LA DECAPITAZIONE DI OLOFERNE E LA FINE DELLA CLAUSTROFILIA. UN OMAGGIO A ELVIO FACHINELLI.
Evoluzionismo VS Creazionismo
Non confondiamo la religione con la scienza. Le parole dell’una e dell’altra rispondono a esigenze diverse.
Risponde Umberto Galimberti *
Richard Dawkins, biologo evolutivo e famoso divulgatore scientifico, così scriveva nell’incipit del suo il gene egoista, pubblicato per la prima volta nel 1976: "La vita intelligente su di un pianeta diventa tale quando, per la prima volta, elabora una ragione della propria esistenza. Se delle creature superiori provenienti dallo spazio mai visiteranno la Terra, la prima cosa che domanderanno per stabilire il nostro livello di civilizzazione, sarà: hanno già scoperto l’evoluzione?".
Cito questo passaggio in relazione al dibattito in corso nella comunità scientifica, innescato dal vice presidente del CNR Roberto de Mattei e dalle sue posizioni che possono essere riassunte nel titolo degli atti di un convegno che lo vedono come curatore: Evoluzionismo, il tramonto di un’ipotesi.
De Mattei sostiene che "la creazione, che è produzione di una realtà secondo tutta la sua sostanza, senza alcun presupposto, creato da altri, o increato che sia, si impone a chi voglia esercitare la ragione, come una "realtà scientifica" o, se si preferisce, come una verità razionale radicalmente incompatibile con la fantasia evoluzionista".
Mi chiedo: è giusto contribuire con denari pubblici, destinati alla ricerca scientifica, alla pubblicazione e quindi alla diffusione delle idee di un signore che mette in discussione la teoria dell’evoluzione e che allo stesso tempo sostiene che "Adamo ed Eva sono personaggi storici e sono i progenitori dell’umanità"?
Emanuele Canobbio, Rho
emanuelecanobbio@libero.it
Non mi hanno mai appassionato i conflitti tra scienza e fede perché, contrariamente a quanto si è soliti pensare, né l’una né l’altra hanno davvero a che fare con la "verità". La scienza lo sa da tempo, e su questo non si è mai ingannata, per cui è sempre disposta a invalidare le sue ipotesi ogni volta che ne trova di migliori. La fede pensa di attingere a una verità superiore a quella razionale, ma contro questa pretesa già Paolo di Tarso e Tommaso d’Aquino la mettevano opportunamente in guardia.
La scienza non ha rapporti con la verità, perché ciò che essa produce sono solo proposizioni "esatte", cioè "ottenute da (ex actu)" le premesse che sono state anticipate in via ipotetica. Che poi l’ipotesi sia confermata dall’esperimento dice solo che noi conosciamo la validità operativa di quell’ipotesi, non la natura della cosa indagata con quell’ipotesi, perché, interrogata, la cosa non mostra il suo volto, ma semplicemente risponde all’ipotesi anticipata.
La fede, a sua volta, non ha a che fare con la verità perché, lo dice Tommaso d’Aquino commentando Paolo di Tarso, la fede, a differenza della scientia espressa dalla ragione umana, conduce in captivitatem omnem intellectum, cioè rende l’intelletto prigioniero di un contenuto che non è evidente, e che quindi gli è estraneo (alienus), sicché l’intelletto è inquieto (nondum est quietatus) di fronte alla fede, nei cui riguardi si sente in infirmitate et timore et tremore multo. La fede, inoltre "crede" proprio perché non "sa".
Io non credo che due più due faccia quattro perché lo so. Posso invece credere nell’immortalità dell’anima, proprio perché non lo so. E allora tra scienza e fede non c’è conflitto, perché la scienza risponde all’esigenza di una "spiegazione" del mondo, mentre la fede risponde all’esigenza di reperire un "senso" alla nostra vita e al nostro essere nel mondo.
La fede infatti, ce lo ricorda Pascal, non saprebbe cosa farsene di un Dio raggiungibile con gli strumenti della sola ragione, perché ciò di cui va alla ricerca è, nella versione della fede cristiana, "il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe". Quindi un Dio che parla al cuore umano nei termini di uno sguardo accogliente, di una protezione che ci rassicuri nella precarietà dell’esistenza, nella speranza di sopravvivenza e di salvezza. Di tutto questo la scienza non si occupa, perché il suo scopo non è quello di reperire un senso per la nostra esistenza, ma di pervenire alla conoscenza sempre più approfondita del mondo.
Se i riferimenti della fede e della scienza sono così diversi e tra loro distanti, non c’è un piano su cui possono confliggere, se non per coloro che vogliono affidare all’una o all’altra entrambi i compiti: quello di spiegare il mondo e di reperire un senso. Questa pretesa, nel caso della scienza, si chiama, come scrive Jaspers, "superstizione scientifica" e nel caso della fede "negazione della ragione".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA DECAPITAZIONE DI OLOFERNE E LA FINE DELLA CLAUSTROFILIA. UN OMAGGIO A ELVIO FACHINELLI.
L’UNITÀ DI MISURA PER LA CERTEZZA DEL DIRITTO
La natura DELLA LEGGE
di Ugo Mattei (il manifesto, 05.02.2010)
Con la rivoluzione scientifica del XVII secolo viene stabilita la possibilità di giungere alla conoscenza oggettiva della realtà. Un cambiamento di paradigma che investe il diritto. Da allora la ricerca della verità della pena discende dall’applicazione di un rigoroso metodo scientifico
La mentalità dominan te, che si riflette nel diritto, invoca lo scienziato per ottenere certezza. Per esempio, sarà lo scienziato a dire al giudice, a seguito di una perizia, se determinate strutture di protezione possano essere sufficienti per evitare una perdita radioattiva. Il suo ruolo processuale, in casi di notevole complessità come nell’ipotesi di catastrofi, può essere chiave. Il giudice «sa di non sapere» e si rivolge allo scienziato per sapere con certezza ciò che non sa.
Nel sistema statunitense, dove la verità processuale scaturisce da un conflitto fra opposte verità partigiane (il tanto ammirato sistema adversary) è raro che il giudice ricorra ad un proprio scienziato di fiducia come invece avviene nei sistemi europei continentali più propensi alla ricerca di una verità «oggettiva».
Negli Stati Uniti sono gli avvocati delle parti a farsi assistere da uno scienziato per suffragare le loro affermazioni. Ovviamente, poiché gli scienziati sono pagati dalle parti contrapposte per suffragare una verità partigiana, anche la scienza dimostra la propria partigianeria. Ma l’incrollabile fede del diritto moderno nella verità scientifica non viene meno: lo scontro fra opposte verità scientifiche viene soggettivizzato. Non si tratta di prendere atto di due verità in conflitto ma di comparare la credibilità ed il prestigio di ciascuno scienziato che «descrive» una verità di per sé oggettiva. Un confronto in cui ciascuna delle parti mostra il curriculum vitae del proprio scienziato per dimostrarne la maggior credibilità. E così la parte che avrà potuto permettersi lo scienziato più prestigioso (in relazione allo status della sua sede accademica) potrà avvalersi di una costosa «verità» scientifica.
La corruzione degli esperti
Anche nella nostra tradizione processuale le parti possono nominare un proprio consulente e presentare una perizia, ma sarà la verità di quello «ufficiale» scelto dal giudice che in tutta probabilità prevarrà. Il confronto fra scienziati partigiani è così meno imbarazzante (perché non decisivo), ma gli americani non si fidano del nostro sistema perché temono che lo scienziato «ufficiale» possa essere corrotto.
Negli Stati Uniti la legalizzazione di pratiche corruttive fa perdere contezza della loro natura. Come noto gli americani non considerano corrotti i membri del Congresso che ricevono miliardi dai lobbisti ufficiali. Similmente essi non considerano corrotto un professore di Harvard che, per 500 dollari l’ora, è disposto a scrivere che la petroliera Exxon Valdez o l’impianto della Union Carbide di Bophal erano in perfette condizioni strutturali al momento del disastro.
In ogni caso, e al di la delle variazioni istituzionali fra un sistema giuridico e l’altro, a partire dalla modernità i giuristi ritengono che la scienza possa offrire loro certezze. Naturalmente, a questo rapporto fra diritto e scienza non si è giunti senza traumi nella storia dell’Occidente.
Il processo a Galileo Galilei ed il rogo di Giordano Bruno restano emblematici. Se la verità scientifica si pone in contrasto con la verità giuridica (ispirata allora a quella religiosa, oggi alla vulgata capitalistica) le conseguenze possono essere gravissime. Per qualche tempo il diritto ha rallentato la scienza (Keplero e Copernico ritardarono la pubblicazione delle teorie eliocentriche per paura dell’inquisizione) ma la rivoluzione scientifica, figlia dell’umanesimo, avrebbe finito per far trionfare le certezze antropocentriche raggiunte con il metodo scientifico.
Infatti, con gli spettacolari successi tecnologici prodotti dal paradigma scientifico newtoniano, che dovranno produrre la rivoluzione industriale, la terra (Gaia) viene messa ai margini e l’uomo viene messo al centro. Con Galileo infatti il criterio di scientificità diviene la quantificabilità e la misurazione. Con Cartesio la terra non è che res extensa ed il dualismo soggetto\oggetto viene formalizzato in tutta la sua portata riduzionistica. Il soggetto razionale si separa dalla natura. La metafora che diviene di moda è quella della natura come macchina conoscibile soltanto attraverso quel metodo scientifico-sperimentale (fortemente riduzionista) che Bacone saprà formalizzare.
La macchina della natura
Il pensiero giuridico si adegua alla nuova epistemologia. Le concezioni olistiche tipiche del medioevo vengono progressivamente abbandonate. Bacone, oltre che grande scienziato potente giurista, presidente della Corte di Cancelleria inglese, non si limita ad elaborare un metodo inquisitorio per estrarre conoscenze scientifiche. Propone lo stesso metodo nel mondo del diritto per sconfiggere, in nome della modernizzazione assolutistica regia, l’arci-rivale Sir Edward Coke campione della concezione medievale del diritto e dei privilegi feudali arroccati in parlamento. Da questo conflitto fra modernizzazione e medioevo (nelle sue diverse declinazioni locali) scaturiranno in Occidente tanto il trionfo finale della visione scientifica meccanicistica quanto la nascita dell’idea di sovranità statale, concepita come dominio sul territorio. Di qui sorgerà soprattutto il compromesso della rule of law, come suprema protezione della proprietà privata (Madison negli Stati Uniti porta a compimento il capolavoro politico di costituzionalizzare per sempre le diseguaglianze).
Il rapporto, spesso complesso e conflittuale ma sempre universalistico ed esclusivo, fra proprietà privata e sovranità finiranno per perfezionare giuridicamente l’idea della terra come oggetto di dominio. Il contrattualismo liberale ed il giusnaturalismo di Pufendorf e Jean Domat porranno l’individuo borghese proprietario definitivamente al centro della scena. L’elio-cenrismo e l’antropo-centrismo, paradossalmente alleati, marginalizzeranno Gaia fino ai nostri giorni.
Infatti, Keplero e Copernico le hanno tolto la centralità rispetto al Sole, un idea che dopo il processo a Galileo fu indifendibile perfino per la Chiesa. Lo stesso Galileo, Cartesio e Newton l’hanno resa una macchina comprensibile unicamente attraverso la misurazione quantitativa, ritardando di trecento anni lo sviluppo di una «scienza della qualità». Bacone e Grozio (l’inventore del diritto internazionale) e poi Blackstone (il più influente giurista inglese di fine Settecento) ed il Codice Napoleonico (1804) ne hanno fatto mero oggetto di dominio assoluto.
L’uomo è così divenuto il nuovo supremo legislatore, più bravo di Dio e della natura a fare le leggi (Voltaire). Gaia diviene la sua schiava, mero oggetto del suo stupro, secondo la colorita retorica di Carolin Merchant una delle più interessanti filosofe dell’ecologia contemporanee. Le popolazioni che riverivano Gaia vengono sterminate perché la rivoluzione tecnologica e le nuove concezioni della sovranità danno il via a un capitalismo occidentale dipendente dalla «crescita economica» che necessita risorse ingenti. Prima quelle Andine cresciute nel culto di Pacha Mama; poi quelle native Nord-americane, prive della concezione del dominio dell’uomo sulla natura; poi quelle Africane con la loro idea della terra affidata ad una generazione nell’ interesse di quella successiva. Infine quelle oceaniche. I popoli «senza storia» divengono a loro volta meri oggetti che non riescono a ergersi, come gli occidentali nel loro delirio di onnipotenza, al di fuori del mondo animale.
I giuristi, con un atteggiamento tipico di un ceto professionale dedito a servire il potere, prima discutono ma poi si adeguano senza opporre resistenze al trionfo scientifico dello sfruttamento. Nel sedicesimo secolo, durante la conquista sudamericana, Bartolomè De Las Casas, ancora cresciuto nell’ideale tomistico della giustizia distributiva, sembra insinuare dubbi giuridici a Isabella di Castiglia. Nessun dibattito si svolge più dal secolo successivo, con un coro unanime fra Locke ed i giusnaturalisti nordici volto a negare la civiltà e dignità a popoli privi della nozione di proprietà privata, vittime del brutale genocidio nord-americano. Ogni dubbio è fugato. L’Occidente ha «titolo valido» per conquistare i popoli senza storia.
Gli scienziati con l’ermellino
Bastano questi cenni per capire come la modernità giuridica trovi nella rivoluzione scientifica il suo fondamento epistemico, conservato gelosamente ancor oggi quando si rivolge allo scienziato per chiedere certezza. Per il diritto contemporaneo, la perdita di certezza scientifica ormai quasi secolare, da Eisenberg a Einstein fino alla meccanica quantistica, costituisce un «non evento» che, nondimeno va compreso.
Specularmente al giurista che crede nella certezza della scienza, lo scienziato crede in quella del diritto. Le false immagini si sovrappongono. A partire dalla seconda metà del diciassettesimo secolo (in piena apoteosi della visione meccanicistica della natura) diviene uso comune parlare di «leggi di natura» da parte degli scienziati (molti dei quali, come Newton o Bacone erano anche avvocati o giuristi), in espressa analogia con le leggi umane.
Keplero chiamò le sue scoperte leggi (del moto dei pianeti) e così fece Galileo (per la caduta dei corpi) e poi Cartesio con la sua legge del moto e con lui Pascal, grande amico del giusnaturalista Jean Domat (che finché non fu certo delle sue scoperte parlò di principii, come facevano gli antichi) e poi Boyle (con il gas) e infine, naturalmente, Newton. Ancora nel diciannovesimo secolo Faraday parlò di leggi dell’induzione, Carnot di leggi della termodinamica e Mendel di leggi dell’ereditarietà. A partire dal ventesimo secolo gli scienziati divenuti progressivamente consapevoli della natura relativa del proprio sapere, abbandonarono il concetto di legge.
Nel corso della modernità diritto e scienza si sono sviluppati nell’ambito di false reciproche immagini che conservano pure oggi. È verosimile che dal superamento di queste false immagini reciproche possa scaturire qualche percezione fenomenologicamente più provveduta e politicamente più promettente del nostro mondo.
SCHEDA
SCAFFALI
Il legame tra norma e scienza da Bacone a Fritjof Capra
Ho iniziato la riflessione sui rapporti fra «leggi umane» e «leggi di natura» grazie ad un incontro a Berkeley con il fisico ed ecologista Fritjof Capra con cui ho dato vita ad un seminario all’università e col quale su questi temi abbiamo in preparazione un volume.
Pubblicherò nei prossimi mesi sul «Manifesto» alcuni interventi preliminari. La riflessione parte da due libri di Capra, «Il punto di svolta» (Feltrinelli) e «La scienza della vita» (Rizzoli) letti in connessione con la critica della «rule of law» sviluppata da chi scrive e da Laura Nadere in «Plunder. When The Rule of Law is Illegal» (Blackwell).
Sui rapporti fra scienza e diritto nelle aule di giustizia: «Legal Alchemy. The Uses and Misuses of Science in the Law» di D. Faigman. Sul pensiero giuridico medievale: «Il Medioevo del Diritto» di Paolo Grossi (Laterza). Sul dibattito giuridico intorno alla conquista: «Ultramar» di Carlo Andrea Cassi (Laterza). Su Bacone giurista e sullo scontro con il Parlamento inglese: «Common Law» di Ugo mattei (Utet) . Sugli effetti epistemici del Bacone scienziato: «La Morte della Natura» di Carolyn Merchant (Garzanti).