Berlusconi: "Sul 25 aprile piena sintonia con Napolitano"
ROMA - Silvio Berlusconi si dichiara "in piena sintonia" con le parole di Napolitano pronunciate ieri a Genova in occasione del 25 aprile: "Ho apprezzato molto l’intervento del presidente - dice il premier in pectore -. Sono convinto che tutte le istituzioni del nostro Paese dovrebbero condividere lo spirito delle parole espresse dal capo dello Stato in uno sforzo ampio e generale teso allo sviluppo e al rilancio dell’Italia".
Berlusconi aggiunge: "Era questo anche lo spirito del mio messaggio e mi fa piacere constatare come fosse in sintonia con la dichiarazione del presidente della Repubblica".
* la Repubblica, 26-04-2008
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
POLITICA
Il prezzo dell’impunità
di GIUSEPPE D’AVANZO *
Berlusconi andrà fino in fondo senza curarsi degli inviti del Capo dello Stato a trovare in Parlamento soluzioni condivise - almeno per materie come la sicurezza e la giustizia. Non si attarderà ad ascoltare le perplessità del suo alleato (la Lega). Non presterà alcuna attenzione alle sollecitazioni di un’opposizione moderata e ragionevole (Udc, Pd).
Non stringerà la mano tesa di una magistratura che, stanca di guerra, vuole almeno tutelare - in questa temperie - una decente funzionalità dell’amministrazione giudiziaria, un’accettabile efficacia del processo penale, la concretezza della pena. Venisse giù il cielo, Berlusconi andrà fino in fondo per due ragioni che sono indivisibili nella indefinitezza che ha sempre separato il suo privato dalla responsabilità pubblica che (legittimamente) interpreta. Deve proteggersi da un presente penale e rimuovere ogni incognita dal futuro. La sua urgenza personale (non essere processato) è diventata pubblica necessità come la diffusa percezione d’insicurezza, come la crisi della "monnezza" a Napoli. Oscurità che chiedono di essere rimosse presto, con un’immediata decisione, rapida come un lampo di luce, anche a costo di violare lo Stato di diritto - anche in quest’occasione, come nelle altre - di separare lo Stato dal diritto. Diventata estrema e improrogabile la necessità di fermare il suo processo e di scongiurare la possibilità che ce ne siano in futuro, vengono congelati per un anno i processi per i reati commessi fino al 30 giugno del 2002, in attesa di approvare un nuovo "lodo" immunitario.
Berlusconi è imputato di corruzione in atti giudiziari. È un reato rarissimo, in Italia. Si celebrano meno di due processi all’anno per quel delitto. È questa trascurabile presenza statistica che rende indispensabile fermare per un anno migliaia di processi per i più diversi reati. La decisione paralizza una macchina giudiziaria già inceppata e caccia l’esecutivo in una contraddizione irrisolvibile e irragionevole, se ci fosse ancora spazio per la ragione. Da un lato, definisce un catalogo di reati di grave allarme sociale e ne irrobustisce le pene; dall’altra, per gli stessi reati (stupro, usura, traffico di rifiuti, sfruttamento della prostituzione, omicidio colposo per i pirati della strada...) li dice irrilevanti, marginali e dappoco fino allo spartiacque del 30 giugno 2002. In nome di una personale sicurezza e impunità, il capo del governo accetta di mettere in tensione la sicurezza di tutti. Racconta di voler rendere più sicuro il Paese e lo rende disarmato. Chiede alla magistratura di fronteggiare le minacce diffuse e l’azzoppa irrimediabilmente.
Il metodo può apparire incoerente per il senso comune, per la più fragile delle decenze istituzionali. È, al contrario, ragionevolissimo per un esecutivo e una maggioranza iperpersonalizzati che presentano il premier come un sovrano, come il solo salvatore capace di risolvere i problemi del Paese, il solo uomo in cui la maggior parte degli italiani ha "fiducia". Salvare da ogni controllo di legalità Berlusconi, trasformato in icona e pietra angolare del sistema; proteggere il suo potere e - con esso - la possibilità stessa di una "decisione" libera dai consueti legacci o dai "costituzionali" contrappesi vuol dire - in questo nuovo, artificioso stato di necessità - tutelare non Berlusconi, ma il governo del Paese, la sola via d’uscita dalle molte crisi che lo affliggono.
In questo slittamento di significato dal privato al pubblico, dalle ragioni di uno alle necessità di tutti, si deve cogliere uno dei segni distintivi di questa stagione politica. Bisogna cominciare a fare i conti con gli esiti. Occorre iniziare a cogliere, dietro la retorica berlusconiana, le tecniche che la sostengono. È necessario prendere atto, oggi e innanzitutto, dello svuotamento funzionale del potere del Parlamento.
C’erano molte ragioni per una valutazione attenta del Senato dei pericoli, contraddizioni e debolezze del provvedimento con forza di legge approvato dal governo. Le circostanze aggravanti da infliggere a chi "si trova illegalmente sul territorio nazionale" rispettano il dettato costituzionale o danno vita a un doppio binario di giudizio per il cittadino italiano e lo straniero? La sospensione incondizionata dei processi migliora davvero il "servizio giustizia" nell’interesse del cittadino - sia esso imputato o vittima - o ne pregiudica in modo grave il lavoro? Un’immunità che garantisca le alte cariche dello Stato deve davvero passare attraverso lo strappo violento del precetto che rende tutti uguali davanti alla legge? C’era anche "materia" politica e istituzionale da sorvegliare dopo le aperture della Lega, le proposte di Udc e Partito democratico, le prudenti riflessioni dell’Associazione nazionale magistrati. Il Senato (e alla Camera non andrà in modo diverso) si è mostrato del tutto indifferente a ogni questione; disinteressato a ogni distinzione tra utile e dannoso, necessario e arbitrario, giusto e ingiusto; neutrale anche rispetto ai valori costituzionali interpellati dal decreto del governo e dagli emendamenti imposti dal presidente del Consiglio.
Affiora un metodo. Il Parlamento (un Parlamento non di eletti, ma di "nominati") rinuncia a elaborare "politiche", le subisce. Non le discute, le approva a occhi chiusi consegnandosi, come fosse un involucro vuoto, a una impotente autoemarginazione. Libera dalla presenza del potere legislativo, la retorica "anti-sistema" di Berlusconi potrà muoversi senza ostacoli - se quel che si è visto finora è soltanto un saggio del futuro della legislatura - lungo i confini disegnati dalle tre strategie finora messe in campo. Istituzionale: coinvolge il capo dello Stato nelle sue iniziative, salvo imbrogliarlo nel merito; mima il dialogo con le opposizioni, salvo affondarlo secondo convenienza. Extra-istituzionale: con una comunicazione manipolata e sovrattono, abusa della "fiducia" che il Paese gli concede a piene mani per compilare un’agenda di governo che ne trascura i problemi più autentici. Anti-istituzionale: aggredisce con sistematicità le istituzioni di controllo, subito la magistratura. È un’agevole previsione credere che molto presto toccherà all’informazione.
* la Repubblica, 25 giugno 2008.
Dopo l’allarme lanciato ieri, oggi il leader del Pd chiude la porta al premier "Lo avevamo avvertito, ma ha preferito un clima di scontro"
Veltroni: "Il dialogo si chiude
Berlusconi ha strappato la tela"
Replica di Bonaiuti: "Quella tela l’ha strappata proprio lui"
ROMA - "Le conclusioni le ha tratte Berlusconi che ha strappato la tela del dialogo possibile". Così il leader del Pd Walter Veltroni, in un’intervista al Tg3, ha spiegato il confronto tra maggioranza e opposizione si è interrotto, dopo l’iniziativa del premier in materia giudiziaria. E a stretto giro, è giunta anche la replica del portavoce del premier, Paolo Bonaiuti: "La tela l’hai strappata tu".
Nel suo intervento ai microfoni della Rai, Veltroni ha ricordato l’avvertimento lanciato ieri al Cavaliere, quando lo aveva sollecitato a cambiare atteggiamento rispetto alla "sequenza di strappi" prodotta dalla vicenda Rete4 e, da ultimo, dagli emendamenti cosiddetti "salva-premier". "Ieri avevo detto ’spero che prevalga la responsabilità, ma per tutta risposta - ha sottolineato - si sono presentati due emendamenti che riguardano una norma per evitare un processo che riguarda il presidente del Consiglio e ieri sera si è mandata quella lettera che riapre lo scontro nei confronti della magistratura, secondo lo scenario già visto tante volte".
"Quindi - ha aggiunto il leader del Pd - le conclusioni le ha tratte il presidente del Consiglio", che al dialogo ha preferito "un clima di scontro". "Io e il mio partito - ha proseguito Veltroni - abbiamo cercato in questi mesi di portare l’Italia fuori dal passato, ma evidentemente c’è chi vuole tenere il Paese inchiodato al passato. In un mese siamo stati per due volte in Parlamento costretti a discutere degli interessi personali del presidente del Consiglio".
Il tutto, mentre il Paese chiede che si discuta "dello stato di malessere delle famiglie, dei lavoratori, delle difficoltà delle imprese e degli artigiani e dei commercianti. E’ un Paese che ha bisogno di ricominciare a muoversi, non di precipitare nello scontro del passato".
E a una domanda su se ormai abbia perso fiducia nel Cavaliere, il leader del Pd ha risposto che "non è un problema di fiducia personale ma di serietà, io non direi mai agli italiani una cosa che non faccio". Per Veltroni "questa volta non si potrà dire" che a far saltare il dialogo "è stato l’atteggiamento ideologico e pregiudiziale dell’opposizione. E’ stata la volontà di scontro da parte di una maggioranza che poteva governare in un clima civile ma che ha scelto di fare diversamente".
Poco più tardi, è arrivata la replica di Bonaiuti: "Ma Veltroni crede di essere Penelope? - ha dichiarato - Dice di aver tessuto la tela del dialogo e invece è lui che l’ha strappata non appena è cresciuta l’opposizione di sinistra".
* la Repubblica, 17 giugno 2008
L’uguaglianza calpestata
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 22 maggio 2008)
Il caso ha voluto che l’annuncio del "pacchetto sicurezza" coincidesse con la discussione al Parlamento europeo sugli immigrati in Italia, alla quale la maggioranza ha reagito condannandola come una manovra contro il Governo. Brutto segno, perché rivela che non v’è consapevolezza della gravità di quel che è accaduto a Ponticelli, con un assalto razzista che la dice lunga sulle responsabilità dei molti "imprenditori della paura" all’opera in Italia.
Invece di riflettere su un caso che ha turbato l’Europa, ci si rifugia nella creazione di un nemico "esterno" dopo aver individuato il nemico "interno" nell’immigrato clandestino, nell’etnia rom. Ma l’iniziativa europea non è pretestuosa, perché i trattati sono stati modificati per prevedere un obbligo dell’Unione di controllare se gli Stati membri rispettano i diritti fondamentali.
Una prima valutazione del "pacchetto" mette in evidenza, accanto all’opportunità di alcune singole misure (come quelle relative all’accattonaggio e ai matrimoni di convenienza), una scelta marcata verso la creazione di un vero e proprio "diritto penal-amministrativo della disuguaglianza". Vengono affidati a sindaci e prefetti poteri che incidono sulla libertà personale e sul diritto di soggiorno delle persone, con una forte caduta delle garanzie che pone problemi di costituzionalità e di rispetto delle direttive comunitarie. Il diritto della disuguaglianza può manifestarsi anche attraverso le norme che prevedono la confisca degli immobili affittati a stranieri irregolari e disciplinano il trasferimento di denaro all’estero. Infatti, può determinarsi una spinta verso un ulteriore degrado urbano, visto che gli irregolari saranno obbligati a cercare insediamenti di fortuna. E la stretta sulle rimesse degli irregolari potrebbe far nascere forme odiose di sfruttamento da parte di intermediari.
Lo spirito del pacchetto si coglie con nettezza considerando il reato di immigrazione clandestina. A nulla sono servite le perplessità all’interno della maggioranza, i moniti del mondo cattolico (da ascoltare solo quando invitano ad opporsi alle unioni di fatto e al testamento biologico?), le osservazioni degli studiosi. Si fa diventare reato una semplice condizione personale, l’essere straniero, in contrasto con quanto la Costituzione stabilisce in materia di eguaglianza. Si prevedono aggravanti per i reati commessi da stranieri, incrinando la parità di trattamento con riferimento alla responsabilità personale.
È inquietante la totale disattenzione per quel che ha già stabilito la Corte costituzionale, in particolare con la sentenza n. 22 del 2007 che ha messo in guardia il legislatore dal prendere provvedimenti che prescindano «da una accertata o presunta pericolosità dei soggetti responsabili», introducendo sanzioni penali «tali da rendere problematica la verifica di compatibilità con i principi di eguaglianza e proporzionalità». Questa logica va oltre il reato di immigrazione clandestina, impregna l’intero pacchetto, ignorando che «lo strumento penale, e in particolare la pena detentiva, non sono, in uno Stato democratico, utilizzabili ad libitum dal legislatore».
Dopo aver annunciato una sorta di secessione dall’Unione europea, accusata di faziosità, il Governo prende congedo dalla legalità costituzionale? Il Governo dovrebbe sapere che i suoi provvedimenti possono essere cancellati da una dichiarazione di incostituzionalità. Rimarrebbe, allora, solo l’"effetto annuncio" per gli elettori del centrodestra.
Così, neppure l’efficienza è assicurata. Un solo esempio. Tutti sanno che sono state presentate 728.917 domande di permesso di soggiorno (411.776 vengono da colf e badanti). I posti disponibili sono 170.000. Una volta esaurite le pratiche burocratiche, dunque, rimarranno fuori 558.917 persone. Che cosa si vuole farne? Che senso ha, di fronte a questa situazione, parlare di reato e abbandonarsi a proclamazioni «mai più sanatorie»?
Ora i governanti parlano di una attenzione particolare per le badanti, ma la soluzione non sta nella ridicola procedura della legge Bossi-Fini, che subordina l’ingresso in Italia alla preventiva chiamata di un datore di lavoro. Chi farebbe arrivare una badante, alla quale affidare funzioni di cura, senza averla vista in faccia? Ed è inaccettabile la furbesca soluzione di far tornare: gli immigrati per una settimana nel loro paese, farli poi chiamare dal loro attuale datore di lavoro e così farli rientrare regolarmente. Ma che razza di paese è quello che dà una lezione di aggiramento delle leggi proprio agli immigrati dai quali si pretende il rispetto della legalità?
Si dice: in altri paesi l’immigrazione clandestina è reato. Ma non si può usare la comparazione prescindendo dal contesto costituzionale, dalle modalità che regolano l’accesso, dal sistema giudiziario. Quali effetti avrebbe sul nostro sistema giudiziario e sulle carceri l’introduzione di quel reato? Sarebbe insensato caricare le corti di diecine di migliaia di nuovi processi, condannando a morte un processo penale già in crisi profonda e rendendo più complesse le stesse espulsioni. Le carceri, già strapiene, scoppierebbero, o salterebbero tutte le garanzie facendo diventare i Cpt veri centri di detenzione. E tutto questo per colpire persone considerate pericolose "a prescindere", quasi tutte colpevoli solo di fuggire per il mondo alla ricerca di una sopravvivenza dignitosa. E la promessa di accoglienza per le badanti "buone", lascia intravedere ritardi burocratici e possibili arbitri. Si corre il rischio di avere norme, insieme, pericolose e inefficienti.
Queste contraddizioni nascono dal trascurare le diverse forme di sicurezza che proprio l’immigrazione ha prodotto. Per le persone e le famiglie, anzitutto. Come ricorda Luca Einaudi nel libro su Le politiche dell’immigrazione in Italia dall’Unità ad oggi, le schiere delle badanti hanno consentito di passare da un welfare sociale ad un welfare privato, diffondendo l’assistenza alle persone al di là delle classi privilegiate. Vi è stata sicurezza anche per il sistema delle imprese, provviste di manodopera altrimenti introvabile. E sicurezza per il paese, visto che è stato proprio il contributo al Pil degli immigrati ad evitare rischi di recessione tra il 2003 e il 2005, a contribuire al pagamento delle pensioni di tutti.
Detto questo, il tema dell’insicurezza non può essere affrontato ricordando solo che le statistiche sull’andamento dei reati dimostrano, almeno in alcuni settori, una loro diminuzione. Il senso di insicurezza non nasce solo dal diffondersi di fenomeni criminali, ma da una richiesta di protezione contro un mondo percepito come ostile, contro presenze inattese in territori da sempre frequentati da una comunità coesa, dunque contro mutamenti culturali. Che cosa fare?
Quando un sindaco coglie pulsioni profonde tra gli abitanti del suo comune, non può andare in televisione dicendo «non chiedo la pena di morte, ma capisco chi la invoca». Deve piuttosto evocare l’ombra di un Gran Lombardo e ricordare che Beccaria contribuì all’incivilimento del mondo con le sue posizioni contro la pena di morte. Quando un sindaco vede a disagio i suoi concittadini nella piazza del paese, non fa togliere le panchine per evitare che gli immigrati vadano lì a sedersi. Quando le situazioni s’infiammano, non si propone un "commissario per i Rom", confermando così l’ostilità contro un’etnia intera. Qui sta la differenza tra svolgere una funzione pubblica e il farsi imprenditori della paura.
Nel discorso di presentazione del Governo, il Presidente del Consiglio ha sottolineato che «la sicurezza della vita quotidiana deve essere pienamente ristabilita con norme di diritto che siano in grado di affermare la sovranità della legge in tutto il territorio dello Stato». Ben detto. Si aspetta, allora, una strategia di riconquista delle regioni perdute, passate sotto il controllo di camorra, ‘ndrangheta, mafia. Non è un parlar d’altro. Proprio la terribile vicenda napoletana ha messo in evidenza il protagonismo della camorra, unico potere presente, imprenditore della paura che esercita la violenza per accrescere la propria legittimazione sociale.
La discussione parlamentare deve ripulire il "pacchetto", concentrarsi sulla migliore utilizzazione delle norme esistenti, sul rafforzamento delle capacità investigative, sull’adeguamento delle risorse. Mano durissima contro le vere illegalità, contro chi sfrutta il lavoro nero e contro il caporalato, contro le centrali del commercio abusivo, dell’accattonaggio, della prostituzione. Non ruolo da sceriffo, ma capacità di mediazione da parte dei sindaci, incentivando le "buone pratiche" già in atto in molti comuni.
Mi sarei aspettato qualche proposta complessiva del "governo ombra", non l’eterno agire di rimessa, segno di subalternità. E i sondaggi siano adoperati ricordando la lunga riflessione sui plebisciti come strumenti di manipolazione dell’opinione pubblica. Esempio classico: la richiesta ai cittadini di pronunciarsi sulla pena di morte all’indomani di una strage. La democrazia è freddezza, riflessione, filtro. Se perde questa capacità, perde se stessa.
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA: "LIMPIDA COLLABORAZIONE"
Berlusconi: ecco la mia squadra
Domani il giuramento, il Cavaliere presenta la lista: Alfano alla Giustizia. Bondi alla Cultura, Bossi alle Riforme Il Pd: deludente, solo quattro donne
ROMA. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha ricevuto Silvio Berlusconi e gli ha conferito l’incarico di formare il nuovo governo. Berlusconi ha accettato l’incarico e ha presentato la lista dei ministri. Lo ha annunciato il segretario generale della Presidenza della Repubblica Donato Marra al termine dell’incontro al Quirinale tra il Capo dello Stato e il leader del Pdl e presidente del Consiglio incaricato. Marra ha anche anticipato che il giuramento si terrà domani alle 17. Subito dopo Marra, Berlusconi ha letto la lista dei ministri e ha confermato l’orario del giuramento: «Saremo di nuovo qui alle 17», ha detto il leader del Pdl che adesso si recherà dal presidente del Senato e dal presidente della Camera per comunicare l’avvenuto incarico.
Questo il nuovo governo annunciato dal presidente del Consiglio
Sottosegretario alla presidenza Gianni Letta, Affari Esteri Franco Frattini, Interno Roberto Maroni, Giustizia Angelino Alfano, Difesa Ignazo La Russa, Economia e Finanze Giulio Tremointi, Sviluppo economico Claudio Scajola, Politiche agricole Lucio Zaia, Ambiente Stefania Prestigiacomo, Infrastrutture e Trasporti Altero Matteoli, Lavoro Maurizio Sacconi, Beni culturali Sandro Bondi, Istruzione Maria Stella Gelmini.
Questi i ministri senza portafoglio:
Renato Brunetta ministro per la Funzione pubblica, Andrea Ronchi ministro per le Politiche comunitarie, Roberto Calderoli alla Semplificazione legislativa, Umberto Bossi ministro per le Riforme, Elio Vito ministro dei Rapporti con il Parlamento, Raffaele Fitto agli Affari Regionali, Mara Carfagna ministro alle Pari Opportunità, Giorgia Meloni alle Politiche Giovanili, Gianfranco Rorondi ministro per le Politiche sociali.
Franceschini: tutto costruito su equilibri di partito
Il Berlusconi quater è una «totale delusione». Lo afferma Dario Franceschini, vice segretario del Pd, in una nota. «Quello annunciato oggi da Berlusconi è un governo costruito tutto su equilibri di partito, senza personalità esterne e della società civile. E con solo quattro donne non su dodici ministri, come aveva detto il leader Pdl, ma su ventuno», osserva.
* La Stampa, 7/5/2008 (19:11)
Un predecessore giudica il discorso di Fini.
Ingrao: "Bene chiedere pacificazione ma la Resistenza non si cancella"
Cofferati: mi ha fatto piacere il riferimento a 25 aprile e 1° maggio
di Alberto Custodero (la Repubblica, 01.05.08)
ROMA - «Bene ha fatto Fini a chiedere la pacificazione. Ma il suo partito è stato dalla parte degli oppressori». Il richiamo del neo presidente della Camera, Gianfranco Fini, leader di An, ai «valori condivisi del 25 aprile», ha suscitato l’apprezzamento di un suo illustre predecessore, Pietro Ingrao, padre nobile della sinistra storica italiana. Ingrao, tuttavia, ha voluto ricordare a Fini - che non ha mai citato il nazifascismo, riferendosi genericamente a tutti i totalitarismi - che «cosa è stata la Resistenza, la guerra di Liberazione».
Con il leader di An che da anni tenta di scrollarsi di dosso la scomoda e pesante eredità del fascismo (arrivando a dire in Israele che «fu parte del male assoluto»), Ingrao, partigiano durante l’Occupazione, ha aperto ieri, forse per la prima volta, un dialogo sulla Resistenza. «Anch’io - ha dichiarato Ingrao - vorrei la pacificazione. Ma per averla, dobbiamo ricordare quale tragedia umana ha attraversato il secolo scorso. Ricordare dunque. Ma anche insegnare a scuola. I miei nipoti devono sapere cosa fu quel tempo, le atrocità e le speranze degli italiani che si batterono per la libertà. Indicherei un libro da leggere: le lettere dei condannati a morte della Resistenza. Giovani che i nazisti decisero di uccidere. Prima di morire scrissero i loro ultimi pensieri. E ognuno di essi si concludeva con una speranza: "verrà un giorno...". È infatti venuto il giorno della libertà. E verrà quello della pacificazione».
Commenti positivi, con opportuni distinguo, al discorso di Fini sono arrivati anche dal presidente dell’Anpi Tino Casali. «Le parole di Fini sono scontate - ha detto il presidente dei partigiani - non mi hanno sorpreso. I valori dell’antifascismo e della Resistenza che ancora oggi qualcuno vuole mettere in sordina, come democrazia, libertà e giustizia, vanno ricordati non solo durante i discorsi ufficiali. Ma tutti i giorni. Se ieri, all’indomani delle elezioni, un tassista che ha votato Forza Italia mi ha detto che bisogna tornare a gridare il motto fascista "boia chi molla", significa che la democrazia va ancora difesa ogni giorno, per dare un contributo essenziale al progresso civile e sociale di cui il Paese in questo momento ha un gran bisogno».
Soddisfatto per il riferimento di Fini al Primo Maggio (festa dei lavoratori che fu soppressa durante il ventennio), l’ex leader storico della Cgil, oggi sindaco di Bologna, Sergio Cofferati. «Sono contento - ha detto - che abbia pronunciato queste parole. Mi fa piacere che ci sia un riconoscimento così esplicito dei valori che ho sempre sentito miei e che so di milioni di persone». Per l’ex presidente del Senato, Franco Marini, ex segretario della Cisl, «il discorso di Fini è stato ampio, dai toni assolutamente rassicuranti. Quindi voluto. Come ex sindacalista, mi ha fatto particolarmente piacere». Più critico un altro ex leader della Cisl, Pierre Carniti che, dopo aver giudicato il discorso di Fini nel suo complesso «equilibrato», ha sottolineato il silenzio sul Fascismo. «Visto che Fini ha espresso implicitamente un giudizio negativo sui "totalitarismi" - ha chiosato Carniti - forse era il caso di dire che gli italiani nel Ventesimo secolo hanno sperimentato il fascismo. E quindi dobbiamo essere grati a tutti quelli che hanno combattuto per la Liberazione».
SI APRE LA XVI LEGISLATURA
Schifani eletto presidente del Senato
Ottenuto il quorum con 178 voti:
«Sarò il garante di tutti, ora riforme
condivise». Alla Camera fumata nera
ROMA Al Senato è fatta, alla Camera fumata nera. Come nelle attese, all’apertura della XVI legislatura solo una Camera del Parlamento italiano ha il suo presidente. È Renato Schifani, eletto al primo turno alla seconda carica dello Stato.
Il discorso d’insediamento Il capogruppo uscente dei senatori di Forza Italia è stato eletto alla prima votazione diciottesimo presidente di Palazzo Madama e succede a Franco Marini che fu eletto giusto due anni fa, il 29 aprile 2006. Schifani, com’era prevedibile, ha avuto la certezza dell’elezione quando i voti per lui erano 162, il quorum richiesto, cioè la maggioranza assoluta dell’intera assemblea: 315 eletti, 7 senatori a vita, per un totale di 322. La seduta è stata presieduta da Giulio Andreotti, presidente anziano. Nel suo discorso d’insediamento Schifani ha auspicato una «stagione di riforme condivise» e invitato le forze politiche «a farsi interpreti delle istanze che vengono dal Paese, comprese le minoranze che non sono più presenti in Parlamento».
Applausi anche dal Pd Nel breve discorso all’assemblea, il presidente Schifani ha rivolto un saluto «deferente al Capo dello Stato, supremo garante della Costituzione» e «un saluto particolare ai senatori a vita, e un ringraziamento al presidente Marini». «Mi impegno ad adempiere il mio compito con il massimo scrupolo di garante delle regole, dei diritti dell’opposizione, della maggioranza e delle esigenze del governo. Essere il garante sarà missione principale da me più volte sentita in questa funzione», ha proseguito Schifani. Il neo presidente del Senato ha successivamente sottolineato l’impegno «alla lotta senza pausa a tutte le mafie». Lungo applauso bipartisan dell’assemblea quando Schifani ha evocato le figura di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. Schifani ha ricordato inoltre l’allarme dei cittadini per i crimini commessi «dai clandestini» e la necessità di coniugare «rigore e severità» con la tradizione di «tolleranza e accoglienza verso l’immigrazione sana e regolare».
Fini verso Montecitorio Per quanto riguarda Montecitorio, tutte le previsioni indicano che Gianfranco Fini sarà eletto presidente domani. Per il primo scrutinio, infatti, è richiesto il quorum dei due terzi dei componenti dell’Assemblea e per il secondo e il terzo serviranno i due terzi dei voti contando tra questi anche le schede bianche. L’opposizione ha votato scheda bianca. Quindi, dal momento che il presidente sarà un rappresentante della maggioranza senza la convergenza dell’opposizione, per avere un esito positivo bisognerà aspettare il quarto scrutinio che prevede la maggioranza assoluta dei voti.
* La Stampa, 29/4/2008 (10:43)
Il capo dello Stato da Bolzano annuncia la nascita dell’esecutivo tra pochi giorni
Intanto il premier sistema gli ultimi tasselli della squadra. Vertice con Bossi
Napolitano: "Governo a breve"
Berlusconi, ultimi ritocchi al puzzle
Formigoni fa un passo indietro e accetta di restare alla guida del Pirellone
Da decidere il Welfare che era di Alemanno, forse Scajola alla Giustizia *
ROMA - Giorgio Napolitano, da Bolzano, lo ha detto con chiarezza: "Il nuovo governo nascerà da qui a pochi giorni. A breve farò le consultazioni. Come voi sapete, il numero dei gruppi parlamentari si è ristretto e questo alleggerisce la mia agenda". Incontri che potrebbero svolgersi tra lunedì e martedì, una volta insediati i gruppi ed eletti i rispettivi presidenti, per arrivare poi al conferimento dell’incarico, alla nomina dei ministri e al giuramento.
E così, nel frattempo, Silvio Berlusconi - che ribadisce un esecutivo con pochi ministri - si prepara al rush finale, nella definizione della squadra di governo. Nelle prossime 24-48 ore, con le prime sedute di Senato e Camera, arriverà l’elezione dei presidenti, che, salvo sorprese dell’ultima ora, saranno, rispettivamente, Renato Schifani e Gianfranco Fini. Messi a posto questi primi due tasselli, tutto il lavoro si concentrerà sui ministri.
Tra le caselle ancora da sistemare, quella della Giustizia. Come Guardasigilli, salgono le quotazioni dell’azzurro Claudio Scajola al posto di Elio Vito, che potrebbe approdare ai Rapporti con il Parlamento. Con Alemanno al Campidoglio, si libera poi la casella del Welfare, destinata a lui in caso di sconfitta. Ma Alleanza Nazionale, pur nell’euforia dei festeggiamenti, trova il modo di mettere in chiaro con gli alleati che gli accordi già presi da Fini con Berlusconi non sono in discussione: il patto prevedeva tre ministeri con portafoglio ed uno senza. Per ora restano confermati Ignazio La Russa alla Difesa e Altero Matteoli alle Infrastrutture.
Si tratta però, impresa non facile, di combinare i desiderata di An con le aspirazioni degli azzurri, che ora puntano ad occupare la casella liberata da Alemanno. Con la Lega il pacchetto è già chiuso: Maroni all’Interno, Zaia all’Agricoltura, Bossi e Calderoli rispettivamente ai ministeri senza portafoglio del Federalismo e delle Riforme. Quanto a Forza Italia, le caselle sicure restano quelle degli Esteri, con Frattini, e dell’Economia, con Tremonti.
Di tutto si discuterà comunque in due diversi vertici che si tengono nella residenza romana di Berlusconi a Palazzo Grazioli: il primo del Pdl, il secondo allargato alla Lega e con Umberto Bossi.
Intanto, nel puzzle dei nomi e degli incarichi, c’è da registrare il passo indietro di Roberto Formigoni. Che accetta di restare alla guida del Pirellone non solo fino al 2010 ma anche dopo. Il governatore della Lombardia dovrebbe infatti candidarsi con il centrodestra anche alle prossime elezioni regionali. La decisione, che dovrebbe impedire alla Lega di piazzare un suo uomo nella regione dove è nata e dove alle ultime elezioni ha fatto il pieno di voti, è stata presa ieri al termine di un nuovo faccia faccia con Berlusconi. Formigoni dunque dovrà dimettersi da senatore per la seconda volta in due anni: in cambio, avrà mano libera al rimpasto alla Regione.
* la Repubblica, 28 aprile 2008.
CAMERA: AL VIA XVI LEGISLATURA, PRIMO GIORNO DEI DEPUTATI
Martedi’ 29 aprile, primo giorno di ’scuola’ per i 630 deputati della XVI legislatura. Dopodomani, con la riunione delle Camere, si aprira’ ufficialmente la nuova legislatura e i neoeletti entreranno immediatamente nel vivo del loro impegno istituzionale. Ma il primo impatto per i nuovi parlamentari c’e’ gia’ tra oggi e domani, giorni che servono per registrarsi e prendere confidenza con il palazzo di Montecitorio in modo da avere tutte le informazioni necessarie per poter essere in grado di svolgere il loro mandato appieno. E soprattutto per saper votare. Perche’ sin dal primo giorno i deputati saranno chiamati ad esercitare il loro ruolo fino in fondo dal momento che tra le prime incombenze c’e’ quella fondamentale dell’elezione del presidente della Camera. Ma prima di questo passaggio, ci sono alcuni adempimenti obbligatori: si dovra’ costituire l’ufficio di presidenza provvisorio e poi la giunta provvisoria per la verifica dei poteri che in pratica dovra’ verificare i requisiti degli eletti che subentrano a chi opta per altre circoscrizioni. Costituita la giunta provvisoria, la seduta dell’aula sara’ sospesa temporaneamente per questi accertamenti che pero’ dovrebbero svolgersi velocemente perche’ gli uffici tecnici avranno gia’ lavorato per questo. Poi, per i deputati ci sara’ la prova politicamente piu’ rilevante, quella della scelta del presidente della Camera.
La Repubblica ferita
di Domenico Gallo *
Il terremoto politico del 14 aprile non è frutto del fato cinico e baro, né si può attribuire al progetto della sinistra arcobaleno, per quanto giusto o sbagliato che fosse, una responsabilità per un risultato che non discende dai comportamenti dei gruppi dirigenti dei partiti della sinistra, ma deriva dalla logica del sistema politico come ridisegnato dal sistema elettorale.
Nel corso degli ultimi quindici anni, il modello di democrazia, prefigurato dalla Carta costituzionale, è stato oggetto di attacchi ripetuti ed insidiosi. I tentativi più aggressivi e diretti di demolizione dei caratteri originali e progressisti della democrazia italiana, a cominciare dalla bicamerale presieduta dall’on. Massimo D’Alema, per finire alla riforma Calderoli del 2005, che cancellava completamente l’ordinamento democratico e lo sostituiva con un ordinamento semidittatoriale, sono sostanzialmente falliti, a fronte di una straordinaria capacità di resistenza della democrazia in Italia, suggellata dal referendum costituzionale del 25/26 giugno 2006.
E tuttavia se le aggressioni dirette alla democrazia repubblicana nel nostro paese, attraverso la modifica formale della Costituzione, sono, per cause varie, fallite, l’attacco più insidioso alla democrazia è venuto attraverso il sistema elettorale. Le leggi elettorali, anche se non sono di rango costituzionale, concorrono a determinare la “costituzione materiale”, delineando la fisionomia del sistema politico, sia per quanto riguarda l’esercizio concreto della rappresentanza, sia per quanto riguarda la forma di governo.
Con l’introduzione del maggioritario e la logica del bipolarismo forzato il principio democratico è stato azzoppato attraverso una compressione innaturale della rappresentanza. Con la legge Calderoli (il c.d. porcellum) è stato portato a compimento il processo di involuzione oligarchica dell’ordinamento politico attraverso il sistema elettorale, avviato con il maggioritario, espropriando gli elettori della benché minima possibilità di concorrere a determinare la composizione della rappresentanza politica in Parlamento ed esasperando ancor di più il bipolarismo attraverso il premio di maggioranza.
Con l’ultima campagna elettorale si è verificato un ulteriore passo verso la compressione della rappresentanza e la riduzione del pluralismo politico attraverso l’interpretazione che i capi delle principali forze politiche (Berlusconi e Veltroni) hanno dato della legge Calderoli, smantellando le coalizioni ed articolando la sfida elettorale per il premio di maggioranza sostanzialmente su due listoni contrapposti, sulla falsariga della legge Acerbo, utilizzata dal Mussolini nel 1924 per demolire il pluralismo parlamentare.
In questa scelta ci sono le radici del disastro elettorale. Quando Veltroni ha smantellato la coalizione delle forze democratiche che si opponevano al Berlusconismo, ha deciso coscientemente di consegnare l’Italia nelle mani della destra più antidemocratica che ci sia in Europa e nello stesso tempo di demolire il pluralismo politico che è il principale antidoto che le democrazie hanno inventato per resistere al pericolo della dittatura della maggioranza. Non si è trattato di un divorzio consensuale. Il divorzio consensuale è ammissibile solo in un contesto di libertà, ma non quando le leggi elettorali pongono delle costrizioni insuperabili alle forze politiche attraverso la tenaglia del premio di maggioranza e delle soglie di sbarramento.
In realtà si è trattato di un ripudio. Ma non è stata ripudiata solo l’alleanza con alcune forze politiche democratiche. E’ stata ripudiata una versione della democrazia, pluralista, partecipata, rappresentativa, che la Costituzione garantiva al popolo italiano, in favore di un sistema di governo fondato su un bipartitismo forzato, asfittico e miserabile.
E’ questo il colpo più grave che abbia mai ricevuto la Costituzione italiana da quando è iniziato il calvario delle riforme. Le istituzioni repubblicane ne escono profondamente ferite. Oggi c’è un’emergenza democratica, ancora più grave di quella che ha attraversato il nostro paese nel quinquennio 2001-2006, che, non a caso, si aprì nel segno del manganello con il G8 a Genova e si concluse con le carte di Pio Pompa, che dimostravano l’attitudine ad utilizzare i servizi segreti come una sorte di polizia politica di regime, dedita alla sorveglianza e alla “disarticolazione” degli oppositori.
Adesso ritornano quella stessa cultura, quegli stessi personaggi e quelle stesse pratiche politiche, ma la capacità di resistenza delle istituzioni democratiche alle degenerazioni della politica, oggi risulta notevolmente più indebolita.
In questa situazione tutti ci chiediamo da dove ripartire. Ebbene, il problema è la democrazia, dalla democrazia non si può prescindere. Ripristinare il pluralismo, per ripristinare la partecipazione e la rappresentanza politica, restituendo alle forze politiche la libertà del confronto, del conflitto, della mediazione e rendere di nuovo i cittadini italiani partecipi ed attori della vita della comunità politica, invece che tifosi passivi di schieramenti imposti per legge.
Domenico Gallo
Articolo tratto da:
FORUM (94) Koinonia
http://www.koinonia-online.it
Ansa» 2008-04-26 20:53
’ITALIANI INCIVILI’, MEDICO CHIEDE DANNI ALLO STATO
CAPACCIO-PAESTUM (SALERNO) - La Svezia: è questa la terra promessa sognata da Vincenzo Barlotti, il medico salernitano che ha chiesto allo Stato italiano, alla Regione Campania e al comune di Capaccio un indennizzo di 2 milioni di euro per "l’alta sofferenza, il disordine e il degrado in cui sono costretto a vivere", come si legge nell’esposto presentato alla Procura della Repubblica di Salerno. Nato a Capaccio 49 anni fa, sposato con due figli, in servizio nel pronto soccorso dell’ ospedale "San Luca" di Vallo della Lucania, nel Cilento, il sogno del dottore Barlotti é quello di impiegare il risarcimento milionario per rifarsi una vita quanto più lontano possibile "dal caos e dall’ inciviltà di questa nostra povera Italia". La Svezia, dunque, famosa nel mondo per i suoi servizi e la civiltà della sua gente, magari un po’ freddina, "ma molto più civile della nostra italica stirpe". "La Svezia sarebbe l’optimum - esordisce Vincenzo Barlotti - L’Italia vive il momento più difficile della sua storia recente. Colpa del degrado morale che coinvolge classe dirigente e cittadini. La fuga da questo Paese è, al momento, l’unica via d’uscita percorribile". Fuga che dovrebbe essere a spese del "nostro ingrato Paese". Due milioni di euro, non un centesimo in meno. "Avrei dovuto chiedere il doppio. Non c’é prezzo per quello che ho patito in tutti questi anni, nonostante il mio lavoro lo abbia svolto sempre con dedizione, passione e onestà." Provocazione, o il dottore è davvero convinto di poterla spuntare? Pare infatti che Barlotti abbia già contattato un legale che seguirà la vicenda giudiziaria. "Ci sto pensando seriamente. Comunque sì, è innanzitutto una provocazione. Certo, sono curioso di sapere come andrà a finire". Del resto, il medico salernitano non è nuovo a gesti eclatanti. Il 2 giugno del 2005, a esempio, decise di correre, in scarpette e pantaloncini, la "retromarcia Capaccio-Paestum", una manciata di chilometri percorsi al contrario, a passo di gambero, per protestare contro il malgoverno e la corruzione. "Mi svegliai all’alba e percorsi il tragitto a marcia indietro. Tra i partecipanti ero il solo, ma tagliai regolarmente il traguardo". Ad assistere alla performance pochi curiosi, che l’anno dopo e nel 2007 sono diventati centinaia di fan affezionati. E poi, sempre nel 2007, una denuncia alla Procura della Repubblica per denunciare quello che lui definisce "lo scandalo dei corsi di aggiornamento". "Denunciai l’assoluta inutilità dei corsi organizzati dall’Asl Salerno 3, frequentati con passione da pochi coraggiosi che regolarmente fanno i conti con un esercito di medici chiassosi e disinteressati, se non quando si tratta di ritirare l’attestato di partecipazione". Si potrebbe, allora, avanzare il sospetto che la fuga dall’Italia abbia il sapore della resa, o peggio ancora, del tradimento, ma lui nega, e torna alla carica. "Non mi aspetto alcun risarcimento. Continuerò a lottare nella mia terra fino alla fine. Continuerò a puntare il dito contro la corruzione dilagante e a lagnarmi verso chi insozza le nostre strade gettando immondizia o una semplice carta di caramella. Ma se lo Stato, per assurdo, mi desse ragione, allora sarei davvero tentato a lasciare tutto e ricostruire altrove una vita diversa, per il bene mio e soprattutto dei miei figli". L’iniziativa del chirurgo di Capaccio Scalo ha avuto il consenso del presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici (Fnomceo), Amedeo Bianco: "Un atto provocatorio che riflette, però, un malessere diffuso nella classe medica".
Il ritrovamento della cimice è l’ultimo di una serie di episodi
in una Regione che lo Stato sembra aver dimenticato
La democrazia presa in ostaggio
nel palazzo dei veleni e dei misteri
di GIUSEPPE D’AVANZO *
Non accade tutti i giorni che si spii un pubblico ministero nel suo ufficio. Che si seguano da vicino le sue mosse investigative. Che si anticipino le sue iniziative. Che magari le si vanifichi con accorte fughe di notizie utili a mettere sul chi vive i potenziali indagati, fino a quel momento molto loquaci nelle conversazioni telefoniche intercettate.
Non accade tutti i giorni che - più o meno, esplicitamente - si sospetti che lo "spione" sia un magistrato della stessa procura della Repubblica, legato - evidentemente - agli interessi storti che quell’ufficio dovrebbe scovare e punire e non alla Costituzione. Eppure, nonostante la singolarità della circostanza, si fa fatica a stupirsene. Prima o poi doveva accadere che venissero in superficie i velenosi miasmi che attossicano la Calabria e Reggio. Non sorprende che siano affiorati proprio nel luogo - il palazzo di giustizia - che dovrebbe sovrintendere alla legalità di un angolo d’Italia dove gli interessi della ’ndrangheta sono intrecciati ai poteri più visibili e formalizzati della politica, dell’economia, delle istituzioni. Fino ad assumere quasi funzioni di ordine pubblico.
Perché la ’ndrangheta - oggi più di Cosa Nostra, più della Camorra - garantisce ogni tipo di transazioni; preleva tributi; offre occasioni impensate di profitto e di reddito, che altrimenti in quei territori dimenticati dall’agenda dei governi non ci sarebbero. E’ un protagonismo che le consente di governare come intermediario decisivo i flussi di risorse e spese pubbliche, addirittura di condizionare la democrazia rappresentativa con il controllo delle assemblee elettive.
Della pervasività del potere mafioso delle ’ndrine - al contrario di Cosa Nostra e Camorra - non si parla mai. Come si ignorano, nel discorso pubblico nazionale, le arretratezze e le opacità delle istituzioni calabresi. Nel buio di una regione dimenticata, l’autorità, l’influenza, la forza della ’ndrangheta hanno potuto così crescere inosservate e senza fastidi facendo, di quell’organizzazione, il cartello criminale di gran lunga più pericoloso, più internazionale, più invasivo del nostro Paese, orientato a un lavoro transnazionale, soprattutto nel traffico di droga dove - sostiene la direzione nazionale antimafia - ha assunto "quasi una posizione monopolistica resa possibile dagli stretti collegamenti con i paesi produttori e con il controllo delle principali rotte di transito degli stupefacenti".
Oggi la ’ndrangheta è una multinazionale del crimine capace di essere, al tempo stesso, "locale" ("vero e proprio presidio territoriale, idoneo ad assicurare il controllo del territorio, nella sua accezione più ampia, comprensiva dunque di economia, società civile, organi amministrativi territoriali") e "globale", rete criminale connessa al mondo attraverso il narcotraffico e il traffico internazionale di armi. Sostiene la direzione antimafia: "Risulta ormai dimostrata l’elevata capacità della ’ndrangheta di rapportarsi con le principali organizzazioni criminali straniere, in particolare con i cartelli colombiani ed anche con almeno una struttura paramilitare colombiana che risulta coinvolta in attività di produzione e fornitura di cocaina. Sono consolidati e stabili i rapporti con i gruppi - sud-americani e mediorientali - fornitori di stupefacenti tanto da far divenire la ’ndrangheta, nello specifico settore, un punto di riferimento anche per altre organizzazioni criminali endogene".
Per sciogliere un nodo così serrato, come fu chiaro dopo l’assassinio in un seggio elettorale di Francesco Fortugno o la strage di Duisburg, sarebbe stata necessaria una battaglia nutrita di un alimento etico-politico; un adeguato sostegno dello spirito pubblico; il coinvolgimento di individui e gruppi, élite e popolo su obiettivi comprensibili e condivisi capaci di rendere concreta la convenienza della legalità e assai fallimentare la scelta della illegalità. Una "politica" che riuscisse a ridimensionare un potere militare, economico e politico che non accetta di essere messo in discussione nemmeno negli aspetti più marginali. Come testimonia il clima di intimidazione continuo che ogni istituzione o rappresentante delle istituzioni deve subire. Minacce. Attentanti con bombe. Fucilate alle porte di casa. Incendi di auto e di abitazioni. Ne sono stati vittima, nel corso del tempo, i sindaci di Reggio Calabria, San Giovanni, Seminara, Sinopoli, Melito Porto Salvo, Casignana, il vice sindaco di Palmi. Uno scenario che, come forse si ricorderà, convinse lo sconsolato presidente della Confindustria calabrese, Filippo Callipo, ad appellarsi al capo dello Stato per invocare la presenza nella regione dell’esercito.
La verità è che non è mai riuscita a diventare una priorità né dei pubblici poteri né dell’opinione pubblica la distruzione di un’organizzazione criminale capace di controllare un terzo del traffico di cocaina del mondo con profitti per decine di miliardi di euro né un’urgenza il riscatto di una regione dove operano 112 cosche, c’è un’intensità criminale del 27 per cento (pari a una persona su quattro), con un epicentro nel Reggino di 4/5 mila affiliati su una popolazione di 576mila abitanti. L’affare è precipitato, come sempre accade in casa nostra, sulle spalle della magistratura. Affar suo, soltanto suo. Gioco facile, per le ’ndrine, inquinare anche quelle acque nell’indifferenza dei governi e della consorteria togata.
Pochi mesi fa, della magistratura calabrese, fece un quadro esauriente e drammatico un giudice civile, Emilio Sirianni. Raccontò che cosa può accadere nelle aule di giustizia di quella regione. Nel novembre del 2006, a Vibo Valentia, fu arrestato il presidente di sezione del Tribunale civile insieme a pericolosi mafiosi locali. Sia prima che dopo l’arresto, c’è stato il silenzio intimidito o complice dei magistrati di quel Tribunale. La Procura di Locri è stata lasciata a lungo nelle mani di un giovanissimo magistrato e, solo quando andò via, si accertò l’esistenza di 4.200 procedimenti con termini scaduti da anni, su un totale di 5000 e di circa 9000 procedimenti "fantasma" (risultavano nel registro, erano inesistenti in ufficio).
Capita, in Calabria, di vedere entrare un avvocato in camera di consiglio e trattenersi a colloquio con i giudici durante la deliberazione. In Calabria può accadere che un giudice decida che un notaio, imputato di "falso ideologico", non sia considerato un pubblico ufficiale. Reato derubricato in "falso in scrittura privata", tempi di prescrizione ancora più brevi. Notaio prosciolto. Il pubblico ministero non propone l’appello. La disorganizzazione dell’ufficio lascia scadere i termini.
O il caso di quel bancarottiere? Dichiara di aver utilizzato i soldi distratti all’impresa per curare il fratello malato di cancro. Il giudice riconosce lo "stato di necessità" e, senza chiedergli prova della malattia del fratello e del suo stato di indigenza, lo proscioglie. Sulla parola. "Conformismo, tendenza al quieto vivere, fuga dai processi scottanti, pigrizia" sono per Sirianni i codici di lavoro della magistratura in Calabria, "una magistratura che - per indifferenza, paura, connivenza, conformismo, furbizia - gira la testa dall’altra parte, strizza l’occhio ad alcuni imputati, non vigila e non fa domande sulle anomalie dell’ufficio".
Stupirsi allora per una microspia? Meravigliarsi delle fughe di notizie pilotate che "salvano" gli indagati e soffocano le inchieste? Sbalordire se le trattative per un allentamento delle severe regole del carcere per i mafiosi siano protette con una "soffiata"?
* la Repubblica, 27 aprile 2008.