di Gian Carlo Caselli *
Mezzo vuoto o mezzo pieno? O peggio, più vuoto che pieno? Com’è il bicchiere della giustizia dopo le decisioni del Senato in tema di ordinamento giudiziario? Se Castelli canta vittoria, Mastella non gli è da meno. Miracolo? Inciucio? Propaganda politica che legittimamente privilegia certi aspetti tralasciandone altri? Un rompicapo, di fronte al quale l’Uno, nessuno, centomila di Pirandello rischia di essere l’ombra di un sogno. Prima di tutto i fatti. La riforma voluta dal centrodestra comprendeva dieci decreti. Il Senato ne ha mantenuti in vigore 9 su 10. Nell’ottica di chi confidava che il programma del centrosinistra (revisione radicale della riforma) sarebbe stato rispettato, il bicchiere è certamente quasi prosciugato. Torna a riempirsi un poco, però, se si considera che l’unico decreto non confermato riguarda il punto centrale della riforma (carriere dei magistrati e separazione fra Pm e giudici), e che altri due decreti (organizzazione delle procure e illeciti disciplinari) sono stati sì salvati, ma con alcune rettifiche.
Ma attenzione: il decreto non confermato è stato soltanto sospeso fino al luglio dell’anno prossimo, non cancellato. E le rettifiche di cui si è detto, pur positive, non sembrano incidere significativamente sulla sostanza della riforma. I poteri attribuiti al «nuovo» Procuratore capo ne fanno pur sempre una specie di «mandarino», spesso in grado di ridurre i magistrati del suo ufficio al rango di sudditi (significativamente diminuita è la tutela che questi possono ricevere dal Csm). Ne potrà derivare, tra l’altro, una sensibile riduzione della praticabilità della cosiddetta azione penale diffusa, che in questi anni ha tutelato interessi fondamentali: salute, ambiente, sicurezza sul posto di lavoro.
In materia disciplinare sono state corrette alcune formule troppo ambigue, ma non si è fatto abbastanza per restituire ai magistrati le condizioni di serenità necessarie alla loro effettiva autonomia, mentre mancano (persino nei casi più gravi di incompatibilità ambientale) i presupposti perché la giustizia disciplinare possa offrire risposte pronte ed efficaci.
Quanto al bicchiere svuotato (decreti confermati senza modifiche), complessivamente essi realizzano una profonda alterazione - spesso in negativo - dell’assetto della magistratura. Per fare un solo esempio fra i molti possibili, basterà ricordare che la scuola della magistratura è congegnata in modo da esautorare di fatto il Csm, sostanzialmente ridotto ad un ruolo notarile per quanto concerne le valutazioni di professionalità (che la Costituzione gli assegna in via esclusiva). Siamo comunque di fronte ad una caso rarissimo, per non dire unico: di una maggioranza che (potendo istituzionalmente bloccarla) dà invece amplissima attuazione ad una riforma cui - quand’era minoranza - si era duramente opposta...
Se ora dai fatti (le gocce del bicchiere: certamente troppo poche per ubriacarsi...), vogliamo passare alla loro interpretazione, penso che una buona bussola sia ricordare l’intreccio fra inefficienza organizzativa e tentativo di «governare i giudici» che ha contrassegnato la maggioranza di centrodestra della passata legislatura. Un intreccio indirizzato all’indebolimento della giurisdizione come garanzia del rispetto delle regole, nel quadro più generale della concentrazione del potere e della riduzione delle funzioni di controllo (cui era funzionale anche la riforma della Costituzione respinta dal referendum popolare).
La delegittimazione dei giudici ha registrato un crescendo da incubi. Oltre all’insulto sistematico (ancora oggi praticato in Parlamento, come ha documentato Furio Colombo su questo giornale);- oltre all’indicazione delle attività di indagine scomode come iniziative sempre «ad orologeria»;- oltre alle famigerate leggi «ad personam»;- ricordiamo la pesante pressione operata dalla maggioranza del Senato (con mozione approvata il 5 ottobre 2001) per indicare ai giudici la «esatta interpretazione della legge» in riferimento ad uno specifico processo. Ricordiamo la proposta di istituire una Commissione parlamentare di inchiesta «per accertare se ha operato e opera tuttora nel nostro paese un’associazione a delinquere con fini eversivi, costituita da una parte della magistratura, con lo scopo di sovvertire le democratiche istituzioni repubblicane» (sic!). Lo sbocco finale di tutto ciò è stata proprio la riforma dell’ordinamento giudiziario, una riforma che si proponeva di assoggettare i giudici al controllo di un potere politico che per se stesso è refrattario ai controlli. Una riforma grazie alla quale la cultura che ha impregnato la lettura della vicenda giudiziaria italiana negli ultimi anni pretendeva di diventare legge.
Contro la riforma (più spesso definita «controriforma») i magistrati hanno ripetutamente scioperato. Per respingere l’evidente disegno di un nuovo modello di magistrato le cui caratteristiche sono quelle del conformista-burocrate. La questione è cruciale per l’equilibrio del sistema istituzionale. Il magistrato non conformista, non burocrate, vede quello che scienza e coscienza gli impongono di vedere. Magari senza entusiasmo e con fatica, perché a nessuno piace sapere che gli arriveranno addosso palate di fango sol perché fa il proprio dovere. Ma è proprio il magistrato che adempie i suoi doveri con rigore che dà fastidio a chi preferisce «servizi» piuttosto che decisioni imparziali. E mal tollera, per questo, magistrati indipendenti e gelosi di tale «status».
Allora la domanda centrale - per concludere - è questa: siamo sicuri che l’attuale maggioranza abbia davvero fatto tutto il possibile per impedire il realizzarsi della pericolosa deriva voluta dalla «controriforma»? Si vedono (o continuano a latitare) quei forti ed univoci segnali di discontinuità che sono indispensabili per voltar pagina in tema di giustizia? La notte degli incubi sta finendo o continua ad invischiarci?
___
* l’Unità, Pubblicato il: 09.10.06 Modificato il: 09.10.06 alle ore 12.44
Magistrati pericolo pubblico
di Gian Carlo Caselli *
Sono convinto: i nostri Servizi segreti operano - in generale - nel pieno rispetto della legge e della legalità democratica. Ma proprio per questo occorre fare chiarezza ogni volta che risultino dubbi per specifici casi. Configura uno di questi casi - a mio avviso - il sequestro in una sede «distaccata» del Sismi di Roma di un dossier che prevede di «disarticolare», «neutralizzare», «ridimensionare» alcuni magistrati. Confido che il Copaco, investito della vicenda dalla Procura di Milano, e il Csm - che ha aperto una «pratica» a tutela dei magistrati interessati - sapranno provvedere all’esigenza di chiarezza. In questo caso diminuirà l’inquietudine di molti, che va ben oltre il fatto di poter essere ricompresi nel dossier. È un’inquietudine che nasce - prima di tutto - dalla sensazione che lo stato di salute della nostra democrazia potrebbe non essere dei migliori. E poi dalla sgradevole constatazione che di «neutralizzazione» si parlava già nel famigerato «piano Solo».
Saranno certamente - lo spero - solo analogie lessicali, ma spero anche che si compiano tutti gli accertamenti dovuti, senza sottovalutare nulla, liquidando il caso (come si tentò di fare quando nel 1967 fu denunziato il «tintinnar di sciabole») come fantasia o roba da poco.
I fatti, stando alle cronache, sembrano chiari. Nel 2001, qualcuno si prese la briga di catalogare un gruppo di magistrati marchiandoli come pericolosi. Pericolosi perché? Non perché scoperti con le mani nel sacco - o anche solo sospettati - di un qualche nefando attentato alla Costituzione o di altro inconfessabile disegno (tipo favoreggiamento di terroristi o mafiosi, «intelligenza» con stati canaglia, traffico di schiavi, armi o droga...). Pericolosi sol perché arbitrariamente etichettati come «nemici» della nuova maggioranza politica. In Italia, dunque, si può finire in un dossier custodito dai Servizi (un dossier in cui si prevedono - lo ripeto - «disarticolazioni, neutralizzazioni e ridimensionamenti») senza che nulla lo legittimi.
Anzi, per il solo fatto che a qualcuno sembra bello (se può venire utile ai nuovi «padroni» della plancia di governo) prendersela con chi ha il torto di essere indipendente nell’assolvimento dei suoi doveri istituzionali; e prendersela fino a mettere da parte le buone maniere: un eufemismo, chiaro essendo che la «neutralizzazione» non ha nulla a che fare col galateo.
Ma se in democrazia c’è spazio - anche solo nella percezione soggettiva - per «servizi» e «padroni», la democrazia traballa. E poi, i Servizi dovrebbero rifuggire da tutto ciò che non riguarda la cura di interessi generali, ma piuttosto le aspettative di una cordata o fazione, non importa (superfluo anche solo dirlo) se questa o quella.
Non cambia nulla (potrebbe anzi essere una sorta di... aggravante) l’ovvia constatazione che gli autori e custodi del dossier appaiono sensibili alla «vulgata» che ambienti del centro-destra, in tema di giustizia, hanno strumentalmente diffuso per anni e anni, a colpi di insulti e calunnie contro i magistrati che hanno avuto la ventura di doversi occupare di processi «caldi».
Ricordo che il catalogo delle aggressioni comprende, tra le altre, queste eleganti voci: assassini, brigatisti, farabutti, sadici, torturatori, menti distorte, falsificatori di carte, frodatori processuali, cupola mafiosa, cancro da estirpare, maramaldi... Ma la calunnia che più deve aver colpito i responsabili del dossier è stata «magistrati venduti ad una fazione politica» (alias magistrati «politicizzati»), perché proprio su di essa è costruito il dossier, col suo corollario di disarticolazioni e altre soavi forme di dissuasione.
Concetti come l’indipendenza della magistratura pietra angolare dello stato di diritto; come l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge; come l’obbligatorietà dell’azione penale (ricorrendone tutti i presupposti) anche verso chi gli affari suoi pretende di sottrarli ad ogni efficace controllo: ecco, tutti questi concetti, a chi accetta la «filosofia» dei dossier e delle «disarticolazioni», devono sembrare optional fastidiosi.
Meglio appiattirsi sulla «vulgata» di chi ha appena conquistato il potere. E se il prezzo da pagare è mettere in mezzo (disarticolare...) onesti funzionari dello Stato, va bene lo stesso. Solo che compito dei Servizi non è, non può essere, quello di raccogliere o assecondare - in tema di giurisdizione - tesi strampalate, fossero pure in sintonia con la maggioranza politica contingente (ieri di centro-destra, oggi di centrosinistra, non fa ovviamente nessuna differenza, trattandosi di questioni di principio delle quali tutti dovrebbero farsi carico, a prescindere dal loro orientamento politico-culturale).
La storia è nota a tutti, perché narrata da Piero Calamandrei in una delle sue pagine più spesso citate. Ma si adatta bene al caso del dossier, ed è per questo che vi attingo ancora una volta. È la storia di Aurelio Sansoni, un magistrato fiorentino che ai tempi del fascismo veniva chiamato «pretore rosso». Calamandrei scrive che «non era in realtà né rosso né bigio: era soltanto una coscienza tranquillamente fiera, non disposta a rinnegare la giustizia per fare la volontà degli squadristi... Era semplicemente un giudice giusto: e per questo lo chiamavano "rosso" (perché sempre, tra le tante sofferenze che attendono il giudice giusto, vi è anche quella di sentirsi accusare, quando non è disposto a servire una fazione, di essere al servizio della fazione contraria)».
Ai tempi del fascismo l’ostilità del potere si esprimeva con le squadracce e con la violenza fisica fin dentro le aule di giustizia. Normale per un regime dittatoriale. Con la democrazia le cose sono cambiate e nessuno usa più il manganello o l’olio di ricino. Ma neppure dovrebbe esistere dossier per «disarticolare» magistrati indipendenti e giusti (per questo, nell’immutabile costume degli intolleranti, accusati falsamente di servire una fazione).
Qualcuno, spero il Copaco o il Csm, dovrebbe - istituzionalmente - provare a spiegarlo, con pazienza, a chi i dossier li commissiona o li fabbrica o li custodisce.
* www.unita.it, Pubblicato il: 11.11.06 Modificato il: 11.11.06 alle ore 12.27
Sul sito, per un discorso generale ’simbolico’, si cfr. l’art. relativo al "cherubino", come Il "logo" della "Sapienza" (anche) giuridica!!!
e
Una riforma al giorno toglie il giudice di torno
di Gian Carlo Caselli (il Fatto Quotidiano, 11 marzo 2011)
Le leggi “ad personam” hanno imbarbarito il sistema violando i principi fondamentali dell’ordinamento ma non sono servite a granché. L’ossessione del premier per i suoi processi non si è calmata, e poco sollievo gli è venuto dall’incessante azione di illustri avvocati che intrecciano la difesa privata con responsabilità istituzionali. Meglio lasciare da parte l’accetta che trancia di netto i delitti più “rischiosi”. Persino un’opinione pubblica assuefatta e ipnotizzata potrebbe a un certo punto svegliarsi. Invece delle brutali leggi “ad personam” si possono imboccare strade più elusive ma non meno efficaci. Per esempio qualche modifica della Costituzione che consenta al governo di condizionare la magistratura o addirittura di impartirle direttive.
Esattamente questa è la situazione che si avrà con la sedicente riforma della Giustizia (sobriamente denominata epocale...) che il Consiglio dei ministri ha messo in cantiere. Direttore dei lavori è un cavaliere/presidente che nello stesso tempo è imputato in vari processi. Un ossimoro? Forse, ma soprattutto un modo per regolare i conti con questa magistratura golpista ed eversiva che continua a coltivare un’assurda pretesa: chiedere conto anche al premier di azioni od omissioni che si presentino in contrasto con la legge penale. Ma anche a prescindere (e non si può) dalle vicende giudiziarie del premier e dalle sue ansie, è evidente innanzitutto che non si tratta di una riforma della Giustizia (l’inefficienza del sistema resterà tal quale), ma del tentativo di liberare il potere politico dal fastidio di aver a che fare con magistrati indipendenti. È poi impossibile ignorare un dato di fatto: il nostro - purtroppo - è tuttora un paese caratterizzato da un fortissimo tasso di illegalità che comprende una spaventosa corruzione, collusioni e complicità con la mafia assai diffuse, gravi fatti di mala amministrazione e fenomeni assortiti di malaffare.
Quasi sempre ci sono pezzi consistenti di politica coinvolti in tali vicende, per cui consentire loro (come avverrà con la pseudo-riforma della Giustizia) di pilotare la magistratura nel modo che ad essi più conviene sarebbe micidiale: per l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e per la stessa credibilità della nostra democrazia. In altre parole, grazie alla pseudo-riforma potrà dare ordini alla magistratura, stabilendo come e chi indagare, proprio quel potere politico che di solito - è storia - respinge i controlli di legalità relativi ai suoi esponenti, preferendo autoassoluzioni perpetue. Ad esempio minimizzando il gravissimo cancro della corruzione sistemica riducendolo (la tradizione al riguardo si è consolidata negli anni) ad isolate performance di “mariuoli” o “sfigati” di poco conto. E non è un caso che il presidente del Consiglio, presentando baldanzosamente la “sua” riforma, abbia dichiarato con candore che così Mani Pulite non ci sarebbe stata. Che se invece avessimo a che fare anche noi con politici capaci di dimettersi sol perché scoperti a copiare una tesi di laurea, allora potremmo pure discutere sull’opportunità o meno dell’opzione legata alla separazione delle carriere.
Per contro, la concreta realtà del nostro paese (ancora fuori degli standard delle democrazie occidentali per ciò che qui interessa) non ci consente assolutamente un simile lusso. Posto infatti che sempre - ovunque vi siano forme di separazione - il governo in un modo o nell’altro ha poteri direttivi sui pm, in Italia (nella situazione ancora attualmente data) il sistema sarebbe suicida, perlomeno finché certe decisive componenti della classe politica resteranno esclusivamente preoccupate della propria impunità. Sarebbe come affidare alle volpi la custodia del pollaio! Se poi la separazione delle carriere si combina (come previsto nella pseudo-riforma del governo) con altre misure mirate all’impunità dei potenti, ecco che il cerchio si chiude ed i giochi sono fatti.
Così, l’indebolimento dell’obbligatorietà dell’azione penale mediante liste, stabilite dalla politica, che distinguono quali reati perseguire e quali no; - il controllo delle attività investigative della polizia giudiziaria esercitato dal governo e non più dal pm; - la mortificazione del Csm a ruoli meramente burocratici; - la previsione di un Csm separato per i pm, così sottratti all’utile “koinè” con la magistratura giudicante; - il conferimento al Guardasigilli di un potere di ispezione e relazione sulle indagini destinato a funzionare come ponte verso la costruzione di un rapporto gerarchico con l’ufficio del pm; - una nuova disciplina della responsabilità dei magistrati che rischi di esporli a bufere scatenate strumentalmente, incompatibili con la serenità e l’autonomia della giurisdizione.
Son tutti interventi che univocamente convergono verso l’obiettivo di riservare al potere politico l’apertura o chiusura del “rubinetto” delle indagini, prevedendo per giunta forme indirette ma efficaci di dissuasione verso i pm che tardino a capire che conviene “baciare le mani” a chi può e conta, piuttosto che servire gli interessi generali. La posta in gioco è la qualità della democrazia. E forse è bene cominciare a rileggere quel passo di Calamadrei in cui sta scritto che “la libertà è come l’aria. Ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni e che io auguro a voi di non sentire mai”.
Se giudici e politici ormai pari sono
di CARLO FEDERICO GROSSO (La Stampa, 7/10/2007)
C’è analogia fra il clima politico del 1992 e quello del 2007, fra i tempi di Mani Pulite e l’antipolitica di oggi. Vi sono, tuttavia, alcune rilevanti differenze. Allora non tutto il mondo politico era travolto dall’ira popolare e c’era comunque una speranza di uscita democratica dalla degenerazione. Oggi tutti i partiti sembrano invece coinvolti nel discredito; una via d’uscita dalla crisi sembra pertanto molto più difficile. Si salvano, per il loro prestigio personale o istituzionale, talune grandi personalità, come il Capo dello Stato. Si assiste, d’altro canto, al successo popolare dell’antipolitico per eccellenza. Di quel Grillo, comico di professione, che sta cavalcando gli umori ancestrali della gente contro il potere ufficiale. Per altro verso, mentre all’epoca di Mani Pulite c’era una fiducia senza tentennamenti nel potere giudiziario e una procura della Repubblica che dettava l’agenda del Paese, oggi quella fiducia nella magistratura si è in larga misura sfrangiata. La gente è più avveduta, distingue, talvolta critica apertamente. Sicuramente non è più propensa a credere ciecamente alle iniziative giudiziarie. Al contrario, diffida della giustizia.
C’è inoltre una crisi in molti elettori di sinistra. Una parte di essi riteneva che con l’avvento del governo Prodi le tensioni fra politica e giustizia sarebbero scomparse. Alcune cose sono sicuramente cambiate: ad esempio, non ha più costituito intento dichiarato della politica porre limiti alla libertà di indagine, è cessato l’attacco sistematico al mondo giudiziario. Tuttavia, non si è giunti all’idillio. Le leggi vergogna non sono state abrogate, le risorse per il funzionamento della macchina giudiziaria non sono state reperite, il rapporto fra mondo politico e mondo giudiziario continua ad essere complicato. Lo dimostrano le iniziative e le accese discussioni di questi giorni.
Quali reazioni si sono, a loro volta, sviluppate contro l’antipolitica dilagante? C’è stato un grande agitarsi sui temi della riduzione del numero dei parlamentari, del contenimento dei consigli di amministrazione e dei consiglieri comunali e regionali, della riduzione delle prebende e dei privilegi, delle auto blu. È davvero sufficiente per riacquistare consensi? O ci vuole, a questo punto, ben altro?
Veniamo alle vicende che hanno infiammato i palazzi in quest’ultima settimana. Com’è noto, giorni fa Mastella, sulla base dei risultati di un’ispezione ministeriale, aveva chiesto al Csm di trasferire in via cautelare dal suo ufficio il pubblico ministero calabrese De Magistris, che sta conducendo importanti indagini penali che coinvolgono personalità politiche di rilievo fra cui il presidente del Consiglio. La ragione di tale iniziativa sarebbe individuabile in un’asserita sua incompatibilità ambientale e nella commissione di atti abnormi nell’esercizio della funzione giudiziaria.
Non conoscendo gli atti, non sono in grado di esprimere giudizi sulla vicenda. Posso soltanto manifestare un generico stupore di fronte alla peculiarità dell’iniziativa del ministro e alle conseguenze che essa rischia di produrre sul terreno delle inchieste calabresi in corso. Attendo comunque le valutazioni del Csm, confidando che le procedure siano state regolari e che non si sia inteso colpire un magistrato scomodo chiedendo un trasferimento non giustificato. L’iniziativa disciplinare assunta nei confronti di De Magistris era, comunque, destinata a suscitare reazioni. Esse si sono puntualmente manifestate, addirittura al di là di quanto era prevedibile. La televisione ha contribuito a enfatizzarle oltre misura. Si è, fra l’altro, assistito a inaccettabili giustizie sommarie televisive celebrate sull’onda della pressione popolare e alla sorprendente apparizione sul video di magistrati pronti a partecipare, sorridenti, allo spettacolo. È giusto che i magistrati, se indebitamente attaccati, si difendano. Vi sono tuttavia luoghi e modi a ciò deputati. Non ritengo che sia opportuno che qualcuno di essi si precipiti in televisione, coccolato dal conduttore e applaudito dagli spettatori, parli di se stesso e del coraggio con il quale difende legalità e diritti dei cittadini, di come contrasta le illegalità dello Stato e degli altri poteri, di come sia di conseguenza attaccato, ostacolato, delegittimato.
Per altro verso, un magistrato che, presentandosi a una trasmissione televisiva, accarezza i sentimenti già accesi della gente, solletica gli istinti e le rabbie degli ascoltatori, cerca il consenso popolare, è un magistrato che rischia di non giovare neppure alla categoria cui appartiene. Diventa un Masaniello, una caricatura, finisce per identificarsi pericolosamente con Grillo, si trasforma in una parodia. Se si trattasse, d’altronde, di una mera operazione di promozione della propria immagine sulla pelle dei cittadini amministrati, per cercare, magari, visibilità utile per altre avventure, la circostanza sarebbe altrettanto grave.
Ecco perché, come dicevo all’inizio, oggi il contesto nel quale ci ritroviamo è peggiore di quello del ’92. Allora c’era una Repubblica al tramonto, ma c’era speranza nel riscatto della politica, c’era fiducia nell’attività taumaturgica, moralmente ineccepibile, del potere giudiziario, c’era la certezza di uscirne in qualche modo. Oggi c’è una classe politica allo sbando, delegittimata nel suo insieme dai cittadini ma, anche, una magistratura che non sempre sembra all’altezza dei suoi compiti, che pare aver perso talvolta contezza del suo ruolo, che troppo spesso pasticcia. C’è, dunque, una Repubblica doppiamente infranta.
Il plenum del Consiglio superiore della magistratura interviene sull’attività di spionaggio sui giudici
"Il Sismi ha svolto un’attività estranea ai compiti dei servizi fatta per intimidire e far perdere credibilità"
Toghe spiate, Csm contro il Sismi
"Fu il servizio e non settori deviati" *
ROMA - E’ stato il Sismi e non i "settori deviati" del servizio a svolgere l’attività di spionaggio nei confronti magistrati che è venuta alla luce con la scoperta dell’archivio di via Nazionale a Roma. A dirlo è una risoluzione approvata all’unanimità dal Plenum del Csm.
Secondo il Consiglio superiore della magistratura il Sismi ha svolto un’attività "estranea" ai suoi compiti con lo scopo "intimidire" e far "perdere credibilità " ai magistrati.
Il vicepresidente del Csm Nicola Mancino, prima dell’approvazione da parte del plenum di Palazzo dei marescialli aveva dichiarato che "c’è stato uno sviamento di poteri da parte del Sismi. L’attività del servizio è andata al di là delle proprie attribuzioni e competenze".
La risoluzione del Csm arriva dopo le dichiarazioni dell’ex funzionario Pio Pompa che aveva voluto sminuire l’importanza dell’archivio. "La quasi totalità del materiale sequestrato nei miei pc personali - aveva scritto nella dichiarazione spontanea consegnata ieri pomeriggio al pm Pietro Saviotti - proviene da fonti aperte (internet, organi di informazioni, etc.). Le informazioni contenute nei files attinenti a magistrati sono tutte, ribadisco tutte, di fonte pubblica, giornalistica o informatica".
* LA REPUBBLICA, 4 luglio 2007
CONSULTA: BOCCIATA LA NORMA ’ANTICASELLI’ *
ROMA - La Corte Costituzionale ha dichiarato l’ illegittimità costituzionale della cosiddetta norma ’anti Caselli’ introdotta dal centrodestra con la riforma dell’ordinamento giudiziario del 2005. La norma escludeva dal concorso per gli incarichi direttivi i magistrati che non assicuravano almeno quattro anni prima della pensione nel caso degli uffici di merito, e due anni per la Cassazione. Proprio a causa di questa norma varata nel 2005, Giancarlo Caselli fu escluso dalla corsa per la direzione della procura nazionale antimafia, perché aveva già compiuto 66 anni.
"La Corte Costituzionale - afferma Palazzo della Consulta in una nota - ha dichiarato l’ illegittimità costituzionale della norma che in tema di conferimento degli incarichi direttivi ai magistrati ordinari limitava la partecipazione alla procedura selettiva ai soli magistrati che avessero assicurato almeno quattro anni di servizio prima della data di ordinario collocamento a riposo per gli uffici di merito, o almeno due anni per gli uffici di legittimità, senza tener conto della normativa che consente ai magistrati di permanere in servizio fino al compimento del settantacinquesimo anno di età".
IL CONSIGLIO DI STATO DA’ RAGIONE A CARBONE
Il Consiglio di Stato ha dato ragione a Vincenzo Carbone, il presidente aggiunto della Cassazione la cui nomina a primo presidente della Suprema Corte era stata bocciata dal Csm. E ha ordinato a palazzo dei Marescialli di provvedere.
Carbone aveva già ottenuto una prima vittoria dal Tar del Lazio che aveva annullato la delibera con la quale il Csm nel dicembre scorso aveva bocciato la sua nomina a primo presidente della Cassazione, per un incarico di insegnamento svolto senza aver chiesto l’autorizzazione a Palazzo dei Marescialli. Un’autorizzazione che, invece, secondo il Tar del Lazio, non era necessaria.
Il Csm a sua volta aveva chiesto al Consiglio di Stato di annullare e di sospendere l’efficacia della sentenza del Tar del Lazio. Ma i giudici di Palazzo Spada hanno rigettato la richiesta di sospensiva del Csm, accompagnando la decisione con "un ordine all’amministrazione di provvedere", cioé di adeguarsi alla sentenza del Tar del Lazio. I giudici avrebbero deciso anche sul merito, ma hanno rinviato il deposito della sentenza, la cui stesura potrebbe richiedere diverso tempo. In sostanza, con la sua pronuncia il Consiglio di Stato ordina al Csm di provvedere a esprimersi con un nuovo voto sulla nomina di Carbone a primo presidente. E stavolta non può avere rilievo, ai fini della decisione del Csm, la mancata autorizzazione per l’incarico di insegnamento svolto dal magistrato.
* ANSA » 2007-06-20 19:32
2 giugno Festa della Repubblica: mettere in sicurezza la Costituzione *
di COORDINAMENTO REGIONALE TOSCANO
DEI COMITATI PER LA DIFESA DELLA COSTITUZIONE
Comunicato stampa
Il 2 giugno 1946 gli Italiani e, per la prima volta, le italiane elessero il loro Parlamento, che, chiudendo definitivamente la drammatica parentesi fascista, assunse il compito di scrivere la Costituzione della nascente Repubblica. Il testo, approvato a larghissima maggioranza da una assemblea pur composta da rappresentanti di forze politiche ormai appartenenti a fronti opposti degli schieramenti internazionali, entrò in vigore il 1 gennaio 1948.
Il 25 e 26 giugno 2006, a 60 anni di distanza, una larga maggioranza popolare, che ha superato gli schieramenti politici ed è composta da uomini e donne di generazioni successive, respingendo con il referendum costituzionale il tentativo di stravolgerne i contenuti, ha riconfermato di ritenere quella Costituzione il contratto fondamentale della nostra convivenza civile.
In questi anni le nostre società sono cambiate anche in modo allora imprevedibile per i Costituenti, ed è lecito pensare ad adeguamenti del testo originario che, rispettando l’impianto complessivo di un sistema parlamentare rappresentativo e nell’intento di proseguire nella realizzazione degli obiettivi incompiuti, tengano conto delle nuove esigenze. Non è però accettabile ignorare l’inequivocabile espressione di volontà uscita dal verdetto referendario dello scorso anno proponendo, in nome di una presunta migliore governabilità, formule che contraddicono o si allontanano dalla natura parlamentare della nostra democrazia.
Appare inoltre inquietante la disinformazione che circonda la proposta di referendum Guzzetta-Segni sulla legge elettorale, che ci riporterebbe alla mussoliniana legge Acerbo del 1925. La scorciatoia referendaria in questo caso, mentre sembra voler dare risposta alla ’crisi della politica’, fonde in realtà l’antipolitica e la tentazione di mortificare il ruolo del Parlamento per arrivare a modifiche alla forma di governo dello stesso tenore di quelle scongiurate con il risultato referendario dello scorso anno
A fronte del riaffiorare di proposte di riforma in senso presidenzialistico ed accentratore, i Comitati toscani per la Difesa della Costituzione, componenti del Comitato Nazionale ’Salviamo la Costituzione’ presieduto del Presidente Emerito della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, ritengono assolutamente indispensabile che il Parlamento proceda senza ulteriori indugi all’aggiornamento dell’articolo 138 della Costituzione, innalzando la maggioranza necessaria alle modifiche costituzionali e garantendo sempre la possibilità del ricorso al referendum, come peraltro previsto al primo punto del programma elettorale dell’attuale maggioranza di governo.
Solo così otterremo per tutti la garanzia che le ’regole del gioco’ democratico non possano essere modificate in base ad interessi contingenti da parte di maggioranze che possono non essere rappresentative della reale volontà popolare.
I Comitati invitano tutti, e in particolare i rappresentanti eletti dai cittadini nelle sedi istituzionali, a festeggiare quest’anno, unitamente alla Repubblica, la sua Carta fondamentale, frutto del lavoro e dell’impegno morale di uomini e donne che seppero mettere l’interesse del Paese al di sopra di quello delle singole parti, trovando un mirabile equilibrio fra libertà e doveri, principi ideali e strumenti giuridici.
Firenze, 1 giugno2007
(per il Coordinamento: Francesco Baicchi 348 3828748, del Comitato di Pistoia)
Articolo tratto da:
FORUM (57) Koinonia
http://utenti.lycos.it/periodicokoinonia/
* IL DIALOGO, Sabato, 02 giugno 2007
Tutte le strane coincidenze della notte dell’11 aprile
di Oreste Pivetta *
Hanno ucciso la democrazia? Probabilmente no, anche se si dovrebbe discutere a lungo sui limiti, sulla sostanza... La democrazia, magari in forme traballanti, è viva. Ma che muoia non si può escludere. Con le armi, con i botti, con i proclami radiofonici? No. Inquieta nel film di Beppe Cremagnani e di Enrico Deaglio, regia di Ruben Oliva, l’idea che possa accadere senza che nessuno ci avverta, nel pieno rispetto delle forme, silenziosamente, con grazia tecnologica. Uccidete la democrazia. Memorandum sulle elezioni di aprile (che non vedrete in tv, ma il dvd con il libro che l’ha ispirato, Il broglio di un anonimo Agente italiano lo troverete in edicola da venerdì 24 novembre) è la storia di una ipotesi che potrebbe essere realtà. Con un cadavere, l’arma del delitto, il movente. Nessuno però che si penta. Il cadavere sta appunto all’inizio del film, appena dopo le immagini di una corte di giustizia americana dove un cittadino qualunque, tal Clinton Curtis, programmatore elettronico della Florida, il 13 dicembre 2004, appena chiuse le presidenziali, racconta come un voto lo si possa manipolare. «Non se ne sarebbero mai accorti», confessa Curtis. Che aggiunge, rispondendo a un giudice circa l’eventualità di brogli: «Sì, quando gli exit polls differiscono in maniera sostanziale dal risultato finale, vuol che l’elezione è stata truccata..».
Chi guarda questa scena ripiomba tra gli incubi dell’11 aprile, quando, dopo aver ascoltato exit polls che offrivano garanzie di vittoria al centrosinistra, era stato costretto a subire l’onda di ritorno del centro destra, numeri su numeri che chiudevano la forbice delle ore 15 e allineavano sugli stessi destra e sinistra. Il film rende le emozioni di quelle ore, quasi scandite dalle mosse degli uomini del potere in corso: il via vai dei Cicchitto e dei Bondi, persino di Previti, il volo su Roma dell’uomo di Arcore, il battere dei tacchi anche di un ministro degli Interni che non sente il dovere di respingere la convocazione di Berlusconi a Palazzo Grazioli, invece di rimanere a sorvegliare il Viminale. Il controcanto è di una folla inquieta che si sente tradita. La prima domanda, il primo dubbio sono del conduttore di Popolare Network, Massimo Rebotti, quando Pisanu annuncia il calo delle schede bianche: «A questo punto il sospetto di brogli è legittimo».
La seconda parte del film è la spiegazione: la campagna elettorale e il nuovo sistema elettorale, l’informatizzazione del voto (grazie al figlio di Pisanu e a una società americanam, Accenture, che lavorava in Florida e che Clinton conosce bene), il comizio di Berlusconi a Roma, i guai giudiziari di Previti, quelli con la mafia di Dell’Utri, quelli futuri dell’azienda Mediaset, la "scena" che obbliga il capo della destra a cercar di vincere, ad ogni costo.
Il sospetto che qualcosa di strano sia accaduto viene dal crollo delle schede bianche: in 5 anni da un 1.600.000 a 445 mila, dal 4,2% all’1,1%. Crollo che conduce a un percentuale uniforme: la Calabria ad esempio da 157 mila a 53 mila. Le schede bianche che finiranno in una busta sigillata insieme con le schede nulle, che diventano, «fantasmi, numeri senza proprietari...».
Torna in scena il nostro programmatore americano, Curtis Clinton. Deaglio lo raggiunge. E lì davanti a un computer portatile imbastisce in pochi minuti un programmino che si mangia le schede bianche e le risputa colorate, esattamente come il "mandante" pretende. Da schede bianche a voti della coalizione tal dei tali. Possibile: basta risolvere qualche problemino di matematica, poi le macchine consentono tutto, basta un bravo programmatore e qualche aiuto, qualcuno che inserisca il programma nel sistema, al centro, e non è detto che debba conoscere il significato dell’operazione. Ma restano i voti sulle schede... Una volta che i voti li hai trasmessi non li vedi più. E le procedure si possono chiudere? In qualsiasi momento.
Il film si chiude con il solito Berlusconi che grida allo scandalo dei brogli e un vecchio proverbio... «La gallina che canta...». Però, perché Berlusconi non ha vinto? Perché Pisanu non lo ha seguito fino alla fine? Vecchio fiuto democristiano, spiega Gola profonda il bravissimo Elio De Capitani): Pisanu ha capito che il gatto s’agitava, ma era un gatto morto.
* www.unita.it, Pubblicato il: 17.11.06 Modificato il: 17.11.06 alle ore 8.53
Ingroia: «Scardinare la classe dirigente che vive di affari e favori mafiosi»
di Saverio Lodato *
Continuiamo a parlarne di mafia, in un momento in cui il suo profilo - apparentemente - è bassissimo. Dopo il procuratore Francesco Messineo, e gli aggiunti Sergio Lari e Roberto Scarpinato, interviene Antonio Ingroia, pubblico ministero nei processi di mafia più incandescenti ormai da quindici anni.
Dottor Ingroia, il vulcano Napoli e una Sicilia Svizzera...
«Non direi. Penso infatti che sarebbe ora che nella lotta al crimine organizzato, in tutte le sue forme, lo Stato facesse la prima mossa senza aspettare, come è sempre avvenuto, che siano i boss a riaprire la partita. Quello che accade a Napoli è già accaduto in Sicilia tanti anni fa: omicidi, regolamenti di conti fra i clan, taglieggiamenti, i poteri criminali che alzano il tiro. Titoli da prima pagina e finalmente ecco che qualcosa si muove».
Il governo però, questa volta, parla di interventi stabili e duraturi, non emergenziali.
«È un reale segno di discontinuità, rispetto al passato, che ci aspettiamo. Una diversa e permanente attenzione alla questione mafia non cadendo nel solito trabocchetto che se la mafia non spara vuol dire che non c’è».
E questo, mentre si manifesta a Napoli, in Sicilia ancora non si vede. È questo che vuole dire?
«Vorrei dire di più. La storia ci insegna e le risultanze investigative più recenti ci confermano, che la mafia è e si sente più forte quando non spara. Ritorna allora una domanda di fondo: bisogna convivere con la mafia degli affari che fa buona condotta, come auspicava l’ex ministro Lunardi, o la mafia va comunque affrontata senza risparmio di mezzi?»
Il procuratore Messineo non definisce la mafia un gigante inespugnabile. La fotografa per l’altezza che oggi ha. Un’altezza inferiore rispetto alla statura del passato. Concorda?
«Sì. In ogni caso, continuare a disegnare la mafia come un gigante inespugnabile equivale a rassegnarsi alla sua eternità criminale: il contrario del realismo storico propugnato sia da Falcone sia da Borsellino. I capi mafia di oggi non hanno neppure la statura e il prestigio di boss del passato come Stefano Bontate, uomo ben inserito nei salotti palermitani e non a caso definito il Principe di Villagrazia... Il vero problema è semmai scardinare il sistema di potere che della mafia si è sempre servito e che rischia di rimanere immune da ogni ventata repressiva che inevitabilmente colpisce solo chi spara. E quando non si spara, il sistema di potere mafioso si perpetua».
Dottor Ingroia, il suo collega Scarpinato parla apertamente del ritorno del Principe che, in questo caso, non è quello di Villagrazia. E si spinge quasi ad affermare che la mafia viene accesa o spenta a piacimento proprio da quel sistema di potere al quale lei allude. Non potrebbe apparire eccessivo?
«Non credo proprio. L’altalena dei consensi attorno all’azione giudiziaria antimafia non è estranea a precisi interessi diffusi nella società siciliana. I rapporti fra braccio armato della mafia e classe dirigente siciliana e nazionale sono costituiti dall’alternanza di alleanze e contrapposizioni che talvolta sfociano nella guerra. Proprio nei momenti di crisi dei rapporti fra i due mondi il consenso rispetto all’azione antimafia dei magistrati si dimostra frutto non di una disinteressata opzione a favore della legalità, bensì di smaliziati interessi di parte».
Può fare degli esempi?
«Prendiamo la stagione post stragi. Come si spiega l’unanime consenso all’azione della magistratura finalizzata alla cattura dei grandi latitanti da Riina a Provenzano? E come si spiega l’enorme divario di consenso all’azione dei magistrati a seconda che si occupi della cattura dei latitanti ovvero che si occupi dei rapporti mafia classe dirigente? C’è qualcosa che non funziona. Non c’è solo una finalità autoprotettiva da parte della classe dirigente, c’è qualcosa di più...»
Cosa?
«Da una parte l’esigenza di ridimensionare l’aggressività di Cosa Nostra nei momenti in cui affronta a viso aperto lo Stato, ma anche l’inconfessabile finalità di mantenere l’operatività di una mafia sommersa con la quale continuare a concludere affari nell’ombra».
Se è così la mafia ce la porteremo dietro ancora per parecchio...
«Il rischio c’è. Ecco perché occorre un urgente segnale di discontinuità rispetto al passato. Un aperto segno di rottura con questa classe dirigente siciliana che ha vissuto di affari e favori e che, tutt’ora, si dichiara antimafiosa. Siamo in una fase di grande confusione, anche di ruoli, e compenetrazione fra mondi diversi. Sarebbe sbagliato parlare di società civile per bene separata dal mondo mafioso. Abbiamo oggi una mafia più civile e una società più mafiosa».
Siamo all’imbarbarimento?
«Una mafia sempre più in giacca cravatta e una società che cambiandosi abito troppe volte al giorno sceglie il travestimento. Insomma, abbiamo interi pezzi di società che hanno ormai introiettato i modelli comportamentali dei mafiosi. E lo si vede in tutti i campi».
Quali?
«Temo che nessuna figura sociale ne sia risparmiata. Mi preoccupa che nei più disparati ambienti, compresi quelli istituzionali, il dossieraggio e il ricatto sembrano essere all’ordine del giorno».
Sente odore di servizi?
«Ciò che si legge sui giornali è certamente allarmante».
Si riferisce al fatto che Gian Carlo Caselli era nell’elenco dei magistrati "pericolosi" per i settori occulti del Sismi?
«Evidentemente Caselli, come procuratore di Palermo, dava fastidio. Del resto non sarebbe l’unico intervento contra personam che Caselli ha subito... Se questo è lo scenario, il vero segno di discontinuità non si dà solo arrestando i mafiosi e con uno straordinario impegno di uomini sul territorio, lo si dà soprattutto con un taglio netto con quel pezzo di classe dirigente che è il vero nucleo del sistema di potere mafioso».
Ricorda Leonardo Sciascia quando diceva che lo stato italiano se volesse fare davvero la guerra alla mafia dovrebbe decidere di suicidarsi?
«Aveva ragione. Ma è anche vero che è possibile una dolorosa operazione chirurgica, salvando le parti sane che sono la maggioranza. La questione è essere disposti a pagare un prezzo, se parliamo di politica, in termini di voti e di consenso».
Sintetizza un pacchetto di misure antimafiose che la politica potrebbe varare e non vara?
«Tirare fuori dai cassetti del ministero della giustizia - tanto per cominciare - il progetto del testo unico della legislazione antimafia varato dal primo governo Prodi e mai proposto in Parlamento».
Che c’era scritto?
«La revisione e l’aggiornamento dei più importanti strumenti per colpire i due nodi del rapporto mafia - classe dirigente siciliana: la riforma del concorso esterno sul terreno mafia-politica, e la revisione degli strumenti per colpire i patrimoni dei mafiosi sul terreno mafia-economia. Sarebbe un’ottima partenza».
* www.unita.it, Pubblicato il: 11.11.06 Modificato il: 11.11.06 alle ore 12.28
Per una politica più pulita ed onesta. Bisognerebbe avanzare una proposta di Legge Costituzionale d’ iniziativa popolare scritta a chiare lettere e irremovibile per gli aspiranti Parlamentari e Parlamentari, che preveda quanto segue:
Requisiti di ottima condotta civile e morale 1)- INELEGGIBILITA’ TEMPORANEA - Non possono assumere l’incarico Istituzionale di Parlamentare tutti coloro che al momento della richiesta di candidatura in un partito risultino semplicemente indagati, imputati o condannati con sentenza non definitiva per un reato non colposo, fino a quando vengono dichiarati innocenti con sentenza definitiva.
2)- INELEGGIBILITA’ A VITA - Non potranno mai assumere l’incarico Istituzionale di Parlamentare coloro che al momento della richiesta di candidatura in un partito dovessero risultare già condannati con sentenza definitiva per un reato non colposo e altresì chi ha anche beneficiato della prescrizione, della riabilitazione, dell’ amnistia o dell’indulto per reati non colposi.
3)- Se un Parlamentare, durante la sua carica istituzionale commette un reato non colposo deve essere giudicato dal Tribunale Penale Militare anzi che da quello Ordinario ed in caso di provata colpevolezza di applicare il Codice Penale Militare di Pace (quindi con pene molto più severe) e senza le solite scappatoie (attenuanti e condoni di pena). Esempio: se un Parlamentare becca una condanna a 4 anni di reclusione + interdizione temporanea dai pubblici uffici per un reato non colposo, la pena andrebbe obbligatoriamente raddoppiata e quindi portata da 4 a 8 anni di reclusione + interdizione che passa da temporanea a perpetua dai pubblici uffici + pignoramento a vita della pensione del 96 % a beneficio dello Stato, ineleggibilità a vita e esclusione di tutti i presenti e futuri benefici di Legge sulla pena inflitta.
4)- Divieto assoluto, solo per tutta la durata dell’incarico di poter assumere altri incarichi lavorativi con funzioni pubbliche o private. Per i trasgressori pena della destituzione immediata dall’incarico di Parlamentare.
5)- Obbligo di timbratura a ogni inizio, pausa e fine turno di lavoro del cartellino registra presenze ore di lavoro (data e ora di entrata e di uscita) maturate all’interno delle Camere per i Parlamentari. Per i trasgressori la sanzione va dalla multa del 40% di pignoramento dello stipendio mensile per 3 mensilità consecutive, sospensione dal servizio a tempo determinato senza stipendio fino alla destituzione immediata dall’incarico.
Infine vorrei che fossero anche aboliti per sempre l’Immunità Parlamentare e il Segreto di Stato.