PALERMO - Nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo, le commemorazioni del diciassettesimo anniversario della strage di Capaci. Alla manifestazione, alla presenza di centinaia di studenti di tutt’Italia di Napolitano e dei ministri Maroni, Alfano e Gelmini.
Commemorando Giovanni Falcone, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha detto che conta, nella lotta contro la mafia, "la crescita della coscienza critica e della fiducia nello Stato di diritto", e ha sottolineato che essa "può rafforzarsi solo in un clima di rispetto in ogni circostanza degli equilibri costituzionali da parte di tutti coloro che sono chiamati ad osservarli". "Mai come in momenti come questo, uniti nel ricordo incancellabile di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e le altre vittime della mafia sentiamo di essere una nazione", ha detto il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nell’aula bunker di Palermo.
"Lo Stato c’é e si fa sentire. I risultati degli sforzi compiuti dalle forze dell’ordine e dai magistrati sono sotto gli occhi di tutti". L’ha detto il ministro dell’Interno Roberto Maroni, intervenendo nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo. Maroni, ricordando l’impegno di giudici, carabinieri, polizia e finanza, ha espresso loro il suo ringraziamento.
"Nel 2008 sono stati sottratti alle mafie beni per 4 miliardi di euro. Il triplo del 2007. E’ questo il miglior modo per celebrare le vittime della mafia: ricordare magistrati e forze di polizia impegnati nel contrasto ai boss", ha detto il ministro Maroni. Maroni ha elencato i dati relativi a sequestri, arresti e confische messi a segno all’inizio dell’anno dalle forze dell’ordine. "Da gennaio ci sono stati 1.088 arresti - ha spiegato - 97 operazioni antimafia. Sono finiti in cella 70 latitanti, alcuni dei quali inseriti nella lista dei 30 più pericolosi". "Sempre dall’inizio dell’anno - ha proseguito - sono stati sequestrati mille beni per 330 milioni di euro e confiscati 146 beni per un valore di 28 milioni di euro". "Solo a Palermo - ha ricordato Maroni - dall’inizio dell’anno sono stati messi a segno 19 blitz antimafia, arrestate 129 persone, tra le quali 5 latitanti. Due di loro erano nella lista dei 100 più pericolosi. In questi 5 mesi sono stati sequestrati 43 beni per 7 milioni di euro e confiscati in tutto proprietà e liquidi per 14 miliardi di euro". Maroni ha, infine, ricordato l’arresto del boss latitante Antonino Lo Nigro e tutti i recenti blitz delle forze dell’ordine facendo riferimento, da ultimo, a quello che ieri ha portato in cella Leonardo Badalamenti, figlio dello storico capomafia don Tano.
SORELLA MARIA, CADUTO MITO IMPUNIBILITA’ MAFIA- La sorella di Giovanni Falcone, Maria, intervenendo nel dibattito in corso all’aula bunker ha parlato di "caduta del mito dell’impunibilità della mafia" e ha sottolineato come quest’anno sia stato scelto come tema centrale dell’appuntamento quello del lavoro e dello sviluppo. "Fare sviluppo economico legale in Sicilia significa fare antimafia", ha detto Maria Falcone. Un filmato realizzato dalla Fondazione Falcone ha ripercorso l’attività del giudice e del suo collega Paolo Borsellino, con momenti di grande commozione, e scegliendo di mostrare più volte l’immagine del procuratore Antonino Caponnetto, che dei due giudici fu, oltre che un mentore, quasi un padre.
MARCEGAGLIA, LIBERI DI VOLARE NEL MONDO DELL’ONESTA’ - "Dobbiamo essere liberi di volare nel mondo dell’onesta". E’ l’appello che nell’aula bunker dell’Ucciardone ha lanciato Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria. "Siamo qui - ha detto - per testimoniare l’impegno dell’associazione e delle imprese sane in favore della legalità e contro la cultura della corruzione, dell’evasione, della collusione che inquina il tessuto civile del nostro Paese". Marcegaglia ha ribadito, in un intervento più volte interrotto dagli applausi, che si è ormai affermata nel mondo dell’imprenditoria la "volontà di stroncare ogni forma di contiguità". E di spezzare il circolo vizioso del sottosviluppo che crea illegalità, che finisce per "impedire alla società sana di svilupparsi e progredire". Secondo il presidente di Confindustria l’economia sana non ha altra scelta che di espellere le sacche di collusione che ancora sopravvivono. Netto deve essere il "rifiuto di pagare il pizzo" ma anche l’impegno di isolare chi non denuncia il racket. "E’ questa un’operazione - ha sottolineato - che sta andando avanti estendendosi dalla Sicilia alle altre regioni. Gli imprenditori sanno che non ci può essere scelta diversa: o si sta dalla parte della legalità o contro la legalità". La conferma che questo processo è ormai in una fase avanzata viene, ha ricordato Marcegaglia, dal fatto che molti imprenditori che investono al Sud sono pronti a sottoscrivere protocolli di legalità.
NAPOLITANO INCONTRA LE VITTIME DI MAFIA Il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, prima di entrare nell’aula bunker dell’Ucciardone, ha incontrato i familiari di alcune vittime della mafia, alla presenza anche del procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso. Prima il Presidente della Repubblica ha reso omaggio alle vittime dell’attentato di Capaci recandosi nella caserma Lungaro della polizia, a Palermo. Dopo avere deposto una corona di fiori ha incontrato i familiari di altre vittime della mafia. Erano presenti il presidente del Senato, Renato Schifani, e il ministro dell’Interno, Roberto Maroni. Alla cerimonia hanno partecipato anche, tra gli altri, il capo della polizia, Antonio Manganelli, il procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso, il presidente della Regione Siciliana, Raffaele Lombardo e il sindaco di Palermo, Diego Cammarata.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Una manifestazione a Roma
Con i magistrati, per la Costituzione
di Salvatore Borsellino (il Fatto, 12.12.2012)
Caro direttore,
ci sono dei momenti nella vita di una nazione in cui non si può stare alla finestra. Ci sono momenti in cui è necessario mettersi in gioco e dare, ciascuno di noi, il nostro contributo nella difesa dei valori in cui crediamo e che vogliamo trasmettere ai nostri figli.
Stiamo attraversando un momento particolare della nostra storia perché, per la prima volta nella storia del nostro paese, lo Stato sta trovando il coraggio di processare se stesso.
C’è un peccato originale alla base di questa che chiamano Seconda Repubblica, una scellerata trattativa tra pezzi dello Stato e quello che dovrebbe essere l’anti-Stato.
Sull’altare di questa trattativa è stata immolata la vita di Paolo Borsellino, dei ragazzi che gli facevano da scorta, sono stati sacrificati i martiri di via dei Georgofili e di via Palestro.
Per mantenere su di essa il segreto c’è stata una congiura del silenzio che è durata vent’anni e che ha coinvolto centinaia di personaggi della politica e delle istituzioni. C’è stato un depistaggio che ha falsato il processo sulla strage di via D’Amelio.
Quando finalmente l’opera di alcuni magistrati, le rivelazioni di nuovi collaboratori di giustizia, hanno cominciato a squarciare il velo, sono cominciati i muri di gomma e la guerra scatenata contro i magistrati.
Mi sarei aspettato che a questi magistrati arrivassero incoraggiamenti, che venissero spianati gli ostacoli che si frapponevano sulla difficile strada della Verità.
Al contrario ho dovuto leggere con raccapriccio di intercettazioni in cui a un indagato in questo processo, Nicola Mancino, che si lamentava al telefono per essere stato lasciato solo, veniva, non so se a torto o a ragione, promessa la benevolenza e l’attenzione della più alta Istituzione del nostro Stato. Fino all’ultimo atto, quello in cui, per impedire la divulgazione delle intercettazioni che in maniera casuale riguardavano lo stesso Presidente della Repubblica, viene sollevato un conflitto di attribuzione contro la Procura di Palermo, che rischia di essere il più grave ostacolo sull’iter di un processo dal quale ci aspettavamo quella Verità.
PERCHÉ questa ansia, quasi questo panico, sul contenuto di queste intercettazioni e sulla possibilità che l’opinione pubblica ne venga a conoscenza? Forse contengono dei giudizi di merito su dei magistrati, su dei parenti di vittime che a voce troppo alta continuano a gridare la loro rabbia per una verità occultata?
Io non credo, non voglio e non posso credere che sia così, ma è proprio per poterne dissipare anche soltanto il sospetto che la stessa Presidenza della Repubblica dovrebbe chiedere la divulgazione del testo di queste intercettazioni. Anche perché per quanto riguarda direttamente me, fratello di Paolo Borsellino, mi è già sufficiente essere stato escluso, insieme con mia sorella Rita, dal novero dei parenti di Paolo nel messaggio inviato dalla Presidenza della Repubblica all’Anm il 19 luglio.
Questa stessa sorte forse toccherà ora, per le sue manifestazioni di sdegno nei confronti dell’imputato Nicola Mancino, anche ad Agnese, la moglie di Paolo, alla quale, insieme con il figlio, quel messaggio era stato rivolto.
E adesso è arrivata anche la decisione della Consulta sul conflitto di attribuzioni, sentenza della quale non si conoscono ancora le motivazioni, ma che sembra non colmare il vuoto legislativo o indicare una corretta interpretazione della Costituzione riguardo alle casuali intercettazioni riguardanti il Presidente della Repubblica. Sempre che di un vuoto si tratti e non di un esplicito silenzio. E mentre fa riferimento a un inapplicabile, in tale caso, articolo 271 del codice di procedura penale, a meno che in quelle telefonate Mancino non pensasse di rivolgersi al suo avvocato o al suo confessore, la sentenza non manca di censurare pesantemente l’operato della Procura di Palermo che invece ha agito applicando rigorosamente le leggi sulle intercettazioni.
A FRONTE di queste continue invasioni di campo del potere legislativo ed esecutivo su quello giudiziario, per dimostrare a questa classe dirigente che non siamo tutti assopiti, che abbiamo ancora la forza di reagire, noi non resteremo a guardare. E lo facciamo come passo successivo e conseguente all’appello sottoscritto da migliaia di cittadini a sostegno di questi magistrati. Noi crediamo che una firma non sia sufficiente, noi chiamiamo tutti i cittadini che hanno il coraggio, come Antonio Ingroia, di dichiararsi “partigiani della Costituzione”, a scendere in piazza con noi e a gridare la nostra voglia di Giustizia, di Verità e di Resistenza.
Assieme a me, ai giovani e ai sempre giovani delle Agende Rosse e a tutte quelle persone che hanno deciso di non tacere. Assieme a Marco Travaglio, a Luigi De Magistris, a Ferdinando Imposimato, a Sonia Alfano, a Sabina Guzzanti, ad Aldo Busi, ad Antonio Padellaro, a Marco Lillo, a Vauro Senesi, a Moni Ovadia, a Silvia Resta, a Sandra Amurri, a Fabio Repici, a Daniele Silvestri, a Manuel Agnelli e a tanti altri, che sabato 15, a Roma, in Piazza Farnese hanno accettato con entusiasmo di essere assieme a noi.
Dimostriamo a questa classe dirigente, al paese, a noi stessi, che siamo ancora capaci di alzare la testa. A fianco dei magistrati del pool di Palermo.
La perdita dell’olfatto
di Barbara Spinelli *
Quando il fascismo stava per finire, nel novembre 1944, un giornalista americano che conosceva bene l’Italia, Herbert Matthews, scrisse un articolo molto scomodo, sul mensile Mercurio diretto da Alba De Céspedes. S’intitolava "Non lo avete ucciso", e ci ritraeva, noi italiani e i nostri nuovi politici, incapaci di uccidere la bestia da cui in massa eravamo stati sedotti. Una vera epurazione era impossibile, soprattutto delle menti, dei costumi.
Troppo vasti i consensi dati al tiranno, i trasformismi dell’ultima ora. Matthews racconta un episodio significativo di quegli anni. Quando il governo militare alleato volle epurare l’Università di Roma, una delegazione del Comitato di liberazione nazionale (Cln) chiese che la riorganizzazione fosse compiuta da due membri di ciascun partito: "In altre parole, una politica di partito doveva essere introdotta nel dominio dell’alta cultura: il che, mi sembra, è fascismo bello e buono". Il giornalista conclude che la lotta al fascismo doveva durare tutta la vita: "È un mostro col capo d’idra, dai molti aspetti, ma con un unico corpo. Non crediate di averlo ucciso".
L’idra è tra noi, anche oggi. Nasce allo stesso modo, è il frutto amaro e terribile di mali che tendono a ripetersi eguali a se stessi e non vengono curati: come se non si volesse curarli, come se si preferisse sempre di nuovo nasconderli, lasciarli imputridire, poi dimenticarli. È uno dei lati più scuri dell’Italia, questo barcollare imbambolato lungo un baratro, dentro il quale non si guarda perché guardarlo significa conoscere e capire quel che racchiude: la politica che non vuol rigenerarsi; i partiti che non apprendono dai propri errori e si trasformano in cerchie chiuse, a null’altro interessate se non alla perpetuazione del proprio potere; la carenza spaventosa di una classe dirigente meno irresponsabile, meno immemore di quel che è accaduto in Italia in più di mezzo secolo.
E tuttavia distinguere si può, si deve: altrimenti prepariamoci alle esequie della politica. Ci sono uomini e partiti che si sono opposti e s’oppongono alla degenerazione, e ce ne sono che coscientemente hanno scommesso sul degrado. C’è la Costituzione, che protegge la politica e chi ne ha vocazione: compresi i partiti, che al caos oppongono l’organizzazione. Il molle non è equiparabile al colluso con la mafia, il mediocre non è un criminale. La politica è oggi invisa, ma a lei spetta ricominciare la Storia. I movimenti antipolitici denunciano una malattia che senz’altro corrode dal di dentro la democrazia, ma non hanno la forza e neanche il desiderio di governare. Chi voglia governare non può che rinobilitarla, la politica.
Se questo non avviene, se i partiti si limitano a denunciare l’antipolitica, avranno mancato per indolenza e autoconservazione l’appuntamento con la verità. Non avranno compreso in tempo l’essenziale: sono le loro malattie a suscitare i pifferai-taumaturghi (l’ultimo è stato Berlusconi). Il paese rischia di morire di demagogia, dice Bersani, ma questa morte è un remake: vale la pena rifletterci sopra. Guardiamola allora, questa politica sempre tentata dai remake. Non è solo questione di corruzione finanziaria, o del denaro pubblico dato perché i partiti non siano prede di lobby e che tuttavia è solo in piccola parte speso per opere indispensabili (il resto andrebbe restituito ai cittadini: questo è depurarsi). La corruzione è più antica, ha radici nelle menti e in memorie striminzite. Matthews denuncia lottizzazioni partitiche già nel ’44. Un’altra cosa che smaschera è il ruolo della mafia nella Liberazione. Anche quest’idra è tra noi.
È lunga, la lista dei mali via via occultati, e spesso scordati. L’Anti-Stato che presto cominciò a crearsi accanto a quello ufficiale, e divenne il marchio comune a tante eversioni: mafiose, brigatiste, della politica quando si fa sommersa. Un Anti-Stato raramente ammesso, combattuto debolmente. E le stragi, a Portella della Ginestra nel ’47 e a partire dal ’69: restate impunite, anonime. L’ultima infamia risale alla sentenza sull’eccidio di Brescia del ’74, sabato scorso: tutti assolti. È un conforto che Monti abbia deciso che spetta allo Stato e non alle vittime pagare 38 anni di inchieste e processi: l’ammissione di responsabilità gli fa onore. Poi la P2: una "trasversale sacca di resistenza alla democrazia", secondo Tina Anselmi. Berlusconi, tessera 1816 della Loggia, entrò in politica per attuare il controllo dell’informazione e della magistratura previsto nel Piano di Rinascita democratica di Gelli. Le mazzette a politici e giornalisti si chiamano, nel Piano, "sollecitazioni".
È corruzione anche la sordità a quel che i cittadini invocano da decenni, nei referendum. Nel ’91 votarono contro una legge elettorale che consentiva ai partiti di piazzare nelle liste i propri preferiti. Nel ’93 chiesero l’abbandono del sistema proporzionale, che in Italia aveva dilatato la partitocrazia. Il 90.3 per cento votò nel ’93 contro il finanziamento pubblico dei partiti. I referendum sono stati sprezzati, con sfacciataggine. Il finanziamento è ripreso sostituendo il vocabolo: ora si dice rimborso. Da noi si cambia così: migliorando i sinonimi, non le leggi e i costumi.
Ma soprattutto, sono spesso svilite le battaglie dell’Italia migliore (antimafia, anticorruzione). Bisogna cadere ammazzati come Ambrosoli, Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino, per non finire nel niente. Le commemorazioni stesse sono subdole forme di oblio. Si celebra Ambrosoli, non la sua lotta contro Sindona, mafia, P2. Disse di lui Andreotti, legato a Sindona: "È una persona che se l’andava cercando". Fu ascoltato in silenzio, e non possiamo stupirci se l’ex democristiano Scajola, nel 2002, dirà parole quasi identiche su Marco Biagi, reo d’aver chiesto la scorta prima d’essere ucciso: "Era un rompicoglioni che voleva il rinnovo del contratto di consulenza". Ci sono cose che, una volta dette, ti tolgono il diritto di rappresentare l’Italia.
Viene infine la dimenticanza pura, che dissolve come in un acido persone italiane eccelse. Tina Anselmi è un esempio. Gli italiani sanno qualcosa della straordinaria donna che guidò la commissione parlamentare sulla P2? È come fosse già morta, ed è commovente che alcuni amici la ricordino. Tra essi Anna Vinci, autrice di un libro di Chiarelettere sulla P2. Con Giuseppe Amari, la scrittrice ha appena pubblicato Le notti della democrazia, in cui la tenacia di Tina è paragonata a quella di Aung San Suu Kyi. Altro esempio: Federico Caffè, fautore solitario di un’economia alternativa ai trionfi liberisti, di rado nominato. Un mattino, il 15-4-87, si tolse di mezzo, scomparve come il fisico Majorana nel ’38. Anosognosia è la condizione di chi soffre un male ma ne nega l’esistenza: è la patologia delle nostre teste senza memoria.
La letteratura è spesso più precisa dei cronisti. Nel numero citato di Mercurio è evocato il racconto che Moravia scrisse nel ’44: L’Epidemia. Una malattia strana affligge il villaggio: gli abitanti cominciano a puzzare orribilmente, ma in assenza di cura l’odorato si corrompe e il puzzo vien presentato come profumo. Quindici anni dopo, Ionesco proporrà lo stesso apologo nei Rinoceronti. La malattia svanisce non perché sanata, ma perché negata: "Possiamo additare una particolarità di quella nazione come un effetto indubbio della pandemia: gli individui di quella nazione, tutti senza distinzione, mancano di olfatto". Non fanno più "differenza tra le immondizie e il resto".
Ecco cosa urge: ritrovare l’olfatto, anche se "è davvero un vantaggio" vivere senza. Altrimenti dovremo ammettere che preferiamo la melma e i pifferai che secerne, alla "bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità, e quindi della complicità". Il profumo che Borsellino si augurò e ci augurò il 23 giugno ’92, a Palermo, pochi giorni prima d’essere assassinato.
* la Repubblica, 18 aprile 2012
La patria dell’oblio collettivo
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 6/6/2010)
Vorrei tornare sulle parole di Piero Grasso a proposito di mafia e politica, dette il 26 maggio a Firenze davanti alle vittime della strage dei Georgofili. L’intervista rilasciata a Francesco La Licata dal Procuratore nazionale Antimafia chiarisce infatti alcuni punti essenziali, e pone quesiti alla classe politica e a tutti noi. La domanda che formula, implicita ma ineludibile, è questa: come funziona la memoria collettiva in Italia? Come vengono sormontati i lutti, e vissuti i fatti tragici, i mancati appuntamenti con la giustizia?
In questo giornale ho cercato prime risposte, evocando la richiesta, formulata il 7-8-98, di archiviazione dell’indagine su Berlusconi e Dell’Utri per le stragi a Roma, Firenze e Milano nel ’93-’94: richiesta firmata da Grasso assieme a quattro magistrati, e accolta poi dal gip di Firenze. Nella richiesta era chiaro il nesso fra Cosa nostra e il soggetto politico nato dopo Tangentopoli (Forza Italia), ma mancavano prove di un’«intesa preliminare». Quell’atto mi parve più esplicito di quanto detto dal procuratore il 26 maggio, e su tale differenza mi sono interrogata. Ma l’interrogativo, più che Grasso, concerne in realtà i politici, e tramite loro l’Italia intera: giornalisti, elettori, ministri ed ex ministri di destra e sinistra.
Per chiarezza, vorremmo citare i principali passaggi della richiesta di archiviazione e confrontarli con quello che Grasso afferma oggi. Nella richiesta (da me impropriamente chiamata «verbale», domenica scorsa) è scritto: «Molteplici (sono) gli elementi acquisiti univoci nella dimostrazione che tra Cosa Nostra e il soggetto politico imprenditoriale intervennero, prima e in vista delle consultazioni elettorali del marzo 1994, contatti riconducibili allo schema contrattuale, appoggio elettorale-interventi sulla normativa di contrasto della criminalità organizzata». E ancora: il rapporto tra i capimafia e gli indagati (Berlusconi e Dell’Utri, citati come autore-1 e autore-2 e rappresentanti il nuovo «soggetto politico imprenditoriale» in contatto con Cosa nostra) «non ha mai cessato di dimensionarsi (almeno in parte) sulle esigenze di Cosa nostra, vale a dire sulle esigenze di un’organizzazione criminale». Il testo firmato da Grasso è inedito, ma gli argomenti che esso contiene appaiono in documenti che la classe politica conosce bene: il decreto di archiviazione dell’inchiesta di Firenze, e quello che archivia la successiva inchiesta di Caltanissetta su Berlusconi, Dell’Utri e le stragi di Capaci e via D’Amelio (3-5-02). Il testo è pubblicato da Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza in un libro, «L’agenda nera», che uscirà il 10 giugno per Chiarelettere.
Ha ragione dunque il procuratore a dire che nella sostanza non c’è nulla di nuovo in quello che ha ricordato giorni fa a Firenze («Cosa nostra ebbe in subappalto una vera e propria strategia della tensione», per creare disordine e dare «la possibilità a una entità esterna di proporsi come soluzione per poter riprendere in pugno l’intera situazione economica, politica, sociale che veniva dalle macerie di Tangentopoli. Certamente Cosa nostra, attraverso questo programma di azioni criminali, che hanno cercato d’incidere gravemente e in profondità sull’ordine pubblico, ha inteso agevolare l’avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire le sue richieste»). Secondo alcuni il procuratore avrebbe oggi alzato il tiro, ma non è vero: semmai dice meno cose, su Forza Italia. Ed ecco la conclusione cui giunge nell’intervista: «L’idea che io mi sono fatto di quel terribile momento storico del ‘92 e del ‘93, molto prima dello scorso 26 maggio, era rintracciabile in moltissimi interventi pubblici, oltre che in tre libri pubblicati dal 2001 al 2009. Ritenevo e ritengo ancora quella ricostruzione storica una sorta di patrimonio della memoria collettiva definitivamente acquisito».
Proprio qui tuttavia è il punto che duole. L’osceno italiano di cui parla spesso Roberto Scarpinato, procuratore generale di Caltanissetta, e cioè il potere reale esercitato «fuori scena», di nascosto, esclude l’esistenza di un «patrimonio della memoria collettiva definitivamente acquisito». A differenza dell’America, o della Germania che di continuo rivanga il proprio passato nazista, l’Italia non ha una memoria collettiva che archivi stabilmente la verità e la renda a tutti visibile. Da noi la memoria storica si dissipa, frantumando e seppellendo fatti, esperienze, sentenze. E di questo seppellimento sono responsabili i politici, per primi.
Senza voler fare congetture, si può constatare che Grasso forse dice meno di quel che sottoscrisse nel ‘98, anche se dice pur sempre molto. Sono i politici a parlare più forte di quanto parlarono tra il ‘98 e oggi.
Sono i politici ad allarmarsi giustamente per le sue parole, a chiedere più verità, come se non avessero già potuto allarmarsi in occasione dei tanti atti giudiziari riguardanti quello che Grasso chiama «il nostro 11 Settembre: dall’Addaura, a Capaci, a via D’Amelio, fino alle stragi di Roma, Firenze, Milano e a quella mancata dello stadio Olimpico di Roma». Non sono i giudici ad aver dimenticato le deposizioni di Gabriele Chelazzi, il pm fiorentino titolare dell’inchiesta sui «mandanti esterni» delle stragi del ‘93, davanti alla commissione nazionale Antimafia il 2-7-02. Nella lettera ritrovata dopo la sua morte, Chelazzi si lamenta con i suoi uffici e scrive: «Mi chiamate alle riunioni solo per dare conto di ciò che sto facendo, quasi che fosse un dibattito».
È così che la memoria fallisce. Che l’osceno resta fuori scena, ostacolato solo dalle intercettazioni. Atti giudiziari e libri vengono sepolti nei ricordi perché sono trasformati in opinioni, per definizione sempre opinabili. Il vissuto viene trasferito nel mondo del dibattito e le sentenze diventano congetture calunniose. È quello che permette a Giuliano Ferrara, sul Foglio del 31 maggio, di squalificare le parole di Grasso definendole «ipotesi e ragionamenti» dotati di «uno sfondo politico e nessun avallo giudiziario». Il patrimonio della memoria collettiva, lungi dall’esser «definitivamente acquisito», è permanentemente cestinato.
I politici partecipano allo svuotamento della memoria usandola quando torna utile, gettandola quando non conviene più. Lo stesso allarme di oggi, non è detto che durerà. È come se nella mente avessero non un patrimonio, ma un palinsesto: un rotolo di carta su cui si scrive un testo, per poi raschiarlo via e sostituirlo con un altro che lascia, del passato, flebilissime tracce. L’intervista di Violante al Foglio, l’1 giugno, è significativa: in essa si dichiara che è arrivato il momento di «capire senza rimestare», di «mettere ordine» tra fatti forse non legati. Manca ogni polemica con il pesante attacco a Grasso, sferrato il giorno prima dal quotidiano.
Dice Ferrara che «non si convive inerti con un’accusa di stragismo a chi governa». Può darsi, ma l’Italia ha dimestichezze antiche con l’inerzia. Se non le avesse, non dimenticherebbe sistematicamente i drammi vissuti, e come ne è uscita. Non dimenticherebbe che del terrorismo si liberò grazie ai pentiti. Che tanti crimini sono sventati grazie alle intercettazioni. Come ha detto una volta Pietro Ichino a proposito dei ritardi della sinistra sul diritto di lavoro, in Italia «si chiudono le questioni in un cassetto gettando la chiave». È il vizio di tanti suoi responsabili (nella politica, nell’informazione) pronti a convertirsi ripetutamente. Pronti al trasformismo, a voltar gabbana. Chi non sta al gioco, chi nel giornalismo ha memoria lunga e buoni archivi, viene considerato uno sbirro, o un rimestatore, o, come Saviano, un idolo da azzittire e abbattere. Occorre una politica più attiva e meno immemore, se davvero si vuole che i giudici non esercitino quello che vien chiamato potere di supplenza.
IL RICORDO
E’ la giornata in memoria di Giovanni Falcone
Napolitano: "Uno stimolo per la crescita civica" *
PALERMO - "A diciotto anni dal barbaro agguato di Capaci, il ricordo dell’appassionato, eroico impegno di Giovanni Falcone nella difesa delle istituzioni e dei cittadini dalla sopraffazione criminale resta indelebile in tutti noi e costituisce prezioso stimolo per la crescita della coscienza civica e della fiducia nello stato di diritto". E’ un passaggio del messaggio che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha inviato a Maria Falcone, presidente della Fondazione "Giovanni e Francesca Falcone", in occasione del 18esimo anniversario della strage di Capaci.
"Meritano il massimo sostegno le indagini tuttora in corso - ha proseguito il Capo dello Stato - su aspetti ancora oscuri del contesto in cui si svolsero i fatti devastanti di quel drammatico periodo. Esse potranno consentire di sgombrare il campo da ogni ambiguita’ sulle circostanze e le responsabilita’ di quegli eventi, rispondendo all’ansia di verita’ che accomuna chi ha sofferto atroci perdite e l’intero paese".
Intanto, sono più di tremila le persone che stanno partecipando al convegno organizzato nell’aula-bunker dell’Ucciardone di Palermo per commemorare il giudice Giovanni Falcone e gli agenti della sua scorta, assassinati dalla mafia il 23 maggio di 18 anni fa. Nell’aula, che ospitò il primo maxi-processo alla mafia istruito da Falcone e da Paolo Borsellino, 2.500 studenti di tutta Italia ricordano la figura del magistrato trucidato a Capaci. Assieme a loro, il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, i ministri dell’Interno e della Giustizia, Roberto Maroni e Angelino Alfano, il procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso e il procuratore di Palermo, Francesco Messineo. Al convegno è presente, tra gli altri, anche il capo della Polizia, Antonio Manganelli. La manifestazione si è aperto con un filmato su Falcone.
I 2.500 giovani "ambasciatori della legalità" provenienti da tutta Italia è arrivata stamattina presto al molo di Palermo. Ieri sera i ragazzi, studenti di 250 scuole selezionate dal ministero dell’Istruzione e dalla Fondazione Falcone, erano partiti a bordo delle di navi, da Napoli e Civitavecchia. Ad accoglierli sul molo molti loro coetanei palermitani, che li hanno salutati con canti in onore di Falcone e Borsellino e contro la mafia. Nel cielo sono volati centinaia di palloncini tricolore, mentre i "giovani della legalità" indossavano magliette bianche con la scritta "gli uomini passano, le idee restano, restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini" firmata dal giudice Falcone. Sul molo è stato allestito un palco, dal quale i ragazzi sono stati salutati dalla sorella di Falcone, Maria, dal presidente di Libera, don Luigi Ciotti e dal procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso, che ha fatto la traversata in mare assieme agli studenti partiti da Civitavecchia.
"Non solo la mafia aveva interesse a eliminare Giovanni Falcone - ha detto Piero Grasso - lui non voleva combattere la mafia e l’illegalità a metà, le voleva eliminare dalle fondamenta. Voleva tagliare le relazioni tra la mafia e gli altri poteri. E su questo le indagini sono ancora attuali". I ragazzi, partiti ieri pomeriggio da Civitavecchia, in serata hanno avuto modo di confrontarsi con il procuratore Grasso, il capo dipartimento per la programmazione del Ministero dell’Istruzione, Giovanni Biondi, il responsabile per la legalità di Confindustria, Antonello Montante, Andrea Colucci di Confcommercio e Giulio Bacosi, avvocato di Stato. I relatori hanno risposto alle domande degli studenti e Piero Grasso ha raccontato a lungo la sua amicizia con Falcone.
"Il rapporto d’amicizia tra noi due - ha detto ancora Grasso - è cominciato dopo il maxiprocesso. Poteva sembrare una persona altezzosa e sprezzante, ma nell’intimità, con gli amici, era una persona diversa: scherzosa, quasi demenziale, e molto affettuosa con i nostri figli. Aveva una grande forza, nonostante le avversità ogni volta si ritirava su ed era pronto a lottare di nuovo". Grasso ha quindi spiegato il mutamento che la mafia ha avuto dalle stragi a oggi: "Ha fatto un salto di qualità, ha capito che le stragi non pagano e cerca di rendersi invisibile. La forza della mafia oggi è questa: non ha visibilità e si ristruttura e si organizza negli affari, diventando sempre più potente". Pertanto, secondo Grasso, è importante educare i ragazzi alla legalità: "I problemi non si risolvono mettendo in carcere i mafiosi, ma se voi giovani riuscirete a costruire una classe dirigente che dica no alla mafia e all’illegalità".
"La verità va cercata ovunque - ha proseguito il procuratore nazionale antimafia, Grasso, parlando con i ragazzi - bisogna farlo magari con maggiore silenzio per ottenere risultati migliori". Il riferimento è stato alle nuove indagini sull’attentato fallito all’Addaura contro Giovanni Falcone, al centro di un’inchiesta della Procura di Caltanissetta che indaga sul coinvolgimento di apparati deviati dei servizi segreti nella preparazione dell’attentato. Senza entrare nello specifico delle indagini, Grasso ha tuttavia aggiunto: "Non bisogna identificare lo Stato con personaggi infedeli, di infedeli ce ne sono anche nella magistratura. Ma quello non è lo Stato per cui sono morti Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che rappresentano un patrimonio che non possiamo disperdere e che oggi ricordiamo".
* la Repubblica, 23 maggio 2010
Ansa» 2009-05-24 09:59
NAPOLITANO, CONTRO MAFIA MOBILITAZIONE COLLETTIVA
dell’inviato Alberto Spampinato
GIBELLINA (TRAPANI) - Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non sono solo vittime della mafia, sono "autentici eroi della causa della legalità, della convivenza civile, della difesa dello Stato democratico", ha detto Giorgio Napolitano nell’aula bunker di Palermo dove ha affermato che nel loro ricordo "più che mai tutta la nazione si unisce e l’Italia attorno a queste immagini, simboli, memorie pensa di essere una grande nazione unita". La commozione è cresciuta sull’onda dei ricordi, della rievocazione delle immagini e delle opere dei due magistrati antimafia: anche il Capo dello Stato ha partecipato all’emozione collettiva e ha ricordato che quel 1992, con le due stragi a distanza di due mesi, l’Italia visse "un momento terribile, tutti noi sentimmo scricchiolare le istituzioni repubblicane sotto l’attacco diretto e spietato della mafia".
Falcone e Borsellino furono per lo Stato "servitori eccezionali per lealtà e professionalità, coraggiosi e sapienti combattenti per la legalità e la difesa della libertà e dei diritti dei cittadini, restano grandi esempi morali". Bisogna continuare a ricordarli e insieme si devono "raccogliere i frutti del loro impegno". Quei frutti, ha aggiunto, "restano preziosi". Proprio in questa aula, ha aggiunto, si celebrò lo storico maxiprocesso che ha cambiato la condizione della Sicilia, ha segnato "una svolta decisiva nella lotta contro la mafia, insieme ai provvedimenti di legge che seguirono" e dei quali lo stesso Falcone fu "il principale ispiratore". Si tratta, ha ricordato, della legge sui pentiti, delle nuove norme processuali e per il carcere duro, l’istituzione della direzione investigativa antimafia e della procura nazionale antimafia.
Di quest’ultima e di Pietro Grasso che la guida, Napolitano ha fatto una difesa e un elogio senza sfumature. Quelle norme antimafia restano fondamentali ma vanno aggiornate e affiancate da altre per seguire l’evoluzione continua e le mutazioni della mafia, ha detto il Capo dello Stato apprezzando il lavoro che stanno facendo i ministri Alfano e Maroni e il Parlamento in particolare per le misure di prevenzione personale e patrimoniale. Lo Stato, le forze dell’ordine, la magistratura devono continuare ad impegnarsi, ma c’é anche "un altro versante fondamentale della lotta contro la mafia, quello della mobilitazione collettiva della società civile, per trasmettere e diffondere la memoria storica e alimentare la cultura della legalità, per affermare l’imperativo del ’resistere e reagire alle pressioni e intimidazioni della mafia’".
L’impegno della società civile può essere "determinante" per una maggiore partecipazione democratica. Per questo però occorre anche puntare sulla "qualità della politica, sul prestigio delle istituzioni democratiche, sull’efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni". E’ necessaria la crescita della coscienza civica e della fiducia nello Stato di diritto, "che può rafforzarsi solo in un clima di rispetto, in ogni circostanza, degli equilibri costituzionali da parte di tutti coloro che sono chiamati ad osservarli, come conta pure ogni intervento capace di incidere sul divario nord-sud e di aumentare l’occupazione qualificata". Napolitano ha chiuso raccogliendo le espressioni di speranza di Maria Falcone. E’ vero, ha detto, che "vediamo di anno in anno crescere la speranza, smuoversi le coscienze, formarsi i giovani del sud e del nord al culto della libertà e della legalità". Per sconfiggere la mafia l’Italia si affida all’impegno delle forze dell’ordine e a queste coscienze più mature.
Napolitano ricorda Giovanni Falcone: «Grande esempio morale» *
«Non è la prima volta che vengo qui, rinnovo l’emozione che ho provato altre volte». È un Giorgio Napolitano emozionato che ricorda Giovanni Falcone nell’aula bunker dell’Ucciardone a Palermo. A 17 anni dalla strage di Capaci, il presidente della Repubblica sottolinea che «mai come in queste occasioni e davanti a queste memorie sentiamo di essere una nazione e una nazione unita».
«Nel luglio del’93 - ricorda il capo dello Stato - ero stato a Catania da presidente della Camera per unirmi a una grande manifestazione in onore di Paolo Borsellino, nel primo anniversario del massacro ordito dalla mafia per eliminarlo. E nel segno di questa continuità da me profondamente sentita, che si colloca la mia presenza oggi come Capo dello Stato, quello Stato che in Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ha avuto dei servitori eccezionali per lealtà e professionalità, dei coraggiosi e sapienti combattenti per la cause della legalità, in difesa della libertà e dei diritti dei cittadini. Li ricordiamo e sempre continueremo a farlo - ha aggiunto il presidente della Repubblica - come grandi esempi morali per i giovani e per tutta Italia».
Per Napolitano nella lotta alla mafia è indispensabile un «clima di leale collaborazione» tra tutte le istituzioni e nel rispetto dei ruoli e delle competenze di ciascuno. In particolare, il capo dello Stato ha voluto sottolineare il ruolo «vitale di un’istituzione voluta da Falcone e Borsellino come la Procura nazionale antimafia, oggi guidata da un magistrato di incontestabile esperienza, dirittura e autorevolezza», Pietro Grasso. «Occorre più che mai assicurare alla Procura nazionale antimafia - ha precisato Napolitano - la possibilità di operare in una clima di piena, leale collaborazione e di esercitare integralmente le sue attribuzione».
«Per noi la presenza qui del presidente Napolitano è un grande regalo, è un omaggio a tutti i nostri morti per mano di mafia», ha detto Maria Falcone, sorella del giudice ucciso dalla mafia. «Palermo- dice- sta alzando la testa a poco a poco, ma c’è davanti un cammino lungo da fare. una grande mano ce la stanno dando gli insegnanti a cui dico grazie». «Bisogna creare- continua Falcone- le condizioni per una economia legale in questa terra, non è facile ma ci sono gli strumenti perché questo possa attuarsi. se il sud fosse libero avrebbe uno sviluppo anche superiore a quello del nord».
* l’Unità, 23 maggio 2009
Allarme a più voci
Concita De Gregorio presenta un servizio di Maria Zegarelli, che intervista Ingrao, Ruffolo, Bocca, Hack, Fo e Cossutta sulla deriva dell’Italia. Su l’Unità del 23 maggio 2009 *
UN PIENO DI MEMORIA
di Concita De Gregorio
Sarà per via del fatto che siamo storditi dalle urla e dagli insulti della destra leghista e di quella fascista, dall’istigazione continua alla paura e alla cura soltanto di sè, dalle subdole minacce degli avvocati forzisti, dai monologhi presidenziali in prima serata con sottofondo di farfalline e minorenni, dai comitati per la candidatura a «Silvio Nobel per la pace» e - più in generale - da un populismo che scivola lungo la china della dittatura, quel genere di dittatura che germoglia fertilizzata da rotocalchi e varietà giornalistici di regime, fiorisce nel servilismo eletto a utile compiacenza e finisce col dire che c’importa del Parlamento e della magistratura, possiamo benissimo fare senza. Sarà che è troppo alto e minaccioso il tono di voce generale, grevi i contenuti, che la comparsa di Marco Pannella in tv, venerdì sera, ha fatto a tutti quelli che ancora conservano un poco di amore per questo Paese un’impressione così grande. A ottant’anni, con il corpo consumato il volto scavato e gli occhi enormi, con la voce in bilico fra il senso delle parole e la forza dei silenzi lì a dire che bisogna stare attenti ma attenti davvero, che l’Italia è in pericolo la democrazia lo è, che le voci dissonanti si spengono, tutte, anche quelle che hanno fatto la storia, e che poi tutto si dimentica perché la memoria è diventata così breve. Un vecchio, certo. Un vecchio gigante della politica, il superstite di una stagione di uomini di un’altra razza. Lo si può detestare, gli si può rimproverare ogni genere di nefandezza o riconoscergli i più alti meriti ma non ignorare la differenza: lo spirito, la forza, la generosità di un’epoca in cui la politica e il bene pubblico venivano prima, erano da costruire e custodire come la casa di tutti e non la reggia di uno solo. Così siamo andati da lui ieri mattina e anziché scrivere anzitempo il suo necrologio come altri hanno già fatto gli abbiamo chiesto di parlarci di questa ultima sua battaglia, del perché ancora combatta a rischio della vita, per cosa. Marco Bucciantini gli ha domandato a cosa serva più il suo «canestro pieno di parole», diceva la canzone che gli dedicò De Gregori. «Sono tempi bui, il regime si sceglie anche gli avversari». Opposizione incorporata.
Per i padri, ormai nonni della Patria sono tempi di delusione e di rabbia, di allarme e di fatica. Cosa resta di un secolo, chi si incaricherà di proteggere il destino dei figli, di garantire libertà e democrazia così faticosamente conquistate alle generazioni future?
Li abbiamo cercati. Il più anziano tra loro, Pietro Ingrao, frequentava le elementari nei giorni della Marcia su Roma quando la più arrabbiata, Margherita Hack, aveva pochi mesi. I più giovani ( Dario Fo, Giorgio Ruffolo, Armando Cossutta) non avevano ancora vent’anni al tempo della Liberazione. Giorgio Bocca, il più pessimista, ne aveva 25 e scriveva i suoi primi articoli. Intellettuali, politici, scienziati e premi Nobel che hanno vissuto gli anni della dittatura e i giorni di gioia per il ritorno della democrazia.
Li abbiamo trovati delusi, indignati, a volte sbalorditi per la capacità del nostro paese di far male a se stesso. Pietro Ingrao ricorda che l’attacco al Parlamento è ciò che qualifica ogni iniziativa reazionaria. Non hanno voluto consolarci, ci hanno consegnato un compito.
Ascoltiamoli, qualunque sia il frammento di storia che hanno da porgerci. La memoria è il miglior viatico sempre.
LA RABBIA DEI GRANDI VECCHI
di Maria Zegarelli
Erano ragazzi quando finì il fascismo. Hanno vissuto le speranze del ritorno alla democrazia. Oggi sono preoccupati per il nostro futuro. Il più anziano tra loro, Pietro Ingrao, frequentava le scuole elementari nei giorni della Marcia su Roma, quando la più arrabbiata, Margherita Hack, era nata da pochi mesi. I più giovani del gruppo (Dario Fo, Giorgio Ruffolo e Armando Cossutta) non avevano ancora vent’anni al tempo della Liberazione. Giorgio Bocca, il più pessimista, ne aveva 25 e scriveva i suoi primi articoli. Abbiamo deciso di sentire la voce di questi intellettuali, politici, scienziati e premi Nobel con lo spirito di chi, in un momento difficile, si rivolge al padre o alla madre, al nonno o alla nonna. Alle persone, cioè, che hanno vissuto gli anni della dittatura e i giorni di gioia per il ritorno della democrazia. Li abbiamo trovati delusi, indignati, a volte sbalorditi per la capacità del nostro paese di far male a se stesso. Margherita Hack dice di «provare vergogna». L’ex partigiano Giorgio Bocca si dichiara «supersconfitto». Giorgio Ruffolo è sorpreso per le incertezze della sinistra, Armando Cossutta definisce «eversive e populiste» le iniziative del premier, Pietro Ingrao ricorda che l’attacco al Parlamento è ciò che qualifica ogni iniziativa reazionaria. Non hanno voluto consolarci i nostri grandi vecchi. Sono preoccupati. La loro memoria lancia l’allarme.
Pietro Ingrao L’offensiva reazionaria è sempre iniziata così
Non sono sorpreso dall’affondo di Berlusconi contro il Parlamento. Ieri e oggi l’attacco alle assemblee è stato e resta un punto qualificante di ogni offensiva reazionaria. Basti pensare alla polemica di fascismo e nazismo contro la democrazia rappresentativa. L’antiparlamentarismo rappresenta un terreno chiave per le ideologie e le correnti autoritarie. Da sempre infatti il Parlamento incarna la difesa delle garanzie e del libero confronto politico. Il che disturba profondamente i conservatori. Non voglio dire che Berlusconi sia fascista, ma certe sue uscite vanno in una direzione allarmante e ben nota. Tutto ciò non significa che non siano necessarie delle modifiche all’ordinamento parlamentare. Un Parlamento di mille rappresentanti, che fanno tutti la stessa cosa, è pletorico. Ma ridurlo a cento persone, come vuole Berlusconi, sarebbe un annichilimento e uno svuotamento. Per fortuna però, su questo emergono allarmi anche a destra. E le parole di Fini a riguardo mi sono parse molto equilibrate. Da cittadino mi rivolgo perciò al Presidente della Repubblica e ai Presidenti delle Camere perché intervengano con decisione a salvaguardia delle istituzioni.
Giorgio Bocca
Ex fascisti nelle alte cariche:
ecco la dittatura morbida
Avendo vissuto la Resistenza e oltre 60 anni di vita repubblicana mi considero supersconfitto: la dittatura morbida è già iniziata. Il premier può dire quello che gli pare senza alcuna reazione della società civile: durante un’assemblea della stessa Confindustria ne definisce il presidente una velina senza che si levi una reazione, e lasciamo perdere gli attacchi a parlamento e giustizia. E infatti oggi nelle alte cariche troviamo tutti ex fascisti come Fini e Alemanno. La cosa grave è che non c’è niente da fare: il piacere di servire sembra più forte di tutto. Lo definirei uno dei flussi della storia: l’unica cosa da fare è assumersi le proprie responsabilità e continuare a essere antifascisti e antiberlusconiani.
Giorgio Ruffolo
Non è ancora regime ma se ne uscirà solo
se la sinistra saprà guardare lontano
Non siamo al regime, ma i rischi sono molto seri. La democrazia attraversa un periodo oscuro a livello internazionale, che in Italia coincide con una crisi a cui Berlusconi dà un’accelerazione di populismo privatistico, e dunque dal carattere plebiscitario e senza regole. C’è un’analisi molto interessante in A destra tutto. Dove si è persa la sinistra di Biagio Di Giovanni. È singolare che la sinistra italiana sembri rincorrere la destra proprio durante una crisi mondiale del capitalismo, senza offrire risposte proprie che superino la contingenza,e mostrando una evidente mancanza di obiettivi. Di fronte a questo attacco di Berlusconi le reazioni sono di sorpresa, scoramento, indignazione, ma non propositive.
Margherita Hack
Che vergogna Pannella
costretto a digiunare
C’è da vergognarsi di essere italiani. Non capisco come sia possibile che la metà di questo Paese continui a fidarsi di un presidente del Consiglio come Berlusconi, che dice bugie, non risponde alle domande scomode, che - come dice la moglie- ha comportamenti immorali. E c’è da vergognarsi se Marco Pannella è costretto a fare lo sciopero della sete e della fame per far apparire il suo simbolo elettorale in televisione perché l’informazione non fa il suo dovere. Berlusconi pensa di essere il raìs dell’Italia, ma quello che mi spaventa di più è il consenso di cui gode. È un bruttissimo segno, vuol dire che il lavaggio del cervello è riuscito. Come si può non indignarsi di fronte al fatto che c’è un signore che ne corrompe un altro, ma il corrotto viene condannato e il corruttore no perché si è fatto una legge su misura come il Lodo Alfano? Fa male vedere quello che sta succedendo nel Paese, ascoltare frasi irriguardose verso le istituzioni da parte di chi le rappresenta. E fa male vedere questa sinistra confusa fare un’opposizione debole rispetto alla gravità dei fatti. A volte mi sorprendo a pensare che mi mancano i vecchi grandi partiti di una volta, come il Pci e la Dc.
Dario Fo
È come il compagno di sbronze ricco:
nessuno dice nulla perché paga da bere
È ammalato: partiamo da quello che dice Veronica che lo conosce bene: Berlusconi sta male e ha pregato le persone che lo conoscono di aiutarlo a uscire dalla malattia, evitando che faccia male a sé stesso e agli altri. Quando parla parte normale, poi si eccita, perde il controllo e dice cose di cui poi si deve scusare. Purtroppo nessuno glielo fa notare, perché la gente che gli è vicina lo tratta come il compagno di sbronze ricco: dicesse e facesse quel che vuole, tanto da bere paga lui. Abbiamo a che fare col matto: può sorprendere che un personaggio simile metta a rischio la democrazia. Ma in Italia abbiamo una secolare tradizione nell’applaudire chi ci fa male: il popolo non perdona chi gli apre gli occhi e piuttosto lo lincia.
Armando Cossutta
Fare muro. Sono comunista
ma stavolta voterò Pd
La democrazia corre pericoli molto seri: la posizione del premier è infatti eversiva e populista. Il suo modo di attaccare le istituzioni rivolgendosi direttamente alla gente ricalca ma solo grottescamente la Costituzione. Se l’articolo 1 della carta dice che il potere appartiene al popolo, afferma anche che questo viene esercitato attraverso il parlamento.
Attaccare la giustizia e il parlamento per indebolirli è perciò un tentativo eversivo e populista, di chi vuol governare scavalcando tutti senza più alcun controllo. Di fronte a questo pericolo non si devono avere esitazioni: al di là delle differenze tra le idee politiche bisogna votare un partito in grado di porre un argine concreto. Ero, rimango e rimarrò sempre comunista, ma stavolta voterò il Partito Democratico, l’unica forza che numericamente può opporsi a questa che è una minaccia molto seria.
E voglio anche dire che anche in questo periodo di attacchi forsennati alla democrazia in Italia, lavorando all’Anpi mi sono reso conto che tra la gente c’è ancora una coscienza antifascista e la voglia di resistere. Lo ha dimostrato la battaglia vinta contro la legge che voleva equiparazione i repubblichini ai partigiani, una battaglia cui hanno aderito moltissime persone di idee politiche diverse.
* Fonte: l’Unità del 23 maggio 2009