In tremila anni di storia, nel nostro Paese non c’è mai stata una convergenza verso la stessa lingua forte come oggi
Statistiche. Il 60 per cento della popolazione conosce un dialetto, il 95 per cento parla abitualmente l’italiano
De Mauro: «Ma l’italiano ha vinto. E’ un bene»
di P. Sa. [Paolo Salom](Corriere della Sera, 01.03.2009)
Tullio De Mauro preferisce l’ottimismo della ragione: «Non dobbiamo attenderci una catastrofe», spiega l’ex ministro della Pubblica Istruzione, per decenni docente di linguistica generale.
Eppure, l’Unesco indica 2.500 idiomi in grave pericolo. Ha senso parlare di lingue a rischio di estinzione? «Il numero di lingue con una base demografica assai fragile è perfino superiore a 2.500. Da anni possiamo dirlo grazie al censimento delle lingue parlate nel mondo che venne avviato negli anni Cinquanta a Austin (Texas) da Barbara Grimes e collaboratori. Questo censimento è continuamente aggiornato e disponibile in rete nel sito Ethnologue. Quanto a profezie, certo, mediamente le lingue parlate da piccoli gruppi e prive di uso scritto (lingue bantu o idiomi amazzonici) rischiano molto sotto la pressione di consumismo, devastazioni in Africa e America Latina, migrazioni. Ma le profezie vanno fatte con cautela in questa materia. Cent’anni fa chi avrebbe scommesso sulla straordinaria reviviscenza dell’ebraico? A inizio del IV secolo avanti Cristo a chi sarebbe venuto in mente che il gallico, esteso dalle isole britanniche alla Crimea, si sarebbe ridotto a preziosi, isolati relitti, e la lingua di una cittaduzza di agricoltori sul Tevere saccheggiata per l’appunto da una banda di predoni gallici sarebbe diventata presto la lingua di un grande Impero destinata a durare per millenni in Europa?».
Cosa porta una lingua a scomparire? Sono in genere fatti umani (guerre, stermini, assimilazioni) o anche fatti naturali? «Giulio Cesare fa l’elenco puntuale degli Elvezi uccisi nei Commentarii sulla Guerra Gallica (De Bello Gallico): "238 mila elvezi sterminati...". Uomini, donne e bambini: la lingua degli elvezi è sparita con loro. Per fortuna, per quanto ne abbiamo combinate nella Storia umana, questo è un evento terribile ma secondario rispetto all’assimilazione di popolazioni a lingue egemoni. Nessuno ha eliminato dalla faccia della Terra i Goti o gli Etruschi: sono passati al latino. Buona o cattiva che sia, questa dinamica è meno cruenta dello sterminio. Ma così è successo molteplici volte».
L’Unesco elenca anche alcuni idiomi minori, i cui parlanti si trovano in Italia, come a rischio: sono il Griko (del Salento e della Calabria), il Gardiol, il croato del Molise, il Töitschu (tedesco) della Valle d’Aosta: come sono arrivate a noi queste lingue? Davvero sono in pericolo? «L’Italia, fin dall’antichità preromana, tra le Alpi e i mari ha accolto e poi ospitato stabilmente popolazioni della più diversa provenienza. Molte lingue sono scomparse perché le popolazioni si sono volte all’uso del latino e delle parlate romanze nate dal latino. Altre, dal serbo- croato al greco o all’albanese, hanno resistito all’assimilazione. Ma anche qui ci vuole cautela. Venti anni fa il Griko della Grecia salentina era stato dato per spacciato, e invece ha conosciuto una straordinaria rivitalizzazione. Del resto, anche i dialetti italiani sono stati dati per morti a partire dagli anni Cinquanta e invece sono vivi e in uso per il 60% della popolazione (dati Istat) accanto all’italiano».
Ai tempi dell’Impero romano era il latino la lingua dominante del mondo, come l’inglese oggi. Da secoli è una lingua morta. Al suo posto, le lingue neolatine e, soprattutto, l’italiano: come si spiega questo fenomeno? «Latini diversificati nel parlato si erano affacciati già nei secoli dell’Impero romano. Con la caduta di Roma e con la frammentazione politica dell’Europa quelle diversità sono state il germe da cui si sono sviluppate le parlate dialettali e le lingue letterarie romanze. In condizioni ovviamente diverse qualcosa del genere è andata avvenendo per l’inglese dalle cui due varietà maggiori, britannica e americana, vanno sorgendo formazioni idiomatiche differenziate, come l’inglese indiano o della Namibia, e tanti altri: l’elenco è lungo».
Potrebbe accadere ancora? Il nostro italiano oggi non è considerato a rischio: potrebbe esserlo nel futuro? Insomma, i nostri pronipoti parleranno un’altra lingua? «L’italiano, a metà del Novecento, era parlato abitualmente da meno del 20% della popolazione, oggi lo è dal 95%. Mai, in tre millenni di storia ricostruibile, le popolazioni d’Italia hanno conosciuto un pari grado di convergenza verso una stessa lingua. Perché sessanta milioni di persone cambino idea ci vuole tempo».
In Israele, un’altra lingua morta, l’ebraico biblico, è tornata alla vita all’inizio del Novecento. Potrebbe mai accadere al latino o ad altre lingue scomparse? «La storia linguistica umana è piena di sorprese di vario tipo. Nel Vicino Oriente Antico il sumerico è sopravvissuto per millenni, come lingua scritta, alla scomparsa del popolo che l’aveva usato. L’ebraico era ridotto al rango di lingua sacrale e rituale già ai tempi di Cristo ed è rinato come lingua viva. Lingue parlate in grandi estensioni geografiche e con un incipiente tradizione scritta, come il gotico, sono scomparse e ne restano solo tracce in nomi di luogo come Sgurgola (dal gotico Sculx: Scolta, Guardia) a volte malamente italianizzati come Scorticata, ribattezzata Torriana per volere del Duce in età fascista. Nessuno è profeta nella mutevole patria delle lingue. Il latino continua a essere la lingua ufficiale della Città del Vaticano e, soprattutto, del Missale Romanum e della Chiesa. Non è stato abbandonato con il Concilio. Potrebbe tornare a essere una lingua praticata da intere popolazioni? E perché no, se i casi della Storia lo consentissero?».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Globalizzazione
La scomparsa di certe forme espressive è un fenomeno mondiale.
Ma non si può sostenere che l’inglese e lo spagnolo siano le lingue-killer
Nel mondo Il cinese mandarino è il più diffuso.
Nelle ultime tre generazioni scomparsi 200 dialetti
In Italia Dalla Valle d’Aosta alla Puglia sono cinque le forme espressive autoctone minacciate di estinzione
Lingue salvate, lingue perdute
Il nuovo atlante delle parole
Dei 6 mila idiomi 2.500 rischiano di sparire
di Paolo Salom (Corriere della Sera, 1.03.2009)
«Signor Candido Ortiz, lei è accusato di tentato omicidio in stato di ubriachezza». Niente, nessuna risposta. «Lei capisce quello che sto dicendo?». No, Candido Ortiz, 20 anni, non può capire. È uno delle migliaia di immigrati più o meno regolari che sopravvivono in California senza avere mai imparato l’inglese. Il caso di Ortiz ha meritato la prima pagina del Los Angeles Times perché i cancellieri del tribunale distrettuale hanno impiegato tre mesi prima di trovare un interprete in grado di far comprendere all’imputato i suoi diritti costituzionali e, soprattutto, le accuse. Alla fine, con un espediente degno di Hollywood, procuratore e avvocati hanno potuto finalmente interloquire con lui grazie a una triangolazione in teleconferenza con il Messico, suo Paese d’origine. Tanta fatica per un traduttore dallo spagnolo? No, certo: la lingua di Ortiz non è l’idioma di Cervantes nella sua versione americana bensì il ben più raro Quetzaltepec (una variante dialettale india del comunque inconsueto Mixe) parlato da non più di 7 mila anime nella regione montagnosa meridionale di Oaxaca.
Caso da Guinness? Non secondo l’Unesco, che nei giorni scorsi ha presentato l’Atlante internazionale delle lingue in pericolo di estinzione. Cifre da far paura: dei 6 mila idiomi parlati nel mondo, secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura, almeno 2.500 potrebbero sparire per sempre. A essere «sull’orlo » della scomparsa, o a rischiare una «morte certa - ci spiega l’australiano Christopher Moseley, capo dell’équipe di 30 linguisti che hanno curato il progetto - sono soprattutto le parlate delle regioni a forte diversità linguistica come la Malesia, l’Africa subsahariana e l’America del Sud».
Nell’elenco sono citate lingue conosciute (come sonorità) grazie ai film western: per esempio il Nez Perce, la lingua degli indiani Nasi Forati (sono rimasti soltanto 20 in grado di parlarla tra Idaho e Oregon); il Mescalero- Chiricahua Apache (3 parlanti nell’Oklahoma); e il Lakota di Balla coi lupi (25 mila parlanti nel South Dakota). E ovviamente lingue virtualmente sconosciute come il Chulym medio, scoperto solo 5 anni fa, e parlato da 35 persone nella russia siberiana.
Sorpresa: nell’atlante la sezione dedicata all’Italia segnala cinque idiomi a rischio estinzione. Sono il Gardiol (340 parlanti), il Griko del Salento (20 mila parlanti) e il Griko della Calabria (2 mila parlanti), il Töitschu (tedesco) della Valle d’Aosta (200 parlanti) e il croato molisano (5 mila parlanti). Considerando i dialetti a basso rischio, l’atlante dell’Unesco fa una lista totale di 31 idiomi italici «in pericolo».
«Il nostro lavoro - dice ancora Chris Moseley - è assimilabile a quello di un naturalista che metta in luce la fragilità di una specie animale o vegetale. Perché salvare una lingua che va scomparendo? Intanto perché è parte di una biodiversità che garantisce la ricchezza e la varietà delle culture umane. E poi perché ogni lingua, anche la più rara, è un esempio di una meraviglia, di più, di un miracolo dell’evoluzione che ha prodotto un insieme unico di parole, suoni e architettura grammaticale. Un insieme che è anche una visione del mondo originale, uno specchio delle metafore, del pensiero che una determinata popolazione utilizza per interpretare il mondo. Lasciarla svanire sarebbe un danno irreparabile: ogni lingua è un universo».
Qualcuno, a questo punto, potrebbe farsi l’idea che le lingue «minori» siano in difficoltà (unicamente) per colpa delle lingue dominanti (cinese mandarino, la più parlata, con 1.120 milioni; inglese, 510 milioni; hindi, 490 milioni; spagnolo, 425 milioni; arabo, 255 milioni).
Niente di più sbagliato: «La scomparsa delle lingue è un fenomeno universale», spiega ancora Moseley. Aggiungendo come sia «semplicistico affermare che le grandi lingue che sono state lingue coloniali siano dappertutto responsabili dell’estinzione degli altri idiomi. Io non definirei spagnolo e inglese come lingue-killer, anche se è vero che hanno imposto degli standard: ma in Sudamerica, per esempio, molte parlate degli indios sono protette dai governi e stanno rinascendo.
Il fenomeno è invece più legato allo sviluppo economico e alla globalizzazione, con le grandi migrazioni e l’abbandono "volontario" delle lingue "minori", alla diffusione di media moderni come televisione, radio e giornali. Poi ci sono fenomeni drammatici: lo tsunami, nel 2004, ha cancellato intere comunità nel Sud-Est asiatico con i loro idiomi». Sottolinea, a questo proposito, sul Monde Cécile Duvelle, capo della sezione del patrimonio immateriale dell’Unesco: «Le lingue sono vive. Certe muoiono, altre nascono».
Ecco dunque che, leggendo l’atlante (on line all’indirizzo www. unesco. org/ culture/ en/ endangeredlanguages), si scopre che 200 lingue si sono estinte nel corso delle ultime tre generazioni, 538 sono in una situazione «critica», 502 «seriamente in pericolo», 632 in «pericolo» e 607 «vulnerabili». Proseguendo con i dati dell’Unesco si vede che 199 lingue sono parlate al momento da meno di dieci persone.
Una tendenza preoccupante, che si può tuttavia contrastare come già accade, per esempio, nel nostro Paese. A Guardia Piemontese, paesino che, a dispetto del nome, si trova in Calabria, in provincia di Cosenza. «Nel centro storico - ci dice il sindaco di Guardia, Gaetano Cistaro - vivono oltre 300 persone la cui lingua madre è il Gardiol, ovvero l’Occitano originario delle valli valdesi del Piemonte». Nella loro lingua potremmo dire, senza bisogno di un interprete: O país de la Gàrdia l’es ’o sol país de la Calàbria aont la se parlla la lenga occitana.
Come è possibile questo miracolo? «I "gardioli" - racconta il sindaco - sono scesi in Calabria tra il XIII e il XIV secolo. Si sono stabiliti su una rocca e hanno resistito alle persecuzioni contro i valdesi durante la Controriforma. Alla fine hanno perso la loro religione: non hanno potuto evitare di convertirsi al cattolicesimo. Ma è stata proprio la lingua occitana, da loro conservata gelosamente, a salvarli dalla scomparsa come comunità culturale». Oggi sono perfettamente bilingue. E hanno, a loro disposizione, una scuola con lettorato occitano, un’amministrazione che fa di tutto per favorire la rinascita del Gardiol offrendo servizi come lo sportello linguistico, mentre la Provincia di Cosenza opera attraverso l’assessorato alle minoranze. «Noi - conclude il sindaco Cistaro - siamo in stretto contatto con le valli occitane del Piemonte. E soprattutto attendiamo con impazienza che l’Unesco riconosca il Gardiol e la cultura legata a questa lingua come patrimonio immateriale dell’umanità».
Su «Crusca per voi», il periodico dell’Accademia (a sinistra il logo) sono stati pubblicati due saggi nei quali si commenta la proposta di creare classi differenziate (o ponte) per gli studenti stranieri.
«Un metodo incongruente rispetto all’obiettivo di favorire la promozione dell’acquisizione dell’italiano», scrive la Crusca
Nell’anno scolastico 2007-2008 gli studenti non italiani erano 574 mila. Quest’anno, secondo una stima, sono 650 mila
L’Accademia si è fatta portavoce di altre cinque istituzioni che hanno il compito di custodire la nostra lingua
Classi per stranieri, no della Crusca
«Così non si aiuta l’integrazione»
«Per imparare l’italiano meglio stare in aula con gli altri»
Il consiglio: formare i docenti. Ora la decisione del ministro
di Gianna Fregonara (Corriere della Sera, 03.03.2009)
Confusa. Generica e per lo più impraticabile. In altre parole, inadeguata. L’imprevista bocciatura è dell’Accademia della Crusca, che critica la proposta di formare classi differenziate (le classi di inserimento o classi ponte) per far apprendere l’italiano agli stranieri, presentata dal leghista Roberto Cota e approvata dalla maggioranza lo scorso ottobre. Non serve: funzionerà certo a tranquillizzare genitori italiani e docenti alle prese con problemi di integrazione, ma dal punto di vista scientifico e dell’apprendimento dell’italiano per studiare è del tutto inutile.
Sul periodico dell’Accademia, la «Crusca per voi», si possono leggere due saggi argomentati sul tema. E, come se non bastasse, la rivista si fa portavoce delle impietose osservazioni delle altre istituzioni custodi della nostra lingua: la Società italiana di Glottologia, la Società di linguistica italiana, l’Associazione italiana di linguistica applicata, il Gruppo di intervento e studio nel campo dell’educazione linguistica e l’Associazione per la storia della Lingua italiana, che della proposta Cota scrivono: «La mozione risulta non chiara nelle premesse, poco perspicua nel metodo e inefficace nella soluzione». E ancora: «Il metodo proposto per affrontare il problema è piuttosto incongruente rispetto all’obiettivo di favorire la promozione dell’acquisizione dell’italiano ai fini,almeno dichiarati, di una armonica integrazione».
Replica Cota: «Rispetto la Crusca, ma loro rispettino il problema vissuto da migliaia di famiglie nelle periferie delle grandi città. Temo che vedano più il tarlo del razzismo che altro, ma io spero che al più presto il ministro Gelmini possa varare un provvedimento dettagliato sulle classi ponte, la mozione indica soltanto la linea politica, non le soluzioni tecniche migliori». Per ora il ministro sta studiando la pratica, e i presidi sono in attesa di lumi per le iscrizioni.
I dati innanzitutto. Nello scorso anno scolastico, 2007-2008, secondo le rilevazioni del ministero dell’Istruzione, su dieci milioni di alunni, 574.000 erano stranieri, cioè con «cittadinanza non italiana»: in percentuale il 6,4, il 7 per cento dall’asilo alle medie e il 4 per cento nelle superiori.
Non una cifra spaventosa, in termini assoluti. Ma dieci volte di più degli studenti stranieri inseriti a scuola appena dieci anni prima, nel 1997. Tanto da creare, come riconoscono anche gli studiosi della Crusca, «una situazione di disagio».
Di questo mezzo milione tuttavia, i non-italiofoni, quelli cioè che non parlano l’italiano, entrati per la prima volta nel sistema scolastico italiano, e che avrebbero bisogno di corsi e sostegni non sono più di 50 mila: «Circa il 70 per cento dei bambini stranieri che frequentano la scuola dell’infanzia e la metà di quelli che sono alle elementari - si legge nell’articolo di Silvia Morgana, ordinaria di linguistica italiana alla Statale di Milano - sono nati in Italia, mentre un’altra parte consistente è in Italia da anni e ha già frequentato altri gradi di scuola e quindi è sostanzialmente in grado di comunicare in italiano, anche se con diversi livelli di competenza linguistica».
Dov’è dunque il problema secondo la Crusca? Non è l’italiano di base, quello che si insegnerebbe prima dell’inserimento nelle scuole normali, da verificare con gli ormai famosi test entro dicembre il vero problema: l’apprendimento di queste conoscenze da parte degli stranieri è di solito rapido e «richiede da pochi mesi, all’anno e mezzo dall’inserimento nella scuola "normale"», a contatto con gli studenti italiani. Il problema che può insorgere e creare difficoltà di apprendimento è «la lingua per lo studio», cioè quelle competenze specialistiche che servono per comunicare le proprie conoscenze più avanzate: «Queste risultano spesso ben più difficili da padroneggiare completamente anche per gli studenti italiani e la lingua per lo studio può richiedere fino a cinque anni per essere utilizzata nel modo più efficace», spiega ancora Morgana.
Se le classi di inserimento o differenziali o ponte non servono, allora che fare, per situazioni in cui in una classe ci sono tre quarti di studenti stranieri e gli italiani sono in fuga? Di idee e sperimentazioni, ne sono nate tante in questi ultimi anni. La Crusca suggerisce di puntare sui docenti, preparandoli per la formazione dell’insegnamento dell’italiano come seconda lingua, disponendo una formazione specifica per i docenti che lavorano nei Cpt, e più in generale creando una «vera e propria cultura della valutazione» non solo delle competenze linguistiche, formando gli insegnanti ad una revisione dei curriculum in chiave interculturale.
A provare le classi di inserimento è da qualche mese la Catalogna, in Spagna, in due città vicino a Barcellona, Vic e Reus. Ma il modello, proposto tra mille polemiche, ha una durata di tempo molto limitata: da uno a sei mesi, soltanto per i nuovi entrati. In questo primo periodo di tempo dalle classi separate è passato qualche centinaio di studenti e oltre i due terzi sono già stati inseriti nelle classi normali.
Non che in Italia negli ultimi anni non sia suonata la campanella dell’emergenza. L’osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e l’educazione interculturale presso il ministero, ha prodotto diversi documenti di indirizzo, segnalando già due anni fa il problema di quel 20% di alunni stranieri che arrivano ad anno scolastico già iniziato. La linea fin qui seguita nelle zone ad alta concentrazione era quella di lasciare autonomia alle scuole per fare corsi e laboratori di lingua pomeridiani e di sostegno. Ancora non è stato valutato il successo. Ma lo stesso osservatorio aveva messo in guardia «contro i rischi di pregiudizi e preconcetti su base emozionale rispetto ai nuovi arrivati».
Per ora alcuni Comuni si sono arrangiati da sé, trovando nelle raccomandazioni europee e nelle esperienze di altri Paesi, l’ispirazione per le proprie politiche. A Vicenza il sindaco Achille Variati (Pd) ha imposto un tetto di tre alunni che non parlano italiano per ogni classe, gli altri verranno aiutati dal Comune e dai presidi a trovare altre sistemazioni. La Commissione europea non ha censurato l’idea. A Novara succede il contrario. Nelle scuole del quartiere Sant’Agabio, ad alta densità di stranieri, sono gli studenti italiani che sono invitati a iscriversi: per loro mensa e scuolabus gratis. Stesso incentivo per gli stranieri che accettano di spostarsi in altre realtà. Il modello è la Spagna, quella Catalogna che però poi ha deciso di introdurre i corsi di inserimento. A Milano il Comune sta pensando a qualcosa di simile. A Roma l’assessore alle politiche educative Laura Marsilio ha proposto l’obiettivo di avere negli asili non più di cinque stranieri per classe. Tutto questo in attesa di una parola definitiva da parte del ministero.
» 2009-03-03 17:29
A scuola 650 mila alunni stranieri
Dieci anni fa erano 18. 500, classi sempre piu’ multiculturali
(ANSA) - ROMA, 3 MAR - Classi sempre piu’ multiculturali in Italia.In un anno gli stranieri iscritti nelle scuole sono aumentati di 70mila unita’ salendo a 650mila. Gli iscritti con cittadinanza non italiana costituiscono il 7% dell’intera popolazione scolastica e provengono da 150 paesi. Nell’anno scolastico 2007-2008, la percentuale di alunni stranieri si era invece fermata al 6,4%. Ma nei prossimi 2 o 3 anni gli alunni stranieri potrebbero raggiungere e superare quota 1 milione.