LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA:
Art. 1.
L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
(dal sito della PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA ITALIANA, non dal sito della Presidenza del PARTITO-AZIENDA "Forza Italia" del cittadino Silvio Berlusconi!!!).
IL COMMENTO
Le rivelazioni di Massimo Ciancimino
Se fondate, sono accuse catastrofiche per la nostra democrazia
L’obbligo di chiarire quella leggenda nera
di GIUSEPPE D’AVANZO *
I MORTI non si possono smentire e i vivi hanno difficoltà a difendersi dalle parole di morti. È una condizione che crea inestricabili ambiguità. Si ascoltano con disagio le rivelazioni di Massimo Ciancimino. Le ragioni sono due. La prima può avere come titolo: il morto che parla. Perché a parlare con la voce di Massimo, il figlio, è Vito Ciancimino, il padre, il mafioso corleonese, il confidente di uno Stato debole e compromesso, il consigliere politico di Bernardo Provenzano. Anche se Massimo Ciancimino mostra di tanto in tanto una lettera o un pizzino, sono soprattutto i ricordi delle sue conversazioni con il padre la fonte delle accuse contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.
Ricordiamole perché, se fondate, quelle accuse sono catastrofiche per la nostra democrazia (un uomo, che si è fatto imprenditore con il denaro della mafia e politico con la sua protezione, governa il Paese). Se menzognere e maligne, indicano che contro il capo del governo è in atto un’aggressione ricattatoria che fa leva su alcune oscurità della sua avventura umana e professionale. La mafia, dice Ciancimino, finanziò le iniziative imprenditoriali del "primo Berlusconi" (Milano2). Marcello Dell’Utri sostituì Vito Ciancimino nella trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra innescata dopo la morte di Giovanni Falcone (23 maggio 1992) e la nascita di Forza Italia, nel 1993, è stata il frutto di quel pactum sceleris.
I ricordi del giovane Ciancimino inverano, con la concretezza di una testimonianza "diretta", la cattiva leggenda che accompagna da decenni il racconto mitologico della parabola imprenditoriale del presidente del Consiglio. Si può dire così: quelle dichiarazioni riordinano in un resoconto esaustivo e "chiuso" l’intera gamma delle incoerenze che Berlusconi e i suoi collaboratori nella fondazione dell’impero hanno lasciato nel tempo incancrenire per non volerle mai affrontare. Come già è accaduto quando in un’aula giudiziaria è apparso Gaspare Spatuzza, si deve ricordare che Cosa Nostra è tra gli anni settanta e ottanta molto vicina alle "cose" di Silvio Berlusconi e ricompare ancora nel 1994 quando il ministro dell’Interno dell’epoca, Nicola Mancino, dice chiaro che "Cosa Nostra garantirà il suo appoggio a Forza Italia".
I legami tra Marcello Dell’Utri e i mafiosi di Palermo non sono una novità. Come non sono sconosciuti gli incontri tra Silvio Berlusconi e la crème de la crème di Cosa Nostra (Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Tanino Cinà, Francesco Di Carlo). Né sono inedite le rivelazioni sulla latitanza di Gaetano e Antonino Grado nella tenuta di Villa San Martino ad Arcore, protetta dalla presenza di Vittorio Mangano, capo del mandamento di Porta Nuova. Con quali capitali Berlusconi abbia preso il volo, a metà degli settanta, ancora oggi è mistero inglorioso.
Molto si è ragionato sulle fidejussioni concessegli da una boutique del credito come la Banca Rasini; sul flusso di denaro che gli consente di tenere a battesimo Edilnord e i primi ambiziosi progetti immobiliari, quando ancora Berlusconi non si dice proprietario dell’impresa, ma soltanto "socio d’opera" o "consulente". Quei capitali erano "neri" soltanto perché sottratti al fisco, espatriati e rientrati in condizioni più favorevoli o erano "sporchi" perché patrimonio riciclato delle ricchezze mafiose, come ha suggerito qualche mese fa Gaspare Spatuzza quando disse: "La Fininvest era un terreno di pertinenza di Filippo Graviano, come se fosse un suo investimento, come se fossero soldi messi di tasca sua"? Le parole di Massimo Ciancimino riportano alla luce anche un’ultima e antica contraddizione di Berlusconi e dei suoi cronisti disciplinati, la più bizzarra: la datazione della nascita di Forza Italia nel 1994 e l’ostinato rifiuto a ricordare che le doglie di quel parto cominciarono nella primavera del 1993 da un’idea covata da Marcello Dell’Utri fin dal 1992.
È una rosa di "vuoti" e antinomie che apre spazi al ricatto mafioso. E’ uno stato che dovrebbe preoccupare tutti. Cosa Nostra minaccia in un regolamento di conti il presidente del Consiglio. Ne conosce qualche segreto. Ha con lui delle cointeressenze antiche e inconfessabili. Le agita per condizionarne le scelte, ottenerne utili legislativi, regole carcerarie più favorevoli, minore pressione poliziesca e soprattutto la disponibilità di ricchezze che (lascia intuire) le sono state trafugate. Lo ripetiamo. In questo conflitto - da un lato, una banda di assassini; dall’altro un capo di governo liberamente eletto dal popolo, nonostante le sue opacità - non c’è dubbio con chi bisogna stare. E tuttavia il capo del governo (per sottrarre se stesso a quel ricatto rovinoso) e la magistratura (per evitare che un governo legittimo sia schiacciato da una coercizione criminale che ne condiziona le decisioni) sono chiamati a fare finalmente luce sull’inizio di una storia imprenditoriale e sull’incipit di un romanzo politico.
È la seconda ragione di disagio, l’assenza di iniziative politiche e giudiziarie a fronte di denunzie così gravi. Ogni cosa sembra risolversi in una "tempesta mediatica", in una rumorosa e breve baruffa che scatena per qualche giorno sospetti, furori e controsospetti e controfurori senza che si intraveda non un’evidenza in più che scacci i cattivi pensieri o li renda più fondati, ma addirittura non si scorge alcuna attività in grado di spiegare finalmente come stanno le cose. Il risultato è che ce ne stiamo qui stretti tra la possibilità di avere al governo un paramafioso, un riciclatore di soldi che puzzano di morte e la probabilità che l’uomo che ci governa sia ricattato da Cosa Nostra per qualche passo storto del passato. È un circuito che va interrotto nell’interesse di Berlusconi, del suo governo e del Paese, della sua credibilità internazionale.
I modi per chiudere questa storia sono certo laboriosi, forse dolorosi, ma agevoli. La magistratura (per quel che se ne sa, ancora non è stata aperta un’istruttoria) accerti la fondatezza delle testimonianze di Massimo Ciancimino e Gaspare Spatuzza - magari evitando di rovesciarle in un’aula di tribunale, prima di una loro verifica. Berlusconi rinunci a scatenare, come d’abitudine, i suoi cani da guardia e faccia finalmente i conti con il suo passato. Non in un’aula di giustizia, ma dinanzi all’opinione pubblica. Prima che sia Cosa Nostra a intrappolarlo e, con lui, il legittimo governo del Paese. È giunto il tempo che questo conflitto sia affrontato all’aperto e non risolto nel segreto con un gioco manipolato e incomprensibile che nasconde alla vista il ricatto, i ricattatori, la punizione minacciata, ciò che si può compromettere, un nuovo accordo salvifico.
La volontà di dominio
di Giuseppe D’Avanzo (la Repubblica, 15.07.2008)
Le idee di rifondazione della Repubblica, nelle parole di Berlusconi, affiorano sempre in modo graduale, ma assolutamente esplicite e manifeste. Arrestano il governatore della Regione Abruzzo, e molti dei suoi, per corruzione.
Il processo ci dirà se con fonti di prova solide o dubbie. Il mago di Arcore non si cura di attenderne l’esito. Non ha alcuna prudenza. Sa di che cosa si tratta, nella sua chiaroveggenza. Due sole parole - corruzione (il reato contestato), politici (gli indagati) - gli sono sufficienti per sentenziare che si tratta di un «teorema». Che poi in matematica vuol dire «proposizione dimostrabile», ma nelle parole del mago di Arcore il significato si capovolge nel suo opposto e «teorema» diventa una costruzione artificiosa, infondata, priva di fatti e prove. E’ ai «teoremi» della magistratura che bisogna tagliare definitivamente la strada modificando radicalmente la magistratura ab imis fundamentis, dice, dalle più profonde fondamenta. Chi governa, di qualsiasi area politica sia (la giunta regionale abruzzese è di centro-sinistra), non deve più temere l’intervento della magistratura. Bisogna allora separare le carriere?, gli chiedono. «Di più, molto di più» risponde.
Forse per la prima volta, Berlusconi dichiara senza trucchi quel che intende fare. Separare la funzione requirente e giudicante non gli basta più. Il «di più» che invoca non è soltanto la riforma del Consiglio superiore della magistratura. Il «molto di più» che annuncia è il pubblico ministero diretto dall’esecutivo. Il pubblico ministero, infatti, o è indipendente, come il giudice, o è alle dipendenze del ministro. Non ci sono alternative. Solo con un pubblico ministero scelto, arruolato, orientato e gestito dal governo, il potere politico sarà protetto da quel «controllo di legalità» che comprime e umilia - per Berlusconi - la legittimità di chi governa. Il presidente del Consiglio non si è lasciato allora sfuggire l’occasione per riproporre il conflitto legittimità/legalità nel giorno in cui un’inchiesta giudiziaria non colpisce lui o uomini del suo partito, ma gli avversari in una regione governata dal centro-sinistra. Come a dire: cari signori, vedete, la magistratura non è una mia ossessione, ma l’ostacolo che tutti dovremmo avere interesse a rimuovere se vogliamo davvero governare.
In questa "chiamata alle armi" della politica non appare in gioco soltanto il terzo dei macro-poteri dello Stato (art. 104 della Costituzione: «la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere»). Non si tratta della pur consueta polemica tra Berlusconi e le toghe, tra la politica e la magistratura. Questo è soltanto il terreno dello scontro, non il senso del conflitto. Berlusconi ha cominciato a mettere a riparo se stesso con la «legge Alfano» ma cova un processo riformatore e l’avventura appare soltanto all’inizio. Se ne possono rintracciare gli indizi e la «filosofia» nelle decisioni dei primi cento giorni; nei provvedimenti con immediata forza di legge approvati dal governo; come anche nel voto di fiducia che ha spento ogni confronto parlamentare su un «decreto sicurezza» che inaugura un diritto della diseguaglianza e, con il reato di immigrazione clandestina, trasforma una semplice condizione personale in reato.
Questa piena volontà di comando e dominio, che Berlusconi pretende libera da ogni discussione parlamentare, controllo di legge, verifica di costituzionalità, mortifica la legalità. E’ una modificazione dell’architettura istituzionale che il mago di Arcore sta preparando con cura, passo dopo passo, iniziativa dopo iniziativa. Annuncia una forma di «Stato governativo» che dovrebbe - nei prossimi anni - ridurre al silenzio lo «Stato legislativo parlamentare», lo Stato di diritto disegnato dalla Costituzione. Si comprende perché Berlusconi senta lo Stato parlamentare come un vestito stretto, soffocante.
Nello Stato legislativo parlamentare governano le leggi, non gli uomini né le autorità né le magistrature. E’ un sistema che attribuisce al legislatore il compito e il potere, nell’interesse generale, di varare norme «impersonali, generali, prestabilite e perciò pensate per durare». E’ un sistema che separa. Chi decide della legge, non la applica. Chi legifera, non dà esecuzione alla norma. Chi esercita il potere e il dominio agisce «in base alla legge», «in nome della legge». Il principio costruttivo di fondo dello Stato legislativo, in cui «non sono gli uomini a governare ma le norme ad avere vigore», è il principio di legalità. Berlusconi non accetta di essere l’anonimo esecutore di leggi e norme. Vuole disfarsi del «principio di legalità» e con esso dello Stato legislativo. Ciò che nello Stato legislativo è separato, egli vuole unirlo nella sua persona. Un passo in avanti già può vantarlo. Un parlamento di nominati e non eletti, quindi Camere obbedienti e genuflesse. Il secondo passo "naturale", quasi obbligato, è quel che annuncia da Parigi: il pubblico ministero alle dipendenze del governo. Non c’è più nulla, quindi, che abbia a che fare con il braccio di ferro tra politica e magistratura del decennio scorso. Siamo di fronte a una strategia riformatrice e come tale va osservata. Berlusconi non vuole governare in nome della legge, ma in nome della «necessità concreta», in nome della «cogenza della situazione». Non vuole che il suo governo sia orientato dalle norme, ma pretende che si muova dietro lo stato delle cose, le «situazioni» che egli ritiene che siano prioritarie (altra cosa è che lo siano davvero). Lo «Stato governativo» si definisce appunto per la qualità particolare che riconosce al comando concreto, «eseguibile e applicabile immediatamente». Lo Stato governativo, scrive Carl Schmitt, «riconosce un valore giuridico positivo al decisionismo della disposizione prontamente eseguibile. Qui vale il detto: "Il meglio al mondo è un comando"».
Berlusconi chiede che il suo governo, sia suo davvero, chiuso nella sua volontà personale, affidato al suo comando di capo che governa, che dispone di tutti i requisiti della legittimità, della piena rappresentanza. E’ un sistema che ha la necessità di liberarsi della "dittatura" della norma, del controllo della magistratura, delle discussioni parlamentari. Se tutto questo è vero, vale la pena capire se - quando si parla di «dialogo» - si ha chiaro che Berlusconi accetterà di discutere soltanto se le cose muoveranno nella direzione in cui è già in movimento.
Un disegno perverso e autoritario
di Eugenio Scalfari (la Repubblica, 13.07.2008)
È NECESSARIO parlare di giustizia, della legge Ghedini-Alfano in via di velocissima approvazione, dell’emendamento blocca-processi e del suo auspicato smantellamento, del divieto ai giornali di riferire notizie sulla fase inquirente delle inchieste giudiziarie. È necessario ribadire con forza, come ha fatto Ezio Mauro nel suo articolo di venerdì, la vergogna d’una strategia dominata dall’ossessione del "premier" di evitare a tutti i costi e con tutti i mezzi la celebrazione di un processo a suo carico per un reato assai grave (corruzione di magistrati) che non rientra nelle sue funzioni ministeriali; un reato infamante di diritto comune sottratto all’accertamento giurisdizionale con un grave "vulnus" dell’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge.
Tutto ciò è necessario e bene ha fatto il Partito Democratico ad opporsi con fermezza al complesso di questi atti legislativi, inaccettabili sia nel merito sia nelle procedure e nella tempistica che li hanno caratterizzati. Ma c’è un aspetto della situazione ancora più grave perché va al di là del caso specifico della denegata giustizia riguardante Silvio Berlusconi. E riguarda il mutamento in corso della Costituzione materiale.
Si sta infatti verificando dopo appena due mesi dall’insediamento del governo un massiccio spostamento di potere verso la figura del "premier" e del governo da lui guidato, un’intimidazione crescente nei confronti della magistratura inquirente e giudicante, una vera e propria confisca del controllo parlamentare di cui gli attori principali sono gli stessi presidenti delle due assemblee e la maggioranza parlamentare nel suo complesso. Non si era mai visto nei sessant’anni di storia repubblicana un Parlamento così prono di fronte al potere esecutivo che dovrebbe essere sottoposto al suo controllo.
Le Camere si sono di fatto trasformate in anticamere del governo, i loro presidenti hanno accettato senza fiatare che decreti firmati dal capo dello Stato per ragioni di urgenza fossero manomessi da emendamenti indecenti e non pertinenti, disegni di legge dei quali il capo dello Stato aveva rifiutato la decretazione per evidente mancanza dei presupposti di urgenza sono stati votati in quarantott’ore invertendo l’ordine dei lavori e l’intera agenda parlamentare.
Lo ripeto: qui non emerge soltanto l’ossessione dell’imputato Berlusconi, emerge un mutamento profondo ed estremamente pericoloso della Costituzione materiale della Repubblica, che avvia la democrazia italiana verso forme autoritarie, affievolisce l’indipendenza e lo spazio operativo dei contropoteri, mette in gioco gli istituti di garanzia a cominciare da quello essenziale della Presidenza della Repubblica.
Siamo entrati in una fase politica dominata dall’urgenza, qualche volta reale ma assai più spesso inventata e suscitata artificialmente. L’urgenza diventa emergenza, l’emergenza diventa eccezionalità. Il governo opera come se ci trovassimo in condizioni di stato d’assedio o in presenza di enormi calamità naturali; i decreti si susseguono; i testi dei provvedimenti finanziari sono approvati in nove minuti senza che nessuno dei componenti del governo ne abbia preso visione; la velocità diventa un valore in sé indipendentemente dal merito; la schedatura dei "rom" e dei loro bambini deve essere eseguita a passo di carica; tremila militari debbono affiancare trecentomila poliziotti e carabinieri per dare ai cittadini la sensazione di una minaccia incombente ed enorme e al tempo stesso la rassicurazione dell’intervento dell’Esercito per dominarla.
Questo sta avvenendo sotto gli occhi d’una pubblica opinione sbalordita, ricattata da paure inconcrete e invelenita dall’antipolitica dilagante che provvede ad infiacchirne la responsabilità sociale e il sentimento morale.
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È pur vero che nell’era globale gli enti depositari a vari livelli di poteri sovrani debbono poter decidere con appropriata rapidità. La rapidità è diventata addirittura uno dei requisiti di merito delle decisioni poiché la lentocrazia non si addice alla dimensione globale dei problemi. A livello locale, nazionale, continentale, imperiale, la rapidità rappresenta un valore in sé che comporta un’autorità centralizzata ed efficiente. Il paradigma più calzante di questa forma post-moderna di democrazia presidenziale è fornito dagli Stati Uniti, dove il Presidente, direttamente eletto, fruisce di strumenti di alta sovranità e d’un apparato amministrativo che a lui direttamente si rapporta. La democrazia presidenziale cesserebbe tuttavia di esser tale se non fosse collocata in uno stato di diritto fondato sull’esistenza di poteri plurimi reciprocamente bilanciati. Il primo di tali poteri bilanciati è l’autonomia degli Stati dell’Unione, che delimita territorialmente la competenza federale.
Il secondo è il Congresso e in particolare il Senato dove il legame elettorale dei senatori con i cittadini dello Stato in cui sono stati eletti è nettamente superiore al legame verso il partito di appartenenza: partiti liquidi che hanno piuttosto le sembianze di comitati elettorali finalizzati alla selezione dei candidati piuttosto che alla custodia di ideologie e discipline partitocratiche. In queste condizioni i membri del Congresso e le sue potenti commissioni rappresentano un "countervailing power" di particolare efficacia sia nell’ambito finanziario sia nella nomina di tutti i dirigenti dell’amministrazione federale sia nei poteri d’inchiesta e di controllo che non sono affievoliti dalla labile appartenenza ai partiti.
Il terzo potere risiede nella Suprema Corte che agisce sulla base dei ricorsi intervenendo sulla giurisdizione e sulla costituzionalità.
Il quarto potere è quello della libera stampa, nella quale nessun altro potere ha mai chiesto restrizioni e vincoli speciali a tutela di istituzioni e di pubbliche personalità. Giornali e giornalisti incorrono, come tutti, nei reati contemplati dalle leggi ma non esiste alcun limite alla stampa di pubblicare notizie su qualunque argomento e qualunque persona, tanto più se si tratti di personaggi pubblici, della loro attività pubblica e dei loro comportamenti privati e privatissimi. Questo è nelle sue grandi linee il quadro complesso della democrazia presidenziale,
ulteriormente arricchito dalla pluralità delle Chiese e dalla libertà religiosa che ne consegue. Non si tratta certo d’un modello statico né di un modello privo di storture, di vizi, di grandi e grandissime magagne; tanto meno di una società ideale da imitare in tutto e per tutto. Ma configura un punto di riferimento importante nell’evoluzione di un centralismo democratico nell’ambito dello Stato di diritto e della separazione bilanciata dei poteri e dei contropoteri. Nulla di simile alla nuova Costituzione materiale verso la quale si sta involvendo la situazione italiana.
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Sbaglierebbe di grosso chi ritenesse che l’involuzione del nostro sistema verso istituzioni di democrazia deformata risparmi l’economia. In realtà essa è la più esposta alle intemperie dell’interventismo pubblico e delle cosiddette politiche creative e immaginose delle quali abbiamo già fatto tristissima esperienza nel quinquennio tremontiano 2001-2006. Quelle politiche sono ritornate all’opera in un quadro internazionale ancor più complesso e preoccupante.
L’esempio che desta maggior allarme è fornito dal caso Alitalia del quale abbiamo più volte parlato e che ora sembra delinearsi in tutta la sua gravità. A quanto risulta dalle più attendibili indiscrezioni fatte filtrare direttamente dall’"advisor" Banca Intesa, si procede verso la formazione di una "nuova Alitalia" che potrebbe utilizzare l’80 per cento delle rotte di volo sul territorio nazionale e del personale di volo e di terra necessario all’esercizio di questa attività. La proprietà della nuova compagnia sarebbe interamente privata e nazionale. Essa non avrebbe più alcun debito poiché debiti, perdite, esuberi di personale sarebbero interamente trasferiti ad una "bad company" o "vecchia Alitalia" che dir si voglia, di proprietà pubblica, avviata alla liquidazione con tutti gli oneri conseguenti.
In uno schema di questo genere il maggior beneficiario è rappresentato dai proprietari di Air One, società sostanzialmente fallita che scaricherebbe i suoi debiti e le sue perdite nella "bad company" e percepirebbe quote azionarie della "new company": un salvataggio in piena regola a carico del danaro pubblico. Molti altri aspetti assai dubitabili si intravedono in questo progetto, lo sbocco del quale sarebbe una compagnia regionale del tipo della Sabena o della Swiss Air, risorte sulle ceneri di un fallimento per servire un mercato poco più che regionale. Se questo accadrà, l’opinione pubblica e i dipendenti di Alitalia avranno modo di misurare il danno che la sconsiderata condotta di Berlusconi-Tremonti ha procurato al Paese affondando la trattativa con Air France senza alcun piano alternativo e agitando lo specchietto per allodole della Compagnia di bandiera.
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Tiene ancora banco la disputa tra Tremonti e Draghi sulla "Robin Hood Tax". Nella recente riunione dell’Abi (Associazione bancaria italiana) il ministro e il governatore erano entrambi presenti e parlanti. I giornali hanno riferito in dettaglio lo scontro - peraltro assai sorvegliato nelle forme - che si è verificato tra i due, col governatore che ha battuto sulla necessità di evitare che la "Robin Tax" si traduca in un aggravio dei costi dell’energia e dell’attività bancaria e il ministro che difendeva la sua figura di difensore dei ceti deboli e di severo tassatore dei profitti speculativi. «Prima si tassavano gli operai che non potevano certo trasferire su altri le loro imposte» ha detto ad un certo punto il ministro dell’Economia guardandosi fieramente intorno come gli capita di fare quando pensa d’aver inferto un colpo dritto al petto dell’avversario.
Prima si tassavano gli operai. I lavoratori dipendenti. Certo, è così. È stato sempre così perché i lavoratori dipendenti sono stati la sola categoria sociale che ha pagato le tasse per intero, salvo dover accettare d’immergersi nel precariato del lavoro nero con tutto ciò che ne consegue sia sul piano salariale sia sulle protezioni antinfortunistiche e le provvidenze sociali. Prima si tassavano gli operai. Perché il ministro usa l’imperfetto storico? Ora non si tassano più? Al contrario: ora si tassano ancora più di prima. Basta scorrere le cifre uscite dall’Istat appena due giorni fa. Il peso dell’Irpef è in aumento e, all’interno del gettito dell’imposta personale, è in aumento l’onere dei lavoratori in genere e di quelli dipendenti in particolare. Prima si tassavano? Mai come adesso sono tassati, onorevole Tremonti ed è proprio lei a farlo. Perciò non usi l’imperfetto storico perché il tema è terribilmente presente (e futuro).
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Lo stesso Tremonti ha presentato nei giorni scorsi a Bruxelles il suo documento sull’importanza della speculazione nell’aumento dei prezzi dell’energia e delle "commodities". Avrebbe dovuto essere, nelle aspettative del ministro e dei tanti giornali che gli fanno coro, una sorta di marcia trionfale. Invece è stato un flop né poteva essere altrimenti per le tante ragioni che abbiamo elencato domenica scorsa. Le autorità europee hanno cortesemente messo in dubbio che l’aumento dei prezzi derivi dalla speculazione (la stessa osservazione ha fatto Draghi nella riunione dell’Abi sopra ricordata), hanno messo in dubbio che si possa dimostrare una collusione tra operatori e infine hanno messo in dubbio che l’Europa abbia strumenti adeguati per intervenire sul mercato delle "commodities" e del petrolio che si svolge per la maggior parte su piazze extraeuropee.
Questa storia della speculazione peste del secolo è un modo come un altro di suscitare un nemico esterno immaginario e distrarre l’attenzione da realtà assai più rilevanti e preoccupanti. Così il governo affronterà un durissimo autunno. Ora anche la Marcegaglia è "estremamente preoccupata" dal calo di produzione industriale dello scorso maggio e di quanto ancora si prevede per giugno e per i mesi successivi. Ma non lo sapeva, non lo prevedeva, non era nei segnali delle sue antenne, gentile presidente di Confindustria? Il clima era buono fino a un paio di settimane fa, diceva lei. Dunque una brutta sorpresa, un fulmine a ciel sereno? Stia più attenta, signora Marcegaglia: questa è roba seria e non ci si può impunemente distrarre.
Ansa» 2008-07-13 21:01
BERLUSCONI DA PARIGI: DIALOGO CON GENTE RESPONSABILE
di Yasmin Inangiray
ROMA - Le riforme istituzionali tornano ad essere uno dei punti principali dell’agenda politica. Se Umberto Bossi invita a riallacciare il dialogo per il federalismo, Silvio Berlusconi è però "determinatissimo" ad andare avanti anche a maggioranza sulle riforme, comprese quelle istituzionali: sì al dialogo se "gli interlocutori sono responsabili", altrimenti "meglio non dialogare".
A stretto giro di posta arriva Massimo D’Alema che ribadisce come le riforme siano necessarie ma la ripresa del dialogo "dipende dalla maggioranza". Dopo il monito del Capo dello Stato, a riallacciare i fili, domani ci proveranno i protagonisti del seminario organizzato dalla fondazione Astrid proprio sulle riforme.
A discutere di legge elettorale sul modello tedesco e legge proporzionale con sbarramento al 3% ci saranno esponenti del Pd, dell’Udc, della Lega e di Rifondazione: da Veltroni a D’Alema, da Casini a Calderoli e Giordano. Insomma quei partiti che nella passata legislatura aveva dato il loro ok alla bozza di riforma elaborata da Enzo Bianco. All’appello mancherà Alleanza Nazionale che pur apprezzando la ripresa del dialogo mantiene la sua contrarietà al modello tedesco. Chi auspica che dalle riforme possa scaturire un "matrimonio tra Silvio Berlusconi e Massimo D’Alema" è l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga: "Al Cavaliere ho detto che ha sbagliato interlocutore", dice riferendosi alle prove di dialogo con Veltroni. "Dovrebbe tornare con D’Alema, lui sì che ha statura".
Senza il consenso dell’opposizione, la strada delle riforme é in salita. Ne è convinto ad esempio Umberto Bossi che invita "a riallacciare il dialogo" con l’opposizione. L’impresa è ardua, spiega il leader del Carroccio riferendosi allo scontro sulla giustizia, che però e pronto a mettersi "al lavoro già dalla prossima settimana". La Lega Nord non esclude nessun interlocutore: "Non mi tiro indietro di fronte a nessuno - precisa - non ho alcuna paura di chi lavora per il federalismo, da qualunque parte venga". Nella Lega c’é anche chi come Roberto Calderoli ha già pronta una bozza di riforma per la legge elettorale per le europee da approvare entro novembre: sbarramento al 4% e preferenza unica. Segnali di disponibilità alla ripresa di un confronto con l’opposizione arrivano anche da An che con Italo Bocchino però avverte: "Il dialogo non deve essere all’insegna di furbizie e sotterfugi, non deve puntare all’inciucio".
Nessun passo indietro, quindi, su bipartitismo e democrazia diretta. Ecco perché dal partito di via della Scrofa arriva un secco no all’ipotesi di riportare in auge il modello tedesco. Interessato agli sviluppi del confronto è l’Udc di Casini che mette insieme al discorso sulle riforme anche quello sulle possibili alleanze: "Non escludo niente", precisa l’ex presidente della Camera a proposito di future intese, ma su un punto è chiaro: "Non si parli di bipartitismo. E’ una finzione".
Quanto al Pd, nella scorsa legislatura fu tra i protagonisti della trattativa intorno alla bozza Bianco. Nel partito però non tutti sono favorevoli ad un’intesa sul tedesco. Per l’ulivista Franco Monaco se il partito "sposasse il tedesco, si richiederebbe un congresso e un’altra leadership". Disponibile al dialogo, ma sempre guardingo, il leader dell’Idv Antonio di Pietro: "Invito gli alleati a non cadere nel trabocchetto del finto dialogo".
Un invito alla chiarezza arriva poi dal presidente del comitato per il referendum sulla legge elettorale Giovanni Guzzetta che chiama in causa direttamente Gianfranco Fini e Walter Veltroni che nei mesi scorsi avevano giudicato positivamente la raccolta delle firme: "Gli obiettivi del referendum - precisa - sono incompatibili con il sistema tedesco". Di referendum parla anche Antonio Di Pietro, ma per chiedere che venga eliminato il quorum.
Tra la folla anche due bandiere del Partito democratico
Di Pietro: ’’C’è emergenza democratica, nel governo metodi da P2’’
A piazza Navona la manifestazione contro le ’leggi canaglia’. Secondo gli organizzatori ci sono 100 mila persone. Il leader di Italia dei valori: ’’Qui c’è la vera politica che reagisce. Dobbiamo tenere alta la guardia’’. (Le immagini). Stamattina l’attacco al premier: ’’Impone ai suoi picciotti cosa fare’’ (Segui la diretta dal sito dell’Idv)
Roma, 8 lug. - (Adnkronos/Ign) - ’’Qui c’è la vera democrazia, c’è la vera politica non l’antipolitica", Antonio Di Pietro dal palco di piazza Navona dove si sta svolgendo la manifestazione contro le "leggi canaglia del governo Berlusconi" rivendica il ruolo ’democratico’ delle manifestazioni di piazza e respinge le accuse di fare anti politica.
"Ogni volta che un pregiudicato si candida al Parlamento per non andare in galera - sottolinea Di Pietro - quella è antipolitica. E andare al governo e far fare le leggi che servono per la propria impunità, quella è antipolitica, anzi è regime", affonda attaccando Silvio Berlusconi. "Qui - insiste il leder di Idv - ci sono cittadini liberi che liberamente intendono far sentire la loro voce", in un momento in cui si può parlare di "emergenza democratica".
Ma noi, afferma Di Pietro, ’’abrogheremo queste leggi fatte in violazione della collettività, attiveremo un grappolo di referendum che cancellerà queste leggi". Il leader di Idv è partito dal lodo Alfano: "avrebbero fatto meglio a scrivere il numero del procedimento che riguarda Berlusconi, questa legge è incostituzionale e immorale in uno Stato di diritto, dice che 4 persone non possono essere processate e che possono fare di tutto, ma noi abbiamo bisogno di alte cariche innocenti non impunite".
Di Pietro ha parlato di "comportamenti da nuova P2. Anzi, da vecchia P2 perché loro sono sempre quelli, erano iscritti prima e sono sempre quelli". Nel discorso del leader di Idv, anche un piccolo accenno alle altre opposizioni: "Rispettiamo chi fa opposizione in modo diverso da noi, ma non ci togliete il diritto di manifestare, non ci togliete le libertà fondamentali".
Insomma ’’bisogna tenere alta la guardia perché "tutti i regimi nascono in maniera dolce", insiste Di Pietro. E " il governo Berlusconi che sta facendo una legge che colpisce la democrazia".
"Si sta facendo una legge - spiega Di Pietro - che dice che 4 cittadini italiani, una volta eletti presidenti delle Camere o della Repubblica o del Consiglio, possono ammazzare le mogli, stuprare i bambini o corrompere un testimone e non essere processati".
Il primo intervento dal palco è stato del direttore di ’Micromega’ Paolo Flores D’Arcais che attacca: "Il modello che ha in mente Berlusconi non sono gli Stati Uniti ma la Russia di Putin, ma noi diciamo no a questo fascismo strisciante". Il leader dei girotondi bolla quindi il dl sicurezza come il "pacchetto vergogna, non un mini condono ma un gigantesco regalo fatto a delinquenti di ogni risma".
Il giornalista contesta anche il lodo Alfano: "Vogliono l’impunità per salvare i criminali del governo e i loro amici". Flores ha quindi sottolineato il fatto che "in questa piazza c’è un’altra Italia, quella che dice no allo sfregio che volete fare della Costituzione". L’organizzatore della manifestazione ha provocato una selva di fischi quando ha nominato il capogruppo del Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto e, in maniera minore, quando ha citato l’editoriale di qualche giorno fa di Ernesto Galli della Loggia.
Alla manifestazione secondo gli organizzatori sarebbero presenti 100 mila persone. La porzione di piazza occupata dal palco è colorata da bandiere di Idv, di alcuni dei partiti della sinistra, compresa la falce e il martello del Pdci, e anche di due bandiere del Partito democratico.
Diversi gli striscioni esposti in piazza, tutti critici nei confronti del presidente del Consiglio, mentre sotto alcuni gazebo si distribuiscono i manifesti e le magliette con lo slogan "fermiamo il caimano". Sul palco, invece, sono stati esposti dei grandi cartelli con l’art. 3 della Costituzione sulla legge uguale per tutti.
ANSA» 2008-07-08 19:36
OGGI GIROTONDINI IN PIAZZA, IL PD ATTACCA GRILLO
Piazza Navona ospita la manifestazione dei girotondi e dell’Italia dei Valori contro ’le leggi canaglia’ del governo. "Noi rispettiamo chi non è qui ma chiediamo ugualmente rispetto da chi non c’é e non ha aderito nemmeno idealmente". Lo afferma il leader dell’Idv, Antonio Di Pietro, arrivando a piazza Navona. "Ci sono modi diversi di fare opposizione - prosegue - e tutti vanno rispettati. Noi non cadiamo nel tranello di chi vuole evidenziare uno scollamento tra le opposizioni, il problema non è questo ma è Berlusconi che ha messo in atto una truffa elettorale".
Più stand vendono magliette con la scritta ’Fermiamo il caimano’, prodotte dall’Idv, e nel mirino dei cartelli dei manifestanti finisce anche il ministro per le Pari Opportunità Mara Carfagna: "Presidente, che cuccagna la Carfagna". Molte le bandiere di partito che sventolano di fronte all’ambasciata del Brasile dove è stato allestito il palco della manifestazione contro il governo. Tra i simboli più numerosi c’é quello dell’Italia dei Valori, in piazza infatti vengono distribuite le bandiere con il simbolo del partito di Di Pietro. Insieme all’Idv ci sono poi i vessilli della Sinistra rimasta fuori dal Parlamento: le bandiere del movimento di Sinistra Democratica e quelle del Partito Comunista dei Lavoratori di Marco Ferrando. A contendersi la scena, nella porzione di Piazza Navona riservata alla manifestazione, c’é poi la Costituzione italiana.
Sul palco infatti compare un lungo manifesto verticale in cui è scritto per esteso l’articolo 3, quello in cui si dice che "tutti i cittadini hanno pari dignità e sono eguali davanti alla legge". Sull’altro lato del palco c’é invece un’altra scritta, sempre a caratteri molto grandi, in cui si legge: "La legge è uguale per tutti". Tra i manifestanti c’é anche chi indossa cartelli con su scritto una citazione di Umberto Eco: "Quando la maggioranza sostiene di avere sempre ragione e la minoranza non osa reagire, allora è in pericolo la democrazia". Altri sostenitori dell’Idv invece indossano cartelli in cui si riportano i vari reati che verrebbero ’sospesi’ in caso di approvazione dell’emendamento blocca-processi inseriti nel decreto sicurezza. C’é chi ad esempio ha un cartello con la scritta "stupro, sospeso"; oppure altri cartelli con "abuso d’ufficio, sospeso". In molti sono poi i manifestanti che indossano una maglietta con un coccodrillo verde e la scritta "fermiamo il caimano".
Tra le scritte che compaiono a piazza Navona, nella manifestazione dei girotondi contro il governo Berlusconi, c’é anche quella che paragona il premier a Benito Mussolini. Un uomo porta sulle spalle una copia del giornale ’Il bolscevico’, organo del partito marxista leninista, in cui è rappresentato Berlusconi affacciato al balcone di piazza Venezia e vestito come il duce. Sotto la foto la scritta ’fermiamo l’uomo della provvidenza e della terza Repubblica". In piazza c’é anche chi indossa magliette bianche con la scritta: "Tutte le dittature nascono in nome del popolo".
Prevista la partecipazione anche di Beppe Grillo, al quale il Pd critica pero’ l’atteggiamento nei confronti del presidente della Repubblica. "Attaccare il Presidente della Repubblica non mi sembra una scelta particolarmente efficace - ha detto Anna Finocchiaro - e mi auguro che gli organizzatori della manifestazione di oggi a piazza Navona prendano le distanze da queste posizioni". Ha confermato la sua partecipazione anche l’ex ministro Arturo Parisi.
In mattinata c’e’ stato anche lo scontro a distanza tra Antonio Di Pietro e Silvio Berlusconi. Il leader dell’Italia dei Valori ha accusato il premier di "impone ai propri ’picciotti’ in Parlamento cosa fare in stile mafioso". "Berlusconi - aveva sottolineato Di Pietro - sequestra il Parlamento a scopo di estorsione. Lui dice se volete fare le leggi che servono al Paese, prima approvate la mia legge altrimenti non potete farle. Il riscatto a questo sequestro si chiamo Lodo Alfano che prevede che davanti alla legge tutti sono uguali, tranne Berlusconi".
Dal Giappone, dove sta partecipando al G8, il premier Berlusconi critica la manifestazione di oggi. "Io non credo che possa essere una manifestazione a formare l’immagine di un paese", ha risposto Berlusconi, incontrando la stampa italiana, a chi gli chiedeva, se, in risposta alla manifestazione di oggi di Piazza Navona, fosse ipotizzabile una discesa in piazza da parte del centro destra per dare una diversa immagine internazionale.
"L’immagine di un paese si fa con i fatti e adesso dobbiamo rimediare al disastro di immagine conseguente alla tragedia dei rifiuti in Campania e credo che questa debba essere la nostra prima preoccupazione", ha proseguito il presidente del Consiglio parlando a margine del G8 in Giappone. Una situazione, ha proseguito, "che tra l’altro incide sul turismo che è parte importante della nostra economia e quindi anche dell’immagine che ci deve stare a cuore. Poi, per il resto, sono i fatti che parlano e sarà con il progresso dell’economia, delle esportazioni e del paese che noi potremo illustrarci al mondo".
Ansa» 2008-07-08 09:35
DI PIETRO ALL’ATTACCO: BERLUSCONI IMPONE STILE MAFIOSO
ROMA - "Di antidemocratico c’é Berlusconi che in stile mafioso impone ai propri ’picciotti’ in Parlamento cosa fare". Lo afferma il leader dell’Idv Antonio Di Pietro, ospite di Radio 24, parlando dei provvedimenti del Governo. "Berlusconi - continua Di Pietro - sequestra il Parlamento a scopo di estorsione. Lui dice se volete fare le leggi che servono al Paese, prima approvate la mia legge altrimenti non potete farle. Il riscatto a questo sequestro si chiamo Lodo Alfano che prevede che davanti alla legge tutti sono uguali, tranne Berlusconi".
PARISI: IO IN PIAZZA TRA CITTADINI "Sarò in piazza tra i cittadini a condividere il loro disagio. Se Di Pietro non fosse stato sul palco sarei stato più a mio agio perché inizialmente la manifestazione era alleggerita dalla mancanza di partiti che l’hanno appesantita". Lo afferma l’esponente del Partito democratico Arturo Parisi, confermando la sua presenza oggi a Piazza Navona.
L’adesione alla manifestazione contro le "Leggi canaglia"
È urgente che esista la pietra dello scandalo.
È urgente che un risveglio avvenga, anche se di pochi, perché la narcosi delle menti, del linguaggio, della visione, delle memorie) è vasta e progredisce.
Non è importante il nome che si dà al regime in cui viviamo. Conta la sua sostanza: la maggioranza che ignora e vilipendia la minoranza, la separazione dei poteri messa in questione, il trionfo degli interessi particolari e privati di chi è a capo del governo, l’impunità garantita a un impressionante numero di crimini, l’esclusione e criminalizzazione di una parte della popolazione, giudicata diversa e sospettabile fin dall’infanzia perché appartenente a altre etnie o razze.
Scegliete il nome che volete, purché il nome abbia rapporto con la sostanza.
Corriere della Sera 7.7.08
Girotondi, duello sulla piazza «Filmate i provocatori»
Con Di Pietro anche il figlio di Bachelet. La Bindi: fa bene
In piazza Navona Flores d’Arcais e Sabina Guzzanti. La manifestazione sarà chiusa da Furio Colombo
di Alessandro Trocino
ROMA - Domani sul palco di piazza Navona saranno in sedici, salvo sorprese. Da Antonio Di Pietro a Paolo Flores d’Arcais, da Ascanio Celestini a Sabina Guzzanti. Tutti insieme appassionatamente contro le «leggi- canaglia» di Silvio Berlusconi e in difesa «della democrazia in pericolo». Una squadra variegata di attori, politici e intellettuali che saranno in scena dalle 18. Anche se gli occhi di molti, e in particolare dello stato maggiore del Pd, saranno puntati più probabilmente sul megaschermo. Qui spunterà, in collegamento video, Beppe Grillo, il comico diventato blogger e fustigatore di costumi. Sullo stesso video potrebbe comparire un’altra barba celebre, quella di Umberto Eco, impossibilitato a partecipare di persona, per il quale si sta verificando la possibilità tecnica di un collegamento. Walter Veltroni, si sa, non ha dato l’adesione personale e del partito alla manifestazione. E, anzi, sponsorizza una linea di opposizione parlamentare dura ma che non scada in posizioni «estremiste», magari censorie verso il capo dello Stato. Come a qualcuno nel Pd pare possa diventare l’evento. Tanto che Giorgio Merlo lo ha definito un «caravanserraglio forcaiolo, moralista e populista».
Ma c’è chi non condivide, come il prodiano Franco Monaco, che invita «a non esasperare le divisioni». E chi aderisce, come Giovanni Bachelet, figlio del vicepresidente del Csm ucciso dalle Br, nonché membro della direzione nazionale del Pd. Il suo è un «sì meditato», che spera in uno stile «sobrio, civile e unitario». Il professore invita il Pd a guardare con simpatia alla manifestazione: «Non ci saranno estremisti, solo gente affezionata all’idea che la giustizia debba essere uguale per tutti». Rosy Bindi, nelle cui liste si è candidato Bachelet alle primarie, non sarà in piazza, dopo le critiche a Veltroni e al capo dello Stato. Ma apprezza la scelta: «È un girotondino vero, è giusto e sono contenta che aderisca. Noi siamo un gruppo plurale. E poi la piazza va ascoltata».
Bachelet vorrebbe «una manifestazione senza bandiere» e «un palco senza politici professionisti ». Non sarà accontentato: il Prc promette di partecipare con i propri simboli. E sul palco sfileranno Antonio Di Pietro e altri parlamentari. Non avranno diritto di parola, invece, i leader di Prc e Pdci, che lo avrebbero molto desiderato. «Non vogliamo che diventi una passerella politica. Ma sono sicuro che capiranno», assicura Pancho Pardi.
A chiudere l’evento Furio Colombo, giornalista e deputato Pd: «Il mio intervento sarà tutto concentrato contro la vergognosa idea delle impronte digitali. In piazza mi hanno assicurato la loro presenza molti rom con i bambini». Colombo non teme il «grillismo»: «Certamente la nostra non sarà una manifestazione antipolitica. Non siamo né indifferenti né sprezzanti». Quanto al Pd, «ce ne sarà più di quello che si immagina. Io poi sono tra i fondatori: non è chiaro come questa possa essere interpretata come una manifestazione contro il mio partito».
Che un po’ di tensione ci sia, lo dimostra la «precauzione» chiesta da Pardi: «Siccome si sentono voci di disordini e di provocazioni, lanciamo un invito a tutti: portate i telefonini e filmate. Sarà una forma spontanea di controllo». Un «piccolo fratello democratico». Che nulla potrà, però, contro la mina vagante Grillo. Qualcuno teme possa scagliare un j’accuse anche al Pd. Quasi una replica del Nanni Moretti di piazza Navona 2002: «Con questi dirigenti non vinceremo mai».
Il procuratore di Torino «Non sono questioni che riguardano la magistratura, ma tutti i cittadini»
Caselli: problemi gravi, il corteo è legittimo di Mario Porqueddu
Se la giustizia funziona sempre peggio, il risultato è che la sicurezza e i diritti non sono tutelati Che la politica parli così tanto di sicurezza, per poi non realizzare le condizioni necessarie a garantirla, direi che è per lo meno contraddittorio
MILANO - Nel merito dei singoli provvedimenti non vuole entrare. Sull’immunità per le più alte cariche dello Stato preferisce non dire nulla: «Sono temi sui quali si è già espressa l’Associazione nazionale magistrati. Che, per altro, è in stato di agitazione». In compenso, circa l’opportunità di organizzare una manifestazione sulla giustizia non ha dubbi: «A me sembra più che legittimo».
Asciutto, lapidario, il procuratore di Torino Gian Carlo Caselli, uno dei magistrati che hanno impersonato la lotta alla mafia in Italia, parla alla vigilia della protesta dei girotondini contro i provvedimenti del governo in tema di giustizia, etichettati (non da lui, ma da chi animerà il corteo) come «leggi canaglia». L’appuntamento ha diviso il centrosinistra: Di Pietro e l’Italia dei valori saranno in piazza, il Partito democratico no. Sia Veltroni che D’Alema hanno dichiarato di non condividere l’iniziativa.
Caselli la pensa diversamente. «In questo momento - dice - i problemi della giustizia sono tanti e molto gravi». Non solo: «Le soluzioni prospettate, dal cosiddetto "blocca-processi", a certi profili in tema di intercettazioni, fino ai tagli pesantissimi al bilancio della giustizia che si ritrovano nella Finanziaria, invece di risolvere la crisi sono destinate ad aggravarla ». Conclusione: «Di fronte a tutto questo, a me sembra legittimo prendere posizione. A patto che lo si faccia sempre in modo civile e dialettico».
Secondo il procuratore torinese, il fatto che su questi problemi, «che sono gravissimi», l’opinione pubblica faccia sentire la sua voce non è solo legittimo. In qualche modo è naturale che i cittadini si preoccupino di quello che succede alla giustizia. «Perché non si tratta di guai "della magistratura" - spiega Caselli -, ma di problemi del Paese: di tutti gli italiani. Se la giustizia funziona sempre peggio, il risultato è che la sicurezza e i diritti delle persone non sono tutelati a dovere ». Quindi chiude, con parole che illustrano quello che a chi lavora nei palazzi di giustizia appare come un corto circuito: «Che la politica parli così tanto di sicurezza, per poi non realizzare le condizioni necessarie a garantirla, direi che è per lo meno contradditorio».
l’Unità Lettere 7.7.08
Impronte ai piccoli rom: noi autori di libri per bambini lanciamo un appello
Cara Unità,
come autori di libri per bambini e ragazzi esprimiamo una forte preoccupazione per le iniziative assunte recentemente dal ministero dell’Interno di usare come metodo di identificazione per i minori Rom la schedatura delle impronte digitali.
Troppo spesso, nel documentarci per scrivere le nostre storie, abbiamo incontrato leggi che “per il bene” di bambini emarginati e senza voce in capitolo, hanno di fatto sancito ingiustizie e discriminazioni.
Se vogliamo far sì che i piccoli Rom non vivano fra i topi, cerchiamo di integrarli con le loro famiglie, di mandarli a scuola, di toglierli da situazioni di degrado, invece di fare le barricate quando si tenta di sistemarli in situazioni più dignitose.
Qualora questa misura fosse effettivamente attuata, violando a nostro parere i principi che regolano la convivenza civile come la Costituzione, la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia approvata dalle Nazioni Unite nel 1989 e ratificata dall’Italia nel 1991, non potremmo fare a meno di provare un forte senso di disagio nel proporre ai nostri piccoli lettori testi che parlano di solidarietà, di incontro fra i popoli o narrano di violenze e prevaricazioni subite dai loro coetanei come se fossero accadute nel passato e non potessero ripetersi mai più.
Non vorremmo appartenere a uno Stato che un giorno debba chiedere scusa alle sue minoranze.
Vanna Cercenà, Emanuela Nava, Dino Ticli, Moony Witcher, Alberto Melis, Janna Carioli, Angelo Petrosino, Francesco D’Adamo, Luisa Mattia, Emanuela Bussolati, Arianna Papini, Guido Sgardoli, Roberto Denti, Giusi Quarenghi, Angela Nanetti, Stefano Bordiglioni, Aquilino, Bruno Tognolini
l’Unità 7.7.08
La terribile attualità di Primo Levi
di Luigi Cancrini
Caro Cancrini,
per attenuare lo scoramento da sconfitta elettorale, mi era stata davvero utile la tua severa riflessione su Giacobini e Sanculotti (Unità del 28 aprile 2008) e mi sono anche difeso da incursioni di sdegno o ribrezzo, evitando accuratamente ogni telegiornale. Ma imprudentemente ieri ho ripreso in mano, dopo vent’anni, «I sommersi ed i salvati» di Primo Levi ed alcune considerazioni sulla “zona grigia” mi hanno precipitato di nuovo nell’amarezza. Ciò che infatti allora lessi come una lucidissima narrazione di fatti accaduti, oggi mi appare pieno di forza profetica e di ammonimenti per il futuro! E ne sono angosciato. Vorrei proporre quattro brevi stralci ai lettori dell’Unità: i primi due si attagliano già ora al nostro presente; il terzo ad un futuro, di cui vediamo i prodromi.
« ... era ben visibile in lui (Rumkowsky, capo collaborazionista del ghetto di Lodz) ... la sindrome del potere protratto e incontrastato: la visione distorta del mondo, l’arroganza dogmatica, il bisogno di adulazione, l’aggrapparsi convulso alle leve del comando, il disprezzo delle leggi».
«... incredibilmente, è avvenuto che un intero popolo civile, ...., seguisse un istrione la cui figura oggi muove al riso...».
«La violenza ... è sotto i nostri occhi.... Attende solo il nuovo istrione... che la organizzi, la legalizzi, la dichiari necessaria e dovuta e infetti il mondo. Pochi paesi possono essere garantiti immuni da una futura marea di violenza, generata da intolleranza, da libidine di potere, da ragioni economiche, da fanatismo religioso o politico, da attriti razziali».
Ma perché è così difficile arginare la “libidine di potere” e la pulsione a prevaricare il prossimo, che si ripropone sempre nella storia degli uomini?
Giancarlo Rossi
La prima cosa che mi viene da rispondere è che una responsabilità particolarmente importante è quella di chi, potendolo, non reagisce come dovrebbe. Dei giornali e dei telegiornali che riferiscono le opinioni di Maroni sui bambini rom e quelle di Alfano sulla possibilità di sospendere i processi come se fossero opinioni rispettabili espresse all’interno di un dibattito fra persone civili. È nel momento in cui delle idee eversive o razziste vengono presentate come delle idee normali, infatti, che il razzismo e l’eversione trovano diritto di cittadinanza nel quotidiano di chi le ascolta. Quello che si decide nei talk show televisivi e sulle primi pagine dei giornali è in realtà, oggi, l’insieme delle cose che si possono dire o non dire (e dunque insegnare e dunque praticare). Con conseguenze che a volte sono drammatiche.
Riflettiamo per un attimo ancora sulla schedatura dei bambini rom. Ho già discusso su questo giornale l’assurdità di un ragionamento che ne parla come di una misura utile per tutelarli. Quello che vorrei segnalare qui, tuttavia, è il modo in cui di questo problema si è parlato nei telegiornali: di seguito proponendo, senza che il giornalista prendesse posizione l’opinione di Famiglia Cristiana («il provvedimento è indecente») e quella di Maroni («è un provvedimento di tutela») oppure quella di un Commissario Europeo («il procedimento è inaccettabile») e quella di Maroni («il provvedimento è in linea con la legislazione europea»). Raccontato in questo modo, il fatto di cui si parla si perde nel magma indistinto delle comunicazioni politiche: su cui è normale che si esprimano opinioni diverse di cui il giornalista deve dare conto con uguale rilievo (la par condicio). Liberando se stesso dal dovere di prendere posizione e lasciando il telespettatore solo con i suoi pregiudizi (della serie “Maroni è un leghista” o della serie “i Rom sono cattivi”). Lasciando ai colleghi della carta stampata (la cui posizione è chiara fin dal nome del giornale per cui scrivono) il compito di sottolineare l’importanza di una delle posizioni e l’inciviltà dell’altra. Con il risultato finale, però, di collocare la scelta di Maroni nel novero delle opinioni politiche rispettabili.
Una copertina come quella di Panorama, 4 luglio del 2008, in cui la foto di un ragazzo rom piegato su una panca, il volto nascosto dalle mani campeggia sul titolo «Nati per rubare» meriterebbe un’azione penale e una sospensione della pubblicazione per qualche mese se qualcuno si preoccupasse oggi di tutelare la dignità delle persone che non hanno avvocati o parlamentari alle loro dipendenze (e per la dignità, alla fine, della stampa italiana). Questa copertina vergognosa non dà luogo a reazioni di nessun tipo invece e potentemente veicola, dai parrucchieri e sulle spiagge, l’idea stupida di chi continua a pensare che la moralità dei comportamenti dipende dall’etnia cui si appartiene.
Insisto su questo punto, caro Giancarlo, perché credo che questo sia davvero un elemento cruciale del processo di imbarbarimento per cui quello che conta non è il merito delle opinioni ma il “gradimento” di un pubblico distratto, svogliato e terribilmente poco informato. All’interno di una situazione in cui quello che sembra essere definitivamente venuto meno è la condivisione dei grandi principi cui si ispira la nostra Costituzione.
Nasce proprio da qui, a mio avviso, quella che Primo Levi chiama «la sindrome del potere protetto e incontrastato» perché la «visione distorta» del mondo propria di chi ha responsabilità di governo viene confermata ogni giorno dagli adulatori (che mi danno ragione sempre, qualsiasi cosa io dica) e dai detrattori (che lo sono ugualmente sempre, qualsiasi cosa io dica) e perché questo sentirsi immune dalle critiche di chi crede solo in sé stesso è continuamente rinforzato dalla staticità delle posizioni di chi informa stando “con me o contro di me”. Rinunciando al ruolo di osservatore obiettivo e distaccato, quello che veniva definito un tempo “il quarto potere” rischia di diventare uno strumento in più nelle mani di chi ha il potere vero: politico ed economico. Instaurare una dittatura basata sul consenso passa attraverso alcuni passaggi obbligati. Il primo di essi è quello di far passare l’idea per cui i provvedimenti che portano alla dittatura sono normali (o legali). L’aiuto dei media è fondamentale in questa fase per costruire il mito di un istrione (o di un gruppo di istrioni) capaci di «organizzare e di legalizzare la violenza dichiarandola necessaria e dovuta». Sul modo in cui questa «marea di violenza» sia collegata «all’intolleranza, alla libidine del potere, alle ragioni economiche, al fanatismo religioso o politico e agli attriti razziali» Primo Levi ha semplicemente ragione. Descrive in modo efficace quello che oggi accade sotto i nostri occhi.
Dal prossimo fine settimana la petizione lanciata del partito democratico
Contro le leggi ad personam, ma anche su salari, pensioni, scuola e sanità
Pd, via a "Salva l’Italia"
Obiettivo 5 milioni di firme
ROMA - "Salva l’Italia!". S’intitola così la petizione che il Partito Democratico ha promosso e che partirà dal prossimo fine settimana per concludersi il 25 ottobre, in occasione della manifestazione nazionale indetta dal partito.
La petizione ha al centro due questioni: la difesa delle regole democratiche contro le forzature e le leggi sbagliate del governo; la lotta per far ripartire l’Italia, cominciando da stipendi e pensioni. Tra i primi firmatari, giuristi come Barbera, Mancina, Elia, economisti e protagonisti del mondo del lavoro come Ruffolo, Sangalli, Colaninno, Messori, Ichino, Baretta, Musi.
"Salvare l’Italia, non il premier", è il titolo della parte istituzionale. Il Pd indica "problemi e provvedimenti presi a difesa degli interessi privati del presidente del Consiglio e non certo per aumentare la sicurezza. La maggioranza, che ha puntato in campagna elettorale sul tema della sicurezza, oggi taglia drasticamente fondi e uomini e gioca tutto su provvedimenti demagogici e sbagliati, come la raccolta delle impronte dei bambini rom o il reato di immigrazione clandestina". E ancora: "Leggi ad personam e un sostanziale ’azzeramento’ del dibattito parlamentare su una manovra economica improvvisata: questa la miscela avvelenata proposta dal governo e che la petizione vuole battere e fermare".
Ma nella petizione c’è spazio anche per l’emergenza sociale. Si sottolinea "l’incapacità del governo di affrontare i problemi della crisi economica, dell’impoverimento e del reddito di chi vive di salari e pensioni e non arriva più alla fine del mese. Una situazione che il governo ignora, mentre le promesse elettorali vengono clamorosamente smentite. Le tasse, che si diceva di voler abbassare al 40 per cento, cresceranno e resteranno per tutta la legislatura al 42,9 per cento. Mentre per i redditi bassi si inventa la ’carta’ per fare la spesa, finanziata soltanto per il 2008 e con 200 milioni, ovvero due euro al mese per ciascun anziano con pensione inferiore ai mille euro al mese".
Ecco le prime firme: Pietro Ichino, Giancarlo Sangalli, Paolo Nerozzi, Pierpaolo Baretta, Adriano Musi, Giorgio Ruffolo, Achille Passoni, Matteo Colaninno, Annarita Fioroni, Francesco Silva, Claudio De Vincenti, Salvatore Brigantini, Marcello Messori, Franco Bassanini, Massimo Brutti, Leopoldo Elia, Carlo Galli, Carlo Fusaro, Claudia Mancina, Augusto Barbera.
* la Repubblica, 7 luglio 2008.
Cicchitto attacca la piazza: è eversiva
La piazza di Grillo è «eversiva», l’attacco di Veltroni a Fini è «ingiustificato» e Di Pietro «ha superato tutti i limiti». È un torrente in piena Fabrizio Cicchitto, Presidente dei deputati del Pdl, tentando di parare i colpi alla cosa che gli è più cara: il Presidente del Consiglio Berlusconi.
Prima si rivolge al leader dell’Italia dei valori, che non era andato per il sottile descrivendo il premier come un «magnaccia», che conduce trattative in «stile mafioso»: ossia da ordine di ritirare il “decreto bloccaprocessi” solo se riesce ad ottenere “l’immunità per le alte cariche”. Insomma Berlusconi porta avanti la sua battaglia di impunità attraverso «i propri picciotti in Parlamento». Una teoria che aveva espresso anche il giornalista Marco Travaglio sul blog di Beppe Grillo.
Giudizi insopportabili da parte dell’ex magistrato di Mani pulite, perché secondo Cicchetto: «A tutto c’è un limite e Di Pietro lo ha largamente superato. È la preparazione alla manifestazione di stampo eversivo di oggi pomeriggio».
Consigli spassionati anche all’altro pezzo di opposizione: «Il Pd dovrebbe seriamente riflettere su tutto ciò invece di farsi condizionare da questo rigurgito di neo-qualunquismo con accenti fascistoidi, che intende bloccare tutto per provocare un collasso. In questo quadro - conclude - errore chiama errore, come è la non accettabile contestazione alla Camera del calendario d’Aula approvato ieri».
Poi ricomincia la filastrocca sul leader del Pd condizionato da alleati massimalisti così come Prodi era accusato di soggiacere alla volontà di un “tirannico” Bertinotti: «Veltroni, condizionato in modo incredibile da coloro che si riuniranno oggi alle 18 a piazza Navona, punta adesso a bloccare i lavori della Camera».
La colpa della rottura del dialogo, come già aveva fatto platealmente Berlusconi, viene quindi gettata sulle spalle del Pd. C’è di più: sbagliate anche le accuse lanciate da Walter al presidente di Montecitorio: «Solo così può essere letto il suo ingiustificato attacco al Presidente Fini, che sta guidando con grande imparzialità i lavori di Montecitorio». E continua: «L’aspetto più paradossale della situazione - precisa - è rappresentato dal fatto che le novità nei lavori della Camera proposte ieri dalla maggioranza sono state avanzate anche per migliorare i rapporti con l’opposizione».
«A nostro avviso - conclude Cicchitto - il calendario deciso nella riunione dei capigruppo della Camera è rispettoso sia dei diritti dell’opposizione, sia anche del diritto e dovere della maggioranza di portare avanti le sue scelte politiche e di governo».
* l’Unità, Pubblicato il: 08.07.08, Modificato il: 08.07.08 alle ore 15.15