Il simbolo della pace compie 50 anni
Nato nel 1958 in Gran Bretagna, è composto da una linea verticale e da due linee inclinate verso il basso, inscritte in un cerchio. A ispirare il logo un quadro di Goya e le segnalazioni a vista dei marinai. E la cosa curiosa è che il marchio non è mai stato registrato. Il ministro della Solidarietà sociale, Ferrero: ’’Non è di nessuno e quindi è di tutti’’
Roma, 17 feb. (Adnkronos) - Mezzo secolo e ancora contemporaneo. Compie cinquant’anni il simbolo della pace, composto da una linea verticale e due linee inclinate verso il basso, inscritte in un cerchio. Diventato negli anni uno dei loghi più conosciuti, associato all’America degli anni ‘60 e alla cultura hippie, nasce in realtà in Gran Bretagna nel 1958 come simbolo della Cnd (Campaign for nuclear Disarmement), organizzazione pacifista che aveva tra i suoi promotori il filosofo Bertrand Russell (1872-1970). Il primo utilizzo pubblico del simbolo risale infatti alla marcia di Aldermaston, località sede di una base militare e di una fabbrica di armi nucleari, in Inghilterra, come descritto in un articolo sulla manifestazione dal ‘Manchester Guardian’.
A inventare il simbolo, che è riuscito a imporsi sul suo più diretto concorrente, la colomba della pace di Picasso, è stato Gerald Holtom. Obiettore di coscienza durante la Seconda guerra mondiale, decisione non scontata per quei tempi, Holtom, al termine del conflitto si avvicinò al Cnd diventandone presto attivista. Ai membri dell’organizzazione propose uno strano logo disegnato, qualche tempo prima, in nome della pace.
L’idea nacque dopo aver studiato l’opera di Goya sui popolani madrileni fucilati dalle truppe di Napoleone. In particolare, la sua attenzione cadde su due personaggi: uno morto con le braccia abbassate e un altro vivo con le braccia alzate. Stilizzando tali posizioni e ispirandosi alla gestualità che i marinai utilizzano per comunicare a distanza tramite le bandierine (la lettera ‘N’ di ‘nuclear’, indicata dalla linea verticale, la lettera ‘D’ di ‘disarmament’, corrispondente alle linee inclinate, e il cerchio che rappresenta la parola ‘globale’), realizzò il simbolo della pace che i pacifisti inglesi riprodussero durante le marce da Londra ad Aldermaston.
Proprio nel 1958 vennero realizzati i primi distintivi in ceramica con il simbolo della pace. Oggetti che furono distribuiti con un foglietto ‘di istruzioni’ nel quale si spiegava che in caso di disastro atomico quello sarebbe stato uno dei pochi manufatti umani a restare integro.
Alle marce tra Londra e Aldermaston parteciparono molte persone tra cui un collaboratore di Martin Luther King, Bayard Rustin, che, affascinato dall’idea, ’esportò’ il simbolo negli Stati Uniti dove venne adottato dagli attivisti per i diritti civili. Nella metà degli anni ‘60, comparve nelle dimostrazioni contro la guerra del Vietnam, dipinto sulle bandiere americane, sui vestiti dei contestatori e persino sugli elmetti dei militari impegnati al fronte, oltre che su milioni di spille, magliette, affiancato allo slogan “Fate l’amore non fate la guerra”, mobili e tessuti di arredamento, portaceneri, asciugamani.
Nello stesso periodo, ‘sponsorizzate’ dalle chiese fondamentaliste americane, nacquero leggende circa supposte origini sataniche del simbolo, visto che con molta fantasia lo si può interpretare come una croce spezzata. Ma il successo popolare continua da mezzo secolo, sui muri di Sarajevo e di Timor Est, nelle manifestazioni, sui diari o gli zainetti dei ragazzi. E la cosa curiosa è che nessuno, né Holtom né la Cnd, ha mai registrato il marchio.
Secondo il ministro per la Solidarietà sociale, Paolo Ferrero, nonostante il mezzo secolo di vita, quello della pace “non è affatto un simbolo sorpassato e, anzi, è entrato a pieno titolo nella modernità”. Ferrero spiega all’ADNKRONOS che ’’nella società di oggi i ’valori’ e i simboli hanno più valore di un tempo. La società ha bisogno di identificazioni simboliche’’.
’’Sia come simbolo pacifista che come simbolo antimilitarista” - afferma Ferrero - il simbolo della pace “fa parte del vissuto contemporaneo e non è affatto stato ‘soppiantato’ dalla bandiera con i colori dell’iride. La bandiera - spiega - ha una caratterizzazione più nettamente pacifista o, se si vuole buonista. Mentre il simbolo della pace ha anche una carica antimilitarista, è simbolo dell’obiezione di coscienza. Non solo quindi ricerca della pace, ma rifiuto delle armi, dell’impegno personale contro l’uso delle violenza e per il riconoscimento dei diritti”.
E conclude: ’’E’ un simbolo che ho incontrato dappertutto: in Europa come in America. E’ un simbolo universale, riconosciuto in tutto il mondo. E questo - sottolinea - è forse dovuto proprio al fatto che non è stato mai registrato. Non è di nessuno quindi è di tutti’’.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ELEZIONI. PARTITI E "LOGO": "FORZA ITALIA" HA FATTO "SCUOLA AL CENTRO".
L’ITALIA - IL PAESE DELL’IDENTITA’ RUBATA E DELLA DIGNITA’ PERDUTA
Spopola logo pacifista con Tour Eiffel
Non è di Banksy ma l’ha condivisa sui social ed ora è virale
(ANSA) - ROMA, 14 NOV - Un simbolo della pace disegnato in nero con all’interno una Tour Eiffel stilizzata. Non è di Banksy, come si credeva all’inizio, ma dopo pochi minuti che l’artista l’ha condivisa sui social è diventata virale ed è destinata a diventare il simbolo dell’atrocità e dell’orrore di Parigi e al contempo della voglia di ripartire e del bisogno di pace. L’immagine è stata in realtà creata dal disegnatore francese Jean Jullien, che l’ha pubblicata sul suo sito internet.
Come sono nati e cosa significano quei simboli raffigurati in tutto il mondo su bandiere e manifesti
Un libro ne ricostruisce la storia dall’antica Grecia al movimento hippie, fino a oggi
Dal ramo d’ulivo alla colomba così la non violenza lascia il segno
Nell’Enciclopedia visuale anche l’arcobaleno e i fiori nei cannoni e le loro evoluzioni
di Enrico Franceschini (la Repubblica, 29.01.2013)
LONDRA Si può dirlo con le parole: "La pace sia con te", "Pace e bene", "Fate la pace non fate la guerra". Ma si può dirlo anche con le immagini: il ramoscello d’ulivo, la colomba, l’arcobaleno, il fucile con i fiori nella canna. E poi il segno che tutti conoscono per averlo visto sulle bandiere, sui muri, sui manifesti, il cerchio con dentro una riga verticale incrociata da due mezze diagonali. Ha tanti simboli, la pace, l’obiettivo che l’uomo da un lato rincorre dalla notte dei tempi, dall’altro fa di tutto per calpestare.
Ma da dove vengono, come sono nati, cosa significano esattamente? Mentre si combatte in Mali e si rischia una nuova grande guerra in Medio oriente a causa del programma nucleare iraniano, mentre conflitti piccoli e grandi sconvolgono la quiete sociale delle nostre esistenze, un libro prova a rispondere a queste domande.
In "Signs for peace: an impossible visual encyclopedia" (Segni di pace: un’enciclopedia visuale impossibile), il disegnatore grafico Ruedi Baur e sua moglie, la sociologa Vera Bauer Kockot, ripercorrono la storia degli emblemi del pacifismo, e di come si sono evoluti a seconda delle situazioni.
Tutto comincia con la mitologia greca, con la lotta tra Poseidone e Atena, lui con il tridente apre una fonte d’acqua salata sul terreno, lei risponde piantando un ulivo, l’albero rappresenta pace e prosperità. La dea ha la meglio grazie all’astensione di Zeus, dà il suo nome ad Atene, la città più grande della Grecia, e da quel momento il suo ulivo diventa il simulacro universale della pace.
Beninteso, il merito non è solo di Atena: se la faccenda fosse finita lì, vedendo un ramoscello d’ulivo avremmo pensato solo alle olive e all’olio che se ne ricava in tutto il Mediterraneo. Ma fu adottato come simbolo di pace anche dall’Impero romano, Virgilio vi fa riferimento in tal senso nell’Eneide, mentre Eirene, la dea romana della pace, veniva spesso disegnata con un ramoscello in mano. La tradizione è rimasta fino al 1600, quando poeti e artisti lo usavano come motivo di pace, quindi è finito ad adornare varie monete, poi è apparso in innumerevoli contesti ufficiali, dal Gran Sigillo degli Stati Uniti nel 1782 alla bandiera delle Nazioni Unite nel 1946. Oggi chiunque sa cosa vuol dire passare di mano in mano un ramo d’ulivo.
E proprio il ramo d’ulivo ha introdotto un altro simbolo di pace: nel racconto biblico, la colomba che lascia l’Arca di Noè e poi torna per annunciare la fine del diluvio e l’inizio di una nuova era ne ha appunto uno in bocca. Il volatile ha dovuto attendere più a lungo per diventare sinonimo di pace: lo utilizzavano a questo scopo i primi movimenti pacifisti del 19esimo secolo.
Ma la sua più famosa incarnazione è la colomba disegnata da Pablo Picasso tra il 1940 e gli anni Cinquanta, in una serie di poster per il Congresso mondiale della Pace. Di simboli ce ne sono tanti altri nelle pagine dell’"Enciclopedia Visuale", dall’arcobaleno (in seguito diventato l’immagine del movimento gay) al "mettete dei fiori nei vostri cannoni", ossia nelle canne dei fucili, inno degli hippie realizzato nella rivoluzione dei garofani in Portogallo nel 1975, fino a segni più religiosi, come gli angeli.
Ma il più noto oggi, anche più di ulivo e colomba, è probabilmente il "segno di Holtom", disegnato nel 1958 da un attivista disoccupato del movimento contro le armi nucleari, obiettore di coscienza e disegnatore, per conto della Campagna per il Disarmo nucleare, un’associazione pacifista inglese. Avevano dato l’incarico a lui, pensava di disegnare una croce ma ci furono obiezioni, non gli veniva un’altra idea, «ero disperato, assolutamente disperato», ricordava, «così disegnai me stesso, il rappresentante di un individuo preso da totale disperazione, con le braccia allargate come i condannati nella scena della fucilazione di Goya, formalizzai il disegno e lo misi dentro un cerchio».
Ecco fatto. Si poteva leggere come una dichiarazione politica, perché quella linea verticale e le due diagonali erano i simboli delle lettere N e D nell’alfabeto semaforico, dunque significavano Nuclear Disarmament, Disarmo Nucleare. Altri hanno interpretato il simbolo come "la morte dell’uomo" e il cerchio come "il bambino mai nato".
Come che sia, il suo autore non mise alcun copyright al disegno, che ebbe un impatto memorabile, prima per la causa dell’anti-nucleare, poi per la pace in generale. Attraversò subito l’Atlantico, finì alle manifestazioni di Martin Luther King per i diritti civili dei neri americani, quindi alle proteste contro la guerra in Vietnam e da lì in avanti non si fermò più, apparve sulle strade di Praga invasa dai carri armati sovietici nel 1968, sul muro di Berlino, sulle tombe delle vittime delle dittature, dai colonnelli greci alla giunta argentina a Timor Est. Oggi è dappertutto.
Un grafico usò l’alfabeto marinaro per regalare un marchio
agli attivisti inglesi che si battevano contro il nucleare
Il "No alla guerra" compie 50 anni
così nacque il simbolo della pace
dal nostro inviato VITTORIO ZUCCONI *
WASHINGTON - L’omino disperato che abbassa le braccia, ma che non si arrende di fronte all’idiozia della guerra, il simbolo inerme che terrorizza gli armati, falchi, guerrieri, prepotenti, commissari e generali compie cinquant’anni e se disperato sempre rimane, ancora non si è stancato di non combattere.
Era nato, molto opportunamente, un venerdì santo come questo, nel giorno che commemora il massimo sacrificio di un portatore inascoltato di pace, ma non era nato negli Stati Uniti che lo avrebbero poi imposto al mondo scarabocchiato, cucito o appuntato alle divise della protesta per l’ennesima inutile strage, quella volta in Indocina. Era nato a Londra, a Trafalgar Square, nella marcia delle cinquanta miglia organizzata nel 1958 dai pacifisti inglesi per protestare invano contro il riarmo nucleare britannico.
Come figlio di una potenza dei mari, fu quasi naturale che quel simbolo avesse ricavato la ispirazione grafica proprio dalle segnalazioni marine che le navi si scambiavano sventolando bandierine, prima che fossero introdotti i semafori per i messaggi in morse luminoso, le radio e i collegamenti satellitari. La "V" rovesciata che sta alla base dell’emblema è in realtà la lettera "N", nella segnaletica marina, la iniziale di "Nuclear" e la linea eretta verticale sta per la "D", di disarmo. Dunque la figura completa vuol dire semplicemente "Nuclear Disarmament".
Fu creato da un grafico, racconta la Bbc che ha ricostruito la storia di questo "marchio" divenuto talmente universale da apparire orfano, come se fosse stata la creatura spontanea di un tempo e di una ribellione. Si chiamava Gerard Holton, ed era stato obbiettore di coscienza durante la Seconda Guerra Mondiale, finita appena 13 anni prima. Convinse lui gli organizzatori della marcia delle 50 miglia che la loro manifestazione esigeva un logo, un marchio, qualcosa che si appiccicasse agli occhi e alla memoria. Pensò a una variazione sul tema della croce cristiana, ma gli parve già molto sfruttata e non necessariamente associata alla pace, nei secoli bui. E alla fine ripiegò sulla combinazione dei due segnali navali, per dire "No alla Bomba" e sì al disarmo nucleare.
Neppure lui avrebbe potuto sperare che quel simbolo, subito accusato da alcune femministe di essere pericolosamente fallico, si sarebbe attaccato alla fantasia del mondo diventando immediatamente leggibile e riconoscibile dal Tibet all’Arabia Saudita, dove ancora compariva sugli elmetti dei soldati americani pronti a invadere Iraq e Kuwait nel 1991.
L’omino disperato invase l’America, dalle strade della San Francisco hippy della "estate dell’amore" ai motoscafi dei soldati lungo il Mekong in Vietam. Occupò le marcie di Woodstock, si fuse con il Sessantotto, divenendone uno dei luoghi principali. Terrorizzò il governo del Sudafrica negli anni dell’Apartheid razziale, che tentò di dichiararlo ufficialmente fuorilegge con prevedibile insuccesso, perché nella sua assoluta semplicità grafica basta un pennarello, una bombola, una matita grossa per essere riprodotto all’infinito. Fu accusato, dai soliti fanatici del cristianismo bellicista americano di essere un simbolo satanico, un richiamo all’Anticristo, con quel sospetto di croce a testa in giù, venerato dai seguaci di Belzebù.
Lo ripresero gli attivisti neri dei diritti civili, per indicare subito, con Martin Luther King, la loro filosofia di rivolta non violenta e di rifiuto di armi e sangue, rifiuto che non fu accolto da chi sparò loro addosso. Costrinse generali e ufficiali superiori a inseguire i soldati che lo esibivano, vedendovi un segno di scarsa bellicosità, di dissenso, di ammutinamento pacifico: in Vietnam era passibile di punizioni fino alla corte marziale, quando ancora era esibito da pochi renitenti, prima che divenisse troppo diffuso per essere represso senza mandare davanti alla corte intere divisioni di Marines e fanti. Si arrese infine, dopo la guerra, il governo americano stesso che lo immortalò in un’emissione di francobolli negli anni ’60, secondo il saggio principio del "se non puoi sconfiggerli, unisciti a loro".
Finì su un pacchetto di sigarette molto fumate dai soldati americani, le Lucky Strike e nessuno osa calcolare quante volte e dove sia stato riprodotto in questi 50 anni, tra T-shirt e bandiere. E’ stato un po’ insidiato dai colori dell’iride, quell’Arcobaleno pacifista che, soprattutto dopo l’invasione dell’Iraq, ha cominciato a sventolare anche nelle strade di Londra dove l’omino depresso era nato, ma l’Arcobaleno si presta a equivoci, rappresenta coalizioni variopinte, inter razziali negli Stati Uniti, dove fu creato per la "Rainbow Coalition" del reverendo Jackson, e interpartitiche nei listoni elettorali italiani.
Su quella figura che segnala disarmo, invece, non ci possono essere dubbi. Si può dissentire, addirittura fare causa a chi la espone in giardino, come è accaduto a una coppia di Denver, giudicarla ormai leziosa, demodé, inutile, ora che l’incubo del reciproco annientamento nucleare, così intenso nel 1958, ha lasciato - temporaneamente - la poltrona ad altri incubi elettoralmente più profittevoli. Ma come l’indice e il medio aperti a "v" di Churchill, anche questa curiosa ipsilon rovesciata che né il creatore inglese, né il suo corrispondente americano Ken Kolsburn vollero mai depositare e brevettare, rinunciando così a miliardi di royalties, vivrà ogni volta che l’umanità con un pretesto politico, religioso, economico, razziale, troverà un altro modo per massacrarsi. Cioè per sempre, il che spiega l’aria un po’ moscia e depressa del l’omino cinquantenne, ma ancora in piedi.
* la Repubblica, 21 marzo 2008