"La finanza deve riscoprire l’etica"
La figlia del premier: e il conflitto di interessi va regolamentato
di LUCA UBALDESCHI (La Stampa, 21/9/2008)
MILANO. «Oggi il ricorso all’etica sembra essere la strada migliore che molti economisti e società percorrono per cercare di trovare una soluzione alla dilagante crisi economica. Credo che sia opportuno affidare un ruolo più forte all’etica, ma al tempo stesso temo che questa soluzione evidenzi anche le attuali difficoltà del diritto societario e della costituzione economica della grande impresa. Servono più regole che garantiscano la correttezza dei comportamenti, ma servono anche istituzioni forti che facciano in modo che le norme vigenti vengano realmente rispettate».
Di fronte alla crisi che colpisce i mercati, a colossi che fanno bancarotta e bruciano soldi e posti di lavoro, Barbara Berlusconi mette subito in chiaro una cosa: «Espongo il mio punto di vista, ma non ho la presunzione di dare consigli o di stupire con soluzioni». Ma è evidente che il tema dell’etica negli affari le sta a cuore. Discute di tutela degli investitori e senso di responsabilità sociale che un’azienda deve dimostrare, in un ragionamento che spazia tra le tesi di Guido Rossi e il ruolo del padre come imprenditore, tra la necessità di regolare il conflitto di interessi e il suo futuro di manager.
La sensazione è che questi argomenti segnino un punto di svolta nella vita della primogenita di Silvio e Veronica Berlusconi, 24 anni, consigliere d’amministrazione della Fininvest, madre da undici mesi. Non a caso l’etica nei sistemi economici è al centro della tesi che sta preparando per la laurea in Filosofia all’Università del San Raffaele ed è il tema del dibattito che organizza l’associazione di cui fa parte - Milano Young - con la Bocconi il 2 ottobre.
Al convegno ci sarà una sua relazione?
«No, mi limiterò a spiegare le ragioni per cui l’abbiamo organizzato. Vede, finora con Milano Young ci siamo dedicati alla beneficenza. Ma oggi non siamo gli stessi di quattro anni fa. Come noi anche la onlus dove operiamo compie un percorso di crescita. Cambiano i nostri interessi e le proposte che Milano Young offre alla sua città. Con questo nuovo percorso di incontri desideriamo proporre ai nostri coetanei tematiche che sentiamo urgenti e attuali, come il valore dell’etica nei sistemi economici».
Il punto di partenza del dibattito?
«La società sta riscoprendo l’etica economica perché sembra suscitare nuovi interessi, collettivi e diffusi. Sempre più governanti, giuristi, economisti, imprenditori, sindacalisti, impiegati, consumatori sentono l’esigenza che le società e i mercati siano regolati da valori comuni che contrastino atteggiamenti illegittimamente consentiti e pericolosamente individualisti. Quello che però non si riesce ancora a capire, e su cui verterà la discussione, è se l’etica ha un effettivo potere "curativo" verso quei comportamenti economici che sempre più di frequente accettano e adottano la fisionomia di un’illegalità diffusa».
Bel tempismo, considerato quanto sta accadendo nella finanza mondiale.
«Il crac di Lehman Brothers è sconcertante. Parliamo di 27 mila dipendenti che da un giorno all’altro si ritrovano senza lavoro. Per non parlare degli investitori e dei mercati. Questo dimostra quanto sia attuale l’argomento che abbiamo scelto. Interrogarsi sull’efficacia che l’etica assume nella gestione di società, di imprese e nei sistemi economici non è un tema astratto. E proporlo agli studenti della Bocconi non è un caso. Loro studiano per essere la classe dirigente di domani e non possono eludere queste riflessioni».
Lei invoca una gestione più etica e responsabile delle aziende?
«L’economia di oggi ha sempre più bisogno di indicazioni e limiti, soprattutto per quanto riguarda i problemi della disuguaglianza delle condizioni economiche, della protezione dell’ambiente, della tutela di chi agisce correttamente sui mercati. Trovo giusto che negli affari le persone prendano ispirazione dai principi e dai valori etici, anche se è chiaro che l’etica non si possa sostituire alle norme e alle sanzioni giuridiche, come spesso si vuol far credere. Mi spiego. Ci sono una serie di comportamenti, ritenuti scorretti e sprovvisti di sanzione, che si spera possano essere risolti e controllati attraverso i codici di comportamento societari. Questo è come pensare che l’etica si possa sovrapporre alla giustizia e che in qualche modo possa sostituirla».
A che cosa pensa, in particolare?
«Il punto cruciale è che i codici di condotta aziendale e gli strumenti etici (bilancio sociale, ambientale, ecc) sono in molti casi autoimposti e quindi possono essere violati. Pensiamo a una qualsiasi azienda, che promette di essere corretta e trasparente con i propri dipendenti, i propri azionisti e i consumatori. Prima o poi, però, la ricerca del profitto si scontrerà con le norme etiche e imporrà di scegliere tra l’una e le altre. A quel punto starà alla sensibilità, alla coscienza, alla moralità dell’imprenditore decidere cosa fare».
Che cosa propone, allora?
«Che vengano definiti in maniera oggettiva i criteri etici cui bisogna attenersi e che il rispetto ad essi non sia autogestito, ma imposto, affinché la comunità economica possa giudicare gli effettivi comportamenti dei propri operatori. Però l’etica da sola non basta. La crisi del mondo degli affari non è dilagata solo per mancanza di principi etici, ma perché mancano le leggi e spesso quelle che ci sono non vengono applicate. Il professor Guido Rossi ha ben spiegato, ad esempio nel libro “Il conflitto epidemico”, la necessità di maggiori controlli e sanzioni».
Ha parlato di questi temi con suo padre?
«Non ne abbiamo ancora avuto il tempo, ma illustrerò per primo a lui la mia tesi».
Crede che potrebbe considerare un’ingerenza negativa l’idea di un codice etico imposto per legge alle imprese?
«Sinceramente, non saprei dire. Per immaginare la risposta bisogna collocare una persona nella fase storica in cui ha formato la propria esperienza. E queste sono problematiche che solo in questi ultimi tempi conoscono un’ampia diffusione».
Teme che possa giudicarla...
«Antiliberale?».
O di sinistra.
«Non si può parlare di destra o sinistra. Oggi fa parte del governo il ministro Sacconi che è un grande esperto di etica di impresa. Non credo che sia una questione che faccia a pugni con il libero mercato, se è questo che intende».
E’ una questione etica anche risolvere il conflitto di interessi, non crede?
«Il caso di mio padre è altra storia rispetto a ciò di cui abbiamo parlato finora. Sono convinta che il tema del conflitto di interessi abbia bisogno di una regolamentazione, ma il voto ha dimostrato che gli italiani non lo vivono come una necessità. Diciamo che esiste l’esigenza, non la richiesta».
Che voto dà all’etica imprenditoriale di suo padre?
«Apprezzo il rispetto per le altre persone e la disponibilità ad ascoltare».
Nel suo futuro c’è una carriera da manager, vero?
«E’ il mio obiettivo».
Sarà impegnata alla Mondadori?
«Studio per questo, amo i libri, l’editoria, le dinamiche della comunicazione. Ed è anche quello che mi ha sempre chiesto e proposto mio padre».
Niente Mediaset e televisione?
«La tv mi interessa meno».
Però la guarda?
«Amo guardare Sky, canali come Discovery o National Geographic. Apprezzo Matrix e Mentana, è bello Report, mi piacciono la Bignardi e le Invasioni barbariche. Comunque mi creda, rispetto a quanto si vede all’estero, il nostro servizio televisivo è di buona qualità. Che si parli di Mediaset, Rai o La 7».
Un’ultima domanda: sarà un’imprenditrice eticamente responsabile?
«Quando mi troverò di fronte a una scelta cruciale mi auguro di saperla compiere conformemente ai miei principi morali».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Regolamentazione della finanza o superamento del capitalismo?
Marx contrattacca
di Lucien Sève *
Le Monde Diplomatique, Paris - dicembre 2008, 55° anno, n° 657
(traduzione dal francese di José F. Padova)
* filosofo, ha appena pubblicato il secondo volume di Penser avec Marx aujourd’hui (Pensare con Marx, oggi) intitolato L’Homme? (L’Uomo?), La Dispute, Paris.
Trascurati dai partiti socialisti europei come “lunatico vecchiume semplicistico” con il quale sarebbe urgente troncare, screditati all’università dove per lungo tempo furono insegnati come una base dell’analisi economica, i lavori di Karl Marx suscitano nuovamente interesse. Il filosofo tedesco non ha forse analizzato minuziosamente la meccanica del capitalismo i cui sussulti fanno perdere la bussola agli esperti? Mentre gli illusionisti pretendono di «moralizzare» la finanza, Marx si è dedicato a mettere a nudo i rapporti sociali.
Si era quasi riusciti a persuadercene: la storia era terminata, il capitalismo, con generale soddisfazione, costituiva la forma definitiva dell’organizzazione sociale, la «vittoria ideologica della destra», parola di primo ministro, era ormai attuata, soltanto alcuni incurabili rimuginatori agitavano ancora il trastullo di non si sa quale futuro.
Il formidabile terremoto finanziario dell’ottobre 2008 ha spazzato via d’un colpo solo questa costruzione mentale. A Londra il Daily Telegraph scrive: «Il 13 ottobre 2008 rimarrà nella storia come il giorno in cui il sistema capitalista britannico ha riconosciuto di aver fallito (1)». A New York i manifestanti brandiscono davanti a Wall Street cartelli con «Marx aveva ragione!». A Francoforte un editore annuncia che le vendite di Il Capitale sono triplicate. A Parigi una nota rivista esamina, in un fascicolo di trenta pagine, a proposito di colui che si diceva definitivamente morto, «le ragioni di una rinascita (2)». La storia si riapre...
Immergendosi in Marx più d’uno fa scoperte. Parole scritte un secolo e mezzo addietro vi sembrano parlare di noi con un’acutezza sorprendente. Esempio: «Dato che l’aristocrazia finanziaria dettava le leggi, dirigeva la gestione dello Stato, disponeva di tutti i poteri pubblici costituiti, dominava l’opinione pubblica di fatto e mediante la stampa, si riproducevano a tutti i livelli, dalla Corte fino al bar malfamato, la medesima prostituzione, lo stesso imbroglio spudorato, la medesima sete di arricchirsi non già mediante la produzione, ma con la sottrazione della ricchezza altrui (3)». Marx con questo descriveva lo stato delle cose in Francia alla vigilia della rivoluzione del 1848... Di che fare sognare.
Tuttavia, al di là di rassomiglianze avvincenti, le differenze epocali rendono ingannevole ogni trasposizione diretta. L’attualità, nuovamente evidente, di questa magistrale Critica dell’economia politica, in cui consiste Il Capitale di Marx, si pone molto più in profondità.
Da dove viene in realtà l’ampiezza della crisi presente? Leggendo ciò che se ne scrive in prevalenza, si dovrebbe porre in discussione la volatilità di prodotti finanziari sofisticati, l’incapacità del mercato dei capitali di regolarsi da sé, il livello infimo della moralità di chi tratta denaro... In breve, lacune del solo sistema che regge ciò che, in contrasto con l’ «economia reale», si definisce «economia virtuale» - come se non si fosse appena misurato quanto essa pure reale lo sia.
Eppure la crisi iniziale dei subprime è proprio nata dalla crescente mancanza di denaro di milioni di nuclei famigliari americani a fronte del loro indebitamento di candidati alla proprietà. Cosa questa che obbliga ad ammettere che in fin dei conti il dramma del «virtuale» ha le sue radici proprio nel «reale». E il «reale», nel caso specifico, è l’insieme su piano mondiale dei poteri d’acquisto popolari. Sotto l’esplosione della bolla speculativa formata dal rigonfiarsi della finanza vi è l’incetta universale da parte del capitale della ricchezza creata dal lavoro e, sotto questa distorsione in cui la parte spettante ai salari è diminuita di più di dieci punti percentuali, colossale diminuzione, in nome del dogma neoliberista vi è per i lavoratori un quarto di secolo di austerità.
I trombettieri della moralizzazione
Mancanza di regolamentazione finanziaria, di responsabilità nella gestione, di moralità della Borsa? Certamente. Ma la riflessione senza tabù spinge ad andare molto più lontano: a mettere in discussione il dogma gelosamente protetto di un sistema di per sé al disopra di ogni sospetto, a meditare su quella spiegazione ultima delle cose che Marx chiama «legge generale dell’accumulazione capitalista». Egli dimostra che là dove le condizioni sociali della produzione sono proprietà privata della classe capitalista, «tutti i mezzi che mirano a sviluppare la produzione si invertono in mezzi di dominio e di sfruttamento di chi produce», sacrificato all’accaparramento di ricchezza da parte dei possidenti, accumulazione che si nutre di sé stessa e tende quindi a diventare folle. «L’accumulo di ricchezza a un polo» ha come necessario rovescio un’ «accumulazione proporzionale di miseria» all’altro polo, dal che rinascono inesorabilmente gli inizi di crisi commerciali e bancarie violente (4). È proprio di noi che si tratta.
La crisi è esplosa nel settore del credito, ma la sua potenza devastante si è formata in quello della produzione, con la ripartizione senza sosta sempre più disuguale dei valori aggiunti fra lavoro e capitale, sconvolgimento questo che un sindacalismo navigante in acque basse non ha potuto impedire e che è stato accompagnato da una sinistra socialdemocratica nella quale si tratta Marx come un cane ormai crepato. Si concepiscono allora quelle che possono valere come soluzioni della crisi - «moralizzazione» del capitale, «meccanismo di regolazione» della finanza - strombazzate da politici, amministratori, ideologi che ancora ieri fustigavano il benché minimo dubbio sulla giustezza del «tutto liberista».
«Moralizzazione» del capitale? Parola d’ordine che merita il premio per l’umorismo macabro. Se effettivamente vi è un ordine di considerazioni che volatilizza qualsiasi regime di sacrosanta libera concorrenza è proprio la considerazione morale: l’efficacia del suo cinismo vince ogni volta in modo tanto sicuro quanto è vero che la moneta cattiva scaccia quella buona. La preoccupazione «etica» è pubblicità.
Marx risolveva la questione in poche righe della prefazione al Capitale: «Non dipingo in alcun modo di rosa il personaggio del capitalista o del proprietario terriero», ma «meno di ogni altra la mia prospettiva, nella quale lo sviluppo della società in quanto formazione economica è inteso come un processo di storia naturale, potrebbe rendere l’individuo responsabile di rapporti dei quali egli rimane socialmente un prodotto (5)»... Ecco perché non basterà certamente distribuire qualche sberla per «rifondare» un sistema nel quale il profitto resta l’unico criterio.
Non si tratta di essere indifferenti all’aspetto morale delle cose. Anzi, al contrario. Ma, preso sul serio, il problema è di tutt’altro ordine che non la delinquenza di dirigenti farabutti, l’incoscienza di trader impazziti o perfino l’indecenza dei paracadute dorati. Ciò che il capitalismo ha d’indifendibile sotto questo aspetto, al di là di ogni comportamento individuale, è il suo stesso principio: l’attività umana che crea le ricchezze vi ha lo status di merce e vi è quindi trattata non come fine in sé stessa, ma come semplice mezzo. Non vi è bisogno di aver letto Kant per vedervi la sorgente permanente dell’amoralità del sistema.
Se si vuole moralizzare sul serio la vita economica occorre prendersela veramente con ciò che la rende immorale. Questo passa di certo - divertente riscoperta, questa, da parte di più di un liberista - attraverso la ricostruzione delle regolamentazioni statali. Tuttavia a questo scopo fare fondamento sul puntello sarkozysta dello scudo fiscale per i ricchi e della privatizzazione della Posta passa i confini dell’ingenuità. Dal momento che si pretende di affrontare la questione della regolamentazione è imperativo ritornare ai rapporti sociali fondamentali - e qui, di nuovo, Marx ci offre un’analisi di imprescindibile attualità: quella dell’alienazione.
Nel suo senso primario, elaborato in testi celebri della [sua] giovinezza (6), il concetto definisce quella maledizione che costringe chi riceve salario dal capitale a non produrre la ricchezza per altri se non producendo la sua propria indigenza materiale e morale: deve perdere la sua vita per guadagnarsela. La multiforme disumanità, della quale sono vittime in massa i salariati d’oggi (7), dall’esplosione delle patologie dei lavori a quella dei licenziamenti borsistici passando per quella dei bassi salari, illustra molto crudelmente la precisione che una tale analisi conserva.
Ma nei suoi lavori della maturità Marx attribuisce all’alienazione un significato ancora più vasto: poiché il capitale riproduce senza sosta la radicale separazione fra mezzi di produzione e produttori - fabbriche, uffici, laboratori non appartengono a coloro che vi lavorano -, le loro attività produttive e cognitive, non controllate collettivamente alla base, sono abbandonate all’anarchia del sistema della concorrenza, nel quale si trasformano in processi tecnologici, economici, politici, ideologici incontrollabili, gigantesche forze cieche che li soggiogano e li schiacciano.
Gli uomini non fanno la loro storia, è la loro storia che li fa. La crisi finanziaria dimostra in modo terrificante quell’alienazione, proprio come lo fanno la crisi ecologica e ciò che si deve definire la crisi antropologica, quella delle vite umane: nessuno ha voluto questa crisi, ma tutti la subiscono.
Da questo «spossessamento generale» portato alle estreme conseguenze dal capitalismo risorgono in modo irrefrenabile le rovinose assenze di regole concertate. Anche colui che si vanta di «regolare il capitalismo» è a colpo sicuro un ciarlatano politico. Regolare sul serio esigerà molto più dell’intervento statale, per quanto possa essere necessario, perché poi chi regolerà lo Stato? Occorre che riprendano possesso dei mezzi di produzione coloro che producono, materialmente e intellettualmente, riconosciuti infine per ciò che essi sono, e che non sono gli azionisti: i creatori della ricchezza sociale, che in quanto tali hanno un diritto irrecusabile di prendere parte alle decisioni della gestione, là dove si decide della loro stessa vita.
Di fronte a un sistema la cui flagrante incapacità di regolare sé stesso ci costa un prezzo esorbitante è necessario, seguendo Marx, avviare senza ritardi il superamento del capitalismo, lunga marcia verso un’altra organizzazione sociale nella quale gli umani, in nuove forme associative, controlleranno insieme le loro potenze sociali diventate folli. Tutto il resto è polvere negli occhi, quindi tragica disillusione promessa.
Si va ripetendo che Marx, forte nella critica, sarebbe privo di credibilità per quanto riguarda le soluzioni, perché il suo comunismo, «messo alla prova» all’Est, sarebbe radicalmente fallito. Questo come se il defunto socialismo di Stalin-Breznev avesse avuto qualcosa di veramente comune con l’intento comunista di Marx, del quale d’altra parte nessuno cerca di cogliere nuovamente il senso reale, agli antipodi di ciò che l’opinione corrente mette sotto il temine «comunismo». Di fatto, è in modo del tutto diverso che si abbozza sotto i nostri occhi ciò che potrà essere, in senso autenticamente marxista, il «superamento» del capitalismo nel XXI secolo (8).
Ma qui ci fermano: volere un’altra società sarebbe un’utopia micidiale, perché non si cambia l’uomo. E l’ «uomo», il pensiero liberista sa chi è: un animale che ha essenzialmente quello che è non dal mondo umano ma dai suoi geni, un calcolatore mosso dal suo solo interesse d’individuo _ Homo œconomicus (9) -, con il quale non è quindi possibile se non una società di proprietari privati in concorrenza «libera e non falsata».
Ora anche questo pensiero ha fatto bancarotta. Sotto la spettacolare disfatta del liberalismo pratico si consuma con minor rumore il fallimento del liberalismo teorico e del suo Homo œconomicus. Fallimento doppio. Scientifico innanzitutto. Nel tempo in cui la biologia si distacca da un «tutto genetico» semplicistico, le ingenuità dell’idea di «natura umana» saltano all’occhio. Dove sono i geni, annunciati a suon di trombe, dell’intelligenza, della fedeltà o dell’omosessualità? Quale spirito colto può credere che la pedofilia, per esempio, sarebbe congenita?
E fallimento etico. Perché ciò che da lustri l’ideologia dell’individuo concorrenziale sponsorizza è una pedagogia disumanizzante del «diventa un killer», una liquidazione programmata delle solidarietà sociali non meno drammatica dello scioglimento dei ghiacci polari, una decivilizzazione a 360° da parte della follia del denaro facile. Che dovrebbe fare arrossire chi osi annunciare una «moralizzazione del capitalismo». Sotto il naufragio storico dove affonda e ci affonda la dittatura della finanza vi è quello del discorso liberista sull’ «uomo».
E qui vi è la più inaspettata attualità di Marx. Perché questo formidabile critico dell’economia è anche, allo stesso tempo, l’iniziatore di una vera rivoluzione nell’antropologia; dimensione incredibilmente misconosciuta del suo pensiero, che non è possibile esporre in venti righe.
Ma la sua sesta tesi su Feuerbach ce ne dice lo spirito in due frasi: «L’essenza umana non è un’astrazione inerente all’individuo preso a sé. Nella sua realtà, è l’insieme dei rapporti sociali». All’opposto di quanto immagina l’individualismo liberista, l’ «uomo» storicamente sviluppato è il mondo dell’uomo. Per esempio, lì e non nel genoma esiste il linguaggio. Lì prendono origine le nostre funzioni psichiche superiori, come ha superbamente dimostrato quel marxista a lungo sconosciuto che fu uno dei più grandi psicologi del XX secolo: Lev Vygotski, che ha così aperto la strada a una visione completamente diversa dell’individualità umana.
Marx è attuale e perfino più di quanto si pensi? Sì, se si vuole attualizzare l’immagine tradizionale che di lui troppo spesso ci si fa. The Daily Telegraph, Londra, 14 ottobre 2008
(1) Le Magazine littéraire, n° 479, Paris, ottobre 2008.
(2) Karl Marx, Les Luttes de classes en France, Editions sociales, Paris, 1984, p. 84-85; citato in Manière de voir, n° 99, «L’Internationale des riches», juin-juillet 2008.
(3) Karl Marx, Le Capital, tomo I, Editions sociales, 1983, ou Presses universitaires de France, Paris, 1993, p. 724.
(4) Le Capital, tomo 1, p. 6.
(5) «Le travail aliéné», Manuscrits de 1844, Flammarion, Paris, 1999.
(6) Lire Christophe Dejours, Travail, usure mentale, Bayard Paris, 2000; «Aliénation et clinique du travail», Actuel Marx, n°39, «Nouvelles aliénations», Paris, 2006.
(7) Dans Un futur présent, l’après-capitalisme, La Dispute, Paris, 2006, Jean Sève abbozza un quadro impressionante di questi inizi di superamento che si possono osservare in settori molto differenti.
(8) Leggere fra gli altri Tony Andréani, Un étre de raison. Critique de l’Homo œconomicus, Syllepse, Paris, 2000.
Senza etica la finanza fallisce
di Ettore Gotti Tedeschi *
Si dice che non fosse possibile prevedere i rischi della finanza globale e le sue conseguenze. Non è vero. È vero invece che le previsioni di questi rischi hanno spiegazioni di carattere morale. Per questo sono state trascurate e delegittimate. La finanza ha in qualche modo voluto imporre una sua autonomia morale, con risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
Già trent’anni fa era stata prevista l’impossibilità di assicurare lo sviluppo economico sostenibile con una crescita demografica pari a zero. Ci si domandava se fosse logico ed etico proporre l’illusione di uno sviluppo fondato solo sulla crescita individuale dei consumi. Se fosse logico ed etico far assorbire dalla crescita dei consumi la crescita dei costi sociali (pensioni e sanità) provocando l’aumento delle tasse. Se fosse logico ed etico trasformare un popolo di risparmiatori in un popolo di consumatori indebitati. Se fosse logico ed etico imporre all’uomo globalizzato di andare a cercare lavoro lontano da casa.
Si accettava poi come molto etico (anche se non molto logico) permettere a tutti di avere una casa, anche a chi non poteva permetterselo. Furono così inventati i mutui subprime, con le conseguenze che conosciamo. Questo modello è un classico esempio di fine buono - la casa per tutti - perseguito con mezzi cattivi, cioè con una struttura finanziaria insostenibile. Ci si domandava quindi se fosse etico finanziare questo modello con i risparmi dei cittadini, investiti spesso in prodotti finanziari incomprensibili. E ci si domandava anche se fosse logico ed etico accettare che le banche adottassero modelli concorrenziali centrati sulla crescita di valore per gli azionisti, costringendole così a produrre rischi eccessivi e poca trasparenza pur di dimostrare la crescita degli utili.
Le domande, dunque, erano moltissime. Ma a esse si è risposto con altre domande: cosa c’entra l’etica? E quale etica, poi? Ora però s’impone un altro quesito: quale sarà il costo di questo deficit etico? Dopo l’illusione di ricchezza di questi anni la prima conseguenza è che per un po’, finché non sarà assorbito il disavanzo prodotto, le banche finanzieranno meno il sistema economico, che, a sua volta, produrrà meno e pagherà meno. Noi consumeremo meno e risparmieremo meno. In pratica vivremo più poveramente. E saremo inoltre costretti ad accettare una qualche forma di statalismo a sorpresa, secondo gli strumenti che verranno adottati: maggiori tasse e inflazione, minori tassi e remunerazione dei risparmi - probabilmente sotto il tasso di inflazione - che rappresenteranno così un’imposta occulta di trasferimento della ricchezza.
L’invito di Benedetto XVI è quindi opportuno. Il Papa ci ricorda innanzitutto che il denaro è solo uno strumento e, in quanto tale, non deve distrarci dai fini. È vero che se non si crea ricchezza non la si può distribuire, ma se si crea male - come è successo in questi anni - si distrugge un doppio valore: quello della ricchezza e quello dell’uomo. Il modello di capitalismo inconsistente degli ultimi anni ha dato vita a un’utopia economica che a sua volta ha causato gravi degenerazioni.
Il valore dell’individuo è stato infatti valutato su quanto egli potesse guadagnare, spendere, consumare. Ma anche a questo, ormai, non crede più nessuno e regna la sfiducia. Nella società la fiducia è un valore economico fondamentale, ma lo si capisce quando viene a mancare. La fiducia si fonda sulla condotta etica degli operatori e produce miglioramento della concorrenza, credibilità, motivazione e cooperazione; consente stabilità, garantendo valore finanziario all’impresa e permette sviluppo, stimolando creatività ed efficienza. Il mercato oggi chiede soprattutto certezze e rispetto delle regole: la scorrettezza nella finanza produce infatti un costo inaccettabile per la collettività. Ma per risanare l’economia e generare nuova fiducia è necessario prima di tutto superare il deficit di logica e di etica che ha segnato questi anni. Altrimenti le soluzioni saranno solo temporanee.
* ©L’Osservatore Romano - 9 novembre 2008.
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E sul ruolo del padre: «Non voglio fingere, mi sento libera di dire ciò che penso»
Barbara Berlusconi: «Il conflitto di interessi? Deve essere regolato»
La figlia del premier in un’intervista al Times: «Non posso negare le mie origini, ma vado per la mia strada» *
LONDRA - «Il conflitto d’interessi in questo Paese ha bisogno di essere regolato, necessita norme per una condotta corretta da applicare e osservare». È così che Barbara Berlusconi esordisce in un’intervista al quotidiano britannico The Times, interessato a sapere che cosa ha portato la figlia del presidente del Consiglio italiano ad organizzare, con l’associazione Milano Young di cui è vicepresidente, un convegno sull’etica nell’impresa.
«VADO PER LA MIA STRADA» - Al giornalista che le fa notare come possa sembrare strano che sia proprio lei, con un padre in passato indagato per corruzione e accusato di conflitto di interesse, a discutere il problema degli standard etici nel mondo degli affari, Barbara Berlusconi risponde: «È vero che sono la figlia di Berlusconi, ma ciò non mi impedisce di essere una persona indipendente, con le mie idee. Il nome Berlusconi è stimato da molta, molta gente. Molti credono in lui, altri provano una certa qual perplessità nei suoi confronti. Non posso negare le mie origini. Ma vado per la mia strada».
«NON VOGLIO FINGERE» - E, a quanto pare, il padre è stato molto felice di ciò che lei ha detto riguardo all’etica ed al conflitto di interessi nel corso di un’intervista a La Stampa di un paio di settimane fa. «Quando ho iniziato a fare dichiarazioni pubbliche riguardo al conflitto di interessi, mio padre si è complimentato dicendomi: "Barbara, hai detto cose vere. Sono orgoglioso di te". Nel mondo anglosassone, se sei figlio del primo ministro o del presidente, bisogna sempre sembrare vicini e uniti, ma è tutto abbastanza surreale, una facciata. Noi non abbiamo bisogno di fare così e io mi sento libera di dire ciò che penso», ha detto la 24enne primogenita di Berlusconi e di Veronica Lario.
* Corriere della Sera, 08 ottobre 2008
Meno di Zero
di Furio Colombo *
Un viaggio mi è rimasto in mente fra i tanti della mia vita. Con l’Avvocato Agnelli stavo andando a dire al presidente degli Stati Uniti (in quel momento si trovava in California) che il colonnello Gheddafi non era più azionista della Fiat. L’Azienda aveva ricomprato la sua quota, decuplicata di valore nel tempo. Ma erano i giorni dell’assassinio di Klingofer, il vecchio ebreo in sedia a rotelle buttato in mare dal ponte dell’Achille Lauro per mano dei terroristi che avevano sequestrato la nave italiana. Erano i giorni in cui Gheddafi, quasi nelle stesse ore, alternava il gesto del mediatore alla funzione di complice. Consideravo quel giorno un evento importante, che valeva anni di lavoro in America: avere separato l’immagine di Gheddafi da quella del lavoro italiano, per quanto la presenza dei capitali libici fosse disponibile, conveniente e sempre alla ricerca di rispettabili opportunità di accasarsi.
Ma era già evidente allora l’andamento infido e ondivago di quelli accostamenti ai paesi democratici mentre continuava e continua la parte non visibile e non decifrabile (mai in tempo reale) di azioni, motivazioni e vere intenzioni politiche. Come non pensarci nei giorni in cui un presidente del Consiglio italiano trascorre con Gheddafi ore di festa, si scambia doni e vestiti, e tutto il mondo giornalistico, il mondo politico, l’opinione pubblica italiana sanno solo di questa festa e di un presunto impegno di Gheddafi a fermare la gran parte dell’immigrazione africana che parte dalla sue coste per arrivare in Italia. E tutto ciò in cambio di una immensa cifra che l’Italia pagherà per «danni di guerra», ma senza mettere in alcun conto, ad esempio, i ricorrenti e sanguinosi progrom contro gli ebrei italiani (si noti bene: nel dopoguerra) che sono accaduti in Libia contro persone e famiglie appena scampate alla persecuzione fascista. E senza spiegare che cosa faceva Tarik Ben Ammar, socio in affari dell’imprenditore Berlusconi ma non consigliere del primo ministro Berlusconi, in quella festa e nella foto di quella festa pubblicata da "Dagospia". C’erano altre cose da sapere dello storico incontro Berlusconi-Gheddafi in Libia. Non le abbiamo sapute né dal presidente del Consiglio né dal ministro degli Esteri. Una l’ha benevolmente condivisa con gli italiani il colonnello Gheddafi facendo sapere che il nuovo rapporto Italia-Libia firmato da Berlusconi sospende i trattati internazionali dell’Italia se e quando quei trattati fossero sfavorevoli alla Libia. Uno è stato comunicato senza troppa enfasi da alcuni giornali. Il presidente del Consiglio, nel consueto «angolo degli affari» che lo statista riserva sempre ai suoi colloqui internazionali (vedi i quaranta minuti di conversazione con Putin, mentre c’era la guerra in Georgia e di cui né i cittadini, né i politici, né gli specialisti, fuori e dentro il Parlamento, sanno nulla) ha trattato con Gheddafi la presenza di una quota di capitale libico nell’azienda Telecom italiana. In questo modo la nostra storia si rovescia: tornano i grembiulini, tornano le case chiuse e torna Gheddafi, come in un film bizzarro e privo di senso. Un’altra cosa ancora sappiamo, dei festosi e segreti accordi Italia-Libia. Lo ha spiegato Sergio D’Elia ("Nessuno tocchi Caino") in una interpellanza parlamentare e a Radio Radicale, mentre ancora duravano le celebrazioni per lo storico incontro. Come farà Gheddafi a fermare il fiume di immigrazione dal Sud del mondo verso l’Europa? Non ci riuscirà, naturalmente. Ma è una buona occasione per attivare la sua polizia e allargare i campi di morte in cui vengono rinchiusi i più sfortunati tra i profughi che cercano di scampare alla fame e alla guerra, quando cadono nelle retate, nei rastrellamenti, o vengono venduti dagli stessi mercanti di uomini. Vengono ingabbiati e lasciati morire dove la Croce Rossa o l’Onu non arriveranno mai, dove si perde (purtroppo non solo in Libia, ma questa volta con un complice italiano) ogni traccia di umanità.
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L’accordo, presentato come una soluzione e una vittoria, oltre che come un giorno di spettacolo dell’unico protagonista italiano, non è un evento isolato per la nuova immagine dell’Italia nel mondo. In Europa, nella settimana appena conclusa, l’Italia ha ottenuto fischi e «buuu» in occasione della presentazione del moderno progetto italiano di incursioni notturne con obbligo di impronte digitali - bambini inclusi - nel campi rom. È stata anche l’occasione per permettere ai deputati europei più attenti di scoprire l’imbroglio Maroni. In linea con il ministro degli Esteri che (sia pure per precisa direttiva di Berlusconi) alla Russia dice una cosa e agli Stati Uniti ne dice un’altra, Maroni ha mandato in Europa un piano sforbiciato dal peggio. Ma, come hanno detto e ripetuto anche al Senato italiano deputati europei che sanno e hanno visto, il peggio resta riservato ai rom e ai raid nei campi italiani. Intanto l’On Cota capo gruppo della Lega Nord-Indipendenza della Padania, prende la parola alla Camera per chiedere «test di accesso per gli studenti stranieri nelle scuole dell’obbligo» e «in caso di bocciatura, la frequenza in una classe ponte» (leggi: "ghetto"). «In questi classi - dice il noto pedagogista Roberto Cota - si svolgeranno corsi per diversità morale e cultura religiosa del Paese accogliente e ci saranno lezioni al rispetto delle tradizioni territoriali e regionali». Le parole suonano ovviamente ridicole, dato anche l’orizzonte minimo della vita a cui si affaccia Cota. Suonano tragiche se si tiene conto della crudeltà nel Paese di Gentilini, di Borghezio dell’orina di maiale versata sulla terra in cui deve sorgere una Moschea, dell’accanito susseguirsi dei divieti di luoghi in cui pregare per gli islamici sventuratamente approdati in Italia. Ma quelle parole hanno un suono sinistro a pochi giorni dalla morte a Milano del diciannovenne Abdul Salam Guibre, cittadino italiano di origini africane, abbattuto a sprangate da una buona e unita famiglia italiana (padre e figlio, ciascuno con la sua mazza per colpire lo "sporco negro") a causa del furto di due biscotti. E tutto ciò nel silenzio del sindaco di Milano. Ma sono anche i giorni in cui l’onorevole Borghezio, capogruppo al Parlamento europeo del partito italiano di governo "Lega Nord per l’indipendenza della Padania", annuncia con orgoglio la sua partecipazione, insieme con bande dichiaratamente naziste a una serie di manifestazioni contro gli immigrati a Colonia. Ogni volta che qualcuno si fa avanti a ripetere con invidia che «la Lega è radicata nel territorio», sarà bene ricordare che anche il fascismo e il nazismo lo erano, che il radicamento in sé non è una ragione di ammirazione e di applauso. Può essere una disgrazia da combattere. Del resto, chi era più radicato nel territorio del Ku Klux Klan prima del sacrificio di Martin Luther King?
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Ma questi sono anche i giorni in cui il ministro della Difesa italiano dichiara, alla presenza del Capo dello Stato, e in un giorno sacro alla Resistenza, che si devono ricordare e celebrare i soldati della repubblica fascista di Salò che hanno combattuto a fianco dei tedeschi occupanti contro gli angloamericani che, insieme ai soldati italiani del legittimo governo, insieme alla Brigata ebraica, stavano liberando l’Italia dal nazismo, dal fascismo, dal razzismo. Il ministro La Russa ha tentato, dunque, il giorno 8 settembre a Roma di esaltare come normali e rispettabili combattenti italiani coloro che stavano difendendo Auschwitz. Il presidente Napolitano ha risposto subito e con fermezza. E ha ripetuto varie volte anche dopo: «La Costituzione italiana sbarra il passo alla falsificazione della storia». Ma quella falsificazione c’è stata. L’ha fatta il ministro della Difesa, in un Paese che, da settimane, è presidiato da unità delle Forze armate. Per fortuna è stata immensamente più autorevole la risposta del Capo dello Stato. Ma il fatto, inaudito e impossibile in ogni altro Paese europeo, è accaduto in Italia in modo solenne e pubblico. Pochi giorni dopo i giovani di An hanno detto forte e chiaro, ripudiando prontamente le parole di invito alla democrazia appena ascoltate da Gianfranco Fini: «Non saremo mai antifascisti».
Mi rendo conto che tutto ciò non è che una parte del dramma italiano provocato da un legittimo e riconosciuto voto popolare. Ma il breve elenco di fatti che avete letto non è che un accenno al rischio evidente e grave a cui è esposta, con questo governo, la Costituzione italiana. Dunque la democrazia. E tutto ciò, compreso lo sdegno che l’Italia di questa destra sta suscitando in Europa (e che ha fatto dire all’imprenditore ed editore Carlo De Benedetti, nell’ultimo incontro dello Aspen Institute: «Noi, l’Italia, non siamo più nulla, siamo irrilevanti nel mondo») è solo una parte, il mezzo cerchio della asfissia che sta stringendo il Paese. L’altra metà degli eventi è economica e personale. Riguarda il presidente del Consiglio e la sua ricchezza. Una parte delle infaticabili iniziative per lo sviluppo di quella ricchezza ci è ignota. Ne possiamo solo constatare la continua crescita, come di un pane miracoloso che continua a lievitare, governando. Una parte è pubblica, sbandierata. È di questi giorni la notizia che la famiglia Berlusconi - con la figlia del premier vice presidente e tre uomini dell’uomo di Arcore nel Consiglio di amministrazione - controlla Mediobanca, la più importante e la più potente Banca d’affari, a cui fanno capo tutti i nodi, tutti gli accordi, tutte le alleanze e gli incroci del potere economico in ogni campo e settore in Italia. Questo Paese, come tutti sanno, è economicamente a zero. Le notizie ci dicono che, moralmente, questo Paese è meno di zero.
La domanda è: di fronte a una così clamorosa emergenza in cui sono in gioco l’immagine politica, l’identità storica, la natura morale, la difesa costituzionale di un Paese che sta per essere sottoposto al violento shock di frantumazione del federalismo leghista, e dove tutto il potere politico, tutto il potere mediatico e - da adesso - tutto il potere economico sono nelle stesse mani (con l’infinita possibilità di guidare qualsiasi gioco, incrociando questi poteri) in Italia si può continuare a fare opposizione di normale andatura parlamentare, come se il Parlamento non fosse stato neutralizzato e disattivato persino nella sua componente di maggioranza? Si può fare una opposizione all’ombra di un governo ombra, che vuole dire corrispondenza simmetrica e valori condivisi, quando, in realtà, alla simmetria si contrappone il segreto, e i valori condivisi sono rappresentanti solo dal Capo dello Stato? Si può fare opposizione parlamentare senza separarsi nettamente dalla finzione di un gioco impossibile, che comprende persino la celebrazione del fascismo? Chiariamo. È il governo Berlusconi che è uscito dal Parlamento per andarsene in incontri segreti o nella cancellazione della storia italiana o nelle banche. È l’opposizione che resta al suo posto nelle Camere a nome degli italiani che vogliono sapere chi li rappresenta. Ma non possiamo fare opposizione con lampi stroboscopici che alternano sprazzi di luce a una disorientante penombra. Qui si tratta di testimoniare ogni giorno, ogni ora, in ogni atto della nostra vita pubblica che il loro voto è legittimo, il loro modo di governare no.
* l’Unità, Pubblicato il: 21.09.08, Modificato il: 21.09.08 alle ore 12.46
L’intervista
La presidente della Fininvest sarà proposta nel consiglio di amministrazione di Mediobanca alla prossima assemblea
«Il mondo è in piena crisi e Veltroni parla di regime...»
Marina Berlusconi: no alla speculazione, sì alla finanza buona
«Anche oggi i mercati ballano...». Marina Berlusconi si siede preoccupata, meno sorridente del solito, sul divano del suo salotto, quello dove normalmente sono appoggiati i giocattoli dei figli Gabriele e Silvio. «Unicredito?» chiede. Sì, ancora Unicredito ma anche Intesa comincia a soffrire, dicono le agenzie di stampa. Arrivano poi in rapida successione le note di Palazzo Chigi, del premier suo padre, e poi quelle del Tesoro, della Bankitalia. La situazione sembra rasserenarsi un po’. La giornata è ancora lunga.
Ancora una volta il suo nome è apparso sui giornali in queste settimane per quella che si annuncia essere una svolta nella sua carriera: il 28 ottobre il patto dei soci di Mediobanca la proporrà come componente del consiglio d’amministrazione di Piazzetta Cuccia. E ancora l’altro ieri, il leader dei democratici Walter Veltroni, l’accusava di conflitto di interessi... «Peccato. Dopo anni di rispettabilissimi travagli, di primarie, di loft, di "yes we can" e "ma anche", con l’intervista al Corriere siamo tornati alla casella di partenza: a Berlusconi con coda e forcone, l’unica cosa su cui a sinistra non litigano. Ma come, ora c’è un governo che finalmente fa quello che gli italiani chiedono, cioè decide. E di governi che decidono non c’è mai stato tanto bisogno come adesso, con questo tsunami che sta scuotendo l’economia mondiale e la speculazione che ha messo nel mirino anche le nostre banche. Che l’opposizione critichi tutti i provvedimenti che ritiene sbagliati: è un suo diritto e anche un suo dovere. Ma perché tirare ancora in ballo il rischio di regime»?
Eppure sull’Alitalia Confalonieri ha detto bravo a Veltroni
«Confalonieri, come sempre, ha detto quello che pensa. Ma, Alitalia a parte, il leader del Pd mi ricorda chi guardandosi allo specchio si trova ingrassato e dà la colpa allo specchio invece di mettersi a dieta. E se posso dare un consiglio: per dimagrire non servono i girotondi, perché si consumano poche calorie. Molto più efficace correre».
L’accusa è stata però di quelle brucianti: la figlia del premier entra nel santuario della finanza italiana...
«Beh, che io sia la figlia del premier mi pare innegabile. E le dirò di più. Non sono Silvio, sono Marina, ma sono molto orgogliosa di chiamarmi Berlusconi».
Resta l’accusa sul conflitto di interesse.
«L’interesse è evidente: parliamo di una istituzione prestigiosa, in cui abbiamo investito 280 milioni di euro. Quello che non vedo invece è il conflitto. Mi ero ripromessa di non parlare prima dell’assemblea, ma visto che continuano a tirarmi in ballo... Nel sindacato abbiamo solo l’1%, ma siamo comunque tra i principali soci industriali ed eravamo gli unici non presenti in consiglio. E poi non abbiamo chiesto noi di entrare, ce l’hanno proposto, tutti i soci del patto erano d’accordo».
Con questa crisi non è il momento migliore per entrare nel tempio della finanza italiana, Mediobanca.
«Guardi, c’è finanza e finanza. C’è la finanza dei subprime, dei giocatori di poker con le carte truccate, e c’è la finanza sana, parsimoniosa, che Mediobanca rappresenta molto bene e che è un sostegno indispensabile per lo sviluppo delle imprese».
Lei ne ha conosciuto parecchi di quelli che chiama «giocatori di poker»?
«Abbastanza. Con la liquidità che abbiamo, ci hanno proposto parecchie operazioni che non esito a definire speculative. Tutte rifiutate. E poi si ricorda la bolla Internet? In quei mesi noi ricevevamo progetti di ogni genere. Poi si faceva la fatidica domanda: ma i ricavi? E gli utili? A quel punto il castello di carte cadeva. Proprio come sta cadendo oggi quella che era diventata una enorme bisca, dove girava vorticosamente carta che rendeva alcuni spaventosamente ricchi senza però creare vera ricchezza».
Ma fior di banchieri si sono trovati nella bufera.
«Per fortuna in Italia no. Aldilà della speculazione di queste ore, gli istituti italiani sembrano mostrare una salute migliore».
Però si parla di fine del capitalismo...
«Non ho ricette da dare, ma comunque non sono d’accordo. Il capitalismo sarà pure un sistema pessimo, ma ad oggi non ne è stato inventato uno migliore. E poi quello di cui stiamo parlando non ha niente a che vedere con il capitalismo vero e con i suoi principi: concorrenza, trasparenza, responsabilità, merito... Mi dica che cosa c’entrano col merito le buonuscite miliardarie di manager che hanno schiantato aziende blasonate e distrutto migliaia di posti di lavoro. Per questo resto una liberista non pentita: perché, lo ripeto, tutto questo con il capitalismo non c’entra niente».
Ammetterà che le regole non hanno funzionato.
«Mi pare evidente, e chi doveva controllare non lo ha fatto. Quindi, più regole, ma non solo. Chiediamoci se ha un senso il modo in cui oggi vengono valutate le imprese e i loro manager, basandosi su una visione di breve o brevissimo periodo. Quando un’azienda è di fronte ad una decisione strategica, deve poter avere la serenità di soppesare quali saranno gli impatti nell’arco di anni, senza essere ossessionata da come reagirà il mercato il giorno dopo. Detto questo, sa qual è il rischio? Che si ecceda nelle regole: non discuto l’emergenza, non discuto che la deregulation abbia completamente fallito, ma finita l’emergenza, non spazziamo via quei semi della cultura liberale che a fatica stavano germogliando anche da noi, perché da lì bisognerà comunque ripartire».
Una critica indiretta al governo di centro destra? La vicenda Alitalia mostra che in quanto a interventi il governo di suo padre sa bene come fare.
«No, nessuna critica, io ragiono da imprenditore, e governare tenendo conto di interessi molto più generali è tutt’altra cosa. Qualcuno ha detto che per fare politiche di destra occorrono governi di sinistra. Le categorie di destra e sinistra non hanno più senso, ma se per pura convenzione dovessimo definire di "sinistra" tutto quello che va nel senso dell’attenzione ai più deboli e ai modi per poter dare loro pari opportunità, allora questo è l’esatto contrario: un governo di destra che fa politiche di sinistra».
Ma non mi ha risposto su Alitalia.
«Beh, intanto non è stata nazionalizzata ma privatizzata. E poi sono stati mantenuti gli impegni presi: è rimasta una compagnia di bandiera, controllata da soci italiani, aperta in prospettiva ad alleanze internazionali ».
Però le spese sono state accollate allo stato.
«E quali sarebbero state le alternative? Lo Stato è giustamente intervenuto nell’alleviare una situazione che poteva essere molto dolorosa per alcune fasce di lavoratori».
Torniamo alle regole. Resta il fatto che in Mediobanca, tra le partecipazioni strategiche c’è Rcs e lei è presidente di Mondadori...
«Mi pare che il problema di potenziali conflitti di interessi dei soci sia stato affrontato in occasione del cambio di governance, e tutti si sono dichiarati soddisfatti sulle soluzioni adottate. E poi per molti anni fra gli azionisti più influenti di Mediobanca c’è stato l’editore di uno dei maggiori quotidiani nazionali, senza che nessuno gridasse allo scandalo».
Non le fa impressione entrare nel vertice della società che rifiutò la quotazione di Mediaset?
«Quella ormai non solo è storia, è preistoria. Con Mediobanca lavoriamo, e bene, da parecchio tempo».
Alla fine anche voi entrate nel salotto buono.
«Guardi, certo Mediobanca ha una storia unica e straordinaria, certo - non voglio fare l’ingenua - ha alcune partecipazioni diciamo sensibili. Ma a noi interessa soprattutto come importante diversificazione finanziaria, in quanto impresa moderna, dinamica, che guarda allo sviluppo internazionale e che ha saputo ottenere risultati eccellenti anche in momenti complessi come questo. E poi francamente, di fronte a una realtà come la Mediobanca di oggi, mi pare davvero riduttiva l’immagine del salotto. Anche se buono o direi addirittura ottimo».
Daniele Manca
Corriere della Sera, 02 ottobre 2008
Il vero bersaglio
di MARINA BERLUSCONI (La Stampa, 6/10/2008)
Gentile Direttore,
nell’editoriale di ieri sulla Stampa, «Wall Street, Main Street», Barbara Spinelli avanza critiche severe nei miei confronti in relazione a una recente intervista. Per evitare equivoci, premetto innanzitutto l’ovvio: le critiche non solo sono legittime, ma vanno sempre tenute in considerazione, a maggior ragione se provengono da firme tanto illustri. Il problema è che Barbara Spinelli mi attribuisce cose che non ho mai detto e che soprattutto non ho mai pensato.
Sostenere, come ho fatto nell’intervista, che i governi hanno il diritto-dovere di decidere, tanto più di fronte a una crisi finanziaria di dimensioni epocali, non mi pare affermazione né particolarmente «singolare» né da «militante politica», quale non sono. Ma soprattutto non significa affatto, come invece mi contesta Barbara Spinelli, pensare che l’emergenza autorizzi decisioni che mettano da parte le regole democratiche. Grazie ai valori ai quali sono stata educata, non ho mai dubitato sul fatto che non ci sia alcuna incompatibilità - ci mancherebbe - tra responsabilità decisionali di un esecutivo legittimamente in carica e rispetto delle regole che governano una democrazia, e che imboccare scorciatoie invocando cause di forza maggiore sia una strada estremamente pericolosa, anzi, del tutto inaccettabile. Altro che «questione marginale»!
Nell’intervista, molto più semplicemente, affermavo che, a maggior ragione in un momento in cui i governi sono chiamati ad affrontare nodi delicatissimi e legittimamente dibattuti, con conseguenze rilevanti non solo sul sistema economico, per l’Italia sarebbe ancora più utile un’opposizione che eserciti il suo diritto di critica e il suo dovere di proposte alternative, senza ritornare a vecchie parole d’ordine che sembravano finalmente superate, senza gridare al rischio di regime come ha fatto negli ultimi 15 anni (ulteriore conferma, peraltro, che di regime non c’è traccia). Mi pare, del resto, che anche a sinistra non tutti abbiano apprezzato questi allarmi.
Leggendo l’editoriale, piuttosto, sorge lecito il dubbio che sia proprio l’autrice a considerare come elementi in contrapposizione e non conciliabili la dialettica democratica da una parte e la responsabilità di decidere dall’altra. Quasi che il confronto fosse davvero tale solo se si escludono a priori scelte che non siano unanimi: un equivoco paralizzante responsabile di guasti notevoli anche nella storia recentissima del nostro Paese.
Non mi stupisce il fatto che Barbara Spinelli, come peraltro dal suo scritto si rileva esplicitamente, critichi me per colpire un bersaglio ben più importante. Ma almeno non lo faccia attribuendomi posizioni che non sono mai state le mie. E non arrivi addirittura a evocare una sorta di parallelo con l’ascesa del nazismo. Questa sì, mi sia permesso, un’operazione - per usare le parole dell’editorialista - «parecchio infelice».
Il convegno organizzato alla BOCCONi
Due donne Berlusconi all’università
Veronica e la figlia Barbara a lezione di etica
MILANO - La moglie del presidente del Consiglio, Veronica Lario, si è presentata a sorpresa all’università Bocconi di Milano, per il convegno sull’efficacia e la valenza dell’etica nei sistemi economici e nella conduzione d’impresa, organizzata dalla Onlus Milano Young, di cui è vice presidente la figlia Barbara. In tailleur-pantalone grigio, la signora Berlusconi, arrivata cinque minuti dopo l’inizio del convegno, si è seduta in seconda fila accanto alla figlia Barbara, anch’essa in completo manageriale, per poi ascoltare con attenzione le relazioni dei vari invitati, tra cui l’ad di Mondadori Maurizio Costa.
I TEMI DEL CONVEGNO - «Mi sembra un tema bello perché proposto da giovani - è stato il primo commento della first lady - Oggi sono emerse proposte interessanti che devono entrare nella morale di tutti noi, riflessioni che dovremmo compiere tutti i giorni». «Sono affascinanti questioni poste da un punto di vista filosofico», ha aggiunto subito dopo.
Un tema oltretutto quanto mai attuale ma che, ha assicurato Barbara, presente in qualità di vicepresidente di Milano Young (il presidente è Geronimo La Russa, figlio del ministro della Difesa, Ignazio) «non c’entra con gli ultimi avvenimenti, non sono stati questi eventi che hanno fatto sì che scegliessimo di trattare questo tema. La prima volta che ne abbiamo parlato è stato a febbraio scorso perché avevo assistito ad un corso di lezioni del professor Giudo Rossi che mia aveva interessato moltissimo». Per Barbara organizzare il simposio non deve essere stato troppo complicato. Uno dei partecipanti è il suo relatore di tesi, il professor Mordacci. Per quanto riguarda Costa ha giocato in casa. Il tema poi le sta particolarmente a cuore visti gli studi e il ruolo.
«MIO PADRE MI HA INSEGNATO IL RISPETTO PER GLI ALTRI» - Per Barbara l’etica è prima di tutto «l’insieme dei valori morali, quelli che un individuo si costruisce vivendo, sono soprattutto quelli che gli impartisce la famiglia, la scuola e la società in generale». Ovvia a questo punto la domanda: cosa ti ha insegnato tuo padre? «Il più importante insegnamento da parte di mio padre è il rispetto altrui e il non ledere quelle che sono le libertà altrui - ha detto - Da mia madre ne ho avuti talmente tanti che sarebbe difficile elencarli». La moglie del presidente del Consiglio ha invece ribadito l’importanza della famiglia e della donna in una formazione etica forte. «Penso che una formazione etica avvenga proprio nel quotidiano dove l’educazione richiede costanza tutti i giorni - ha spiegato la moglie del premier - Non credo però che manchi la morale nella vita sociale italiana». Forse in questo momento il problema per molti italiani sono le difficoltà economiche. «Queste difficoltà - ha riconosciuto la signora Lario - si sentono e si toccano con mano».
* Corriere della Sera, 02 ottobre 2008(ultima modifica: 03 ottobre 2008)
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Datti all’etica!
di Alessandro Robecchi (il manifesto, 05-10.2008)
Sono veramente spiaciuto di essermi perso il convegno sull’etica dell’impresa organizzato da Barbara Berlusconi, presente Veronica Berlusconi: a quell’ora stavo colpevolmente andando a lavorare. Ho letto cronache e resoconti con apprensione, perché temevo che sui giornali l’accostamento di due parole come «etica» e «Berlusconi» provocasse la combustione delle pagine e forse, un domani, la fine del mondo. Mi sono fatto forza: i leoni che tengono alle gazzelle un seminario sulla corretta alimentazione è sempre uno spettacolo interessante. Organizzatrice: Barbara Berlusconi, così giovane e priva di mezzi che dev’essere stato per lei un vero eroismo organizzare un convegno. Relatori: il professore dell’Università San Raffaele, un dipendente del gruppo di famiglia (vicepresidente della Mondatori, il presidente è la sorella di Barbara) e il titolare della cattedra Lehman Brothers di finanza aziendale della Bocconi. Seduto al tavolo della presidenza, il giovane La Russa, figlio del ministro della difesa, in platea un Ligresti Junior. Al centro della scena, Barbara e Veronica Berlusconi, rapite ed estasiate dal vento filosofico che spirava dal palco. Due eleganti signore sedute su una montagna di miliardi fatti con un’etica che i tribunali non possono discutere grazie al lodo Alfano, o magari caduta in prescrizione. A un potere conquistato con l’etica giornalistica di certi titoli de Il Giornale o con i telegiornali di famiglia. La prestigiosa Università Bocconi ospita e benedice. Il Corriere della Sera fa da cinegiornale stile anni Trenta. E l’etica? Ah, sì: Barbara Berlusconi ha fatto sapere di essere contraria al falso in bilancio. Wow! Non so se riuscirò a sopravvivere a tanta etica!