Italia ’44-’45. Campi di concentramento di Fossoli e Bolzano....

La fuga è finita. Il boia di Bolzano, Michel Seifert - dopo Reder, Kappler e Priebke - consegnato all’Italia. Destinazione il carcere militare di Santa Maria Capua Vetere - a cura di pfls

Parla Mike Buongiorno, anch’egli rinchiuso nel lager: "Ora vorrei guardarlo negli occhi...".
sabato 16 febbraio 2008.
 

Michel Seifert, ucraino, ha oggi 84. Vive in Canada.
-  La condanna definitiva risale al 2002.
-  I rinvii per i ricorsi in nome della cittadinanza canadese

-  Estradato in Italia il boia di Bolzano
-  Nel lager era il "Micha" del terrore

-  Dopo Reder, Kappler e Priebke il boia numero quattro consegnato all’Italia
-  Le testimonianze durante il processo presso il tribunale militare di Verona

ROMA - La fuga è finita anche per il boia di Bolzano, l’aguzzino ucraino che seminò il terrore nelle celle dei campi di concentramento di Fossoli e Bolzano tra il ’44 e il ’45. Le autorità giudiziarie canadesi nelle prossime ore consegneranno l’ex criminale di guerra nazista Michel Seifert nelle mani della polizia italiana. Funzionari dell’Interpol di Roma saranno a breve in Canada, gli notificheranno l’atto di estradizione e lo prenderanno in custodia.

Seifert è stato condannato all’ergastolo per le torture e le uccisioni nel campo di detenzione di Bolzano tra il 1944 e il 1945. E’ il quarto criminale nazista a finire nella rete della giustizia italiana dopo Walter Reder, Herbert Kappler e Erich Priebke. Arriverà a Roma al massimo entro domenica e sarà poi trasferito nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere.

Nato 84 anni fa a Landau, in Ucraina, abitava in Canada, a Vancouver, dal 1951. Ed è stata proprio l’Alta Corte canadese, lo scorso 17 gennaio, a respingere l’ultimo appello presentato dal boia di Bolzano, concedendo l’estradizione.

Fino al mese scorso Seifert era riuscito ad evitare l’estradizione proprio facendo appello alla sua cittadinanza canadese ma l’Alta Corte non ha accolto le sue tesi e ha deciso che dovesse essere consegnato alla giustizia italiana. Fin dalle prime fasi del processo che si è svolto a Verona, molti testimoni hanno riconosciuto nella foto di Seifer quel Micha che, assieme a Otto (Otto Stein, per la giustizia italiana ’irrintracciabile), terrorizzava il campo.

Il processo contro Seifert si era concluso nel novembre 2000 quando Giovanni Pagliarulo, presidente del Tribunale militare di Verona pronunciò la condanna all’ergastolo. In una settimana furono sentiti una ventina di testimoni, tutti sopravvissuti dei campi di Fossoli e Bolzano. Un viaggio nel dolore, con racconti e di sofferenze e umiliazioni inenerrabili. Tutti i testimoni hanno raccontato che furono proprio i due ucraini, Otto e Misha, che sembravano anche più giovani dei loro ventanni, i responsabili delle violenze più sadiche ed efferate. La coppia di torturatori si accaniva soprattutto contro i detenuti delle cosiddette "celle", la prigione interna di Bolzano, contro i quali i due si accanivano "sempre in coppia, spesso all’improvviso e senza alcun motivo".

Berto Perotti, uno dei venti testimoni, ha riferito anche di 14 assassini commessi sempre nella prigione del campo "dei quali fummo testimoni uno per uno. L’ultimo, un povero ragazzo partigiano, accusato di aver rubato del pane. I due compari [gli ucraini Otto Sein e Misha Seifert ndr] lo uccisero il giorno di Pasqua, sbattendolo a turno con la testa contro i muri della cella. Nessuno del blocco celle dimenticherà mai quel giorno: urlo per urlo, colpo per colpo. Altri vennero strozzati. In quelle occasioni, i due circolavano per i corridoi con i guanti di pelle nera. Erano diventati un simbolo, e quando li vedevamo in quel modo, un brivido correva per le celle. Non si sapeva a chi toccava il turno".

Fin dalle prime sedute del processo numerosi testimoni hanno riconosciuto con sicurezza nella foto di Michael Seifert il "Misha" che terrorizzava il campo. Ai due ucraini e alla loro ferocia è dedicata anche una celebre poesia dell’intellettuale veneto Egidio Meneghetti (rettore dell’Università di Padova nel dopoguerra) che fu deportato a Bolzano.

Misha, rintracciato in Canada (dove è stato anche fotografato da un reporter del Vancouver Sun) doveva rispondere di efferati crimini, riassunti in 15 capi di accusa , da detenuti torturati col fuoco a donne violentate con colli di borriglia rotti. L’Anpi ha raccolto e descritto le torture di cui sono accusati Misha e Otto, una lista di orrori che strazia alla sola lettura. "La sera di un giorno imprecisato del febbraio 1945 - si legge nel capo di imputazione - nelle celle d’isolamento del lager, in concorso con il Cologna, con il Sein e con un italiano rimasto ignoto, portava un prigioniero non identificato nel gabinetto e lo torturava lungamente anche con il fuoco per indurlo a rivelare notizie, cagionandone la morte che sopravveniva la mattina del giorno successivo". Oppure: "In un giorno imprecisato ma comunque compreso fra l’8 gennaio e la fine di aprile 1945, nelle celle d’isolamento del lager, in concorso con il Sein uccideva una giovane prigioniera ebrea non identificata infierendo sul suo corpo con colli di bottiglie spezzati".

Tutte le testimonianze dei superstiti sono raccolte nel volume "Anche a volerlo raccontare è impossibile" a cura di Giorgio Mezzalira e Cinzia Villani, un volume edito dall’Anpi di Bolzano.

Del campo di Bolzano non rimangono che pochi tratti del muro di cinta, recentemente posti sotto tutela dalla Provincia autonoma. Poche foto del dopoguerra e alcuni disegni danno però un’idea della struttura del Lager, nel quale vennero richiusi, tra l’estate del ’44 e la fine di aprile del ’45, circa 9.500 deportati.

* la Repubblica, 15 febbraio 2008.


Dopo l’estradizione dell’ex ss Seifert ecco il racconto del presentatore anche lui rinchiuso nel lager. "Ora vorrei guardarlo negli occhi..."

-  Boia Bolzano, parla Mike Bongiorno
-  "Ricordo ancora le urla e le botte"

di PIERO COLAPRICO *

MILANO - "Me lo ricordo grande, robusto, biondo. Misha, lo chiamavano. Una mattina mi ha chiuso in una specie di gabbia per polli all’interno del campo di concentramento di Bolzano. Sì, mi piacerebbe rivederlo in faccia, anche se è passato tanto tempo". Anche Mike Bongiorno, il presentatore che è stato matricola 2264 del carcere di San Vittore, è passato dal Polizeiliches Durchgangslager e ha incontrato Michael Seifert, "il boia di Bolzano: "Ero stato arrestato dai nazisti il 20 aprile del ’44, mentre stavo preparandomi ad attraversare il confine svizzero", ricorda il presentatore. "Il passaporto americano, che avevo buttato un po’ incoscientemente dalla finestra mentre l’alberghetto veniva circondato, era stato trovato da uno della Gestapo. E così mi portarono a San Vittore, dove - continua passando al tempo presente, come se quel ricordo bruciasse ancora - mi faccio sessantaquattro giorni di isolamento completo, poi mi mettono in cella con un altro detenuto e alla fine mi danno anche qualche permesso per svolgere i lavoretti all’interno del carcere. Quando passo dall’infermeria, c’è Montanelli, che mi dà un bigliettino per sua moglie. Se ci penso, al rischio che ho corso. Me lo sono messo in bocca e l’ho consegnato".

All’improvviso, Mike viene caricato su un pullman ed esce da San Vittore. Ha una paura blu: "Quando ad agosto chiamarono i detenuti che poi uccisero in piazzale Loreto, ci allinearono al sesto raggio e fecero l’appello. Il 26 settembre rifanno l’appello e sento il mio nome... Aiuto... Invece non ci sparano, viaggiamo su un bus, che ogni tanto si ferma, quando ci arrivano sopra la testa gli aerei alleati, ma in una giornata arriviamo a Gries, al campo di smistamento dei tedeschi. Quello che chiamavano Misha viene personalmente a prendermi. Un pazzoide. Uno che girava tutto il giorno urlando in tedesco, prendeva tutti a staffilate con un frustino. Mi porta in una costruzione con alcune celle e mi appioppa un calcione nel sedere: "Americano bastardo", dice, mi butta in una cella, isolato da tutti e tutto, poi arriva una minestraccia e il pane nero. Avevo vent’anni".

L’orrore è tutto intorno. Mike, però, ha il passaporto americano. E questa circostanza lo aiuta: "Un giorno arriva Misha, mi prende per un braccio e mi porta all’aperto, mi mette in una gabbia, non lo so perché mi mette lì. Ci sono gli altri prigionieri nel campo, alcuni sono stati a San Vittore, mi vedono e si ricordano: "Miki", perché mi chiamavano così, "Miki l’americanino". Vengono in due, Hauss, un capitano, americano, presidente della Max Meyer Italia, e Lou Biagioni, italoamericano, paracadutato, figlio di toscani, beccato non mi ricordo più se a Varese o a Como. "Se vai in America, ricordati di consegnare a mio figlio questo orologio", mi dice il primo. Il secondo invece non mi dà nulla, ma dice di andare a trovare i parenti nel Bronx e riferire al Comando americano un messaggio che non ho mai capito, di dire che avevo visto Corvo 3".

Nella gabbia Mike ci resta poco, viene uno della Gestapo, lo prende in consegna e lo porta al campo austriaco di Innsbruck e poi a Spital, "il campo di punizione per i civili vicino al famoso Stalag 17, dei prigionieri americani. Mi ricordo che è ottobre, ha nevicato, c’è un metro di neve e io ho addosso solo il camicione con cui sono uscito da San Vittore, con una bandiera blu cucita addosso. Anche se siamo trattati malissimo e ho freddo, abbiamo una brandina singola e una coperta. Ci portano anche a fare la doccia, e mi ricordo di due polacchi che non volevano mai farla. Ero stupito; ma insomma dopo un po’ mi dissero che c’erano posti dove mettevano i prigionieri nelle docce e invece dell’acqua arrivava il gas. Io non ci credevo, non lo sapevo, e invece era tutto vero e loro lo sapevano già, ha capito che storia?", dice Mike Bongiorno.

Il complice che stava con "il boia di Bolzano", Otto Sein, non è mai stato identificato: "Giravano sempre insieme", conferma il presentatore. "Chissà che fine ha fatto... Io ho perdonato, ma sono vivo, avevo compiuto i miei vent’anni in carcere, le ferite si sono rimarginate. Quando parlo con dei miei amici ebrei, persone che hanno perso familiari e hanno subito atrocità inenarrabili, vedo odio, nei loro occhi. E capisco che possono avere ragione".

* la Repubblica, 16 febbraio 2008


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