[...] Non ce l’ha fatta Nicola Tommasoli, il ragazzo di Verona vittima di una violenza inumana ed esasperata da parte di cinque neonazisti ed alla sua famiglia va tutta la nostra piena solidarietà. La sezione ANPI di Zona 1 di Milano, esprimendo la profonda indignazione per la tragica morte, denuncia la continua e costante crescita di un clima intimidatorio e squadrista.
Episodi di questo genere devono essere eliminati sul nascere, perseguendo soprattutto i valori fondanti della nostra Costituzione [...]
Sezioni ANPI di Zona 6 (Barona, Giambellino-Lorenteggio, P.ta Genova), la Sezione ANPI Pratocentenaro, la Sezione ANPI di Crescenzago, la Sezione ANPI di Porta Venezia, l’Istituto Pedagogico della Resistenza e l’Associazione la Conta di Milano, la Sezione ANPI di Cerro Maggiore e la Sezione ANPI di Paderno Dugnano, invita le associazioni, i comitati, gli antifascisti e i democratici ad aderire e a diffondere quanto segue:
COMUNICATO STAMPA
Non ce l’ha fatta Nicola Tommasoli, il ragazzo di Verona vittima di una violenza inumana ed esasperata da parte di cinque neonazisti ed alla sua famiglia va tutta la nostra piena solidarietà. La sezione ANPI di Zona 1 di Milano, esprimendo la profonda indignazione per la tragica morte, denuncia la continua e costante crescita di un clima intimidatorio e squadrista.
Episodi di questo genere devono essere eliminati sul nascere, perseguendo soprattutto i valori fondanti della nostra Costituzione.
E’ nostro preciso dovere continuare nell’insegnamento etico, iniziato dai nostri Padri Costituenti, fra le nuove generazioni e lavorare là dove il terreno è più fertile, dalla scuola alle strade.
La Società civile deve trovare soprattutto in questi dolorosi momenti, quel faro sicuro e necessario che è la democrazia.
Associazione La Conta
Trecento persone al funerale del ragazzo pestato a morte
La famiglia non ha voluto alcuna autorità cittadina alla cerimonia
L’addio di Verona a Nicola
Il vescovo: "Solo il silenzio parla"
L’ordinanza del Gip: "Fu Veneri a colpire con un calcio al volto il ragazzo"
VERONA - "Solo il silenzio parla, ma sono qui per farmi interprete di quel grande abbraccio collettivo al papà e alla mamma di Nicola, che ogni veronese vorrebbe riservare loro". Dall’altare il vescovo di Verona, monsignor Giuseppe Zenti, si è rivolto così alle 300 persone che hanno assistito ai funerali di Nicola Tommasoli, ucciso a botte da cinque estremisti di destra.
La cerimonia si è svolta nella chiesa di San Bernardino. Tra i banchi c’erano i familiari del giovane ucciso, la fidanzata e i compagni di lavoro dello studio tecnico di Affi. Sulla bara un cuscino di rose bianche e gialle. Per rispettare la volontà della famiglia, alla cerimonia non era presente nessuna autorità, ad eccezione del comandante dei carabinieri di Verona Giuseppe Serlenga.
In città e a Negrar, il paese dove il ragazzo risiedeva, è stato dichiarato il lutto cittadino. Alle 12 sono risuonate le campane a lutto, per testimoniare il dolore dei veronesi per l’accaduto.
Nel frattempo continuano le indagini per capire chi, tra i cinque aggressori, abbia inferto il colpo che ha ucciso Nicola. Il giudice Sandro Sperandio, riferisce il Corriere del Veneto, farebbe riferimento a quanto dichiarato da Guglielmo Corsi che avrebbe fatto i nomi di Federico Perini e Nicolò Veneri come i due del gruppo che avrebbero attaccato Tommasoli. Il disegnatore tecnico di Negrar, secondo Corsi, "caduto al suolo era stato colpito da un calcio in faccia del Veneri". L’ordinanza evidenzia comunque che Veneri e Perini negano "di aver affrontato direttamente proprio il giovane poi deceduto".
* la Repubblica, 10 maggio 2008.
Educarci alla pace in una scuola dei volti
Un documento di studenti, docenti e dirigente dell’Istituto Einaudi di Verona sull’assasinio di Nicola Tommaselli, pestato a sangue la notte del primo maggio ad opera di una banda di naziskin *
DURAMENTE colpiti dall’assassinio di Nicola, noi studenti, docenti e dirigente dell’Istituto Einaudi di Verona intendiamo far conoscere la nostra intima partecipazione alla sofferenza della famiglia Tommasoli e invitare i nostri amici e colleghi a una riflessione prolungata e operativa sulle violenze presenti anche nella nostra città.
Proviamo un grande dolore e un’immensa tristezza ma anche rabbia e indignazione verso questa violenza e verso ogni forma di violenza tanto feroce e cattiva quanto stupida e vile.
Non intendiamo rassegnarci alle ragioni della forza cui vogliamo opporre la forza della ragione e la potenza del cuore.
Non vogliamo diventare prigionieri di modelli di comportamento basati sulla legge del più forte e del più furbo, su logiche di prepotenza, di superiorità, di rifiuto del "diverso", di esclusione o di ignoranza degli "altri".
Vasco Rossi osserva che "basta poco essere intolleranti, basta esser solo un po’ ignoranti". Primo Levi diceva che quando si pensa che un "diverso" da noi sia un nemico da eliminare (o da escludere) si pongono le premesse di una catena al cui termine c’è il campo di concentramento o di sterminio.
Educarci al futuro è, soprattutto, educarci alla pace. La pace comincia dalla sapienza del cuore, dal conoscere, dal conoscersi e dal riconoscersi. Pace è, anzitutto, comunicazione e rivelazione dei volti. Apparteniamo gli uni agli altri.
Il compito di una scuola seria e serena è quello di essere una scuola dei volti , è quello di educarci alla pace come costruzione di una vita bella e buona, utile e sana, fondata sulla ricerca della nostra umanità profonda, ancora sconosciuta..
Vogliamo, quindi, affermare un principio fondamentale scritto nella Dichiarazione universale dei diritti umani e nella nostra Costituzione: il rispetto della persona umana sempre e ovunque, l’idea che chi difende e salva una vita difende e salva il mondo. Di qui può nascere il valore di una cittadinanza umana e di una sicurezza comune.
Vogliamo, perciò, difendere e sviluppare ogni giorno i diritti umani, sempre collegati ai nostri quotidiani doveri, nel concreto di un’esistenza limpida e trasparente, amante della vita, ricca di amicizie e di relazioni, animata dalla fresca energia della nonviolenza che, come insegnavano Gandhi, Martin L. King e tanti altri è liberazione, forza della verità e dell’amore, azione generosa per gli altri, soprattutto per i più deboli, iniziativa responsabile e solidale.
A tale fine ci sembra importante ribadire l’importanza di un linguaggio pulito e gentile e di uno stile di vita semplice e sobrio, nutrito di calma e di mitezza, di dolcezza e di profondità, di fiducia e di pazienza, di passione e di tenerezza, di amore per la bellezza e il bene.
Verona 9 maggio 2008
Nella antica scuola della città, dove studiavano la vittima e il carnefice
Viaggio in una comunità che si specchia nei suoi giovani alla ricerca delle radici dell’odio
Raffaele e le anime nere di Verona
educazione di un neonazista
dal nostro inviato GIUSEPPE D’AVANZO *
VERONA - Nicola e Raffaele - Nicola dieci anni prima di Raffaele, dieci anni prima di essere ucciso da Raffaele - hanno studiato nello stesso liceo, lo "Scipione Maffei", fiero di essere il più antico liceo d’Italia. Nato nel 1804, promosso da Bonaparte, il "Maffei" è orgoglioso della sua storia bicentenaria, ma anche delle virtù custodite, generazione dopo generazione, in una carta dei valori che onora "lo spirito critico; la laboriosità; la legalità; l’assunzione di responsabilità; la coscienza dei diritti e dei doveri". È un impegno che si respira nelle aule dell’antico convento domenicano annesso alla Chiesa di Santa Anastasia, a due passi da Piazza Erbe, da Piazza dei Signori, dal cuore storico di Verona. Il liceo non è un luogo abitato da svuotati, sprecati. Né è attraversato dall’"analfabetismo emotivo", dalla "follia morale", dall’"ospite inquietante" del nichilismo, o come più vi piace definire l’infelice condizione giovanile del nostro Paese. Al "Maffei" si discute molto. Si lavora molto. Si impara a dare forma di parola alle emozioni, nutrimento e argomenti per le passioni e le idee. Qui è radicata la consapevolezza che la democrazia sia "ars dubiae". Si ha fiducia "nella tolleranza, nel rispetto, in una solidarietà generosamente disponibile, in un reale e radicale rispetto di se stessi e degli altri". Sono pratiche quotidiane e non predicazione (gli studenti, per dire, si tassano ogni anno di 250 euro e quest’anno hanno deciso spontaneamente di aumentare l’obolo di solidarietà). E allora bisogna chiedersi dove nasce la muffa aggressiva che ha rovinato i giorni di Raffaele e spezzato la vita di Nicola?
"Ce lo siamo chiesti - dice con "doloroso stupore" il preside Francesco Butturini - e ancora ci interrogheremo con i docenti, gli studenti, i genitori. Ci siamo chiesti se abbiamo fatto tutto quanto in nostro potere per educare gli studenti alla buona cittadinanza. Noi crediamo di aver sempre cercato attraverso l’insegnamento quotidiano e le attività educative complementari, che qui non sono poche, di inculcare negli allievi i principi della civile convivenza. Non è stato sufficiente per insegnare a Raffaele ciò che è lecito, ciò che non lo è, ciò che non è nemmeno pensabile o ipotizzabile. Mi sento sconfitto, come ho detto ai ragazzi, ma non complice. Non siamo stati né indifferenti né distratti. Quando Raffaele si rifiutò di entrare in sinagoga durante un viaggio di studio; quando affrontò il presidente dell’associazione vittime della strage di Bologna rivendicando l’innocenza di Luigi Ciavardini, segnalammo quell’atteggiamento alla famiglia. Al contrario, la questura non ci informò che Raffaele era indagato da un anno. Avremmo potuto fare di più e continueremo a farlo nel dialogo e nel confronto con i ragazzi. Senza dimenticare Raffaele. Non intendiamo abbandonarlo in questo momento e speriamo che Raffaele accolga il nostro invito; comprenda il suo tragico errore; accetti di incamminarsi su una strada radicalmente differente da quella finora seguita".
* * *
Il preside non vuole e forse non può dire di più. Il deficit del circuito istituzionale e mediatico (perché la Digos non allertò la scuola? perché i giornali cittadini non diedero conto, come d’abitudine, dei nomi degli indagati?) descrive un’occasione perduta di "recupero", di disvelamento, ma non spiega le ragioni della "caduta" di Raffaele in un "rito della crudeltà", per nulla occasionale o impulsivo, che nel tempo si è esercitato nel cuore di Verona contro "i negri"; i capelluti "comunisti" dei centri sociali; tre paracadutisti delle Folgore nati al Sud; un povero cristo con la maglia del Lecce; un tipo che mangiava un kebab; un ragazzino maldestro nell’usare lo skateboard. Pedina, "soldatino" - Raffaele - di una cerchia che, visitata dai poliziotti, disponeva di manganelli, pugnali, coltelli, un’accetta e di libri che negavano l’Olocausto, di bandiere con la croce uncinata, di foto di Hitler e Mussolini. L’aula della II E, che Raffaele frequenta (o frequentava), è al di là dell’antico chiostro in fondo al corridoio. I compagni e le compagne di Raffaele hanno come il muso. In questi giorni i giornalisti, protestano, hanno manipolato le loro opinioni, le hanno rimaneggiate per creare uno sciocco sensazionalismo. Non vogliamo difendere Raffaele, dicono, perché quel che ha fatto è gravissimo e se ne deve assumere tutto il peso, ma se ci chiedete se fosse un mostro, allora no, noi dobbiamo rispondere che non lo era, che non si è mai comportato da mostro. Era in modo radicale di destra e discuteva con chi non lo era, o era di sinistra, senza aggressività. Si è rifiutato di entrare in sinagoga, ma siamo abbastanza certi che, se avesse avuto un compagno di banco ebreo, non lo avrebbe maltrattato o deriso a scuola, dove il suo comportamento è stato sempre corretto. Questo vuol dire, chiedono, assolvere Raffaele? Vuol dire raccontare, dicono, quel che sappiamo di lui. Che non era tutto. Purtroppo.
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Accanto alla fontana senz’acqua del chiostro, Giulia Tombari e Simone D’Ascola provano a ragionare - ancora una volta, in questi giorni - su quei perché. Come è potuto accadere a un loro compagno di scuola? Giulia è minuta, nervosa, stanca. Dice parole secche e sincere. Le accompagna con un gesto. Indica il grande arco che dà sulla strada. "Qui non c’è spazio per l’ignoranza che produce l’ottusa violenza senza scopo di Raffaele. Raffaele è stato travolto da quel che c’è là fuori, oltre quel cancello. Se un responsabile e una responsabilità si deve cercare, va trovata non in questo liceo, ma nella città. In quella Verona dove può capitare - e capita spesso - che si senta dire in autobus "non siedo qui, accanto a questo negro" e nessuno che, intorno, disapprovi o censuri quelle parole... Magari chi le ascolta, non oserebbe mai pronunciarle, ma le giustifica". Simone è alto, allampanato, meno disinvolto di Giulia. Come Giulia, ha idee lucide e asciutte. "In questa storia, si usano le parole per nascondere quel che è accaduto e ancora può accadere. Si dice: Raffaele era un bullo. Non lo era. Si dice: è un delinquente. Non lo era. Si dice: è solo una mela marcia, è un caso isolato. È falso che sia la sola mela marcia del cesto, il caso non è isolato ma addirittura, nella sua assurdità, ordinario. Si dice: la politica non c’entra. E invece, c’entra, eccome, se politica è l’odio per il diverso, se politica è un’ideologia diffusa là fuori - anche Simone indica l’arco, il cancello, la strada - che legittima chi vuole liberarsi di chi non è uguale a te, per colore della pelle, per convinzioni, per religione, per la lunghezza dei capelli. Tutto questo ha un nome: razzismo, xenofobia. Se si usano le parole appropriate, le ragioni della morte di Nicola - e di quel ha combinato Raffaele con i suoi amici - saranno evidenti. È quel che dovreste fare: chiamare le cose con il proprio nome".
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Chiamare le cose con il loro nome. È naturale pensare che sia un buon consiglio mentre si risale via Massalongo e poi corso Santa Anastasia verso Piazza Erbe. Come appare necessario rimettere insieme la realtà di un corpo sociale che solitamente si offre frammentata, sconnessa, quasi in penombra, occultata da parole accortamente ambigue. Chiamare le cose con il loro nome, dunque. Le violenze e i pestaggi nel cuore di Verona sono comuni e ritualizzati. Piazza Viviani, via Mazzini, Veronetta, Volto San Luca, Corso Cavour, piazza Erbe ne sono state le scene negli ultimi mesi. Puoi essere picchiato per un nonnulla. Puoi prendere una bottigliata in testa per un amen. Non importa la ragione occasionale. Non è quello che conta. Non è per lo spino rifiutato che muore Nicola. Nicola muore, dicono, "perché ha il codino", perché dunque è diverso, perché "non è conforme" e gli (improvvisati o professionali) addetti al futuro della città e alla custodia del suo passato e delle sue risorse escludono i diversi: "diverso - dice il procuratore Guido Papalia - è non solo il diverso per razza, ma diverso perché si comporta il mondo diverso; pensa diversamente; ha un atteggiamento diverso; si veste in modo diverso e quindi non può convivere nel centro della città che i razzisti vogliono chiusa ai diversi". In uno stato di smarrimento sociale, si radunano per difendersi le persone spaventate - la paura è coltivata con sapienza a Verona che molto ha faticato per raggiungere il benessere di oggi. Passano all’azione in nome di "un’identità minacciata". Identità, insegna Zygmunt Bauman, è un concetto agonistico. È come un grido di battaglia. Fragile e perversamente "coraggioso", Raffaele sente quel grido, lasciata l’aula del "Maffei" e le fatiche democratiche di "maffeiano". Lo sente allo stadio dove impiccano il fantoccio di un calciatore "negro". Lo ascolta forte nella propaganda dei "nazistoni" del "Blocco studentesco". Lo intende nello stile di vita dei suoi compagni di bevute e di scorribande notturne tra le stradine della città. Afferra quel sentimento nella pianificazione del prossimo pestaggio, nelle risate, nella soddisfazione che segue. Raffaele avverte soprattutto che quel che fa, quel che pensa è condiviso perché in città c’è un sentimento che non lo biasima e non lo biasimerà. Hanno ragione Giulia e Simone. È "politico" tutto questo? Quale ipocrita può negarlo: certo che lo è. E non vuol dire che ci sia un partito politico, una fazione di un partito politico, un gruppuscolo che organizza o programma quelle violenze. Vuol dire che c’è a Verona una "cultura" dell’esclusione che irrigidisce e sorveglia il confine tra "noi" e "loro" e "loro" diventano anche quei veronesi - moltissimi, e tra i moltissimi Nicola - che rifiutano o non avvertono il "potere seduttivo" di quell’"appartenenza". Chiamare le cose con il loro nome. È difficile contestare che il sindaco di Verona, Fulvio Tosi, alimenti la "naturalezza" di quel grido di battaglia "identitario". Che diffonda il presupposto che "si appartiene per effetto della nascita". Non per altro, qualsiasi cosa tu sia e faccia. Fulvio Tosi non è un fascista. È un leghista che ama i fascisti, li coccola, li asseconda, forse cinicamente se ne serve. Oggi che la tragedia si è consumata, è evasivo, a volte frivolo, a volte ringhioso quando gli si ricorda che appena in dicembre ha sfilato accanto a nazisti del Veneto Fronte Skinheads; che appena qualche anno fa (11 settembre 2005) offrì le sue parole solidali - con una visita in carcere - a cinque giovani fascisti che avevano massacrato e accoltellato due ragazzi di sinistra, frequentatori di un centro sociale. Tosi ha grandi ambizioni politiche (sarà il nuovo governatore del Veneto nel 2010?) e questa storia tragica, da cui non riesce a uscire senza danno pubblico o con un alleato in meno, può azzopparlo. L’opposizione gli ha chiesto che si scusi di quelle spensieratezze. Tosi non ha trovato ancora la forza di farlo. Chiamare le cose con il proprio nome. Verona - città straordinariamente generosa nella solidarietà e nel volontariato - assiste al suo incrudelimento distratta, indifferente, senza rimorso o colpa. Guarda da un’altra parte per non vedere, per non vedersi, per non interrogarsi. Come il vescovo, monsignor Giuseppe Zenti. Scrive ai giovani della città. Immagina di inviare sms per conto di Nicola. Scrive: "Abbiate fiducia nelle grandi vette. Valorizzate i giorni della giovinezza. Fatevi onore. Fateci vedere quanto valete. Realizzate una vita di grande qualità, degna dell’essere giovani". Come se esistessero soltanto le scelte personali e non anche le responsabilità collettive, i modelli culturali, i quadri pubblici, l’assenza della benché minima opera di manutenzione sociale (senso civico, legalità). Come se Nicola e Raffaele non fossero caduti su quella "trincea profonda e invalicabile scavata in città tra il "fuori" e il "dentro" di un territorio e di una comunità". Al portone del Bra, ricorda Francesco Butturini, è scolpita una frase dell’Amleto: "Non c’è mondo, fuori di questa città". C’è a Verona chi sembra crederlo per davvero. Raffaele lo ha creduto. Troppo facile ora dirlo solo un delinquente. Troppo ingiusto dire, la morte di Nicola, "un caso isolato".
* la Repubblica, 8 maggio 2008.
Camerati che sbagliano
di Furio Colombo *
Il delitto di Verona è apparso subito per quello che è: un misto di balordo e politico, quel tipo di violenza estrema e torbida che ha, certo, radici patologiche ma ha bisogno di un ambiente favorevole - o interpretato come favorevole - per esprimersi. In altre parole a nessuno viene in mente che il sequestratore e violentatore austriaco che ha infierito per vent’anni sulla figlia fosse ispirato altro che dai suoi demoni privati.
Il delitto di Verona è invece collettivo, pubblico, sociale: un ragazzo col codino, visibilmente estraneo e dunque - nella versione corrente - «nemico» della squadretta fascista che lo ha intercettato isolato e di notte, meritava una severa punizione per il solo fatto di essere «uno degli altri», non uno dei nostri.
Per sapere chi sono gli altri e come dobbiamo considerarli se siamo fascisti, non c’è bisogno di memoria o ricerca filologica. Non c’è neppure bisogno di rileggere le piccole bravate del capo-orda Raffaele Delle Donne (studente di un buon liceo) che il 27 gennaio, Giorno della Memoria (Shoah), rifiuta di stare in classe, se ne va con alcuni compagni gridando che tornerà quando si parlerà di foibe, e che lui «con gli ebrei non vuole mischiarsi».
Basterà l’odio diffuso e indiscriminato suscitato dalla continua descrizione di “miseria, distruzione e morte” con cui hanno devastato l’Italia e l’onore dell’Italia quelli col codino, dunque comunisti, dunque assassini da foibe su cui è giusto rifarsi. Basterà ricordare ciò che ha detto, ripetuto e ripete il nuovo designato presidente del Consiglio: «mi fanno orrore». Perché non pestarne uno a sangue? Volevano uccidere? I migliori avvocati di Verona (e del resto ogni buon difensore) che saranno messi a disposizione di questi ragazzi non poveri, non spaesati, non perduti nella metropoli, ma anzi ben ambientati in un’area semi legale, poco scoperta e molto potente della vita politica italiana, si impegneranno a spostare l’imputazione il più lontano possibile da ciò che è stato: omicidio volontario di pericoloso nemico (estraneo e presunto comunista), uno di quelli dei gulag e delle foibe, dunque un delitto-retribuzione. I ragazzi non sono soli, come il povero morto. Saranno ben difesi, come non è accaduto alla vittima. E non ci meraviglieremo quando li rivedremo (tempo alcuni mesi) sulla stessa piazza di Verona, bene ambientati e spavaldi, visto che nessuno, nella attuale leadership di quella città ha preso risolutivamente, e in modo non equivoco, le distanze da loro.
* * *
Ci meravigliamo e continueremo a meravigliarci del gelo crudele, infastidito e distratto con cui la destra ufficiale italiana, che adesso è di istituzioni e di governo, ha cercato di scrollarsi dalle spalle l’uccisione a calci e pugni di un ragazzo come se fosse uno dei tanti atti di teppismo violento che, sfortunatamente, insanguinano le notti delle metropoli in tutto il mondo. Personalmente - se e quando chiamato a descrivere e valutare la personalità del nuovo Presidente della Camera (come mi è accaduto di fare in un think tank politico negli Usa subito dopo l’elezione di Fini) - non lo avrei mai descritto nel modo in cui ha voluto apparire a Porta a Porta: molto abbronzato, molto irritato, pronto a scansare e a parlare d’altro, senza la sensibilità umana e l’istinto politico di restare sul posto e sul caso: città di destra, delitto bestiale, e notizie già inequivocabili e disponibili sia sul delitto che sugli autori, indubbiamente di stretta osservanza.
Ci meravigliamo e continueremo a meravigliarci della freddezza burocratica con cui il fra poco ministro Mantovano si è scrollato di dosso l’odioso omicidio di Verona, con una argomentazione da repubblica di Weimar che - caso raro - ha provocato una reazione personale anche dall’attento e professionale conduttore Mannoni, nel programma del Tg 3 Primo piano.
In sostanza la posizione di Mantovano, incalzato dall’ex ministro Ferrero che non parlava da leader di partito di sinistra ma da persona colpita e impressionata dal fatto, e non ha mai invocato motivazioni politiche ma piuttosto stupore e dolore - è stata la seguente: «Ma cosa volete da me? Avete arrestato i balordi, fate il processo e smettetela di tirarci in ballo. Non vedete che hanno agito da soli?».
Mantovano, fascista o no, non è né disorientato né incolto e non può nemmeno invocare la mancanza totale di rapporto con uno o due libri che è spesso la giustificazione dei leghisti. Mantovano probabilmente sa che non si è mai trovato alcun legame organizzato fra la “Notte dei cristalli”, le botte ai negozianti ebrei, la distruzione delle vetrine, qualche morto, e il partito nazista. Erano tutti balordi, spinti ad agire così male dai loro impulsi di violenza e qualche occasionale provocazione.
Mantovano sa che l’incendio del Reichstag che ha segnato la storia tedesca è stato opera di un balordo isolato, giudicato anche un po’ mentecatto, o così si è adattata a dire la stampa del tempo e a sentenziare in modo adeguato la magistratura tedesca sensibile alla nuova epoca. Eppure, il “colonnello” già di An (e ora del Popolo della libertà in cui An si è riversato) non ha avuto difficoltà a mostrare distanza e disinteresse per il ragazzo pestato a morte. E si è spazzato via dalle spalle, come una forfora, l’innegabile legame fascista del gruppo di assassini, e l’evidente ambientazione di tutto ciò nella città di Verona, nella città di Tosi, sindaco leghista.
Basterebbe la citazione di un solo discorso di Tosi in campagna elettorale per trovare lo stesso legame fra i discorsi di George Wallace, governatore razzista dell’Alabama negli anni 60, e il linciaggio e il pestaggio a morte di alcuni giovani neri. O le bombe nelle chiese dove i bambini neri imparavano il catechismo. La fortuna di quel Paese è stata che John Kennedy, proprio in quel momento terribile, è diventato presidente degli Stati Uniti. E Robert Kennedy, nuovo ministro della Giustizia, non ha perso un minuto a far sapere al governatore che - se avesse continuato nella sua politica razzista - il governo di Washington avrebbe inviato truppe federali per proteggere i neri.
È una fortuna che - in questi anni - non tocca all’Italia. Non ci resta che sperare nei media (specialmente Tv) più coraggiosi e in una opinione pubblica persuasa che fatti così gravi riguardano tutti noi. Tutti. furiocolombo@unita.it
* l’Unità, Pubblicato il: 08.05.08, Modificato il: 08.05.08 alle ore 11.42
VERONA
Verona!
Ce l’ho nel cuore.
Eppure, da seminaristi, per criticare le sue radici clericofasciste la chiamavamo: "Verona Fedele", con il nome del settimanale diocesano...!
Nel nostro disincanto giovanile (erano gli anno sessanta...!) e nelle nostre utopie irrequiete, la trovavamo troppo "codina"....
Ora, dal Brasile, leggo il commento alla cronaca naziskin....
Ve lo comunico.
“No, non è una su un milione! È una delle tante che feriscono il cuore e la coscienza in questa città”. Stava scritto su un cartello, retto da una donna durante il presidio che si è tenuto a Verona, sul luogo dell’omicidio del giovane Nicola Tommaselli. E probabilmente non è a caso che si dica “in” questa città, e non “di” questa città. Perché, cuore e coscienza della comunità che quella città esprime (non solo essa, certo!), sembrano, da tempo, sensibili ad altri richiami, temi, sentimenti. Gesù insegnava che chi dice anche solo scemo o chi guarda con disprezzo il diverso da sé, è già, in cuor suo, omicida, e meriterebbe di esser condannato in questa e nell’altra vita (cf Mt 5, 22 ss). E non lo diceva per dire, evidentemente. Voleva significare, e lo avrebbe detto esplicitamente in un’altra occasione, che è dal cuore che “provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adultèri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie” (Mt 15, 19). E il cuore è il “luogo” delle nostre convinzioni più profonde. Ora, a noi sembra che i cinque sciagurati assassini di Verona abbiano solo prestato muscoli, braccia, gambe e piedi a una cultura che sono venuti assorbendo in questi anni. Che non è quella che rivela certa simbologia neonazista che, quando c’è , è solo un giochino in più, ma è assai più diffusa ed è fatta di apparente perbenismo, persino, paradossalmente, di frequenza alla chiesa, anche se la religione vera è, a ben guardare, solo quella dei soldi e del benessere, e dell’ideologia o degli slogan, che l’esprimono. Di cui sono un esempio l’esasperazione del tema della sicurezza, la fobia per lo straniero, l’insofferenza per chi non è come noi, non veste, non mangia, non parla, non prega come noi. Con l’inevitabile retorica dell’identità, del pagano culto delle radici, della salvaguardia dello spazio vitale, dell’esaltazione dello scontro di civiltà (di cui l’aggressione fisica al malcapitato che passa è niente più che l’esemplificazione pratica, una sorta di suo sacramento). È dunque una coscienza civile che bisogna scovare e, se la si trova, arrivare a interrogare. Ed è anche, forse, un cuore e una coscienza ecclesiali che devono essere ridestati e riorientati. Ora, ci sembra che a nulla serva inseguire legaioli e forzaitalioti sul loro terreno, né da parte di forze di sinistra, che hanno visto confluire in essi una quota del loro elettorato (e si dovrebbero chiedere perché), né da parte della comunità cristiana e meno ancora di un clero che (sempre che non sia per convinzione, e sarebbe tragico!), per paura di perdere fedeli (e sarebbe comunque inquietante), si mettono disinvoltamente a flirtare con quei partiti. Senza pensare che il peggio non è perdere i fedeli, ma, per tenerseli stretti, buttare via il Vangelo della prossimità e della cura per gli ultimi.
“Adesso credete? Ecco, verrà l’ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto proprio e mi lascerete solo; ma io non sono solo, perché il Padre è con me. Vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me. Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!” (Gv 16, 32-33). Già, noi si pensava di credere in Gesù Cristo e nel suo Dio (che è il Padre di tutti, non solo dei nostri e gli altri, invece, figli della serva), ed ecco che ci siamo presto dispersi e abbiamo lasciato soli Dio e il suo figliolo. E sarebbe, invece, assai meglio patire ogni sorta di tribolazioni, ma starcene con loro.
E’ tutto, per oggi.
Un abbraccio.
Aldo [don Antonelli]
Verona, autopsia conferma morte per pestaggio
È stato fissato per giovedì mattina, nel carcere di Verona, l’interrogatorio dei cinque arrestati per l’uccisione di Nicola Tommasoli, avvenuta dopo un pestaggio nella notte del primo maggio. Sarà il gip Sandro Sperandio ad ascoltare Guglielmo Corsi, Andrea Vesentini, Raffaele Dalle Donne, Nicolò Veneri e Federico Perini accusati dell’ omicidio di Tommasoli.
Nel frattempo l’autopsia sul corpo di Tommasoli ha confermato la presenza di una grossa emorragia cerebrale nella zona posteriore del cervello. L’anatomopatologo ha prelevato il cuore per verificare successivamente la presente di eventuali cardiopatie che potrebbero essere corresponsabili del decesso. La vittima aveva due dita fratturate: il pollice della mano destra e un dito della sinistra causato presumibilmente dal tentativo di difendersi. Da quanto è emerso, sarebbe stato presente anche un vasto ematoma nella zona posteriore del collo. È da verificare se sia compatibile con un calcio o un altro tipo di violenza subita. Ora sarà fissata la data del funerale.
Gli amici di Nicola intanto stanno pensando di ricordarlo con una iniziativa legata allo skateboard, sua grande passione.
Per la destra è «bullismo» Le indagini intanto proseguono, così come le polemiche politiche. La destra continua a parlare di «atto di bullismo» (La Russa, Mantovano, ma anche Isabella Bertolini), così come il segretario di Fiamma Tricolore Luca Romagnoli.
Parole smentite dai fatti e dalle dichiarazioni del procuratore capo di Verona Guido Papalia.
Raffaele Dalle Donne, Federico Perini e Nicolò Veneri, i tre studenti del gruppo degli aggressori, erano infatti già finiti nel mirino della Digos veronese. I tre amici, uniti dalla passione per la politica di estrema destra e per il "Verona Hellas", avevano i nomi già impressi sui verbali della polizia in seguito a scontri da stadio.
I precedenti Da quanto si è appreso in ambienti investigativi, Perini, residente a Boscochiesanuova, sarebbe stato fermato nel corso di incidenti seguiti all’incontro Verona-Paganese e avrebbe l’obbligo di firma durante le partite. Veneri, che abita a Quinzano, un quartiere sulle colline veronesi, sarebbe stato coinvolto a sua volta negli incidenti avvenuti dopo una partita Verona-Genoa di qualche stagione fa.
Dalle Donne e Veneri, inoltre, fanno parte dell’elenco dei 17 indagati dal procuratore Guido Papalia indagati per violazione della legge Mancino e istigazione all’odio razziale.
In casa alcuni avevano svastiche e manganelli, ma quello che è emerso dalle indagini è un uso «della violenza per la violenza» per colpire ciò che appariva "diverso". È un quadro inquietante quello che il procuratore di Verona Guido Papalia traccia sull’inchiesta che vede indagati dal giugno dello scorso anno 17 giovani scaligeri per lesioni personali e violazione della legge Mancino sulla discriminazione razziale.
«Matrice nazi-fascista» «La matrice del delitto - ha detto il procuratore della repubblica di Verona, Guido Papalia, nel corso di un intervento a Radio24 sul pestaggio mortale di Verona - è nazi-fascista. ma hanno preso da questa ideologia solo la caratteristica razzista, nel senso che si è voluto colpire il diverso. Ma non solo il diverso per razza - ha aggiunto - bensì il diverso perchè si comporta in modo diverso, la pensa diversamente, perchè ha un atteggiamento diverso, si veste in modo diverso e secondo questa ideologia non può convivere nel centro storico della mia città. Sono scuse per colpire chi non è omologabile a me».
Papalia, nel corso di un intervento ha ribadito che «l’accusa al momento è certamente omicidio doloso o volontario».
I ragazzi cercano di difendersi Il "Corriere della Sera" intanto riferisce del’incontro nel carcere di Montorio avuto dal consigliere regionale del Nuovo Psi, Nereo Laroni, con i ragazzi accusati del pestaggio di Nicola Tommasoli deceduto dopo la violenta rissa scatenatasi a Verona.
«Andrea -riferisce il quotidiano- attacca: "Davvero vuole capire? Non è difficile. C’è stata una rissa, un fuggi-fuggi. Che mi credano o no io non ho menato nè mani nè calci. E non sono un ultras, sono andato allo stadio una sola volta in vita mia. So che a un certo punto mi sono girato, ho visto quel ragazzo per terra che non si muoveva e ho avuto paura. Ho urlato ’ragazzi andiamo vià. E siamo scappati. Spero che venga fuori la verità, tutta la verità di questa storia».
Nella sezione accanto, la numero 2, Raffaele Dalle Donne, Federico Perini e Nicolò Veneri (stesso pestaggio, stesse accuse) condividono la cella 21. "Ci guardi. Ma veramente le sembriamo dei naziskin?", chiede Nicolò senza muoversi dal letto a castello sul quale è seduto, in fondo alla cella.
Il volume della televisione è tenuto alto dai ragazzi «per superare il vocio -spiega il Corriere- che arriva dalle altre celle, dove ci sono extracomunitari che pregano. "Qui c’è un gran casino. Stavo meglio nell’altra sezione" si lamenta Raffaele, il primo a costituirsi.
Guglielmo, maglietta grigia che fa intravedere tatuaggi, dice che quella sera "ci siamo presi a parole, è nata una lite ma non siamo stati noi a provocare?". "È vero che sei un naziskin?, chiede Nereo Laroni. "Non è vero per niente. Conosco gente di Forza Nuova solo perchè vado allo stadio".
Manifestazione antifascista Sabato 17 maggio è prevista una manifestazione nazionale antifascista a Verona organizzata dall’associazionismo di sinistra e ufficialmente dal "Social forum migranti" a cui hanno già dato adesione moltissimi partiti e movimenti.
Martedì sera si era già tenuto un presidio sul luogo del delitto.
* l’Unità, Pubblicato il: 07.05.08, Modificato il: 07.05.08 alle ore 18.33
Pestaggio di Verona, il giudice convalida il fermo dei 5 ragazzi
Il Gip di Verona ha convalidato il fermo dei cinque giovani accusati dell’omicidio di Nicola Tommasoli, nei riguardi dei quali ha emesso ordinanza di custodia cautelare in carcere. Lo hanno riferito gli avvocati della difesa al termine dell’udienza di convalida, svoltasi nel carcere di Verona.
«Ti spacco la faccia»: è la frase che - secondo l’avvocato Francesco Delaini - è stata indirizzata da Nicola Tommasoli a Guglielmo Corsi e che - secondo la ricostruzione del legale - ha dato origine all’aggressione della notte del primo maggio a Verona.
È contestata anche l’ aggravante dei futili motivi ai cinque giovani in carcere a Verona con l’accusa di omicidio preterintenzionale per la morte di Nicola Tommasoli, aggredito la notte del primo maggio scorso. Lo hanno affermato gli avvocati difensori dei cinque giorni parlando con i giornalisti al termine dell’udienza di convalida. L’aggravante - hanno riferito i legali - è stata contestata dal sostituto Procuratore della Repubblica, Francesco Rombaldoni, che coordina l’inchiesta.
Gli avvocati hanno reso noto che per quattro dei giovani accusati della morte di Tommasoli - Guglielmo Corsi, Raffaele dalle Donne, Nicolò Veneri e Federico Perini - la custodia in carcere è stata motivata con il pericolo di reiterazione del reato e quello di fuga. Per Andrea Vesentini, invece, solo per il pericolo di reiterazione.
La sua posizione si è alleggerita perché è stato l’unico a rispondere ai magistrati. Ha dichiarato di essersi spaventato e scappato via quando vide Nicola Tommasoli a terra, durante l’aggressione della notte del primo maggio a Verona. Lo ha detto ai giornalisti il suo avvocato, Francesco Delaini, poco prima di entrare in carcere per l’udienza di convalida. «Andrea - ha riferito il legale - sostiene di aver cercato di sedare gli animi nel corso della baruffa. Ha cercato di dividere il ragazzo chiamato "codino" antagonista di Guglielmo Corsi e di essersi poi occupato di dividere Raffaele Dalle Donne da un "piccoletto" biondo spostandolo perchè non si picchiassero. Andrea - ha proseguito l’avv. Delaini - poi si è girato, ha visto il ragazzo a terra, ha preso paura, ha detto "ragazzi andiamo" ed è scappato».
La stessa paura che secondo l’avvocato lo ha portato a non denunciare l’accaduto e a non parlarne con i genitori. Delaini ha sottolineato che «Vesentini conosceva solo Corsi perchè abitano vicino; conosceva poco Raffaele Dalle Donne e gli altri due solo di vista».
Secondo il racconto di Andrea riferito dal suo avvocato, sarebbe stato proprio Corsi a chiedere la sigaretta a "codino". Al rifiuto di questo, Corsi («ma non sono io l’avvocato di Corsi», ha detto Delaini) lo avrebbe apostrofato dicendogli »tu codino la sigaretta potevi darmela«.
Passando all’esito dell’autopsia che indicherebbe un solo colpo mortale, Delaini ha spiegato che «evidentemente vi è stata un’azione ai danni del povero ragazzo non certamente un concorso con Andrea Vesentini».
* l’Unità, Pubblicato il: 08.05.08, Modificato il: 08.05.08 alle ore 16.38