale - con venature di umor nero alla Mash - se non fosse annichilente. Il parto è uno di quegli avvenimenti che sospendono - non solo tra gli umani - ogni altra esigenza o attività o retropensiero. Mette in secondo piano, per il tempo necessario a compiersi, la vita attorno: compresa, ovviamente, la "rivalità professionale" alla quale le cronache attribuiscono lo scontro fisico tra i due dottori.
Se davvero a quella "rivalità professionale" puerpera e nascituro devono la loro infelice esperienza, e i danni subiti, l’episodio è di una gravità quasi incommentabile. Ma in ogni caso, anche se le sorti infauste del parto fossero indipendenti dall’inconsulto consulto che lo ha preceduto, ci si domanda quali siano, e se esistano ancora, le situazioni e i luoghi nei quali le "rivalità professionali", e in generale i propri affaracci privati, i propri tiramenti, i propri isterismi, contano zero rispetto ai doveri sociali, alle esigenze della comunità, a priorità evidenti come un parto difficile in un ospedale pubblico. Il timore di una società in preda a incontenibili pulsioni narcisistiche, e sbocchi nevrastenici alla "lei non sa chi sono io", e ossessionanti mire di carriera e di autoaffermazione (che formano legioni di frustrati e, di pari passo, legioni di violenti), in storie come questa di Messina trova le sue pessime conferme.
È come se argini sempre più fragili si opponessero alle pulsioni individuali, così che una scazzottata tra ginecologi "rivali" in sala parto magari può anche apparire, ai due protagonisti, come uno spiacevole ma comprensibile episodio "professionale", cose che hanno a che fare con la carriera, con il ruolo nelle gerarchie interne, con la volontà di farsi valere. Fuori da quella logica - farsi valere, avere ragione, imporre il proprio carisma indipendentemente dal talento e dal calibro umano - che cosa rimane ancora in piedi? Non la vetrata infranta della sala parto, metafora di tutte le paratie, i limiti, le zone di rispetto che i rissanti travolgono senza curarsi dei danni e della paura altrui. I cocci li raccolgono sempre gli altri. In genere le donne.
IL CASO
Neonato morto, giallo a Roma
"C’è stata una lite tra ostetriche"
Il decesso in ospedale due giorni dopo il parto. I genitori hanno presentato
una denuncia per negligenze da parte del personale medico
di ANNA MARIA LIGUORI
ROMA - Un neonato due giorni dopo essere venuto alla luce è morto al Policlinico Casilino di Roma. I genitori, due romani di 30 e 26 anni, sospettano che dietro al decesso ci siano negligenze del personale medico. Hanno presentato ieri mattina una denuncia alla procura di Roma segnalando tra l’altro che poco prima del parto, avvenuto con un taglio cesareo, c’era anche stato un diverbio tra due ostetriche e un medico sulle modalità di intervento da eseguire.
«Le due donne volevano intervenire e tagliare subito - chiarisce il padre - ma il medico non ha voluto. Ho sentito che c’era di mezzo un cambio di turno». E ancora: «Se c’è qualcuno che ha sbagliato paghi» si è sfogato il padre del bimbo. «Ci sono tante cose che già dal primo giorno sono andate storte. A oggi io non so perché mio figlio è morto. Non mi sembra sia stato fatto il massimo: ci sono state negligenze». Tutto succede la scorsa settimana. «Il 26 agosto - ha subito raccontato il padre ad una cronista dell’Ansa - mia moglie ha partorito con un cesareo, circa 14 giorni prima dell’intervento programmato, perché aveva dei dolori. Ho insistito perché venisse fatto il cesareo. Alle 20.47 è nato il bimbo».
Il bimbo, che si chiama Jacopo, sta bene. Viene messo nella culletta termica e non presenta problemi. Il padre raggiunge la moglie in camera e scende al nido dopo un ora. Il bimbo è intubato. «Aveva problemi respiratori - continua il padre - la mattina dopo ci hanno detto che durante la notte mio figlio si era tolto il tubo da solo. Nel pomeriggio sembrava che le condizioni stessero migliorando ma la mattina del 28 agosto la situazione era peggiorata per una crisi respiratoria: è un problema metabolico. Hanno parlato di trasferirlo prima al Bambino Gesù, poi all’Umberto I. Mentre aspettavamo l’ambulanza per il trasporto le condizioni del bimbo sono diventate critiche. Poi ci hanno comunicato che non c’era più niente da fare».
* la Repubblica, 31 agosto 2010
Quei legami famigliari "scritti" nel cervello
di Massimo Ammaniti (la Repubblica, 11.08.2010)
La figura materna è l’archetipo della vita: madre che protegge, che si prende cura e che rinuncia a se stessa per i propri figli. Forse per questo motivo è difficile attribuire alle madri sentimenti negativi come l’odio e il risentimento, che in alcuni momenti possono essere emergere e che possono interferire nel rapporto coi figli soprattutto se questi stati d’animo, come scrive lo psicoanalista inglese Donald Winnicott, vengono ignorati e soprattutto negati. Come è ben noto per diventare madri si va incontro a grandi cambiamenti: in primo luogo fisici, basti pensare alla gravidanza, e poi trasformazioni psicologiche dell’identità femminile fino al nuovo ruolo sociale che viene ad assumere la donna.
Ma anche il cervello delle madri va incontro a grandi cambiamenti proprio perché una madre deve essere particolarmente capace di proteggere il figlio, di anticipare e prevenire i possibili pericoli, di provvederne alla cura e all’alimentazione. E madri non si nasce ma si diventa, come affermano due neurobiologi, Craig Kinsley e Kelly Lambert, che hanno studiato gli effetti della gravidanza e della maternità sul cervello materno in campo animale. Mettendo a confronto topoline madri che avevano da poco figliato con topoline vergini, si è visto che le prime erano in grado di trovare il cibo nascosto in un labirinto in 3 minuti, mentre queste ultime riuscivano a trovarlo solo dopo 7 giorni. Da questo studio è evidente la superiorità delle topoline madri nell’orientarsi nello spazio e nel ricordare gli indizi ambientali per trovare il cibo per la propria prole.
Ma che cosa succede nel cervello delle madri? In gravidanza si verifica un vero e proprio bagno di ormoni, estrogeni e progesterone, che non solo inducono le trasformazioni dell’utero e della placenta ma influenzano la stessa struttura del cervello. In primo luogo i neuroni cerebrali assumono dimensioni maggiori e si modificano anche sul piano biochimico con l’attivazione di determinate aree cerebrali, un vero circuito cerebrale materno. Si tratta delle regioni limbiche, ipotalamiche e del tronco cerebrale che influenzano il comportamento materno per cui le madri sono più attente e recettive ai segnali e ai comportamenti del figlio.
Se si potesse guardare dentro la testa delle madri si potrebbe constatare la particolare attività dell’emisfero cerebrale destro nell’accudimento e nell’amore per i figli. Infatti se si osserva come le madri tengono in braccio il figlio, lo prendono prevalentemente col braccio e con la mano sinistra, molto più dei padri e delle donne che non hanno ancora avuto un figlio. Questa particolare posizione viene assunta in modo istintivo e permette di tenere il figlio nella parte sinistra dello sguardo, ossia quella che comunica direttamente con l’emisfero cerebrale destro, maggiormente coinvolto nell’attaccamento al figlio e nelle risposte emotive.
L’amore che la madre prova per il figlio è una specie di innamoramento, che comporta un intenso compiacimento quando si sta insieme e si comunica. Due ricercatori dell’University College di Londra, Bartels e Zeki, hanno studiato con la Risonanza Magnetica il cervello delle madri e quello delle persone innamorate ed hanno scoperto che sono attivate aree cerebrali sovrapponibili. Si tratta di aree cerebrali in cui sono presenti recettori del sistema di ricompensa, ossia legati al neuro-ormone dopamina che suscita quelle sensazioni piacevoli tipiche di chi è innamorato, ma anche di altre aree ricche di ossitocina e di vasopressina, neuro-ormoni che influenzano il legame di attaccamento. Ma quello che stupisce di più è il fatto che in entrambi i casi avviene una disattivazione delle zone cerebrali legate al giudizio sociale e al riconoscimento delle emozioni negative, la spiegazione scientifica del detto napoletano "ogni scarrafone è bello a mamma sua".
Anche le recenti ricerche da noi effettuate ci consentono di comprendere il rapporto empatico fra madre e figlio. Quando le madri osservano le diverse espressioni emotive del proprio figlio si attivano le zone cerebrali in cui sono presenti i neuroni specchio che permettono di rivivere l’esperienza dell’altro anche soltanto osservandola. In questo modo le madri sono in grado di mettersi nei panni del figlio e comprenderne gli stati d’animo e le motivazioni. E’ indubbio che queste nuove ricerche in campo neurobiologico siano in grado di andare aldilà dello "strato roccioso", che secondo Freud costituirebbe il limite biologico all’esplorazione della mente umana.