Una corrente di pensiero radicata nella cultura occidentale convenzionale
L’abolizionismo penale è possibile, ora e qui
di Vincenzo Ruggiero * (Liberazione, 05.01.2010)
L’abolizionismo è stato paragonato a un vascello carico di esplosivo che naviga nei mari della giustizia penale. Non sono d’accordo. In maniera molto semplice l’abolizionismo, direi piuttosto, è una corrente di pensiero che considera il sistema della giustizia criminale, nel suo complesso, come uno dei maggiori problemi sociali. Rassicuriamoci, quindi, e lasciamo in disparte, per altre occasioni, le immagini di deflagrazione.
Forme di abolizionismo penale sono già in funzione, ad esempio, tutte le volte che alcuni segmenti dell’amministrazione centralizzata della giustizia vengono sostituiti da modalità decentrate, autonome, di regolazione dei conflitti. E va chiarito immediatamente che gli autori più noti comunemente associati con questa scuola di pensiero non hanno mai propugnato la chiusura di tutte le carceri domani o dopodomani.
L’abolizionismo non è un semplice programma di smantellamento dell’esistente sistema punitivo, un programma che del resto troverebbe non pochi alleati tra chi prova vergogna di fronte alla stragrande maggioranza degli istituti di pena nel mondo. L’abolizionismo consiste in un approccio, una prospettiva, una metodologia, insomma in un modo diverso di guardare al crimine, alla legge e alla punizione.
Osservando i presupposti e studiando le matrici culturali dalle quali prende vita, si può rimanere addirittura imbarazzati nello scoprire che una simile ‘esplosiva’ corrente di pensiero si colloca comodamente nella cultura occidentale convenzionale, che guida i comportamenti di ognuno e che ognuno potrebbe mobilitare a giustificazione della propria condotta.
Cominciamo da un modo ‘diverso’ di guardare al crimine. Gli abolizionisti sono consapevoli che alcuni atti generano danno, ma che non tutti gli atti dannosi vengono ritenuti criminali. A loro modo di vedere, lo sviluppo delle società porta con sé delle forme di patologia e i sistemi non possono fiorire se alcuni settori che ne sono parte mostrano evidenti segni di fallimento.
E’ questa una nozione aristotelica, che ribadisce un’idea condivisa da molti, vale a dire che l’ineguaglianza crescente crea ostacoli alla realizzazione del bene comune. Non sento deflagrazioni in questa idea. Sento piuttosto una critica alle elaborazioni platoniane secondo cui il bene e il male si distinguono in quanto chi pratica il primo dimostra di ‘ignorare’ i precetti della ‘vita buona’, chi persegue il secondo rivela di conoscerne i principi fondamentali.
Gli abolizionisti, al contrario, suggeriscono che l’ignoranza caratterizza le istituzioni della giustizia criminale, nel senso che i professionisti che la popolano non conoscono le circostanze, le interazioni e le dinamiche che producono le situazioni problematiche definite in fretta come crimini.
Vedo anche molto Rousseau in questo suggerimento, segnatamente il Rousseau critico della concorrenza che genera ‘inganni violenti’, e che al declino della moralità pubblica fa corrispondere la crescita degli strumenti artificiali del controllo delle condotte.
Nel discorso abolizionista c’è posto addirittura per Hegel, il quale vede gli individui, isolati e competitivi, allontanarsi dalla sfera pubblica e smarrire ogni sentimento di obbligo verso gli altri. La patologia che ne risulta porta ognuno a delimitare la propria area intima e a delegare alle autorità la soluzione dei problemi sociali. Una volta designati i guardiani della moralità, gli individui possono curarsi dei propri interessi e permettere nell’indifferenza che il successo venga premiato e il fallimento severamente castigato.
Veniamo all’universo sacro della legge. L’equità giuridica può essere definita come il diritto di ognuno a mobilitare le istituzioni statali per la protezione e la salvaguardia del proprio benessere. In altri termini, la legge potrebbe essere interpretata come diritto alla mutua coercizione. Chi non rispetta la libertà degli altri nega a costoro lo statuto di persone libere. La legge, in simili casi, interverrebbe per negare questo diniego e per restaurare la situazione iniziale.
Gli abolizionisti rispondono che una simile astrazione potrebbe soltanto applicarsi in società nelle quali eguale accesso alla legge viene accompagnato da eguale accesso alle risorse. Nelle società che conosciamo, al contrario, la legge non fa altro che negare la libertà a coloro che ne posseggono veramente poca, i quali vengono così doppiamente colpiti.
Leggo in questa argomentazione un pensiero consolidato nella cultura occidentale, vale a dire un’idea di conflitto e una nozione distributiva della giustizia che attraversano tutta la filosofia e il pensiero sociologico che conosco, da Weber a Durkheim, da Marx a Galbraith, da Simmel a Bauman.
Abbiamo, insomma, numerose coordinate entro le quali collocare il pensiero abolizionista, e se esaminiamo l’analisi abolizionista della punizione le coordinate si affollano, si sovrappongono, al punto che ognuno può scegliere quelle più vicine alla propria sensibilità.
Abbiamo in Louk Hulsman un abolizionismo che riflette il suo Cristianesimo sociale, che si ispira all’ecumenismo di San Francesco, ma anche alle sacre scritture, al Vangelo di Luca e Marco, e particolarmente al rivoluzionario Paolo, il quale nega ogni validità alla legge umana, quella divina essendo sufficiente a farci discernere il bene collettivo dal benessere dei pochi. In Hulsman troviamo l’eco della teologia radicale e della teologia della liberazione, ma anche dell’anarchismo di Bakunin, secondo il quale la realizzazione della libertà richiede azione condotta religiosamente. Tolstoy e Hugo fanno capolino nelle sue argomentazioni, specialmente quando vengono riferite ai temi della redenzione e del castigo, dell’autogoverno, la misericordia e la pietà.
Questo sincretismo caratterizza anche il pensiero di Thomas Mathiesen, il quale si schiera a favore di una sociologia del diritto pluralista e interdisciplinare. Allora, i suoi referenti sono Marx e Engels, ma i suoi compagni di strada sono i detenuti e gli emarginati, che il marxismo ortodosso escluderebbe dai processi di emancipazione e mutamento sociale. Da eretico, Mathiesen crede che la ricerca sociale debba coinvolgere i soggetti che la ispirano, quegli attori coinvolti nel conflitto che, attraverso la conoscenza acquisita, sono in grado di perpetuare la conflittualità collettiva.
Pensiamo infine a Nils Christie, che raccomanda a chiunque si accinga a comporre un testo scritto di avere in mente la propria zia preferita. Ebbene, Kropotkin raccomandava altrettanto, chiedendo ai militanti politici di tenere sempre in mente a chi erano destinati i loro opuscoli. La critica mossa da Christie verso i professionisti della legge e della pena ricorda le invettive anarchiche contro la proliferazione delle leggi, che abituano gli individui alla delega e ne atrofizzano la capacità di giudizio etico e politico. Il suo apprezzamento del conflitto come ‘risorsa da tenere a cuore’ rimanda all’idea secondo cui i problemi possono essere risolti solo se chi vi è coinvolto possiede risorse autonome sufficienti a risolverli.
Dobbiamo solo rallegrarci se troviamo difficoltà nel collocare l’abolizionismo in un quadro di riferimento unico e coerente in termini politici, sociologici o filosofici. I suoi tratti sono inclusivi, non esclusivi, permettendo a chiunque sia dotato di spirito critico di individuarvi almeno un aspetto del proprio pensiero.
* Vincenzo Ruggiero è professore di sociologia presso la Middlesex University di Londra. Il suo prossimo libro, Penal Abolitionism: A Celebration verrà pubblicato quest’anno da Oxford University Press.
Nelle carceri trentamila dimenticati in attesa di giudizio
Tutti i numeri dello scandalo
di Silvia D’Onghia (il Fatto, 12.01.2010)
“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”: se si pensa ai 65.774 detenuti ammassati nelle carceri italiane, a fronte di una capienza di 43.220 persone, l’articolo 27 della Costituzione sembra fantascienza. I detenuti aumentano in media di 800 unità al mese: questo significa che, se non si interviene subito, il loro numero nel giugno 2012 raggiungerà quota 100 mila. Altro che bacchettate dal Consiglio d’Europa, che in più di un’occasione ha richiamato il nostro paese al rispetto dei diritti umani. Bisogna fare qualcosa, e farlo subito: lo chiedono i Radicali, che ieri hanno presentato una mozione alla Camera firmata da 93 deputati (che impegna il governo a varare una riforma radicale in materia di custodia cautelare, tutela dei diritti, esecuzione della pena e trattamenti sanzionatori e rieducativi) e stamane manifestano con un sit-in dinanzi Montecitorio.
Tre anni dopo l’ultimo indulto, il sistema penitenziario è di nuovo al collasso. Basta guardare con attenzione le cifre: secondo uno studio del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, circa la metà dei detenuti è costituito da persone in attesa di giudizio e un 30 per cento di loro verrà assolto al termine del processo. E’ quasi nullo il ricorso alle misure alternative al carcere, le uniche in grado di far abbassare il tasso di recidiva. Il 68 per cento di coloro che scontano la pena in cella torna a delinquere, mentre il tasso di recidiva è del 28 per cento tra chi paga il suo debito allo Stato con una misura alternativa. Eppure il 32,4 per cento dei detenuti deve scontare un residuo di pena per una condanna definitiva inferiore ad un anno, il 64,9 inferiore a tre (e sono proprio i tre anni il limite sotto il quale si può aver accesso alla semilibertà o all’affidamento in prova). Soltanto uno su quattro ha la possibilità di lavorare e uno su dieci può partecipare a percorsi professionali.
Fino allo scorso 10 novembre, gli stranieri rappresentavano, con le oltre 24 mila unità, il 27 per cento del totale delle persone recluse. Ancora di più, circa 26 mila, secondo un rapporto dell’associazione Antigone, sono i detenuti per reati di droga, mentre il 27 per cento della popolazione penitenziaria è sieropositiva. Ciò dimostrerebbe allora come si ricorra sempre meno all’approccio terapeutico (nel 2007 sono state 16 mila le persone ricoverate nelle comunità terapeutiche). Numeri che, dall’esterno, parlano di grandi fallimenti, ma che, dall’interno, mettono a rischio la salute fisica e mentale.
Non è un caso che il 2009 sia stato l’anno record per i suicidi in carcere: l’associazione Ristretti Orizzonti ha contato 72 persone che si sono tolte la vita impiccandosi all’interno della propria cella. 175 le morti negli istituti penitenziari. E il 2010 certo non è iniziato bene: nei primi otto giorni del nuovo anno si contano già quattro suicidi. E si perde il conto dei tentati suicidi o dei gesti di autolesionismo.
La commissione Giustizia del Senato ha constatato come appena il 20 per cento dei detenuti risulti in buone condizioni di salute, il 38 per cento sia in condizioni mediocri, il 37 per cento scadenti e il 4 per cento gravi. Moltissimi sono coloro che soffrono di depressione e altri disturbi psichiatrici (spesso sono le stesse condizioni penitenziarie a determinarli: sovraffollamento, lontananza da casa e quindi impossibilità di incontrare familiari, assoluta inattività) ma, nonostante questo, rimangono dentro.
Tra le patologie più diffuse anche problemi di masticazione, osteo-articolari, Aids ed Epatite B. Per far fronte a questa situazione, spesso la medicina penitenziaria è povera di risorse, di strumenti e di mezzi. Ma i problemi non sono soltanto dei detenuti. Un decreto ministeriale del 2001 prevedeva 41.268 agenti penitenziari: “Il 30 novembre 2009 risultavano essercene 38.537. Non si perda ulteriore tempo”, spiega il segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria, Donato Capece.
E’ per questo che oggi, in piazza, oltre agli stessi Radicali, ci saranno anche loro, i sindacati dei poliziotti (Sappe, Uilpa penitenziari, Osapp, Fpc Cgil) e i dirigenti degli istituti aderenti al Sidipe. Perché l’articolo 27 della Costituzione non resti ancora carta straccia.
Carceri, record di suicidi nel 2009 settantadue decessi e quest’anno già quattro casi
L’ultimo morto a Sulmona, dove un altro detenuto è stato salvato nelle stesse ore
Sotto accusa la condizione disumana in cella e la carenza di guardie
di Enrico Bonerandi (la Repubblica, 09.01.2010)
MILANO Antonio Tammaro si è impiccato l’altra sera nel carcere di Sulmona legando le lenzuola alla grata della finestra. Tornava da un permesso premio. Un altro detenuto ci ha provato, tagliandosi le vene e cercando di impiccarsi, nelle stesse ore e sempre a Sulmona, ma è stato salvato. «Qui è peggio dello Spielberg di Silvio Pellico», commenta Leo Beneduci, segretario del sindacato degli agenti penitenziari Osapp: a Sulmona ci sono stati 10 suicidi in 15 anni. Nel carcere di Verona si è tolto la vita Giacomo Attolini, 48 anni, che è la vittima numero quattro in questo scorcio di 2010. Nel 2009 i suicidi tra i reclusi sono stati 72, il massimo storico nel nostro Paese.
Nessuno si stupisce di questa strage. Le carceri sono sovraffollate, con organici carenti di guardie e strutture sanitarie inadeguate, dopo il passaggio delle competenze dal Ministero della Giustizia al Servizio sanitario nazionale. Mancano psicologi ed educatori. Detenuti ammassati come bestie 22 ore su 24, lontani dalle famiglie nonostante la promessa «regionalizzazione». Tossicomani in crisi di astinenza abbandonati a se stessi. La percentuale di suicidi è 20 volte superiore a quello che accade tra le persone libere.
«Non è così anche in Paesi ritenuti meno civili dell’Italia. In Romania ci sono 5 suicidi l’anno su 40mila detenuti, in Polonia la metà che da noi, con una popolazione carceraria più vasta segnala l’Osservatorio permanente sulle morti in carcere Eppure il 90 per cento di chi vuol togliersi la vita viene salvato. Sette volte su 10 ci pensano i compagni di cella, per il resto intervengono le guardie». Dice un altro sindacalista della polizia penitenziaria, Donato Capece: «È un’emergenza quotidiana. Ogni mese arrivano tra mille e 1600 detenuti, per qualsiasi reato, e si sta creando una pattumiera in cui si butta di tutto».
«I poliziotti penitenziari si accollano responsabilità non proprie per il degrado esistente aggiunge Beneduci Ma sono ogni giorno di meno e non possono più prevenire alcuna forma di violenza». Una beffa le promesse del ministro Alfano, che annunciò lo scorso dicembre 2mila agenti carcerari in più: «Di tale provvedimento non c’è traccia nella nuova legge finanziaria». Non c’è che aspettarsi il peggio? «Una speranza c’è afferma invece la radicale Rita Bernardini, prima firmataria di una mozione sulla situazione carceraria che andrà in discussione martedì prossimo, con il supporto di un sit-in davanti a Montecitorio Lo dico per una sola ragione: altrimenti c’è lo sfascio. Le carceri stanno diventando ingestibili».
La mozione radicale ha tra i propri firmatari numerosi esponenti del Pd, e anche alcuni della maggioranza. Il Pd stesso ne ha presentata una propria, e così faranno forse l’Udc e l’Idv. Molti punti coincidono: misure alternative, tossicodipendenti in strutture di cura, rinforzo del numero degli agenti. «Se tutto resta com’è, lo sfoltimento delle carceri avverrà con i suicidi commenta Rita Bernardini Improponibile, anche in quest’epoca forcaiola».
Sulmona. Ecco il carcere dei suicidi
Un morto giovedì: è il quindicesimo in dieci anni
di Rita Di Giovacchino
Quattro detenuti suicidi in otto giorni. La tragica sequenza è culminata nelle ultime 24 ore con due impiccati alle sbarre della cella e un terzo, salvato in extremis dagli agenti di custodia. Il primo suicidio a Verona, gli altri due a Sulmona nel tristemente noto “carcere dei suicidi”. La nostra piccola Guantanamo. Qui, negli ultimi dieci anni, si sono tolti la vita in quindici. Anonimi pregiudicati, boss famosi, picciotti pentiti. Ma anche il sindaco di Roccaraso Camillo Valentini, politico locale emergente, trovato morto in cella il 16 agosto del 2004 soffocato da un sacchetto di plastica. Era stato arrestato poche ore prima per una storia di mazzette. Ma a Sulmona, record dei record, si è uccisa anche la direttrice, Armida Miserere. Alla vigilia di Pasqua, il 19 aprile 2003, si è chiusa nell’appartamento di servizio e dopo essersi stesa sul letto si è sparata in bocca una pallottola calibro nove. Anche in questo caso l’inchiesta fu chiusa in fretta addebitando il tragico gesto alla “depressione”. La morte è tornata a bussare in via Lamaccio alle 17,45 di giovedì. Il carcere di Sulmona è un brutto cubo di cemento grigio, che riflette i bagliori della montagna innevata.
Il detenuto suicida si chiamava Antonio Tammaro, 28 anni, di Villa Literno. Non si sa perché sia finito lì, non aveva alcuna pena da scontare, era soltanto un “soggetto socialmente pericoloso”. Il carcere di Sulmona ospita invece ergastolani, boss, terroristi, assassini, gente da “fine pena mai” o sottoposta al 41 bis. Il povero Tammaro aveva solo qualche disturbo psichico, niente a che fare con terroristi come Nadia Lioce, transitata qui un paio di anni fa. O mafiosi come quel Guido Cercola, condannato all’ergastolo per la strage di Natale del 1984. Anche lui si è tolto la vita il 4 gennaio 2005 impiccandosi alla spalliera del letto.
Tammaro, ad onta della pericolosità, era appena rientrato da un permesso premio. Forse non ce l’ha fatta a riaffrontare via Lamaccio. La notizia è rimbalzata da un braccio all’altro e, poche ore dopo, un altro detenuto ha provato a togliersi la vita. Per fortuna questa volta gli agenti sono arrivati in tempo.
L’altro detenuto, suicida nelle ultime ore, si chiamava Giacomo Attolini, aveva 48 anni, era un pizzaiolo di origini siciliane residente da tempo a Villafranca di Verona. Il 2 gennaio, ad Altamura, vicino Bari, si è ucciso Pierpaolo Ciullo, 39 anni.
E tre giorni dopo si è impiccato nel carcere Buoncammino di Cagliari, Celeste Frau, 62 anni. Tutti italiani. “Adesso è davvero emergenza”, denuncia l’Osservatorio permanente sulle carceri. Se nel 2009 i suicidi nelle prigioni sono stati 72, una media degna dello Spielberg di Silvio Pellico, nel 2010 potrebbe andare peggio. Questo il giudizio unanime dei sindacati degli agenti penitenziari. La frequenza dei suicidi in carcere è in Italia 20 volte più alta rispetto ad altri paesi, anche meno “’democratici”.
In Romania, ad esempio, dove ci sono 40mila detenuti i suicidi non più di cinque l’anno. In Polonia, su 80mila, è meno della metà. E negli Stati Uniti il numero dei suicidi si è ridotto del 70 per cento grazie al lavoro di una sezione ad hoc del Dipartimento federale. Dice Donato Capece, segretario del Sappe che “quattro suicidi in otto giorni sono cosa indegna di un paese civile”. Per Luigi Manconi , presidente dell’associazione Buon Diritto, “bisogna fermare questa strage”.
Ma sono davvero tutti suicidi? L’interrogativo si è più volte proposto soprattutto a Sulmona, dove ieri sera i detenuti hanno dato vita a proteste battendo con le pentole contro le sbarre, chiedono che sia aperta un’inchiesta sulle condizioni di vita interne al carcere.
Perché si è suicidata Armida Miserere? Cosa aveva scoperto? In verità i casi più sospetti avvennero dopo la sua morte: nel 2005 Nunzio Gallo, camorrista con la passione di fare il cantante, aveva in effetti cominciato a “cantare”. Pochi giorni dopo lo trovarono impiccato. Poi toccò a Cercola, che in quel carcere ci stava da 20 anni, un detenuto “stabilizzato”, tranquillo. Ma pochi mesi dopo sarebbe cominciato il processo Calvi e lui era stanco di stare in carcere.
Il primo a manifestare dubbi sul suicidio del sindaco Valentini fu Ottaviano Del Turco: “Camillo non era uno che si ammazzava”. Poi toccò a lui di finire in quel carcere e a preoccuparsi fu Marco Pannella: “Bisogna trasferire Del Turco, quando in un carcere ci sono stati troppi suicidi, vuol dire che ci sono omicidi”. Ma per molti la storia del carcere di Sulmona è solo un caso limite. Una maledizione nella maledizione che incombe su tutte le carceri d’Italia.