Antimafia

Paolo Borsellino: suo fratello Salvatore parla di Via D’Amelio come strage di Stato. A Palagianello (Ta), interventi forti contro i poteri occulti

Iniziativa organizzata dall’associazione "I Portulani, i guardiani dell’antico Borgo"
martedì 29 luglio 2008.
 

È caldo. Da un pezzo. A Termini, mattino giovane, 20 luglio, destinazione Bari. Il treno al binario 9. Stretto, moderno. Bianco e rosso come il Vicenza di Pablito goleador. A punta, un missile: disegnato da Giugiaro, la matita della vecchia Golf, l’auto del popolo. Tempi, quelli, di un’Italia ancora viva e dell’orgoglio nazionale incarnato dal partigiano Pertini, socialista altro da Craxi e dagli amici di Salvini e Gamberini, venerabili.

Manca, manca poco alla partenza. Aldo (Pecora) in ritardo come spesso. Insieme, andiamo nel capoluogo della Puglia. In un certo senso per ballare, testa alta, a Palagianello (Ta). Quasi rispondendo al rapper Caparezza, Michele Salvemini di Molfetta (Ba).

L’eredità di Paolo Borsellino è il titolo d’un convegno cui partecipiamo col fratello Salvatore, il giudice Nicola Gratteri, i giornalisti Ferruccio Pinotti e Orfeo Notaristefano, lo scrittore Francesco Saverio Alessio e Luigi Resta, pilastro dell’associazione I Portulani, i guardiani dell’antico borgo nel tarantino.

Non siamo tremuli come una foglia, Aldo spunta con due telefonini in mano, lo riconosco dal passo e dalla capigliatura mossa, costretta con gel e affini. Calabresi, ci salutiamo con trasporto: Aldo è amico caro, gli voglio bene. Ha lavorato senza sosta, dall’uccisione di Franco Fortugno. Ha viaggiato, denunciato, aggregato, subìto intimidazioni, querele e maldicenza.

La mafia isola. In Calabria come nel Belpaese, si mescola con la politica, confondendo, barando, buttandola sulla pancia, le tradizioni, lo spettacolo. Il portafogli, l’economia familiare.

Nove minuti per raggiungere il nostro mezzo, Aldo non ha dormito, io pure. Ha un esame il giorno seguente, volerà all’alba per Roma. Seduti, ragioniamo e scherziamo, l’aria condizionata ci lascia. Sudori, vapori e smanie nei vagoni. M’accompagna a prendere un «caffè canonico» al bar in carrozza. Ordina un succo. Mi mostra, poi, i testi di alcune canzoni di Giovanni, suo padre. Li piglia da Internet col cellulare. La locomotiva affilata è ora diligenza. Lento va il paesaggio, luce accecante sopra colline e campi che sfumano: Sud. L’aria del mare s’avverte, il viaggio è ito.

Ecco l’annuncio della nostra fermata, scendiamo, Luigi (Resta) ci avvista in un baleno. È un ragazzo compìto, d’una gentilezza irreperibile. L’ospite è sacro a Mezzogiorno, ma il suo garbo è innato, cortesia nel dna.

Pomeriggio Salvatore Borsellino atterra a Palese, l’aeroporto di Bari. Un pranzo rapido al ristorante americano, col nome in giallo e i palloncini dei bimbi. Aldo confessa di amare le patatine, quelle fritte fritte. Luigi ascolta. Chiede. Elegante. Il tempo è prezioso, il “portulano” emozionato: ha il peso d’una moderazione non semplice, in serata. Siamo in tanti a parlare, la Lecciso non è manco ipotesi.

Trentasei gradi, il climatizzatore dell’auto ci solleva. Sto davanti per anzianità. Aldo è modernità tecnologica e galateo della Magna Grecia: siede dietro. Il giorno precedente, a Bari ha testimoniato Pino Masciari coi ragazzi di “Ammazzateci tutti”. Non un processo, ma un’iniziativa di quelle che se credi non ti perdi.

Salvatore viene da Palermo, scalo a Roma. Un giro che taglia la Calabria, forse un simbolo. Stefania Orlando, ex pupa della tv, lo precede alla barriera degli arrivi. È un segno e un simbolo il fatto. Ha le gambe all’aria, un pantaloncino e le scarpe che la alzano di molto. Ronza per l’aerostazione, pallida e spossata. Trolley spassoso, l’accompagna un aitante manager. Almeno parrebbe tale il suo cavaliere. Tirato, pelle vinaccia da tintarella affumicata, camicia bianca e aperta. Più o meno glabro il petto.

Salvatore è un faro, quando passa le scorrevoli a fotocellula. Corro ad abbracciarlo, Aldo a ruota, Luigi è rimasto a vigilare la macchina, mancano parcheggi. Si preoccupa di cambiare il biglietto, non torna in Sicilia. Il 21 sera interviene all’ultima puntata di Iceberg, su Telelombardia, già teatro d’uno scontro con Tiziana Maiolo sull’epilogo di Why not.

Vive a Milano da una vita, ingegnere informatico, Salvatore ripete che l’emigrazione lo ha salvato dalla polvere esplosiva. Che in Sicilia ha ucciso diffondendo il terrore. Stragi e dimostrazioni di forza. Giuseppe e Paolo Borsellino, imprenditori, nonno e zio del giornalista Benny Calasanzio, ammazzati nel ’92 perché non supini a Cosa nostra.

A Palese, è chiusa la biglietteria Alitalia. Impressiona. La compagnia di bandiera è agli sgoccioli. Eppure. Lo notiamo un attimo perché Salvatore, nella fretta, la scambia per quella di Air One. È nonno, zio e papà anche per noi che lo seguiamo su e giù, dalla Padania alla Terronia.

Piccolo in quel volume di andirivieni, ricordo il 7 dicembre scorso. Venne a prendermi a Palermo, Aeroporto Falcone e Borsellino. Gianfranco Miccichè voleva ribattezzarlo, a «salvaguardia dell’immagine della Sicilia nel mondo». «Epoca Stallone» lo si potrebbe rinominare. Rambo è riemerso, Planet Hollywood non ha sfondato in capitale e c’è un certo abuso di Nietzsche negli ambienti della virilità che vince, dell’identità che s’impone, del nazionalismo ambiguo. Nella patria povera. Di memoria e cultura.

In un lampo, l’immagine della mia Sicilia: Falcone e Borsellino erano del quartiere Kalsa, come nonno Nino. Avi del giudice Paolo venivano da Agrigento. Come mia nonna Rosalia, la bisnonna Teresa e gli zii Umberto, Lillo, Armando, Gigi e Pina; che circumnavigarono l’Africa con la mamma, finita la Seconda grande guerra, per sbarcare a Messina.

Finalmente, usciamo e l’aria è più bollente di prima. Luigi si precipita da Salvatore per gli onori. Saliamo in auto, stavolta tocca all’ingegnere il posto in prima fila. Aldo e io in retrovia. Tosto, Salvatore dice al conducente: «Diamoci del ‘tu’». Quindi, riferisce del presidente del Senato, Schifani, il 19 luglio a Palermo per deporre una corona in Via D’Amelio. «Avrei voluto dirgli che la corona doveva portarla, invece, sulla tomba di Mangano», scandisce Salvatore. «Abbiamo fatto un bellissimo convegno, ieri. A Palermo c’era Scarpinato, Ingroia, Messineo, De Magistris. Repubblica non ha scritto un rigo», precisa.

Non si può parlare di certe cose. Lo sanno bene, per esempio, Barbara Carazzolo, Attilio Bolzoni, Giorgio Bocca.

Attraversiamo una piana di colori, il cielo terso, aperto l’orizzonte. Salvatore racconta. La sua è rabbia, saggezza. Ci limitiamo a qualche battuta. Confessa di non essere fisionomista. «Certo, uno come Emiliano non posso dimenticarlo.» La chioma è un distintivo.

Raggiungiamo una vecchia masseria in agro di Mottola. Bianca, splendida. Anche se a un passo dalla strada. Il nome mi ricorda Severino Citaristi: Cassiere.

Ci accolgono Maria e Sergio, che hanno acquistato e ristrutturato l’immobile. Sono del gruppo. Si vede. Conoscono personaggi e vicende dei discorsi in successione. Partecipano senza invasioni. Ti fanno sentire a casa.

Seduto, a contemplare in veranda, c’è Orfeo Notaristefano. Nel volto evoca Furio Colombo. Ma l’anagrafe e l’agilità lo favoriscono. Scarno, lungo, è un puro. Lo si legge dalla frenesia. Mi appassiona il suo concetto di sinistra politica. Sono abituato a Gianni Vattimo, che serba un termine diretto per i rossi cacciati dal parlamento e gli americanisti del Pd. «Cinta senese» sarebbe un pregiato eufemismo.

Aldo a nanna, Salvatore si rinfresca. Caffè a volontà, lo prepara Maria. Non è scurissimo. Il vento, piacevole, ne diffonde l’aroma. Orfeo, autore, tra l’altro, di Cocaina Connection, si sofferma sul «loft» e il «ticket reversibile», metafore delle ultime amministrative capitoline.

Tempi duri la Terza Repubblica. Ma c’è la pax tra le mafie. Non capisco, la criminalità è lo spettacolo mediatico di Duisburg, la blindata del boss Carmine Arena schiacciata a lattina di Cola, il tritolo devastante a Capaci e Via D’Amelio? È violenza d’armi o anche altro?

Mi interrogo seguendo Orfeo, un archivio elettronico di carne e ossa, come se nel cranio avesse del silicio. Un lampeggio, tre auto s’infilano nello spiazzo della masseria. Sulla blu, al volante, il giudice Nicola Gratteri. Sorride. Dall’alto, passo cogli occhi il parabrezza. Lo inquadro, c’è un riflesso. Scenica l’uscita dalla vettura, il procuratore è uomo d’acciaio e tenerone. Calabro, riservato, granitico. Concreto. Sguardo diffidente, tiene distanza, si capisce. Si gira a destra e sinistra, la scorta in posizione, Salvatore Borsellino va a salutarlo. Ha un valigione il magistrato, dentro chissà quali vestiti o carte. Fila nel suo alloggio, sparisce.

Il confronto con Orfeo prosegue, Salvatore presenzia e, acuto, analizza. Maria e Sergio si alternano, poggiano sul tavolo sociale acqua minerale e altro caffè. Silenzioso, posteggia una Volvo Ferruccio Pinotti, accompagnato da due amici. Affabili e sagaci Mauretta e Giampiero.

Salto gradini: è Ferruccio Pinotti. Cnn, poi little Italy. Lavori dettagliati, documenti, testimonianze, scrittura ricercata e fine. Un’eccezione, nessuna spocchia, vive l’informazione come scambio sincero. Crede che ai giovani del mestieraccio si deve offre spazio, fiducia. Il suo impegno civile è unico, non strombazza dalla scatola infernale, lo schermino.

In Fratelli d’Italia, edito da Bur, ha ricostruito in ordine anni loschi del Paese. La misteriosa vicenda della Banca Rasini, intrichi e intrecci nei palazzi della Massoneria, l’interrogativo Calvi-Ior, l’inabissamento delle inchieste di Cordova e De Magistris, l’epopea Gelli, gli affari delle onorate, le ombre dei liberi muratori.

Incontrare Pinotti è un’esperienza indescrivibile. Non puoi rimproverarlo. Pubblica senza bandiere, riguardo, risparmi, sponsor. Affettuoso, limpido, perfino romantico al punto giusto. Un modello per chi vuole imparare il giornalismo. Umano, per bene, presente, non ha tic, smanie, cadute di stile.

Ci raccogliamo attorno a Salvatore, che somiglia tanto a Paolo. Ci rivela che, prima di morire, il giudice teneva lontani i figli. Voleva abituarli al distacco, evitare sofferenze. Quando parla Salvatore, non c’è distrazione. Cattura tutto il suo carisma.

Saverio Alessio approda con Carmine, diventato quasi il suo biografo. L’atmosfera si carica d’armonia. Mezzora e si procede per Palagianello. Aldo è desto, giacca, pronto.

Due minuti e si compone la carovana. La guida Luigi, che porta Salvatore. Carmine, Saverio e io stiamo in coda, preceduti dai tre veicoli di Gratteri, due di vigilanza. Danno effetto i cupolini blu sulle cappotte, ruotano. Dall’orizzonte un blu che volge al viola. La stradina per il borgo taglia poderi di ulivi antichi. Penso a Borsellino e ai suoi ragazzi: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Penso pure al sopravvissuto Antonino Vullo.

Una pagina di storia irrisolta, un vuoto che ci trasciniamo ancora, che rimarrà tale per anni. Anche per come rema lo Stato. La casta, non dimentichiamolo, non l’abbiamo voluta noi. Che non abbiamo scelto legislatori e governanti. Non siamo imputabili, se non per la nostra sparizione al farsi della politica, della deriva morale del Paese.

continua (di Emiliano Morrone)

Per approfondimenti, rinviamo al sito dei Portulani, l’associazione che ha sapientemente organizzato il convegno sull’eredità del grande magistrato siciliano.


Emiliano Morrone, Ferruccio Pinotti, Francesco Saverio Alessio

Il pubblico a Palagianello (Ta)

Ferruccio Pinotti

Aldo Pecora, Emiliano Morrone, Salvatore Borsellino

Luigi Resta, Orfeo Notaristefano, Ferruccio Pinotti, Nicola Gratteri, Michele Labalestra, Salvatore Borsellino, Emiliano Morrone, Francesco Saverio Alessio, Aldo Pecora
Rispondere all'articolo

Forum