IL TOUR DI OBAMA
"Per la mia terra è l’ora del riscatto"
Attesa per il discorso del presidente Usa ad Accra
di MAURIZIO MOLINARI (La Stampa, 5/7/2009)
Atterrando domani a Mosca, Barack H. Obama inizia il suo secondo viaggio europeo, che terminerà con una tappa in Ghana per sottolineare l’importanza che attribuisce all’Africa nell’affrontare i «problemi globali della comunità internazionale». Alla vigilia della partenza, è il vice consigliere per la sicurezza nazionale, Dennis McDonough, a spiegare «la novità africana» di questo itinerario: «Finora Obama ha fatto due importanti discorsi, sulla non proliferazione delle armi di distruzione di massa a Praga e sull’apertura all’Islam al Cairo. Ora vuole completarli con ciò che dirà a Mosca sui legami con la Russia e al Parlamento di Accra sul ruolo dell’Africa» dice McDonough. Michelle Gavin, assistente del presidente per l’Africa aggiunge: «La tappa in Ghana si lega alla volontà di sottolineare che l’Africa è parte integrante della visione di politica estera di questa Amministrazione», perché «le voci africane sono essenziali nella discussione di temi-chiave per il Pianeta, come quelli in agenda nel summit del G8 all’Aquila».
Se la scelta è caduta sul Ghana, il motivo è duplice: è lungo le sue coste che i mercanti di schiavi britannici raggruppavano gli uomini catturati prima di imbarcarli alla volta delle piantagioni del Nord America e sono le sue istituzione democratiche a essere fra le più stabili del Continente, come hanno dimostrato le recenti elezioni presidenziali, terminate con una differenza di appena 40 mila voti a favore del leader dell’opposizione John Atta Mills senza per questo scatenare proteste violente.
Non a caso i due posti dove Obama farà tappa saranno il castello di Cape Coast sul Golfo di Guinea, dove gli schiavi venivano detenuti in condizioni disumane, e il Parlamento di Accra, da dove il presidente parlerà al Continente dove nacque suo padre. L’ipotesi di scegliere il Kenya, terra d’origine degli Obama, è stata scartata perché, come ha spiegato lo stesso premier di Nairobi, Raila Odinga, «avrebbe mandato il messaggio sbagliato, lasciando intendere che il legame con l’Africa è famigliare e non strategico». Per Gavin, «ciò che distingue il Ghana è la stabilità delle istituzioni democratiche: da diversi anni ormai i passaggi di potere avvengono pacificamente e i governi che si susseguono perseguono tutti un’agenda tesa a rafforzare i commerci con il resto del mondo e la tenuta dello Stato di diritto».
L’accento sarà dunque, come sottolinea McDonough, sugli «aspetti positivi dell’Africa», lasciandosi alle spalle un approccio condizionato esclusivamente dalla gestione delle crisi. «Il Ghana è un partner importante in Africa Occidentale per combattere la mortalità infantile e il narcotraffico, come per la difesa del clima e lo sviluppo di nuove forme di energia» fanno sapere dalla Casa Bianca, lasciando intendere che Obama tornerà presto nel Continente con tappe in più Stati, incluso il Sud Africa, dove nel 2010 andrà ad assistere alla partita iniziale dei Mondiali di calcio. «Ma venire adesso ha un significato particolare, abbiamo voluto inserire l’Africa fra i viaggi fatti all’inizio della presidenza» aggiunge McDonough. Ironia della sorte vuole che, per raggiungere la capitale dall’aeroporto, la limousine del presidente debba percorrere l’autostrada intestata al predecessore George W. Bush, dopo il suo viaggio ufficiale nel febbraio 2008.
Obama si è già occupato di Africa, anche se a piccoli passi: affidando al generale Scott Gration l’incarico di inviato sulla crisi umanitaria nel Darfur sudanese e ricevendo nello Studio Ovale il premier dello Zimbabwe Morgan Tvangarai per tentare di studiare un piano congiunto contro la crisi economica che affligge il Paese. «La realtà è che finora Obama ha avuto un profilo basso sull’Africa - conclude Whitney Schneidman, ex consigliere di Barack sull’Africa durante la campagna presidenziale - e il momento del nuovo inizio sarà al Parlamento di Accra».
BERLUSConi: "AFRICA, MI DISPIACE".
L’ACCUSA
Aver stanziato soltanto il 3 per cento della somma garantita nel vertice di Gleneagles
"È vero, non abbiamo
rispettato gli impegni"
Berlusconi incalzato da Geldof ammette i ritardi nei pagamenti:
«E’ la crisi, rimedierò».
«Signor presidente, tutti hanno lo stesso problema»
INTERVISTA DI MARIO CALABRESI, La Stampa,5/7/2009 (per leggerla, cliccare sul rosso).
L’aiuto può essere soltanto disinteressato
Condividendo le responsabilità si difende la dignità umana
di CARLO MARIA CARD. MARTINI (La Stampa, 5/7/2009)
Sono stato in Africa per la prima volta nel 1980. Si trattava di una visita in Zambia, che mi fece conoscere le bellezze di quel Paese e il suo lento ma sicuro procedere per la via della stabilità economica e finanziaria. In seguito fui in molti altri Paesi. Mi impressionò favorevolmente soprattutto lo stato di benessere raggiunto da molte parti del Kenya, che visitai nel 1985. Si aveva l’impressione di una continua e solida crescita nella qualità della vita.
Poi tutto questo cammino si fermò, e ogni volta ritrovai un’Africa più povera e diseredata. Molte ragioni furono addotte per questo cambiamento in peggio. Lo scatenarsi di lotte tribali, il ripiegarsi sul proprio clan, la corruzione di non pochi funzionari pubblici, ecc. ecc. L’Africa ha certamente molte debolezze, come la molteplicità eccessiva delle lingue, la carenza cronica di acqua in certe regioni, la difficoltà dei collegamenti ecc. Ma ha anche grandi risorse, un clima che permette in particolare molte coltivazioni di frutta, dei paesaggi stupendi e soprattutto una umanità, una cordialità e una solidarietà parentale che non si dimenticano anche dopo molti anni.
L’Africa in questo momento ha grande bisogno di aiuto disinteressato, che le permetta di ricostruire le istituzioni venute meno e la provveda di uomini politici attenti al benessere del continente e del loro Paese, al di là degli interessi puramente tribali. Ci si augura che il prossimo G8 sia attento anche a queste realtà, come lo sarà per tante altre in difficoltà, in particolare per la città e la regione dell’Aquila. Un mondo che proceda in unità e corresponsabilità è un mondo che può preparare ai futuri cittadini un modo di vivere più conforme alla dignità umana, con tutte le conseguenze che seguono da tale situazione.
Sul tema, in rete, si cfr.:
L’AMORE GRATUITO ("CHARITAS") DI SUOR EMMANUELLE.
FLS
La denuncia. Il vescovo: «Il mio Centrafrica ostaggio di 14 signori della guerra»
Il grido di Juan José Aguirre, occupata dai ribelli: «Il Paese è al centro di una tragica partita internazionale per l’accaparramento dei suoi minerali». La sua diocesi è occupata dai ribelli
di Lucia Capuzzi (Avvenire, sabato 9 gennaio 2021)
«Le strade si sono ripopolate. I ribelli hanno garantito che non avrebbero commesso violenze sui civili e, per il momento, non l’hanno fatto. Non sappiamo, però, se domani si trasformeranno in lupi famelici. Un’altra località, Grimari, è stata appena attaccata. Il futuro è imprevedibile». L’unica certezza di Juan José Aguirre è che i poveri saranno i più colpiti dalla nuova fiammata di guerra centrafricana.
«È sempre andata così nei 40 anni che sono qui», racconta il vescovo spagnolo di Bangassou, nel sud-est, al confine con la Repubblica democratica del Congo, sotto occupazione degli insorti da quasi una settimana. All’alba di lunedì, i miliziani della Coalizione dei patrioti per il cambiamento (Cpc) hanno sferrato l’attacco, prendendo in contropiede i militari, costretti a ripiegare.
Almeno dieci persone sono morte. In diecimila hanno attraversato il fiume Ubangui, diretti in Congo in cui, nelle ultime settimane, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur/Unhcr) ha visto arrivare oltre 30mila centrafricani.
Il nuovo protagonista del conflitto, la Cpc, riunisce cinque fazioni ribelli, avversarie fino all’insurrezione del 19 dicembre scorso. Ne fanno parte perfino gli ex acerrimi nemici anti-balaka e Seleka. Proprio la ribellione di questi ultimi - in maggioranza islamici - contro l’allora presidente François Bozizé diede inizio al conflitto civile nel 2012.
Deposto, l’ex leader sperava di ritornare al potere con il voto del 27 dicembre ma la Corte Costituzionale l’ha escluso. Questa sarebbe stata la scintilla dell’attuale insurrezione. Le violenze, però, non hanno fermato le elezioni che hanno visto la riconferma del presidente uscente, Faustin Archange Touadera, con quasi il 54 per cento delle preferenze. I risultati sono, però, contestati. Nove rappresentanti dell’opposizione hanno denunciato «frodi massicce» e chiesto ai magistrati dell’Alta corte di non ratificare l’esito entro il termine del 19 gennaio.
«Il Centrafrica è al centro di una tragica partita internazionale per l’accaparramento dei suoi minerali - oro, diamanti, mercurio, litio - e per il controllo della transumanza, dato che molte aree del Paese sono poco popolate. Quattordici signori della guerra - la metà stranieri, del Ciad, del Niger, del Camerun - controllano il 75 per cento del territorio». Al gioco del tutti contro tutti, partecipano anche Russia - alleata del governo Touadera - e Francia, che secondo alcuni analisti, sosterrebbe la Cpc. È questo l’ostacolo alla pace che, al termine dell’Angelus di mercoledì, ha invocato papa Francesco: proprio in Centrafrica, nel 2015, il Pontefice inaugurò il Giubileo della Misericordia.
«Non è una battaglia politica e tantomeno religiosa, anche se spesso le differenze di fede vengono manipolate per alimentare il conflitto», conclude monsignor Aguirre che, nel 2014, fece da scudo umano per proteggere migliaia di islamici, molti dei quali vivono ancora nelle strutture della diocesi, oltre a 350 orfani. «Abbiamo avviato un progetto di riconciliazione dove vittime e carnefici di quel periodo convulso lavorano insieme. La nuova ondata di violenza l’ha fermato. Ma andiamo avanti, pronti a ricostruire, ogni giorno».
I progetti sostenuti dalla Chiesa italiana
La Chiesa italiana accanto al Centrafrica ferito. Con l’8xmille stanno infatti camminando progetti come la Scuola agricola Carmel animata dai Carmelitani scalzi alle porte di Bangui, il Complesso pediatrico gestito nella stessa capitale dall’Opera San Francesco Saverio-Cuamm e altre iniziative solidali, formative e umanitarie. Sono «un segno di speranza in un contesto di sofferenza - dichiara al portale www.chiesacattolica.it don Lorenzo Di Mauro, responsabile del Servizio per gli Interventi caritativi a favore del Terzo Mondo -. Attraverso i fondi dell’8xmille la Chiesa italiana riesce a farsi prossima a tante persone che hanno bisogno d’aiuto e che sono spesso dimenticate».
ANSA» 2009-07-12 10:20
OBAMA IN GHANA: AFRICA AGLI AFRICANI, ’’YES YOU CAN’’
dall’inviato Cristiano Del Riccio
ACCRA (GHANA) - ’Welcome Home!’. Accra ha accolto Barack Obama come un figlio ritrovato, riempiendo le strade di bandiere, di gente, di entusiasmo per la prima storica visita di un presidente americano dal sangue africano nelle vene. E Obama, che ha scelto il Ghana per questo viaggio per indicarlo a modello di democrazia e di buon governo al resto del continente, consegna all’Africa, come aveva già fatto con l’America, il suo messaggio di speranza, ma anche di richiamo alle responsabilità, centrato stavolta su un semplice concetto: "Il futuro dell’Africa appartiene agli africani".
Ad ascoltarlo al Centro Conferenze di Accra, dove campeggia enorme lo striscione ’Yes, Together We Can’, ci sono non solo i massimi esponenti di tutte le istituzioni del Ghana (compresi governo e Parlamento), ma anche i due ex-presidenti John Kufuor e Jerry Rawlings. Accanto a lui sul palco c’é l’attuale presidente, John Atta Mills, che ha conquistato il potere con una vittoria elettorale mozzafiato, risolta da pochi voti, dopo una campagna centrata sullo slogan ’Yes We Can’. "Entrambi i nostri due paesi hanno votato alcuni mesi fa per il cambiamento", osserva Atta Mills, facendo scattare l’applauso del pubblico, nel suo discorso di presentazione del presidente Usa. E’ quindi la volta degli inni nazionali, suonati con un organo a canne, mentre tra il pubblico spiccano i tradizionali costumi dai colori sgargianti, compreso un capo tribù che viaggia sotto l’ombrello tenuto sempre aperto da un adolescente. Obama - che nei precedenti discorsi internazionali di alto profilo era stato molto attento a non offendere europei (Praga), musulmani (Il Cairo) e russi (Mosca) - ha scelto qui ad Accra un tono più brutale.
Non serve a niente dare la colpa al passato coloniale o all’Occidente sfruttatore: "Bisogna mettere fine alle pratiche antidemocratiche ed alla corruzione, così endemica nella vita quotidiana. Bisogna adottare le regole del buon governo". Obama non ha risparmiato gli esempi: leader che pensano solo ad arricchirsi, poliziotti al soldo dei trafficanti di droga, funzionari di governo che esigono bustarelle del venti per cento dagli uomini d’affari, doganieri corrotti. "Nessuno desidera vivere in una società dove la legalità é sostituita dalla brutalità e dalla corruzione - ha detto Obama -. Questa non è democrazia. Questa è tirannia. Ed è giunto il momento per mettere fine a queste cose". La Storia non è dalla parte di chi ricorre ai colpi di stato o ai mutamenti della Costituzione per restare al potere: "L’Africa non ha bisogno di uomini forti - ha sottolineato Obama - ha invece bisogno di istituzioni forti". Sono frasi che scatenano grandi applausi e l’urlo ritmato ’Yes We Can!’. Il presidente americano ha fatto buon uso, come sempre, della sua storia personale: "Ho sangue africano nelle vene e la storia della mia famiglia racchiude sia le tragedie che i trionfi della storia africana".
Obama ha ricordato che suo nonno era cuoco nel Kenya dominato dai britannici (trattato tutta la vita come un servitore) e che il padre era un pastore di capre in un minuscolo villaggio, prima di fare il gran salto in America. Ma dopo che aveva studiato ad Harvard ed era tornato in Kenya per partecipare attivamente alla rinascita del paese, queste speranze sono andate deluse. E’ stato il Ghana a fare invece quello che il Kenya non è ancora riuscito a fare: imboccare la strada di una forte democrazia (dopo anni di colpi di stato) e di sane istituzioni di governo. L’Africa non deve tenere di restare sola. L’America è pronta a portare aiuto (insieme al resto della comunità internazionale), ma solo i paesi che lo meritano, combattendo la corruzione e facendo buon uso degli aiuti ricevuti. Una battaglia vitale è quella sanitaria. "Quando un bimbo muore ad Accra per una malattia che poteva essere prevenuta, questo diminuisce tutti noi", ha detto Obama.
Il presidente Usa ha parlato del genocidio nel Darfur, del terrorismo in Somalia, delle divisioni tribali ed etniche che sprigionano conflitti permanenti. Ed ha ricordato che 52 anni fa, Martin Luther King venne in Ghana per partecipare alle cerimonie di indipendenza del paese, spiegando di voler assistere "al trionfo della giustizia". Rivolgendosi ai giovani Obama ha detto: "Avete ereditato la libertà, ma non basta. Adesso è vostra responsabilità erigere su queste fondamenta una società giusta, sempre più democratica e sempre meno corrotta. Sarà un nuovo trionfo della giustizia". Il presidente Usa ha concluso la visita in Ghana recandosi al castello di Cape Coast, dove nei secolo scorsi gli schiavi venivano ammassati in catene nei sotterranei, in attesa di essere imbarcati sulle navi dei negrieri. Obama ha definito "altamente simbolica", come afro-americano, la sua visita ad un luogo dai ricordi così crudeli. Il passaggio che gli schiavi dovevano varcare, spesso dopo mesi di attesa nelle prigioni del castello, per essere imbarcati sulle navi, era chiamata "la porta del non ritorno". Ma Obama ce l’ha fatta. E’ tornato oggi in Africa, dopo avere spezzato molti tipi di catene, accolto con l’entusiasmo incontenibile di un figlio finalmente ritrovato.
Ansa» 2009-07-11 12:44
OBAMA IN GHANA: QUI DOPO G8 PERCHE’ AFRICA NON E’ SOLA
ACCRA - Il presidente Barack Obama ha deciso di recarsi in Ghana dopo il G8 per dimostrare che "l’Africa non é separata" dal contesto internazionale. Lo ha detto il presidente Usa, incontrando oggi ad Accra, in Ghana, il capo dello Stato John Atta Mills.
dall’inviato Cristiano Del Riccio
L’AQUILA - Per il presidente Barack Obama ’La Mia Africa’ non è il Kenya delle radici paterne ma piuttosto il Ghana, ex-capitale del commercio di schiavi ma oggi terra di democrazia e buon governo. Così l’inquilino della Casa Bianca sarà protagonista oggi in Ghana di un evento storico: la prima visita nell’Africa nera del primo presidente afro-americano degli Stati Uniti.
Una scelta che ha lasciato l’amaro in bocca ad altri paesi - come la Nigeria ed il Kenya - che si sono visti superare dal Ghana nella corsa a dare per primi il benvenuto ad Obama. L’inquilino della Casa Bianca considera infatti il Ghana un modello da additare per il resto dei Paesi africani: è un Paese che ha effettuato con successo almeno cinque elezioni democratiche e nell’ultima ha prevalso per pochi voti l’opposizione facendo scattare un cambio di governo incredibilmente fluido.
Così Barack Obama ha scelto Accra per il quarto importante discorso di una serie iniziata a Praga (contro la proliferazione nucleare) e proseguita al Cairo (sui rapporti col mondo musulmano) e quindi pochi giorni fa a Mosca (sui rapporti tra Usa e Russia). In Ghana il discorso sarà centrato sul buon governo e sullo sviluppo della democrazia in Africa.
Un soggetto che ha eliminato automaticamente Paesi come il Kenya (Obama si é detto preoccupato per la conflittualità permanente esistente nel paese di suo padre) o come la Nigeria, il ’Gigante Addormentato’ dell’Africa, dove dilaga la corruzione. Invece Obama potrà portare il Ghana come esempio da seguire. E la evoluzione positiva del paese sarà ulteriormente accentuata dall’unica visita turistica prevista: il Castello di Cape Coast, un maniero convertito nel 1700 a deposito degli schiavi in attesa di essere caricati sulle navi dei negrieri per un viaggio senza ritorno. I sotterranei del castello ospitavano migliaia di schiavi in catene, un orribile ammasso umano, e la stretta porta che gli schiavi dovevano attraversare per essere imbarcati sulle navi, a volte dopo mesi di prigionia nei sotterranei, era chiamata giustamente ’La Porta Senza Ritorno’.
Una visita piena di emozioni per Obama, che da candidato ha sempre evitato di menzionare il colore della sua pelle (facendo una eccezione in occasione della polemica innescata dalle parole incendiarie del suo pastore nero, il reverendo Jeremiah Wright) e che nei suoi primi mesi di presidenza non ha mostrato di voler dare priorità particolari ai problemi africani (distratto da Afghanistan, Nord Corea, Iran e questione israelo-palestinese).
Ma questo viaggio in Ghana sembra segnare una svolta, sottolineata dalla sempre maggiore importanza assunta per la amministrazione Obama dal problema della sicurezza alimentare, che ha visto l’inquilino della Casa Bianca molto attivo su questo fronte al G8 a L’Aquila. Un problema destinato a tornare in primo piano nel discorso di domani di Obama ad Accra.
Un discorso dove il presidente Usa cercherà di spiegare che la corruzione ed il malgoverno dilaganti in molti Paesi africani non possono essere attribuite unicamente al razzismo e al neo-colonialismo dell’Occidente. "Non credo in queste scuse: sono profondamente convinto che gli africani debbano essere responsabili per l’Africa - ha detto pochi giorni fa - L’Occidente o gli Stati Uniti non sono responsabili per gran parte delle disastrose politiche che abbiamo visto in Africa in questi ultimi anni".
La Stampa, 11/7/2009 (7:6)
IL VIAGGIO DEL PRESIDENTE USA
Obama, prima visita ufficiale in Africa
Il presidente Usa è arrivato in Ghana: attesa per il discorso al Parlamento su governabilità, sviluppo e democrazia
ACCRA Barack Obama è arrivato in Ghana per la sua prima visita nell’Africa sub-sahariana da quando è presidente degli Stati Uniti. Per lui, che ha le radici in Africa (il padre era keniano) è pronta un’accoglienza da eroe, con la capitale Accra, disseminata di striscioni con su scritto «Welcome Home» e rivenditori ambulanti che vendono magliette con l’immagine del suo volto. Al termine di "tre giorni" in Italia per il G8, il presidente Usa oggi avrà un’altra ventiquattr’ore molto intensa: la giornata comincerà con un incontro con il presidente ghanese, John Atta Mills, prima di partecipare con la moglie, Michelle, a un evento sulla salute materno-infantile in un ospedale di Accra.
Ma il piatto forte della sua visita sarà di fronte al Parlamento del Ghana, dove il presidente Usa pronuncerà un discorso molto atteso sullo sviluppo e la governabilità: sarà il quarto ed ultimo intervento per illustrare al mondo la sua politica estera: nel primo a Praga, propose un mondo senza armi nucleari; nel secondo a giugno al Cairo, volle tendere la mano al mondo musulmano; nel terzo a Mosca, martedì scorso, ha parlato delle relazioni tra Usa e Russia. In questa occasione, secondo fonti della Casa Bianca, Obama parlerà della governabilità e dell’importanza nello sviluppo, così come dell’importanza di aggiungere la voce africana ai dibattiti globali.
La scelta del Ghana, tra tutti i Paesi subsahariani, è da collegare al desiderio di mettere in luce un Paese in cui il processo democratico ha consentito un’autentica alternanza di potere democratico. Se il discorso dinanzi al Parlamento sarà il principale atto politico, quello di maggiore carica emozionale sarà la visita al forte di Cape Coast, da dove partivano gli schiavi catturati in Africa per essere inviati in nave, in condizioni durissime, in America. E l’atto più pittoresco sarà la cerimonia d’addio. È tradizione del Ghana infatti offrire un pittoresco benvenuto ai suoi visitatori, ma poichè Obama -che viaggia accompagnato dalle figlie Malia (11 anni) e Sasha (8) è arrivato in piena notte- si è deciso di trasferire la cerimonia al momento dell’addio.
Prima visita a Mosca del presidente Usa. I colloqui centrati sulla riduzione degli arsenali nucleari
Annunciata l’intesa sul trattato che sostituirà l’attuale Start del 1991, in scadenza
Disarmo, accordo fra Russia e Stati Uniti
Obama: "Possibili straordinari progressi"
Medvedev auspica l’apertura di "una nuova pagina nelle relazioni bilaterali"
Disarmo, accordo fra Russia e Stati Uniti Obama: "Possibili straordinari progressi" *
MOSCA - Stati Uniti e Russia possono ottenere "straordinari progressi" in vari campi se lavoreranno insieme. Con queste parole il presidente americano Barack Obama ha dato il senso della sua prima visita a Mosca, durante la quale dovrebbe essere firmata una dichiarazione di intenti sul disarmo nucleare. Dal canto suo, Dmitri Medvedev ha auspicato che il vertice possa "aprire una nuova pagina" nella storia delle relazioni russo-americane e ha sottolienato che c’è la possibilità di "prendere decisioni importanti ed essenziali su tutti i temi dell’agenda.
In coincidenza con l’arrivo di Obama i mezzi di informazione russi hanno reso noto che è stata trovata l’intesa sul testo che getta le basi per il negoziato di un trattato di riduzione degli arsenali atomici. Il trattato, che entrambe le parti sperano di concludere per la fine dell’anno, sostituirà l’attuale Start del 1991, che scade a dicembre. La dichiarazione di intenti, che era già stata preannunciata, sarà formalmente firmata oggi al Cremlino dai due capi di Stato e darà così il via ai negoziatori per mettere a punto il trattato proprio per la firma a dicembre.
Obama si è detto sicuro che i due Paesi potranno "avanzare sulla direzione tracciata a Londra", un riferimento al primo incontro con Medvedev a margine dello scorso G20. "Su tutte le questioni, come sicurezza, economia, energia, tutela dell’ambiente, tra Usa e Russia ci sono molte più cose in comune di quelle che ci dividono - ha proseguito il presidente americano - Se noi ci impegneremo e lavoreremo sodo nei prossimi giorni, penso che raggiungeremo straordinari progressi".
Anche Medvedev si è mostrato fiducioso, soprattutto nella possibilità di avviare una nuova fase dei rapporti bilaterali dopo le tensioni che hanno caratterizzato l’ultimo periodo della presidenza Bush, in particolare con la guerra in Georgia. "Speriamo che come risultato del nostro lavoro di oggi e di domani, degli intensi colloqui bilaterali a tutto campo, chiuderemo alcune pagine difficili nella storia della relazioni russo-americane e apriremo una nuova pagina", ha dichiarato il capo del Cremlino. "I nostri Paesi si scontrano con vari problemi che noi ora dobbiamo risolvere insieme", ha aggiunto citando quelli economici, la sicurezza mondiale e la riduzione degli armamenti strategici. E ancora: "Ritengo che abbiamo delle possibilità di prendere decisioni importanti ed essenziali su tutti i temi in agenda".
La giornata di Obama a Mosca è fitta di appuntamenti: almeno quattro ore di colloqui con Medvedev al Cremlino, seguiti da una conferenza stampa congiunta dove sarà annunciato il contenuto dell’accordo quadro sugli armamenti strategici.
Obama dedicherà a Medvedev anche la serata: il presidente Usa e la first lady Michelle saranno ospiti di una cena nella abitazione del presidente russo con un numero ristretto di invitati. L’ampio tempo messo in programma per i colloqui consentirà oggi ai due leader di affrontare, oltre alla questione nucleare, anche i temi di maggiore attualità internazionale come l’Afghanistan, l’Iran, la Corea del Nord e il Medio Oriente. I due leader potrebbero anche sottoscrivere un accordo per consentire il passaggio sul territorio russo dei rifornimenti per le truppe statunitensi in Afghanistan.
Domani mattina Obama incontrerà invece a colazione il premier russo Vladimir Putin, ancora molto potente, nonostante l’anno scorso abbia lasciato la presidenza, che ha accusato alcuni giorni fa di avere ancora un piede nella Guerra fredda. In seguito vedrà anche Mickhail Gorbaciov.
* LA REPUBBLICA, 6 luglio 2009
«Abbiamo bisogno di una partnership globale»
Ban Ki-moon: «Gli impegni sull’Africa devono essere mantenuti»
Intervista al segretario generale dell’Onu: «Di fronte alle crisi globali il G8 non basta»
GINEVRA - «La modestia non è molto apprezzata in Occidente», dice Ban Ki-moon. Bisogna saper «leggere» lo stile. Perché quando questo diplomatico sudcoreano di lungo corso, oggi 65enne, è succeduto al carismatico e fascinoso Kofi Annan come segretario generale dell’Onu, in molti si chiesero se fosse - così metodico, dimesso, e, appunto, modesto - la persona giusta per guidare le Nazioni Unite attraverso un’epoca di grandi riforme. Adesso incassa elogi, ultimo quello del New York Times. «Da noi si dice che per sorridere ci vuole molta forza. E io sorrido molto». È appena tornato dalla Birmania, e concede quest’intervista nella suite dell’hotel Intercontinental che guarda sul lago di Ginevra, la sua «seconda residenza». Dimostra una memoria prodigiosa, quando ricorda gli anni passati da ambasciatore in Slovenia.
Segretario generale, lei ha appena scritto una lettera ai leader dei G8. Chiede loro di rispettare gli impegni presi negli aiuti ai Paesi poveri. Molti non lo fanno, tra questi l’Italia.
«Sì, ci sono stati molte iniziative in questo senso. Però in questo momento, rispetto agli impegni del G8 di Gleaneagles, per fare un esempio, mancano all’appello 20 milioni per l’Africa. Per questo sono intervenuto. Se l’Africa non si unirà agli altri Paesi nel perseguire gli Obiettivi del Millennio (dimezzare l’estrema povertà entro il 2015, lottare contro la mortalità infantile, ndr), non c’è nessuna speranza di raggiungerli. E questi obiettivi sono un imperativo politico e morale».
C’entra la crisi globale?
«Temo che la crisi finanziaria globale abbia abbassato il livello di impegno. Eppure, mi incoraggia pensare che al G20 a Londra tutti i leader abbiano offerto il loro sostegno».
Un messaggio per l’Italia?
«Al primo ministro Berlusconi dico: come si riuscirà a mobilizzare le risorse e come si troverà un accordo, questo dipenderà proprio dalla sua leadership».
Le istituzioni internazionali sono entrate in una fase di profondo ridisegno. Quale ruolo ha ancora il G8?
«In passato i Paesi del G8 si riunivano tra loro, ma da tempo non è più così. L’Italia ha invitato un’ampia rete di Paesi africani o Paesi toccati dai cambiamenti climatici. Bene».
Il G8 non basta più?
«No. Di fronte a tutte queste crisi - la povertà, la crisi alimentare, quella energetica, la salute pubblica - nessun Paese, per quanto potente e ricco di risorse, si può muovere da solo. Abbiamo bisogno di una partnership globale. Questo è ciò che io chiamo il nuovo multilateralismo, sorretto da principi, risorse e volontà politica. Come segretario generale, ho cercato di creare questa consapevolezza e consolidare la volontà politica per realizzarla».
Ha trovato una maggiore attenzione nell’Americadi Obama?
«Sì. Il presidente Obama è un grande sostenitore dell’Onu. ’Lei troverà in me un partner forte’, mi disse. È serio, costruttivo, molto incoraggiante. E le sue iniziative, come quella sulla riduzione degli standard delle emissioni CO2, hanno un forte appeal per i Paesi con problemi d’inquinamento ».
Lei è appena stato in Birmania. Ha trovato qualche cambiamento nella giunta?
«Credo che abbiano ricevuto il messaggio. Se vogliono dimostrare un profondo impegno per la democratizzazione del Paese devono indire elezioni libere, trasparenti, inclusive di tutti, legittime nel 2010. Poi ho chiesto di liberare tutti i prigionieri politici, inclusa Aung San Suu Kyi».
Ma non le hanno permesso di vederla.
«Credo che abbiamo perso un’ottima occasione. Però sarebbe stato ingenuo aspettarsi cambiamenti dopo una sola visita: questo è un Paese chiuso in se stesso da decenni».
Anche in Iran ci sono migliaia di persone scomparse, o finite in prigione: studenti, insegnanti attivisti.
«Ho chiesto di liberarli. Tutti».
Nei giorni scorsi ci sono state 34 esecuzioni a Teheran. Gruppi di diritti umani chiedono all’Onu di intervenire.
«Cercherò prima di trovare dov’è la verità, poi prenderò tutte le azioni necessarie. Ma in principio, è inaccettabile se hanno mandato a morte così tante persone. Tutti i processi dovrebbero essere tenuti in modo trasparente e libero ».
Crede che il Consiglio di Sicurezza debba discutere di nuove sanzioni contro l’Iran?
«Gli iraniani sono già sotto sanzioni. Mentre la situazione evolve, il Consiglio potrebbe doverle considerare. Ora però è più importante che il governo iraniano rispetti le risoluzioni che già gli sono state imposte».
È vero che ha deciso di fare il diplomatico incontrando il presidente Kennedy?
«Sì, ero un ragazzo, l’incontro con lui è stato un momento d’ispirazione».
E oggi a quali leader si ispira?
«Mentre mi incontro con i leader stranieri, cerco di imparare da loro, di studiarli. Ma ogni leadership ha un suo stile. Il mio è di armonizzare le differenze. Il segretario generale, a differenza di altri, non difende un interesse nazionale. Gli serve molta pazienza. E molto studio».
Mara Gergolet
* Corriere della Sera, 06 luglio 2009
La mia Liberia, più scuole e meno corrotti
di ELLEN JOHNSON-SIRLEAF (La Stampa, 5/7/2009) *
Per più di un decennio la maggior parte dell’Africa ha fatto dei passi avanti. L’economia è cresciuta, la povertà si è ridotta e i governi democratici si sono diffusi. Ma la crisi economica globale minaccia di annullare questi progressi, riducendo gli investimenti, le esportazioni e gli aiuti proprio nel momento incui dovrebbero aumentare per consolidare il successo.
Mentre l’attenzione della comunità internazionale è stata - comprensibilmente - rivolta soprattutto verso il Darfur, la Somalia e lo Zimbabwe, altri Paesi del continente come il Ghana, la Tanzania, il Mozambico e la Liberia hanno operato una svolta lontano da ogni clamore. I tassi di crescita economica di molte nazioni hanno regolarmente superato il 5 per cento. La chiave di questo progresso è una leadership africana più forte e una governance più trasparente. Oggi, più di 20 Paesi africani sono delle democrazie, negli anni ’80 erano solo tre. Questi Paesi hanno elezioni libere, uno standard migliore del rispetto dei diritti umani e media molto più liberi.
Questi progressi sono stati sostenuti da un assistenza allo sviluppo sempre più efficace. Prendiamo quello che è successo nel mio Paese, la Liberia. Dopo 14 anni di devastante guerra, abbiamo affrontato sfide enormi. Per questa svolta il nostro governo eletto democraticamente ha collaborato con partners internazionali e con un numero sempre maggiore di investitori privati. Negli ultimi tre anni abbiamo raddoppiato le iscrizioni alla scuola elementare, rinnovato centinaia di aziende sanitarie, cominciato a ricostruire le strade e riavviare le reti elettriche.
Abbiamo fatto passi importanti per sradicare la corruzione e rimuovere funzionari senza scrupoli. La crescita annua ha raggiunto il livello di diversi punti percentuali. E, soprattutto, viviamo in pace. Stiamo ricostruendo la nostra nazione riportandola a quella che era, vibrante di vita, e siamo già riusciti a rimettere in moto il componente principale di questa rinascita: la speranza. Senza il sostegno internazionale non saremmo mai riusciti a compiere questi progressi e saremmo oggi ancora a rischio di ripiombare in una guerra.
La crisi economica globale sta minacciando i progressi fatti dal mio Paese e nel resto del continente. La riduzione delle rimesse dai lavoratori all’estero, il ridimensionamento dello scambio merci e degli investimenti rischiano di danneggiare le nuove attività imprenditoriali, togliere il lavoro a migliaia di persone, aumentare la tensione e l’instabilità. La crisi - che l’Africa non ha contribuito a causare - richiede una reazione forte. Le nazioni del nostro continente devono fare la loro parte continuando a lottare contro la corruzione ed eliminare gli ostacoli alla crescita del settore privato. Ma così come i Paesi industrializzati hanno bisogno di stimoli, così le economie africani necessitano di un impulso per mantenere il loro progresso.
Il vertice del G8 che si terrà in Italia ha un ruolo importante. Tra le altre misure da prendere, le nazioni del G8 devono mantenere le loro promesse di aumentare gli aiuti e renderli più efficaci attraverso la riduzione dei ritardi burocratici, dell’acceleramento degli esborsi e di un maggiore coordinamento con le priorità africane. Aiuti efficaci non sono certamente l’unica risposta da dare, ma hanno un ruolo sempre più importante man mano che le altre risorse si prosciugano. Sono necessari per porre le basi alla crescita del settore privato. Per una nazione europea come l’Italia si tratta di un investimento intelligente nella prosperità e nella stabilità nel proprio cortile di casa.
Sarebbe un’ironia crudele se, proprio mentre l’Africa comincia ad assaporare il successo, le sue prospettive venissero troncate da una crisi che il continente non è in grado di controllare. Una forte azione dei governi africani insieme a un robusto sostegno della comunità internazionale possono impedire il deragliamento della rinascita africana. Ma per farlo ci vuole l’impegno di tutte e due le parti.
* presidente della Liberia e autore di «This Child Will Be Great: Memoir of a Remarkable Life by Africa’s First Woman President».
E ancora fuggiamo dalla Grande Madre
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 5/7/2009)
La fuga dall’Africa ha inizio centomila anni fa, quando un primo drappello di uomini varca l’istmo di Suez e si spande nel mondo. Lo storico John Reader sostiene che non erano più di cinquanta, su un milione di uomini. L’homo sapiens aveva mosso i primi passi nel continente nero, e per evolvere aveva avuto bisogno di quel clima impervio, scottante, dove insetti, parassiti, batteri minacciavano l’uomo dopo averlo addestrato al peggio. Per i primi fuggitivi il nomadismo non era la soluzione. Quel che il filosofo Deleuze dirà nel Novecento - «Nulla è più immobile di un nomade» - era per loro tragica evidenza. Il clima di umidità e batteri era stato fonte ieri di vita, oggi di morte. Per questo il drappello preferì l’esodo al nomadismo. L’aumento straordinario della demografia comincia allora, ma fuori dall’Africa: i fuggitivi si riproducono, gli antenati dell’uomo stagnano.
In realtà fuggiamo tuttora dall’Africa: per istinto ci rifiutiamo di vederla, conoscerla. La grande madre dell’umanità attira e respinge, il matricidio è incessante. Il continente ha una sua storia, sue tradizioni, ma chi lo fugge continua a trattarlo come uno specchio, in cui non vede che se stesso. Anche oggi è così. L’Africa è l’unico continente che ha bisogno della globalizzazione come del pane, che da oltre un decennio ha preso a crescere e a cercare forme di governo meno caotiche, e tuttavia insistiamo a guardarla con le lenti della storia europea. È il dizionario dei nostri luoghi comuni: la maggior parte delle sue caratteristiche sono invenzioni dell’Europa che dal XV secolo l’ha colonizzata.
Un tempo breve, se paragonato alla storia dell’uomo eretto iniziata in quelle terre 3,5 milioni di anni fa. Un tempo brevissimo, se contempliamo il periodo in cui gli europei si spartirono l’Africa sbranandola: appena vent’anni, alla fine dell’800. Ma sono vent’anni decisivi; le prigioni mentali europee e africane si formano in quell’era di conquista-spartizione. La chiamarono Scramble for Africa: e in effetti fu una corsa ai primi posti, una «sgomitata» che travolse e mutò popoli. L’Africa divenne un’invenzione europea. Nel frattempo sappiamo che tra le invenzioni spicca il tribalismo. Certo i clan sono essenziali in Africa, ma contrariamente a quel che si pensa non esiste una congenita vocazione a dividersi in tribù impermeabili, identitarie.
Gli europei idolatravano lo Stato-nazione assolutamente sovrano e in Africa cercarono qualcosa di equivalente, non trovando regni monolitici ma fragili staterelli. L’equivalente dello Stato ottocentesco (coscienza identitaria esasperata, chiusura al diverso) erano le tribù, che la Corsa all’Africa ossificò. Fu la monarchia belga a lacerare il Ruanda in tribù hutu e tutsi, attizzando un odio che sfocerà nel genocidio del 1994. Furono gli inglesi a esaltare le diversità fra etnie Shona e Ndbele, per meglio dominare lo Zimbabwe (Rhodesia). Il ritorno al tribalismo, di cui il continente nero è accusato, è ritorno all’invenzione europea dell’Africa.
È un’invenzione dell’Ottocento, questo secolo europeo non meno terribile del Novecento. Gli esseri umani trattati come cose, la crudeltà sadica, i genocidi: la prova generale viene fatta nello Scramble for Africa. Sono orrori di cui si parla meno perché avvenuti lì. L’Africa è la palestra dove l’occidentale ha collaudato e anticipato gli stermini, i campi di concentramento.
La Germania imperiale collauda il genocidio nell’Africa tedesca del Sud-Ovest (oggi Namibia), annientando gli indigeni Herero e Nama fra il 1904 e il 1907. Tre quarti degli Herero e metà dei Nama perirono nei Lager o nei deserti, dove il generale Lothar von Trotha li scacciò avendo avvelenato, prima, tutti i pozzi. L’ordine di liquidazione (Vernichtungsbefehl) è emanato da Trotha nel 1904. Poi vi furono i massacri e i campi nel Regno del Congo, per volontà di Leopoldo II del Belgio, re dell’orrore. Nel 1906, gli inglesi ordinano l’«annientamento» di un villaggio contadino ribellatosi in Nigeria (2000 uomini, donne, bambini uccisi). Nel costruire l’immensa ferrovia dall’Atlantico a Brazzaville nel Congo, i francesi provocano la morte di 17.000 forzati neri.
Non sono solo gli Occidentali a fuggire l’Africa, per vergogna di sé o indifferenza. Anche l’Africa fatica a liberarsi dagli stereotipi che la definiscono, a ritrovare se stessa, a vedersi protagonista responsabile e non solo vittima, a darsi una storia. L’invenzione europea del tribalismo, l’ha interiorizzata come fosse sua. Il sogno di creare Stati accentrati, coltivato negli anni dell’indipendenza, impedisce le cooperazioni transfrontaliere che scongiurerebbero tante guerre in apparenza civili, in realtà regionali. La storia della schiavitù è ricordata come inferno coloniale - e senz’altro lo fu: 13 milioni di africani furono trapiantati fra il XV e XIX secolo - non come una cultura servile sorta in Africa per far fronte alla scarsa natalità. Sono trascurate perfino le più originali invenzioni del continente: prime fra tutte le Commissioni per la verità e la giustizia in Sud Africa, che hanno inaugurato inedite, esemplari politiche della memoria.
Ma lo stereotipo più resistente è quello secondo cui l’Africa è senza storia, in fondo maledetta. Lo ha formulato Hegel all’inizio dell’800, nella Filosofia della Storia Universale: «L’Africa non è un continente storico, non ha movimento né sviluppo». Ancora nel 1963, in una conferenza a Oxford, lo storico Trevor-Roper ne ripete la stupida arroganza: «Forse in futuro ci sarà una storia africana. Ma al momento non ce n’è: esiste solo una storia degli europei in Africa. Il resto è tenebra, e la tenebra non è soggetto di storia». La storia dell’Africa esiste se comincia a vedere l’uomo dietro le tribù, ad aprirsi all’altro che non ci somiglia. Se occidentali e africani smettono l’idolo del vecchio Stato sovrano. L’aspirazione di tanti africani a forme politiche meno accentrate è un’emancipazione dall’immagine che noi ci facciano di loro, e che loro hanno finito col farsi di sé.