Il Presidente Napolitano a Firenze
Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano partecipa, nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, all’apertura del convegno "Eugenio Garin. Dal Rinascimento all’Illuminismo", promosso dalla Scuola Normale di Pisa, dall’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento e dal Comune di Firenze.
Ad aprire i lavori del convegno gli interventi del Sindaco Leonardo Domenici, del Direttore della Normale, Salvatore Settis e del Presidente dell’Istituto, Michele Ciliberto, seguiranno le relazioni di Cesare Vesoli, Adriano Prosperi e Paolo Rossi.
Nel pomeriggio - prima di lasciare Firenze - il Capo dello Stato visiterà la mostra "La Nazione: 150 anni di storia raccontata dalle nostre prime pagine", allestita nella Galleria Medici, e il dipinto di Raffaello "Madonna del Cardellino" esposta a Palazzo Medici Riccardi a conclusione del restauro.
Fonte: Presidenza della Repubblica.
EUGENIO GARIN
di Claudio Cesa *
Ai primi di gennaio del 2004 è morto Norberto Bobbio; agli ultimi di dicembre se ne è andato Eugenio Garin. Se l’accostamento si impone quasi da solo, non è, soltanto per le coincidenze cronologiche, anche dell’anno di nascita (1909), quanto perché entrambi, per almeno un quarto di secolo, furono gli esponenti più illustri - diciamo pure i "maestri" - nel settore, amplissimo, degli studi da ciascuno coltivato; e lo furono per l’incisività, il ritmo, la mole del loro lavoro scientifico, la ricchezza di idee che ne fece ascoltati consiglieri delle più vive case editrici, la capacità di far fiducia a chiunque sembrasse loro capace di studi seri.
Nel 1984, al convegno torinese per i 75 anni di Bobbio, Garin tenne una relazione che si apriva e si chiudeva con il nome di Aldo Capitini, quasi a ricordare la vicinanza delle loro posizioni morali alla fine degli anni trenta. Fu il ricordo di quegli anni, e della tensione, del primo decennio del dopoguerra, per un rinnovamento sociale e culturale del paese a mantenere vivo, nel mezzo secolo successivo, il loro impegno pubblico, non sempre nella stessa direzione, ma meno divergente di quanto, talvolta, allora, poté sembrare.
E un’altra analogia va rilevata: il loro (se è lecita questa espressione) radicamento territoriale: entrambi fecero i loro studi, e poi insegnarono per gran parte della loro carriera, nella stessa università: Bobbio voleva dire Torino, e Garin Firenze. Non c’è quasi istituzione culturale fiorentina della quale Garin non sia stato gran parte, la Biblioteca filosofica (finché sussistette), l’Istituto del Rinascimento, la Colombaria; ma il centro fu sempre la Facoltà di lettere, per un certo torno di anni la migliore d’Italia, ove Garin insegnò prima come incaricato, poi, dal 1949, come cattedratico, nella ormai mitica sede di S. Marco, poi, dal 1964, in quella di piazza Brunelleschi; in quanto delegato alla biblioteca, Garin vi aveva curato il trasferimento dei libri, e aveva costruito una splendida sala di consultazione per l’allora Istituto di filosofia.
L’aula delle sue lezioni era sempre colma, e anche quando non aveva obblighi didattici non c’era quasi giorno che non venisse in facoltà; lo si vedeva in crocchio, con professori e studenti; lo si vedeva alle sedute di laurea, e alle commissioni di esami, ove non di rado impartiva, a uso del candidato, e magari dei colleghi più giovani che lo assistevano, un piccolo supplemento di lezione.
L’alluvione del 1966 sommerse il deposito librario, e nei mesi successivi quell’uomo dall’aspetto fragile fu tra i più attivi nell’impegno per il salvataggio del materiale bibliografico. Dopo l’alluvione, vennero le agitazioni studentesche, di cui Garin vedeva bene i motivi; a turbarlo, non furono esse, ma il loro trasformarsi in permanente "contestazione", il loro degenerare in brutti episodi di violenza (ricordo soltanto l’aggressione a Ernesto Ragionieri), la furbesca acquiescenza di taluni professori.
Nel 1960, commemorando il centenario della fondazione dell’Istituto di studi superiori, aveva rievocato le parole di gratitudine che P. Villani aveva rivolto ai giovani, sessant’anni prima; e aveva aggiunto, a conclusione: «Firenze, in questa sua scuola, lungo un secolo. ha favorito un lavoro raccolto e un po’ schivo, ma serio, fondato sulla collaborazione reale dei membri dell’Università, alimentato da legami saldi fra insegnanti e allievi, fra generazioni e generazioni».
Ora questo legame gli pareva essersi infranto, e fu non senza esitazioni, e con intima sofferenza, che accettò, nel 1974, la chiamata alla Scuola Normale di Pisa; qui esercitò a lungo, anche dopo essere stato nominato emerito, il ruolo, a lui così congeniale, di consigliere degli studi dei più giovani.
Non è questa l’occasione per parlare del Garin straordinario esploratore della cultura dell’Umanesimo e del Rinascimento, che tanti percorsi di ricerca ha aperto, né, più in generale, di lui come storico delle filosofia; tanto più che quest’ultima formula rischierebbe di essere riduttiva rispetto alle sue intenzioni; il titolo di un suo libro, quasi programmatico, La filosofia come sapere storico, segnala, a prima vista, che scopo di esso non era tanto stabilire i canoni per una corretta storiografia filosofica, bensì prender posizione sul tema dei compiti e del significato della filosofia. Sull’argomento, egli non si stancò mai di intervenire, e la sua tesi si può compendiare con una frase di Benedetto Croce, da lui ripresa proprio dal saggio da cui aveva ricavato anche il titolo del volume: «La consapevolezza dell’unità, cioè del vivo ricambio che corre tra filosofia ed esperienza, tra metodologia e storia, rende necessaria la formazione di un nuovo tipo di studioso di filosofia, che partecipi alle indagini della storia e della scienza, e soprattutto al travaglio della vita del suo tempo, politica e morale».
Quali modelli di questo tipo di impegno intellettuale, Garin evocava, accanto a tanti altri, Villari, Labriola e Gramsci, che pure «non era un professore»; e proponeva così un profilo del pensiero italiano tra Ottocento e Novecento che rettificava, o sostituiva, quello di ascendenza crociana e gentiliana.
Ma non pretendeva di dare un quadro definitivo, perché, con le sue parole, «l’indagine storica è di continuo sollecitata a riesaminare le scelte già operate in funzione di certi modi di agire, per saggiarne la validità, respingerne l’insufficienza, risolverne la parzialità»; sapeva benissimo, e lo disse più volte, che questo criterio valeva anche per lui stesso: a conclusione della lunga discussione suscitata dal libro che si è sopra citato, scriveva di preferire «al filosofo che ha per sé l’eterno, chi combatte negli anni suoi ed è distrutto dalla sua lotta».
Non è la battuta di un fine conoscitore dell’arte retorica, quale pure Garin era, perché, finché le forze gli ressero, egli continuò a lavorare, sulle fonti e sulla letteratura secondaria, senza preoccuparsi troppo se i suoi nuovi risultati non concordavano perfettamente con quelli precedenti, perché «le revisioni non devono impressionare nessuno, ed attestano, anzi, la serietà di un lavoro legato a una concreta realtà in movimento».
Queste parole scriveva sul «Ponte» nel 1957. E al «Ponte» egli collaborò fin quasi dagli inizi (il primo scritto che vi pubblicò, una delle sue tante recensioni, è del 1946); poi, gli preferì «Belfagor», forse perché attratto dal sanguigno frontismo di Luigi Russo - mentre «Il Ponte» si sforzava tenacemente di aprire una terza via; ma tornò a collaborarvi a partire dal 1952; vi inserì in tutto una ventina di pezzi, quasi nulla rispetto alla sua enorme bibliografia (quasi 1.400 titoli), ma segno del conto nel quale teneva questa rivista, «una di quelle che hanno più inciso in questo dopoguerra», scrisse nel 1976; la rivista di Piero Calamandrei, col cui nome egli terminò un suo saggio su «un secolo di cultura a Firenze».
* Dalla Rivista “Il Ponte” (1/2005)
SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
EUGENIO GARIN (Wikipedia)
EUGENIO GARIN (Emsf.Rai)
Andare a studiare in un college oltremanica non è difficile e non costa neanche troppo. Le procedure, le domande, le agenzie che aiutano
All’Università? Vado in Inghilterra
Sempre più italiani ci provano
In un anno (2008-2009) il numero delle domande è salito del 21%
di CHIARA BRUSA GALLINA *
ROMA - Saranno i tagli che incombono sulla scuola e la ricerca italiane. Sarà la sterlina debole. Sarà la voglia di respirare la cultura inglese o la certezza che imparare alla perfezione la lingua di Shakespeare spalancherà anche le porte più pesanti del mondo del lavoro. Fatto sta che gli italiani sono sempre più attratti dalle università britanniche. Le loro domande di ammissione viaggiano online verso le blasonate Oxford e Cambridge, ma anche Brighton, Leicester, gli atenei di Londra. Un processo, quello di ammissione, che è già di per sé un ostacolo: la domanda è il primo esame che inaugura il corso di studi. Il percorso non è semplice per chi non ha buona padronanza della lingua. Ma gli italiani, in questo senso, si sono già dati da fare e hanno sfoderato la loro proverbiale "arte di arrangiarsi".
Il dato. Sono sempre più gli "Italians" che scelgono di andare oltre Manica dopo la maturità: tra il 2008 e il 2009 le richieste sono aumentate del 21% secondo l’Ucas, l’agenzia che si occupa della gestione delle domande di ammissione alle lauree di primo livello, i cosiddetti "undergraduate degrees". Gli italiani che hanno inviato le domande erano 958 nel 2008, sono 1.160 quest’anno. Certo meno dei francesi, che sono più di 2mila, o dei cinesi (3.641), ma è la percentuale di crescita che fa la differenza: solo 7,5% tra 2008 e 2009 per gli studenti del Paese del Dragone e 14,4% per la Francia. Insomma, sembra che gli italiani si stiano svegliando dal torpore degli stereotipi che li vogliono restii a lasciare la casa di mamma e papà.
Senza contare che ci sono quelli impegnati in specializzazioni, master e dottorati: un universo più frammentato al quale si accede facendo richiesta alle singole università o tramite l’agenzia Ukpass, dove però non sono rappresentati tutti gli atenei.
Dopo la maturità. Per diventare "fresher", matricole, bisogna darsi da fare almeno un anno prima dell’inizio dei corsi. La scadenza per la consegna delle domande di ammissione è in genere il 15 gennaio, anche se alcune facoltà letterarie posticipano a marzo e altre, come medicina, ma anche i corsi di Oxford e Cambridge anticipano a ottobre. Il sistema che smista le richieste è centralizzato: si fa tutto in rete, tramite il sito dell’Ucas. Nel modulo di registrazione si inseriscono i dati personali, il curriculum di studio e si indicano le facoltà e le università per le quali si fa domanda (un massimo di cinque, ma in alcuni casi scende a quattro). Oltre alle informazioni personali, bisogna allegare anche il "reference", una lettera di presentazione del candidato scritta dall’insegnante di inglese e preferibilmente anche da un docente della materia scelta. Non basta: l’aspirante universitario deve inviare un "personal statement", una lettera alla commissione esaminatrice in cui illustra le proprie caratteristiche, le ragioni che lo spingono a fare domanda, le aspirazioni. E’ una pratica pressoché sconosciuta in Italia, ma molto diffusa all’estero: l’autopromozione, l’idea che bisogna guadagnarsi il posto vendendo il "prodotto" che siamo.
Il prezzo dell’istruzione. E’ vero che studiare all’estero non è alla portata di tutti, ma negli ultimi anni, anche grazie al fatto che la Gran Bretagna dà agevolazioni agli studenti dell’Unione Europea, è diventato molto più semplice. Il costo non è uniforme, dipende dalla facoltà e dall’ateneo. Per farsi un’idea, però, basta guardare la tabella del sito Education Uk dove viene segnalato il prezzo medio degli "undergraduate degrees": si va dalle 4mila alle 21mila sterline l’anno, cioè da 4.500 a 23.000 euro circa. Ce n’è per tutte le tasche. All’università di Leicester, ad esempio, uno studente Ue può frequentare un "undergraduate programme" per 3.145 sterline l’anno, più o meno 3.500 euro l’anno. "Il costo della vita a Leicester è più basso rispetto ad altre città britanniche - si legge sul portale dell’università - con 640 sterline al mese (718 euro, ndr) uno studente riesce a coprire tutte le spese, dalla casa ai libri, al cibo".
Chi decide di studiare in Uk, deve considerare anche che non mancano le borse di studio (vedi il database) e che mantenersi con lavori part-time, dentro o fuori dai campus, non è un’impresa impossibile. Prima di inoltrare le domande, quindi, sempre meglio setacciare i siti delle singole università per avere un’idea sul costo delle rette e la possibilità di correre per una borsa di studio. Confusi? Ci si può aiutare con l’International student calculator, uno strumento online per fare il bilancio di entrate e uscite, le previsioni, calcolare le possibilità.
Conoscenze linguistiche. La stessa domanda di ammissione è una verifica del livello di inglese, ma non esclude che si possa "barare", affidandosi troppo a dizionari, amici o internet per colmare le lacune. E allora ecco che le università potrebbero richiedere altro: un colloquio, una tesina oppure un certificato internazionale come gli esami di Cambridge o un punteggio minimo nei test Ielts. "Dal 2006 a oggi il numero degli italiani che fanno l’Ielts è cresciuto dell’80%", spiega Irene Manca, manager dell’ufficio esami del British Council, l’ente che detiene il marchio Ielts e si occupa della diffusione della cultura inglese nel mondo. L’Ielts si fa anche per avere un attestato da usare sul lavoro. "Ma almeno il 50% lo utilizza per accedere a corsi di studio", spiega Manca. Corsi che, oltre che in Gran Bretagna, possono essere anche in America o Australia.
Le consulenze. Se la destinazione scelta è il Regno Unito, non si è soli di fronte alla barriera dell’iscrizione: sono diverse le agenzie italiane che, oltre a offrire servizi per affittare case e prenotare vacanze, danno consulenze sulle domande.
"Ultimamente sono aumentate sia le richieste per aprire business sul suolo inglese sia per studiare all’università", dice Fabio Busatto, che insieme a Samuele Scodeggio ha creato e gestisce l’agenzia Sognando Londra. "Le facoltà più richieste sono business management, marketing e ingegneria", aggiunge Busatto. Nel loro forum i ragazzi cercano risposte per pianificare gli studi a Londra, consapevoli del fatto che affrontare esami universitari in inglese non è una passeggiata.
Ma è giusto che lo studente affronti la prima prova, quella dell’iscrizione, con il supporto di un’agenzia? "E’ una cosa molto ’italianà e non si dovrebbe fare - afferma Irene Manca - bisognerebbe avere da subito il livello richiesto di lingua". "E’ una scelta personale e legale - ribatte Busatto - si tratta di consulenze, come quelle che danno i commercialisti sulla dichiarazione dei redditi". "La conoscenza non approfondita della lingua si rispecchia nei voti, ma anche nel tipo di università a cui si riesce ad accedere, non tutte sono allo stesso livello", sostiene Manca. La storia di Irene basta a chiarire quello che secondo lei è il percorso ideale da seguire. "Mi sono preparata prendendo lezioni private da una madrelingua durante le superiori - racconta - poi sono stata un anno a Londra, studiavo e lavoravo, prima di iscrivermi a business administration". Impegno e dedizione che non possono essere improvvisati, "of course".
* la Repubblica, 6 marzo 2009 - ripresa parziale.
L’ANALISI DEL BERLUSCONISMO E IL RITORNELLO DEGLI INTELLETTUALI
RUBATI I BUOI, SI CHIUDONO LE STALLE. CONSEGNATA LA CHIAVE DEL PAESE (IL NOME: "ITALIA") A UN PARTITO (1994) E FAVORITA LA SUA EGEMONIA E DITTATURA SOPRA TUTTI GLI ALTRI PARTITI E SU TUTTA LA SOCIETA’ (2009)... DI FRONTE ALLA GRANDE CRISI E ALLA CATTIVA POLITICA DELLA "DITTATURA ELETTA", ORA GLI INTELLETTUALI SI COMINCIANO A SVEGLIARE E A CHIEDERE UNA LIBERA STAMPA, UN’UNIVERSITA’ COMBATTIVA, E UNA COERENTE OPPOSIZIONE. ( Federico La Sala)
La politica inadempiente
di Carlo Galli (la Repubblica, 06.03.2009)
La Grande Crisi sta mostrando che non al mercato ma alla politica spetta il compito di ricondurre a un minimo di ordine, di stabilità e di prevedibilità le dinamiche delle società del XXI secolo. E del ritorno in grande stile della politica - con il suo tratto qualificante, il potere - abbiamo un esempio nelle decise, massicce, penetranti misure d’intervento volute da Obama.
In modi diversi, anche la destra al governo in Italia risponde alla nuova esigenza di politica. Alcune iniziative come la questione nucleare, il testamento biologico, la regolamentazione degli scioperi, ma anche il decreto sulla sicurezza e quello sulle intercettazioni, sono riconoscibili e valutabili se si pone mente al loro risultato, che è un aumento esponenziale - realizzato, perseguito o annunciato - del potere politico concentrato nell’esecutivo.
La decisione a favore delle centrali nucleari, infatti, scavalca certamente le procedure e le mediazioni parlamentari (oltre che un atto di volontà popolare); ma è ancora più importante sottolineare che l’accesso sistematico al nucleare implicherebbe anche, per sua natura, un rafforzamento del potere politico, per ragioni di sicurezza e di gestione implicite in quella tecnologia, che anche quando è civile ha un effetto "militarizzante" per l’esigenza, ovvia, di predisporre misure antisabotaggio, antiterrorismo, di custodia dei siti, di segretezza operativa. Al di là di ogni altro dibattito economico e ecologico, il nucleare è l’occasione privilegiata perché lo Stato - come Stato tecnico, custode delle infrastrutture strategiche - tocchi il vertice della propria potenza, nella sua forma piramidale classica: la storia della seconda metà del Novecento mostra che in quest’ambito è massimo l’aumento della asimmetria di potere e di sapere fra Stato e cittadini, fra Stato e società.
L’alimentazione e l’idratazione forzata - previste dai progetti governativi, insieme al divieto di cessazione delle cure mediche se da questa consegue la morte - sono poi un esempio della sottomissione del singolo, e della sua libertà, al potere politico nella sua forma etica, che gli impone valori salvifici, e nella sua forma biopolitica, che pretende di allevarlo in senso non metaforico. L’acuta ossessione securitaria della destra - perenne oggetto di infinite decretazioni e legislazioni - rientra a pieno titolo nella classica dimensione "leviatanica" del potere politico, tanto che sia sicurezza imposta dall’alto attraverso le forze dell’ordine quanto che sia "partecipata", aperta agli equivoci volontariati di base, o di parte.
La progettata limitazione degli scioperi in alcuni servizi pubblici fornisce infine la cifra oggi più spendibile politicamente dell’aumento del potere politico a scapito dei diritti di libertà: quell’incremento si giustifica in vista del bene, dell’utile, della comodità dei cittadini. E anche le misure anti-intercettazione, che appaiono "liberali" e non ascrivibili a logiche di rafforzamento del potere statale, hanno la loro legittimazione politica in una resa dei conti con la magistratura e la stampa. Tecnico, etico, biopolitico, securitario, lo Stato è oggi avviato ad assumere una fisionomia autoritaria: ovunque corregge, ordina, interviene e dispone, limita e comanda.
Che sia proprio un governo espresso da una maggioranza la cui principale forza politica si richiama al liberalismo a realizzare questo incremento del potere dello Stato è paradossale ma spiegabile: l’esigenza di politica è realmente all’ordine del giorno, e, inoltre, questo aumento di potere politico non prende certo, oggi, le forme novecentesche: non, evidentemente, quelle della ferocia totalitaria né quelle soft del consumismo (che in questa fase non è un’opzione praticabile), non quelle della disumanizzazione tecnica della politica (sul modello delle alienanti tecnostrutture di Metropolis) né quelle della "confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà " di marcusiana memoria (tolleranza e piacere non sono più di moda).
Siamo davanti, oggi, a un vero nuovo quadro problematico, dentro al quale sta anche il conflitto d’interessi, ma che va oltre questo. Siamo davanti, cioè, a un nuovo Leviatano, la cui potenza e imponenza non implicano necessariamente efficienza; a un Leviatano per molti versi casuale, ansimante e sbilenco, capace sia di nuocere realmente alle libertà e ai diritti costituzionali attraverso la promozione di discriminazioni, di diseguaglianza, di conflitti, sia di essere inefficace o controproducente rispetto ai fini che si prefigge e che proclama: la sicurezza e il nucleare (con le sue scorie) non stanno facilmente insieme; lo stesso vale per l’ordine pubblico e le ronde, che creeranno più problemi di quanto ne risolveranno; la limitazione delle intercettazioni renderà più difficile indagare su fatti criminali anche gravi così che la "difesa della vita" si rivelerà l’obbligo di restare in vita, imposto a chi non può difendersi dall’etica di Stato; la lotta aspra all’immigrazione clandestina produrrà reazioni sempre più violente, ecc.; mentre i grandi interventi della politica sull’economia non si vedono.
A questo cattivo ritorno della politica non basta opporre la difesa formale della costituzione (ovviamente necessaria perché prevede e prescrive appunto i limiti democratici del potere); la lotta per rilanciare la centralità delle libertà, della democrazia, della costituzione, implica l’affermazione e la promozione di autentici contropoteri democratici diffusi nella società: per domare il nuovo Leviatano, zoppicante ma pericoloso, occorrono una libera stampa, un’università combattiva e orgogliosa (come quella francese, che sta rifiutando misure non peggiori di quelle che colpiscono la nostra); oltre che, naturalmente, anche una coerente opposizione.