UNA VERGOGNA SENZA FINE ... E SENZA NEMMENO PIU’ LA POSSIBILITA’ DI URLARE: "FORZA ITALIA"!!!

UN’ONDA DI FANGO TRAVOLGE L’ITALIA. AL GRIDO "VADO AVANTI", GLI "EROI" DELLA CASTA LAVORANO A FAVORIRNE L’AVANZATA!!! Una nota di Francesco Merlo e di Gian Antonio Stella.

Abbassamento della soglia della dignità collettiva? Bassolino ha detto di non leggere i documenti che firma, parodiando così gli imputati di Norimberga...
sabato 20 dicembre 2008.
 

[...] le classifiche sulla percezione della corruttela elaborate da Transparency: nel 1993, in piena Tangentopoli, eravamo al 30˚ posto tra i Paesi virtuosi. Nel 2007 stavamo al 41˚e quest’anno siamo precipitati al 55˚.Dietro (a parte la Grecia che di questo passo sorpasseremo a ritroso) abbiamo solo Paesi come la Turchia, la Tunisia, la Georgia, la Colombia... Davanti abbiamo il Portorico, il Botswana, Cipro... Qualcuno obietterà che si tratta di graduatorie da prendere con le pinze. Giusto. Ma certo la nostra reputazione, in questo settore, è pessima.

La tentazione che pare serpeggiare qua e là, a destra e a sinistra, è quella di uscirne dando una regolata alla magistratura: meno inchieste, meno arresti, meno scandali, meno indignazione popolare, meno astensione alle urne. Ma ammesso che qualche giudice abbia esagerato: sarebbe questa la soluzione? [...]


Il Paese senza dimissioni

È un tripudio di "vado avanti" (Villari e Iervolino), "se lasciassi sarei un irresponsabile" (Loiero e Bassolino)

di Francesco Merlo (la Repubblica, 19.12.2008)

LE DIMISSIONI in Italia sono sempre state una nobile rarità. Ma solo ora sono diventate ignobili, ripugnanti e vili. E dunque davvero qui non si dimette più nessuno. Nessun topo si sente fuori posto nel formaggio, e nessuno ha l’autorevolezza di imporre le dimissioni a nessuno. Eppure in passato nessun Bassolino e nessuna Iervolino avrebbero potuto resistere al consiglio imperioso di lasciare la poltrona fosse pure per sacrificarsi, nel rito collettivo del capro espiatorio, al bene comune e a un’idea alta di futuro.

E una volta ci si dimetteva anche per amor proprio. Al contrario di quel che pensa Rosa Russo Iervolino ? «vado avanti per difendere la mia onorabilità» ? si lascia non solo quando ci si sente ?al di sotto’, ma anche quando ci si sente ?al di sopra’, come fu, per esempio, il caso di De Gaulle che andò via senza dare spiegazioni e perciò permise a Raymond Aron di scrivere: «E’ un piacere ascoltare il silenzio di quest’uomo». Insomma, le dimissioni, specie quelle che non vengono date ma sempre rimandate, misurano, oltre che la struttura morale dell’individuo, la dignità etica del luogo in cui ci si muove e il prestigio e la forza politica di chi (non) riesce ad ottenerle.

E basti pensare alla debolezza di un partito che applaude il sindaco di Firenze, Leonardo Domenici, perché sentendosi fuori posto egli si è incatenato al suo posto. Dinanzi alla giustizia non ci sono partiti e il segretario di un partito non è un avvocato. In questi casi, la solidarietà o è inutile o è astuta, o è insensata o è corriva. Non si possono confondere i due piani e, infatti, tutti sanno che Veltroni ha per esempio, sotto sotto chiesto, senza riuscire ad averle, le dimissioni di Bassolino al quale è stata tuttavia espressa solidarietà pubblica: «piena e totale fiducia» dunque, ma secondo la famosa formula filosofica del ?qui lo dico e qui lo nego’, bene illustrata al paragrafo due, comma quarto dell’autorevole trattato «Mamma, Ciccio mi tocca; toccami Ciccio, che mamma non c’è».

Alla fine dunque si capisce solo che Veltroni non ha la forza di fare dimettere Bassolino e la Iervolino, ma neppure Villari e Loiero? Eppure una volta ci si dimetteva perché amavi e credevi, oltre che nelle istituzioni, anche nel partito: uscivi per rafforzare il tuo partito. Mi racconta un dirigente del Pd di un Veltroni sconsolato: «Nessuno mi ha creduto e io stesso ormai faccio fatica a credermi. Ma sono mesi che chiedo la testa di Bassolino». Sfiducia in privato, fiducia in pubblico.

Il punto è che non è vero che dimettersi significa ammettere la propria colpevolezza penale ma soltanto la propria inadeguatezza. Dimettersi è dire ?sorry’ e scansarsi, confessare l’errore e non il crimine, e magari anche l’illusione, il sogno fortissimo: scusatemi, pardon. Dimettersi, prima d’esservi costretti, è anche intelligenza, eleganza, è una battuta di spirito.

Prendete invece l’assessore di Firenze Graziano Cioni che, da solo, ha pronunziato una dopo l’altra tutte quelle frasi del repertorio militare alle quali sempre si ricorre a ridosso della fine, da «rimango al mio posto di combattimento» a «non mi arrenderò mai». E infatti qui è un tripudio di «vado avanti» (Villari e Iervolino), «se mi dimettessi sarei un irresponsabile» (Loiero e Bassolino), «non mi consegnerò ai nemici» , «io sono un combattente». Sono tutti Menenio Agrippa, tutti Coriolano, tutti Enrico Toti. E però la metafora di guerra non precede le dimissioni, che in fondo non compromettono il futuro, ma l’irreversibile uscita di scena, la sconfitta definitiva.

E’ vero che in Italia anche in passato le dimissioni erano un lungo sfinimento e si ricorda per esempio un discorso di Forlani con tre finali diversi perché la Dc aveva elaborato la rimozione-promozione, il dimettersi per immettersi in nuovi poteri e un’infinità di altre combinazioni, ?dimissioni con riserva’, ?dimissioni mai’, ?reincarico’, ?sfiducia’?Ma non si era mai vista una resistenza così estesa e così bipartisan. E poi, diciamolo chiaro: non eravamo abituati alla faccia tosta di sinistra, alla sfrontatezza di sinistra, all’impudenza di sinistra che non si vergogna di se stessa. Ancora un passo e arriviamo a Cuffaro che non solo non si dimetteva, ma disarmava il Diritto festeggiando la condanna con i cannoli.

Ecco dunque Villari che può autoproclamarsi eroe della democrazia perché nessuno ha i titoli per farlo vergognare. Villari ha ragione a iscrivere anche il proprio trasformismo nella democrazia italiana. Da La Marmora a Mastella, dai ribaltoni di De Pretis e Minghetti a quelli di D’Alema e Bossi, dalla cacciata di Ricasoli alle cacciate di Prodi: «cospirazioncelle di gabinetto» le chiamava già il primo direttore del Corriere della Sera Eugenio Torelli-Viollier. E però anche dentro il trasformismo nessuno poteva sfuggire all’imposizione delle dimissioni che alla fine smontavano i conflitti e disarmavano le ideologie. E invece qui Agazio Loiero annunzia «non deporrò le armi», Bocchino pensa che l’accusa contro di lui sia «kafkiana», Lusetti ammette d’essere «distratto», ma di dimissioni non ne parla nessuno.

Per non dire del sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino, coordinatore di Forza Italia in Campania, indagato per fatti terribili.

Abbassamento della soglia della dignità collettiva? Bassolino ha detto di non leggere i documenti che firma, parodiando così gli imputati di Norimberga. E Marta Vincenzi, sindaco di Genova, quando arrestarono il suo portavoce annunziò: «E’ il giorno più triste della mia vita». Dimissioni? «No. Farò piazza pulita». Ma i portavoce, i sottopanza, i segretari e gli alterego sono solo disgrazie? Gli italiani hanno il diritto di pensarli come protesi, come il guanto che indossa la casalinga per toccare i residui di cucina senza sporcarsi. E l’errore? Quanti errori bisogna commettere prima di ammettere l’incompetenza che non te li ha fatti riconoscere?

Eppure i non dimissionari, dietro l’inadeguatezza dei loro predecessori, furono pronti a scoprire coraggiosamente i delitti e le complicità: delitti non penali ma civili, delitti di indecenza, di sciatteria, di volgarità politica. Ebbene adesso dietro la propria inadeguatezza tutti coraggiosamente scoprono che esistono le cattive azioni senza autore, le malefatte senza malfattori, i colpevoli dall’innocenza adamantina. Così il deputato Margiotta e il sindaco di Pescara, che è stato arrestato ma non si è ancora dimesso. Insomma le dimissioni sono state definitivamente cancellate dalla politica italiana. Le sole che continueremo a ricordare sono quelle di Francesco Cossiga che, travolto dal senso di colpa, lasciò il ministero dell’Interno dopo l’assassinio di Aldo Moro, e quelle di Dino Zoff che da allenatore della Nazionale non sopportò gli insulti del premier Berlusconi. Nel paese del ?posto fisso’, ecco dunque chi si dimette: il disturbato e il galantuomo.


-  ’FATTORIA ITALIA’. LA SCRITTA SUL CANCELLO D’ENTRATA: ’POPOLO DELLA LIBERTà’. La forma della Repubblica è cambiata nell’aula del senato alle 20 in punto del 22 luglio, 171 sì 128 no e 6 astensioni al lodo Alfano....
-  LE "BUGIE" DI MASSIMO GIANNINI E LA "VERITA’" DI BERLUSCONI: "FORZA ITALIA", "IL PRESIDENTE SONO IO"!!!

A SANDRO PERTINI. RESTITUIRE AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA IL SUO ONORE, LA SUA GLORIA, E IL SUO GRIDO: FORZA ITALIA!!! Messaggio del Presidente Napolitano nel trentennale dell’elezione di Sandro Pertini a Presidente della Repubblica


La soluzione sbagliata

di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera, 19.12.2008)

«No San Vitur? Ahi ahi ahi ahi!» Pare passato un secolo da quando Cuore faceva il verso a uno spot televisivo sbeffeggiando chi non era ancora finito a San Vittore e pubblicava il «bollettino dei latitanti » e sparava titoli come «Scatta l’ora legale / Panico tra i socialisti». Da quando Massimo D’Alema liquidava le parole di Bettino Craxi su Mario Chiesa dicendo che dare del «mariuolo » a qualcuno era «un modo troppo semplice di cavarsela». Da quando la notizia di un avviso di garanzia all’ex premier Giovanni Goria fu accolta dall’assemblea diessina con un applauso.

Mal comune mezzo gaudio? Non hanno senso, a destra, certi commenti del tipo «chi di tangenti ferisce, di tangenti perisce». Sono forse comprensibili, da parte di coloro che per anni sono stati additati come i monopolisti della mala- politica. Ma non hanno senso. Così come appare insensato quel sollievo a sinistra nel sottolineare che nelle retate e negli scandali di questi giorni, tra tanti esponenti del Pd, è rimasto invischiato anche qualche protagonista della destra, quale ad esempio Italo Bocchino.

Il guaio è che il nodo della corruzione in Italia, al di là delle sorti giudiziarie degli indagati, cui auguriamo di dimostrare un’innocenza cristallina, è rimasto irrisolto dai tempi in cui Silvio Berlusconi racconta che «a Milano non si poteva costruire niente se non ti presentavi con l’assegno in bocca». Lo dicono decine di processi in tutto il Paese. Lo confermano gli studi di Grazia Mannozzi e Piercamillo Davigo che esaminando 20 anni di casellari giudiziari hanno accertato che la bustarella non è tramontata mai anche perché le condanne per corruzione (poi ci sono le assoluzioni, le prescrizioni...) sono nel 98% dei casi inferiori ai due anni. Lo denuncia la Banca Mondiale, secondo cui se ne vanno in tangenti, in Italia, 50 miliardi di euro l’anno, tutti soldi che poi, a causa dei rincari delle commesse, pesano sulle tasche dei cittadini. Così come pesano ancora sulle pubbliche casse le mazzette di una volta, che secondo il centro Einaudi di Torino incisero, soltanto negli anni Ottanta, «dal 10 a quasi il 15% del deficit complessivo».

Lo testimoniano infine le classifiche sulla percezione della corruttela elaborate da Transparency: nel 1993, in piena Tangentopoli, eravamo al 30˚ posto tra i Paesi virtuosi. Nel 2007 stavamo al 41˚e quest’anno siamo precipitati al 55˚.Dietro (a parte la Grecia che di questo passo sorpasseremo a ritroso) abbiamo solo Paesi come la Turchia, la Tunisia, la Georgia, la Colombia... Davanti abbiamo il Portorico, il Botswana, Cipro... Qualcuno obietterà che si tratta di graduatorie da prendere con le pinze. Giusto. Ma certo la nostra reputazione, in questo settore, è pessima.

La tentazione che pare serpeggiare qua e là, a destra e a sinistra, è quella di uscirne dando una regolata alla magistratura: meno inchieste, meno arresti, meno scandali, meno indignazione popolare, meno astensione alle urne. Ma ammesso che qualche giudice abbia esagerato: sarebbe questa la soluzione?


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