E’ MORTO LO STORICO PIETRO SCOPPOLA *
ROMA - Pietro Scoppola, scomparso oggi a Roma prima di compiere gli 81 anni, era professore ordinario di Storia contemporanea nella Facoltà di scienze politiche dell’Università di Roma La Sapienza, dopo aver insegnato Storia del Risorgimento, Storia dei partiti e Storia dei rapporti tra Stato e Chiesa, diventando ordinario nel 1967 come docente di Storia della Chiesa.
Ma accanto al suo lavoro scientifico, lo studioso, nato a Roma il 14 dicembre del 1926, ha sempre svolto un ruolo impegnato civilmente nella società, non solo, per esempio, come direttore della rivista Il Mulino negli anni ’70, ma anche arrivando a essere eletto senatore nella IX legislatura (1983-1987, quando ha fatto parte della Commissione Bozzi per le riforme istituzionali), come indipendente nelle liste della Dc e aver fatto parte della commissione di 12 saggi che hanno redatto il Manifesto del Partito Democratico.
Cattolico, ma libero nel pensiero e nelle elaborazioni dalle indicazioni della Chiesa (sino dalla campagna per il divorzio), ha fatto parte dell’Unione dei Progressisti 18 Ottobre e si è poi avvicinato alla Margherita. Membro della Commissione nazionale dell’Unesco e della Giunta centrale per gli studi storici. La sua ricerca si concentra così, in una prima fase, sul rapporto fra coscienza religiosa e coscienza civile, fra Chiesa e Stato nei secoli XIX e XX; sulla base di questa premessa affronta poi il tema della democrazia in Italia, delle sue origini, dei suoi sviluppi e della sua crisi, per approdare alla dibattuta questione della identità nazionale e della formazione e degli sviluppi del senso di cittadinanza. Scoppola, prima di avere una cattedra universitaria, aveva lavorato come funzionario parlamentare presso il Senato.
Fra i suoi maestri, alla facoltà di Giurisprudenza di Roma, c’era stato anche Arturo Carlo Jemolo, la cui lezione contribuisce a orientarlo verso gli studi di storia politico-religiosa. Ancora a Palazzo Madama, approfondisce gli studi interessandosi, in particolare, alla storia del movimento cattolico e della Democrazia cristiana. Fra le sue opere si ricordano ’Chiesa e Stato nella storia d’Italià (Laterza, 1967); ’La Chiesa e il fascismo’ (Laterza, 1971); ’La Repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia in Italia’ (1945-1990) (il Mulino, 1997); ’La costituzione contesa’ (Einaudi 1998); ’25 aprile. La Liberazione’ (Einaudi 1995). Per la Storia d’Italia Einaudi ’Annali 17 - Il parlamento’ (2001) ha composto il saggio ’Parlamento e governo da De Gasperi a Moro’ e la recentissima ’La coscienza e il potere’ (Laterza 2007).
"Nessun evento storico rilevante è un fatto in sé - spiegava sempre ai suoi studenti - neanche gli eventi singoli come la scoperta dell’America o, più recentemente, la caduta del Muro di Berlino: la loro rilevanza è frutto di una interpretazione successiva. Qual è il vero significato di un’affermazione del genere? Forse che la conoscenza storica dovrebbe essere condannata all’arbitrarietà e all’infondatezza? Uno dei maggiori filosofi del nostro tempo, Hans Georg Gadamer, ha, non solo smentito, ma ha addirittura rovesciato questa affermazione, insegnandoci che la non completa oggettività delle scienze storiche deve essere considerata non come un limite, bensì come una ricchezza del sapere umano. La conoscenza storica è la relazione di un uomo del presente con uomini del passato, è un rapporto fra uomini".
Morto lo storico Scoppola, Prodi: «Un padre della Costituzione»
È morto lo storico Pietro Scoppola, senatore indipendente eletto nelle liste della Dc dal 1983 al 1987. La notizia è stata data nell’Aula del Senato dal senatore Giorgio Tonini che lo ha brevemente ricordato. Scoppola era professore ordinario di storia contemporanea della Sapienza di Roma. Studioso di De Gasperi e del sistema politico italiano con particolare attenzione al ruolo dei Partiti. Un ricordo e un commiato è stato espresso anche dal presidente del Consiglio, Romano Prodi durante la conferenza stampa di presentazione delle iniziative del governo per il 60’ anniversario della Costituzione. «È un ricordo molto triste - ha affermato il premier - Scoppola non è stato solo un grande storico dell’Italia moderna e contemporanea ma aveva fatto della Costituzione il suo punto di riferimento fondamentale, ai valori costituzionali si era sempre ispirato. Dedicherei a lui questo nostro incontro che vuole ricordare con forza questa Carta che costituisce il fondamento della nostra Repubblica».
* l’Unità, Pubblicato il: 25.10.07, Modificato il: 25.10.07 alle ore 11.39
NAPOLITANO, ACUTO DOLORE PER GRAVE PERDITA SCOPPOLA
Roma, 25 ott. (Adnkronos) - Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha inviato alla famiglia Scoppola il seguente messaggio: "Profondamente colpito e commosso dalla notizia della prematura scomparsa del professor Pietro Scoppola, desidero rendere omaggio alla sua statura e finezza di studioso dedicatosi particolarmente con opere di grande rilievo alla storia dell’Italia repubblicana. E rendere omaggio ugualmente alla linearita’ ideale e dirittura morale che lo caratterizzarono e che si espressero in alti contributi al dibattito pubblico e alla vita politica e istituzionale italiana".
"Pietro Scoppola fu illuminato interprete del pensiero e del movimento cattolico, assertore e promotore di dialogo nello spirito della Costituzione. Le occasioni di incontro che anche di recente ho avuto con lui e le testimonianze di amicizia che ne ho ricevuto rendono per me personalmente piu’ acuto il dolore di una cosi’ grave perdita. Partecipo con sentimenti di affettuosa solidarieta’ al lutto della famiglia e del mondo universitario e culturale", conclude il capo dello Stato.
Sul tema, in rete, si cfr.:
Caro Prof. Scoppola ... Chiesa e Costituzione non confondiamo!!!
Caro Prof. Scoppola... L’ordine simbolico di "Mammasantissima" e la Costituzione!!!
SALVIAMO LA COSTITUZIONE. LA REPUBBLICA ... E LA "CATTOLICA" MONARCHIA EDIPICA!!!
LA CHIESA DI COSTANTINO, L’AMORE ("CHARITAS") E LA NASCITA DELLA DEMOCRAZIA DEI MODERNI.
Cattolici e politica.
Capire il «secolarismo», dare alternativa al nulla
di Raffaele Vacca (Avvenire, sabato 28 luglio 2018)
Nel marzo del 1994, parlando al clero di Pordenone, Giuseppe Dossetti disse che tutta la sua azione «così detta politica» era stata un’opera di educazione e di formazione, per alimentare e sostenere «la coscienza politica del nostro popolo, che matura non era e non è neanche oggi». Anche Giuseppe Lazzati, a un’azione politica concreta, aveva privilegiato il servizio di aiutare a formare al «pensare politicamente».
Nonostante la proposta e la promozione di scuole di politica negli stessi partiti e soprattutto nell’ambito dell’associazionismo cattolico, la coscienza politica della maggior parte degli italiani non solo non si è fortificata, ma si è indebolita sotto l’urto di una secolarizzazione, tendente a trasformarsi spesso in secolarismo (ovvero in una visione di vita che ritiene Dio superfluo).
Come aveva scritto Paolo VI nella Evangelii nuntiandi, che è del 1975, la secolarizzazione «è lo sforzo in sé giusto e legittimo, per nulla incompatibile con la fede e la religione, di scoprire nella creazione, in ogni cosa ed in ogni evento dell’universo, le leggi che li reggono, con una certa autonomia, nell’intima convinzione che il Creatore ha posto queste leggi».
Ma, come notò Pietro Scoppola dieci anni dopo, in Italia, con il rapidissimo espandersi del sistema industriale-tecnologico-capitalista, si era imposta un differente tipo di secolarizzazione, che aveva cercato di distruggere tutti i valori di cui aveva bisogno per nascere, e di consumare tutti i valori che non era in grado di riprodurre.
Questa secolarizzazione aveva picconato non solo la cultura cattolica (intendo per tale anche il modo di vivere), ma anche le stesse culture laiche. Con potenti mezzi di comunicazione e introducendo la spettacolarizzazione in ogni campo del vivere, aveva sempre di più diffuso l’opinione che si viene dal nulla e si va verso il nulla, per cui non bisogna pensare ad altro che a conseguire il massimo profitto economico possibile, soddisfare bisogni materiali sia naturali sia artefatti, tralasciare il ’pensare politicamente’ e dare deleghe in bianco a durante le elezioni.
Quantunque potentissimo, il sistema è tuttavia in crisi. Quando si ritrovano con se stessi non pochi avvertono un grave disagio nel vivere. Non lo avvertirebbero se avessero una visione cristianamente ispirata, che rivelerebbe a loro come agire. È questa visione di vita (che parecchi segretamente hanno) che bisognerebbe riproporre e lentamente riportare nella cultura italiana, che è anche cultura europea. Avendo consapevolezze di esperienze del passato (ma senza restare isterilmente in esse), ed avendo precisa consapevolezza della situazione esistente, ad alimentare questa cultura potrebbero essere nuove scuole di educazione e di formazione politica, tendenti non solo a educare e formare coloro che intendono candidarsi a svolgere attività politica in sede nazionale o locale, ma anche a educare e formare cittadini che sappiano comprendere, valutare e sostenere la politica, non restando oggetti passivi della sua azione, ma diventando soggetti consapevoli di questa. Ed aiutando altri a esserlo.
Raffaela Vacca è fondatore del Premio Capri-San Michele
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’ITALIA E L’ANNO DELLA VERGOGNA (1994): L’ALLARME DI DON GIUSEPPE DOSSETTI E IL SILENZIO GENERALE SULL’INVESTITURA ATEO-DEVOTA DEL "NUOVO" PRESIDENTE DELLA "REPUBBLICA" ("FORZA ITALIA").
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
Federico La Sala
INDIVIDUO E SOCIETA’ E COSTITUZIONE, IERI COME OGGI. USCIRE DALLO STATO DI MINORITA’, APRIRE GLI OCCHI: C’E’ DIO E "DIO", PATRIA E "PATRIA", E FAMIGLIA E "FAMIGLIA" .....
Gianni Ferrara
Dov’è la dottrina comunista dello Stato
di Tommaso Edoardo Frosini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 16.07.2017)
A metà degli anni Settanta, Norberto Bobbio pubblicò un articolo nel quale poneva la domanda: esiste una dottrina marxista dello Stato? Per poi argomentare una risposta sostanzialmente negativa. Adesso, Gianni Ferrara, insigne costituzionalista e già deputato indipendente del Pci, pubblica un libretto che si fonda sulla seguente affermazione: è esistita una dottrina marxista della costituzione e della democrazia. Con specifico riferimento al caso italiano, e grazie al contributo di tre leader comunisti: Gramsci, Togliatti e Berlinguer.
Certo, non è una tardiva risposta alla domanda di Bobbio; ma non è nemmeno, come si sarebbe indotti a pensare, un déjà-vu: un libretto che rispolvera un passato nel tentativo di declinarlo al presente. Certo, c’è molta nostalgia nelle pagine di Ferrara e c’è anche l’orgoglio di sentirsi ancora parte di un mondo ideologico da tempo tramontato. Nella convinzione, giusta o sbagliata, che la lotta per la democrazia in Italia è stata, e tutta intera, la storia del Partito comunista italiano. Rivendicazione coraggiosa ma debole, che valorizza oltremodo una teoria politica ponendola in maniera egemone rispetto alle altre. Sebbene la storia abbia dato chiaramente indicazioni diverse. Sebbene le società siano cresciute e si siano sviluppate nel solco del liberalismo, quale teoria politica della società aperta.
La dottrina politica di Gramsci ha davvero influenzato la nascita della democrazia in Italia? Direi proprio di no. L’idea dell’egemonia gramsciana, quale combinazione di forza e consenso e di direzione intellettuale e morale, si mostra come contrapposta al concetto di pluralismo e libertà, perché comprime lo sviluppo dell’individuo costringendolo in un perimetro ideologicamente chiuso, da rappresentarsi in forma diretta e solo per il tramite del partito politico, quale moderno principe. Vale la pena quantomeno di ricordare come, qualche anno prima, Tocqueville avesse chiaramente raccontato la democrazia come libero associazionismo.
La dottrina politica di Togliatti ha davvero influenzato la nascita della democrazia in Italia? Pur senza negare il contributo fattivo del leader comunista ai lavori della Costituente e quindi al formarsi della Costituzione in Italia, anche qui esprimerei un giudizio di riserva. Ferrara afferma che Togliatti era un fine giurista, come Marx e come Lenin.
Dichiarazione tutta da dimostrare, se è vero come è vero, per dirla con le parole di Calamandrei, Togliatti avrebbe voluto una Costituzione come «un manifesto di propaganda ed anche un po’ predica». Innegabile il suo impegno per la ricerca del compromesso fra culture politiche, la sua ambizione a essere un “rivoluzionario costituente”, ma soprattutto la sua battaglia nel voler fare della democrazia italiana la via al socialismo, e quindi nella direzione generale di una trasformazione economica socialista. Il “fine” giurista, però, non seppe cogliere l’importanza della Corte costituzionale, che definì una “bizzarria”, e i suoi compagni di partito addirittura “un grave atto di lesa democrazia”, quale invece fondamentale baluardo contro la tirannia della maggioranza e per l’affermazione e tutela dei diritti di libertà. Sul punto, mi sembra che Ferrara sia un po’ sbrigativo.
La dottrina politica di Berlinguer ha davvero influenzato la nascita e lo sviluppo della democrazia in Italia? Qui la valutazione deve essere più ponderata. Per il suo apprezzabile impegno ad affermare il principio dell’assoluta indipendenza e sovranità di ogni Stato socialista e di ogni partito comunista. Che si risolse con un progressivo distacco del partito comunista italiano da quello sovietico. E nella costruzione di una democrazia italiana sempre più dinamica per favorire le condizioni per un graduale passaggio al socialismo, sebbene attraverso un “blocco storico”, ovvero la conquista del potere da parte di un blocco di forze politiche e sociali, di cui il partito è parte. Torna, qui, l’idea di egemonia oppositiva al pluralismo e alla libertà.
Ferrara la chiama, sulla scia di Togliatti, «democrazia progressiva»: concetto un po’ vago, a ben vedere, che si identifica con quello di forma di Stato, cioè l’insieme di apparato gius-politico e di comunità umana, come insieme di due entità collegate. Uniti nella lotta per la via italiana al socialismo, per una teoria politica del marxismo. Una lotta, come esplicitato nelle ultime pagine del libro, da muoversi contro la «cappa composta dai Trattati europei», contro un’Europa che si assume essere fonte di diseguaglianze e compressioni sociali. Senza tenere conto, però, che questa Europa, piaccia oppure no, ci ha finora dato la cosa più importante: la pace fra i popoli. E ci ha garantito la libertà: certo, anche economica. Alla domanda di Bobbio, esiste una dottrina marxista dello Stato?, si può oggi agevolmente rispondere che esiste solo una dottrina liberale dello Stato, che si chiama costituzionalismo.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO ...
La vera società libera è quella che rifiuta la tirannia dei padri
Nel loro saggio Marco Marzano e Nadia Urbinati riflettono sulle trasformazioni della nostra organizzazione di vita proponendo un “patto” tra pari che elimini ogni leaderismo
di Giulio Azzolini (la Repubblica, 02.06.2017)
Chi ha paura della “morte del padre”? Chi teme la crisi di quell’autorità che la tradizione ha visto incarnata nella figura maschile e paterna? Non certo Marco Marzano e Nadia Urbinati, che anzi nel loro saggio La società orizzontale (Feltrinelli) si scagliano apertamente contro quello che chiamano «il modello di Telemaco»: il figlio che, nell’attesa del padre Ulisse, non scatena il conflitto generazionale di Edipo né mira all’autoaffermazione di Narciso. Invece, secondo il sociologo e la teorica della politica, l’attesa del padre tradisce piuttosto l’invocazione del leader, dunque una qualche nostalgia per le vecchie gerarchie.
Alla «logica neo-patriarcale» andrebbe contrapposta, a parer loro, la rivendicazione di una «società orizzontale», ovvero autenticamente democratica. E il saggio, che pone in modo polemico e sempre lucido questioni radicali, àncora tale rivendicazione a una duplice argomentazione, volta a mostrare che una società senza padri è desiderabile e, d’altro canto, che il processo di “orizzontalizzazione” è comunque un destino, malgrado la nostra economia sia stata segnata da quella scandalosa «mutazione antiegualitaria» denunciata proprio da Nadia Urbinati nel 2013 (Laterza).
La società orizzontale, in sintesi, sarebbe non solo augurabile, ma anche possibile, a patto tuttavia di vincere una precisa battaglia culturale: quella che ha per avversario la cosiddetta «controrivoluzione dei padri ». Secondo i due autori, infatti, l’Italia ha bisogno di riaffermare il valore etico della democrazia a partire da tre ambiti cruciali: religioso, famigliare e politico.
Sul piano religioso, Marzano e Urbinati descrivono una sorta di passaggio al protestantesimo, compiuto da una generazione di giovani che ragiona in autonomia e stabilisce un rapporto sempre più diretto e libero con la dimensione del divino. Sul piano famigliare, si nega che il declino della famiglia tradizionale, cioè paternalistica e autoritaria, rappresenti una catastrofe.
Al contrario, la democratizzazione delle famiglie avrebbe portato con sé un clima più pacifico, fatto di dialogo e di rispetto reciproco.
Sul piano politico, infine, viene diagnosticata la crisi dei partiti identitari. La loro restaurazione è una causa persa. Ma la loro natura dev’essere per forza leaderistica o verticale? No. La sfida, secondo gli autori, è quella di costruire partiti orizzontali, con una struttura sempre meno piramidale e più reticolare, capace cioè di federare gruppi sorti nella società civile. E ciò non implica il rigetto della dicotomia destra-sinistra, come pretende l’attuale vulgata movimentista. Marzano e Urbinati sostengono che gli stessi valori democratici possono ancora essere declinati con uno spirito riformista e sociale oppure conservatore e liberista, e dunque che le categorie di destra e sinistra restano utili criteri di orientamento.
Se non è l’assenza di padri, il pericolo che incombe sulla società orizzontale è quindi un altro: la trasformazione dell’individualismo in atomismo, ossia l’aggravarsi di una patologia tipica di quegli individui liberi e uguali che rappresentano il cuore della democrazia moderna. Il rischio dei nostri giorni è che le persone si isolino, risultando sempre più sconosciute, indifferenti o ostili le une alle altre, e che il presente si separi da un passato percepito come oscuro ed estraneo. Ma la salvezza sta nella collaborazione tra pari, non già nel ritorno, magari in nome del padre, del capo.
Scoppola, il cattolico che volle il Pd
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 14 dicembre 2012)
«È la laicità della Chiesa a garantire la sua libertà, non solo la laicità dello stato». Se si volesse racchiudere in un piccolo paradigma sintetico la lezione di Pietro Scoppola, grande storico cattolico scomparso nel 2007, lo si potrebbe fare con le sue stesse parole, citate da Alberto Melloni, tra i protagonisti del Convegno in corso sullo studioso alla Fondazione Sturzo di Roma in Via delle Coppelle. E dedicato a Democrazia e cultura religiosa («Ricordando Pietro Scoppola») Stasera le conclusioni, con interventi di Giuseppe Vacca, Agostino Giovagnoli, Lorenzo Biondi, Giuseppe Tognon, Francesco Bonini e nel pomeriggio Umberto Gentiloni, Carlo Felice Casula ed Emma Fattorini. Mentre ieri, con Melloni, sono intervenuti Andrea Riccardi, Fulvio De Giorgi,Francesco Traniello Niccolò Lipari, Renato Moro, Giuseppe Ignesti, Camillo Brezzi, Iginio Ariemma e Stefano Trinchese.
A parte Vacca e Ariemma, il meglio della storiografia cattolica, ad onorare una figura atipica e controcorrente: cattolico critico e fedele.
Progressista e avverso all’unità politica dei cattolici. Ma anche - e lo ribadiva lui stesso - all’«unità della sinistra», come possibile nocciolo fondante del partito democratico, da lui a lungo voluto e presagito. Un«cattolico a modo suo», come disse Paolo VI nel difenderlo dalla gerarchia ecclesiale, dopo che Scoppola nel 1974 si era schierato per il no al referendum sul divorzio: «Scoppola lasciatelo stare, è un cattolico a modo suo».
E la definizione torna in un libro autobiografico, uno degli ultimi, in cui Scoppola si racconta prima di andarsene. Bene, che cosa è venuto fuori da un confronto così ricco e plurale, di cui è impossibile riassumere ogni voce?
Questo, a noi è parso, e proprio nel segno della citazione iniziale: Scoppola, al suo modo finissimo e tollerante - attento alle distinzioni laiche - oltre che studioso, era una sorta di riformatore religioso, prima che politico. Nel senso che da una riforma del «religioso» e del sentimento religioso, si aspettava una «renovatio» anche politica. Che significa? Nient’altro che questo: la coscienza religiosa, ripensata come sfera della libertà personale e dell’incontro solidale tra persone - nel solco della fede - doveva rinnovare la politica. Fecondare la libertà di tutti, la partecipazione e l’eguaglianza, E generare, per questa via, coesione sociale.
Ma tutto ciò non era un astratto filosofema ideologico. Era il filo conduttore di tutti i campi storiografici e delle battaglie politiche che Scoppola - tra i fondatori «valoriali» del Pd - ha arato in prima persona.
Vediamone alcuni. Il «modernismo» cattolico ad esempio, quello di Ernesto Bonaiuti, pensatore scomunicato e avversato da destra e da sinistra. Occasione mancata quella ripulsa, di una «secolarizzazione salutare». Che avrebbe potuto per Scoppola rilanciare la Chiesa nel 900, invece di vederla fintamente egemone, e di fatto subalterna al fascismo (un giudizio coraggioso, espresso in Chiesa e fascismo del 1961).
E poi dopo il fascismo, ecco De Gasperi. Erede di un popolarismo di centro che guarda a sinistra, quello del primo Don Sturzo. De Gasperi è oggetto privilegiato in Scoppola, per la sua «energia costituente». Per la capacità di tenere unita l’Italia dopo le macerie e nella guerra fredda, malgrado le asprezze. Dunque l’idea di un interclassismo progressista e inclusivo. Che dialoga, si «contamina» e incontra l’altro, senza steccati.
Un De Gasperi corretto da Aldo Moro. Infine il Pd, che Scoppola sognò e volle. Come partito «post-tradizionale», non strutturato ma anti-populista. Con i cattolici a far da lievito. Oggi il Pd c’è. E benché forse non sia in tutto e per tutto come lo sognava, certo Scoppola ne sarebbe contento. E lo animerebbe da cattolico, «a modo suo».
Le domande scomode di Scoppola al Pd
di Beppe Tognon, Presidente della Fondazione trentina Alcide De Gasperi *
LA POLITICA ITALIANA È AD UN BIVIO IMPORTANTE: DOVE SONO I CATTOLICI? SOCCOMBERANNO ANCHE LORO SOTTO IL FALLIMENTO DEI PROGETTI POLITICI avviati vent’anni fa o sapranno svilupparne alcuni su basi nuove? La scelta è importante oggi soprattutto per la sinistra: se riprenderà la guida del governo non può far finta di non vedere che ciò avverrà senza un grande progetto e soprattutto con un Pd in crisi di identità.
Lo spettacolo di una classe dirigente italiana che ha sostanzialmente fallito, non soltanto in Parlamento, sarebbe meno preoccupante se almeno il Pd fosse stato messo in sicurezza sui binari di una prospettiva politica solida, con una vita democratica interna sana e con una selezione attenta del gruppo dirigente. Se così fosse stato, le primarie per la guida del governo avrebbero avuto il senso di un congresso preparato dentro il partito e celebrato tra i cittadini e non come invece saranno di un congresso sulla fine del partito, conferma imponente ma impotente della sua inconsistenza. Se vince Bersani il partito sarà il puntello di un governo di coalizione fragile; se vince Renzi invece questo Pd non potrà esistere più e non è tuttavia chiaro che cosa diventerà.
Nel Pd sale la corrente di chi non vuole vedere la crisi del progetto socialdemocratico e «salta» Monti che in questo momento rappresenta la dura realtà del Paese sognando una discontinuità che per i vincoli internazionali e per la situazione economica non potrà esserci. Fuori dal Pd sale la corrente di chi invece vuole, dietro Monti, mandare in soffitta il bipolarismo ma non spiega come si possa governare il Paese senza grandi partiti. Questa corrente, ancora magmatica, dice che i vecchi partiti sono morti, ma non presenta alternative degne di nota. Spera in sostanza di lucrare dalla disgregazione della destra. Una situazione politicamente interessante, ma molto ambigua, perché Monti, che in realtà è l’emblema di una politica obbligata diventa in questi mesi il pretesto per coprire il fallimento di un ventennio di transizione e di tutte le famiglie politiche, anche dei cattolici.
In un Paese normale la fine di un governo di emergenza segnerebbe l’avvento di una nuova stagione, come fu dopo la Liberazione, e come fu tentato dopo Mani pulite, con l’emergere di personalità politiche che a capo di partiti popolari si assumono la responsabilità di aprire una fase nuova. È stato il caso di De Gasperi che solo dopo essersi imposto come capo della Dc si impose come capo dei governi della ricostruzione.
La domanda allora è molto semplice: la nuova leadership politica italiana può sorgere dall’attuale governo? Avrà come orizzonte la costruzione di una grande sinistra? O invece aprirà le porte alla ricomposizione di un nuovo soggetto di centro destra? Può Monti o un altro più forte di lui ripetere sulla sinistra l’operazione che fece De Gasperi nel riunire tutti i moderati intorno alla Dc? Può Monti riuscire dove non riuscì Prodi che rinunciò alla fatica di dotarsi di una sua forza politica?
Rispondere a queste domande significa riprendere i ragionamenti di maestri come Pietro Scoppola, scomparso proprio 5 anni fa quando fu battezzato il Pd, per la cui nascita si era speso con generosità, preoccupato già allora per la mancanza di rigore democratico. Scoppola, che sognava il «partito nuovo» liberato da ogni pretesa gramsciana di egemonia e dotato di un’anima quasi rosminiana di serena accettazione della realtà accompagnata da grande intransigenza nel rispetto della coscienza morale dei cittadini fu lo storico che ha saputo spiegare De Gasperi ai suoi successori democristiani, ma anche ai comunisti e ai molti intellettuali che avevano liquidato il decennio del centrismo come una esperienza «obbligata» e politicamente poco interessante o addirittura reazionaria.
Anche per merito della rilettura di Pietro Scoppola, noi sappiamo che nelle corde di De Gasperi c’era una fortissima tensione ideale ma non c’era la pretesa di dare al popolo italiano, anziché sicurezza, benessere e pace, come fece, una visione della storia e una collocazione internazionale diversa da quella che la nazione aveva meritato o poteva permettersi. Non c’erano tentazioni presidenzialiste ma nemmeno cedimenti al tatticismo. Non fu sconfitto dalla Storia, ma dal suo partito.
Quali sono oggi le risorse, i volti, che i cattolici italiani possono offrire ad una ricostruzione complessiva del quadro democratico del Paese? Più che dei «resti» cattolici che vogliono riunirsi per il momento intorno a Monti sarebbe bene parlare dei cattolici in tutti i partiti, e in particolare nel Pd che sarà il perno del futuro governo.
Che cosa fanno per dare voce alle attese dei credenti? Il papato è saldo, scriveva Scoppola, ma le chiese sono vuote; Cristo parla al cuore degli uomini, ma la Chiesa sembra parlarsi addosso, notava il cardinale Martini. Occorre aiutarla. Con il Concilio i cattolici hanno ridefinito la loro laicità politica e proprio perché non possono più nascondersi semplicemente dietro la fede devono prendersi a cuore le questioni meno amate dai potenti e più difficili da risolvere.
Nell’imminenza di una campagna elettorale importante, invece di riunirsi a discutere in astratto sull’impegno politico, avrebbero l’opportunità di trovare prima delle elezioni una posizione chiara almeno su tre questioni: sulla legge elettorale per riqualificare la Rappresentanza politica (e non invece manovrare per far sì che dalle elezioni non esca un vincitore); sulla politica fiscale per responsabilizzare il Tesoro e l’ Amministrazione (non le banche o le imprese che devono fare profitti) su obiettivi sociali veri; sulla Formazione, per dimostrare che l’istruzione e i beni culturali sono il fondamento delle libertà future e dell’unità del paese.
Valga come programma politico di base il rovesciamento della terribile regola dei due terzi: i due terzi della società che insieme hanno meno del terzo dominante siano serviti dal governo e dalle leggi come se valessero tre terzi. Il potere del terzo dominante, determinato dalle logiche sempre più dure del mercato, che non sono da demonizzare, non verrebbe rovesciato ma controbilanciato da quel principio antico della democrazia che dice che le leggi e gli atti di governo sono il volante e non le ruote del corpo sociale.
I politici che si rifanno a De Gasperi o a Moro non possono farsi riconoscere soltanto per essere dei tattici, abili a sfruttare la scia degli eventi e a unirsi o a dividersi sull’onda del momento dietro a questo o quel capo, per sopravvivere o saltare le tappe di una carriera, ma dovrebbero essere i più esigenti e i più trasparenti tra i politici italiani. Più che di una coalizione che vince, e poi si vedrà, c’è bisogno che i cattolici che si assumeranno la responsabilità di governare dicano in che modello di democrazia credono e se ritengono di rimanere fedeli alla Costituzione repubblicana.
* l’Unità, 29.10.2012
La Chiesa in crisi. Fedeli smarriti in cerca d’autorità
intervista a Marco Marzano,
a cura di Martino Doni (il manifesto, 7 luglio 2012)
Una conversazione con il sociologo Marco Marzano, autore di una indagine pubblicata da Feltrinelli, «Quel che resta dei cattolici». Racconto dall’interno di una struttura divisa tra gerarchie e base, dove la tendenza a far conto sulla tradizionale verticalità si avverte anche presso le comunità più attive
Immaginiamo la scena: è domenica, intorno alle 9 del mattino, un genitore ancora un po’ intontito ma spinto dal senso del dovere entra nella cameretta del figlio di dieci anni, lo scuote per svegliarlo, distogliendolo da un sacrosanto quanto profondo sonno ristoratore. Il figlio mugugna, recalcitra, si toglie l’apparecchio, si stropiccia gli occhi, guarda il padre e gli chiede già un po’ esasperato: «Devo andare a karate o a catechismo?». La domanda gela il sangue al padre. Non tanto perché il figlio non avesse ancora capito che la domenica mattina si va a catechismo, e non a karate, ma perché fosse anche soltanto possibile un’alternativa di questo tipo, che la dice lunga su quale abisso di noia e appiattimento culturale si affacci l’esperienza religiosa cattolica nel nostro tempo.
Il fatto che la scena sia reale e accaduta effettivamente a chi scrive, può dare un’idea di quanto sia utile un libro come l’ultimo di Marco Marzano, Quel che resta dei cattolici. Inchiesta sulla crisi della chiesa in Italia, Feltrinelli (Serie Bianca), pp. 250, €16. Non perché di per sé la scena sia importante o meriti chi sa quale riflessione. Ma perché di scene così ce ne sono a migliaia, e non trovano mai un pubblico che possa assorbirle o criticarle.
Marzano, che insegna sociologia all’Università di Bergamo, non è nuovo a inchieste di questo tipo, che anzi stanno caratterizzando il suo ambito di ricerca in modo peculiare. Di nuovo c’è, tuttavia, che in questo suo ultimo lavoro molti italiani, credenti o meno, potranno riconoscersi, perché la bellezza e la forza di questo libro stanno appunto nel dar voce a numerosi protagonisti di una dimensione sommersa della vita sociale contemporanea, quella del cattolicesimo vissuto, dal basso, senza reti di salvataggio, con tutte le contraddizioni e le storture, i malintesi e le illusioni, le sofferenze e le resistenze. Non si tratta dunque di una ricerca teorica che parte dai massimi sistemi della teologia o della teoria sociale, quanto di un’inchiesta, perfettamente leggibile e nello stesso momento abbastanza tremenda, per quel che c’è di tremendum e di fascinans nella voce diretta di chi si dibatte nell’assurda bonaccia del mondo di oggi.
Abbiamo incontrato Marzano, in un pomeriggio caldissimo; mentre parcheggiava la macchina, una piccola folla di bambini e ragazzini irreggimentati nelle magliette del Centro Ricreativo Estivo della curia locale gli bloccava l’accesso al parcheggio. La Buona Notizia in versione «baby-dance»: non poteva esserci introduzione migliore.
Partiamo dal metodo: in Quel che resta dei cattolici troviamo un racconto accurato, dall’interno, di molte esperienze di fede o di crisi. In base a quale criterio sono stati scelti i vari interlocutori?
Avevo già lavorato su questo terreno nella mia inchiesta sul carismatismo e la religiosità popolare, pubblicata qualche anno fa (Cattolicesimo magico, Bompiani 2009), quindi diciamo che avevo già una piccola rete di contatti, che ho poi molto ampliato, andando su e giù per l’Italia, incontrando e intervistando centinaia di persone, osservando tante cose direttamente, con i miei occhi. Ho fatto ricerca insomma nel modo in cui mi piace: stando con le persone, in mezzo a loro, non partendo da chissà quale teoria o preconcetto, ma piuttosto facendo risuonare la verità di quello che hanno da dire e che purtroppo non dicono quasi mai, perché non osano o perché non sanno che possono farlo. Questo mi appassiona tantissimo: la possibilità di raccogliere verità inedite. Questo credo che sia il senso del nostro mestiere. Insomma non mi bastavano i questionari e le inchieste telefoniche con le quali vengono in genere studiati i fenomeni religiosi: volevo guardarli in faccia, i cattolici italiani.
E che cosa dicono, i diversi interlocutori, di così terribile, che non oserebbero ripeterlo al di fuori di nomi di fantasia e vetri oscurati?
Raccontano lo sfarinamento dei significati, lo sgretolarsi di una struttura, la chiesa, che oggi non so se regga o meno, ma so che è spaccata in due: da un lato c’è la chiesa pubblica, quella che occupa la scena mediatica, quella dei vescovi e del Vaticano; dall’altra ci sono le parrocchie, che soffrono terribilmente, che si svuotano, che anche quando sono piene sono spesso vuote di senso e di partecipazione reale. Me lo raccontavano molti parroci: quando devono celebrare un funerale o soprattutto un matrimonio loro stanno male, perché sanno che si tratta, in un certo senso, di una finzione, mentre loro celebrano l’eucaristia, cioè il sacramento principale, quello che per loro dà ragione al loro essere e a quello della comunità... se ci fermiamo a pensare è un’esperienza lacerante: stai facendo quello in cui credi di più, e i fedeli chiacchierano, fanno fotografie, sbadigliano, e soprattutto non credono a una parola di quello che stai dicendo. Per alcuni versi, questo è sempre avvenuto però nell’epoca dell’autenticità questo è il segnale di una crisi molto profonda.
Forse il dato più allarmante che emerge dall’inchiesta è proprio questo distacco tra la gerarchia dei vescovi e la base dei preti e dei laici delle parrocchie.
Mi pare proprio di sì. Al di là delle chiese più o meno vuote, quello che ho visto è una chiesa afona, quella della gente comune; la chiesa dei vescovi è fin troppo illuminata da ogni tipo di faro. Oggi per parlare di chiesa, in Italia, devi essere un vaticanista! I giornalisti e i politici si illudono che la gente stia lì a domandarsi, come Stalin, quante armate abbia il papa. Ma io penso che ai fedeli importi poco delle manovre occulte, degli intrighi... I fedeli non leggono nemmeno le encicliche! La fede oggi, qui e ovunque nel mondo occidentale, si sta sempre più privatizzando. Avviene così in tutte le grandi istituzioni: si chiama crisi dello spazio pubblico. Vale anche per la politica, l’educazione, quello che un tempo si chiamava l’universo dei valori...
E non si parlano mai, tra di loro, le due chiese?
Non credo: la gerarchia non ha voglia di ascoltare e il popolo dei fedeli non sa a chi rivolgersi. Il dramma del cattolicesimo mi sembra il fatto che la prima chiesa, quella delle gerarchie, non ha più nemmeno bisogno del popolo, cioè della seconda chiesa. Le bastano i media. Le basta che il telegiornale trasmetta il comunicato del rappresentante dei vescovi o che dia notizia dell’ultimo discorso del papa. Ma questo, ripeto, si verifica ovunque, non solo nella chiesa: i vertici possono allegramente ignorare la base. La cosa straziante della chiesa è che la base, quasi sempre, non desidera altro che un cenno di assenso da parte di un vescovo. Non sanno farne a meno.
Come si può spiegare questo fenomeno?
È evidente che ci vorrebbe una riflessione teorica più approfondita, ma ho la sensazione che sia in gioco una grande sfida educativa. La chiesa in Italia esprime un’enorme fatica a ospitare gli adulti. Le chiese si aprono ai bambini, o ai vecchi, ma gli adulti non ci sono, e quando ci sono ci stanno male. Il laico cattolico adulto ha ancora bisogno del placet del sacerdote, cioè si posiziona in modo infantile di fronte a un’autorità, quella del prete e della verticalità della chiesa in generale, che di per sé non ha giustificazioni, se non quelle datele dalla tradizione. Ho intervistato a lungo dei laici di un gruppo che un tempo si sarebbe chiamato «cattocomunista»: agguerriti, capaci, pieni di vitalità e di idee, la parte migliore di una comunità. Bene, questi mi confessano di sperare che il vescovo prima o poi accolga le loro richieste. Ma dico: non potete fare da soli? Perché avete sempre bisogno del vescovo?
Non si riesce a crescere, insomma. In fondo diventare adulti significa assumere su di sé l’onere di gestire i passaggi cruciali della vita: la nascita, le relazioni, la morte. In effetti i sacramenti tradizionali segnano i riti di passaggio comuni a tutte le società che conosciamo. Questo infantilismo forse non è da collegare non solo alla religione, ma a tutti questi momenti soglia, che fatichiamo sempre di più a riconoscere e a comprendere.
Sono d’accordo. Nella mia indagine sul morire di tumore in Italia (Scene finali, il Mulino 2004) avevo già avuto modo di mettere in evidenza come il paziente si consegnasse nelle mani del medico come un bambino. Allora davo grande peso al ruolo del medico, in questo processo. Oggi, avendoci riflettuto, devo ammettere che il malato mette molto di suo nell’abdicare alla propria adultità. Lo stesso si potrebbe dire del matrimonio e del funerale: momenti entrambi in cui l’istituzione è chiamata in causa come amministrazione, non già come ospite del passaggio. Ossia l’istituzione non è più lo spazio pubblico che accoglie e sostiene i nuovi arrivati; è invece il decisore ultimo dei destini e delle volontà dei suoi adepti. Tuttavia mi sembra che la chiesa sia più esposta di altre istituzioni a questo tipo di infantilizzazione del fedele. Un po’ perché il cattolicesimo sta ripiegando sempre più in forme pubbliche modernissime nella forma e preconciliari nella sostanza, quelle che inseguono il trionfalismo degli eventi mediatici, e richiede da parte dei fedeli una partecipazione passiva, cioè la semplice obbedienza (e in ciò sta la matrice tridentina, reazionaria di questo stile); un po’ perché i cattolici, anche i più vivaci, soffrono di una strana sindrome, che chiamerei l’ossessione dell’unità.
In che cosa consiste?
L’ossessione dell’unità è quella strana malattia che spinge i cattolici a inseguire a tutti i costi il consenso dei vertici, il desiderio di ottenere l’approvazione dei piani alti, che leggerei anche come l’inconfessata ambizione che la propria linea divenga quella universale, l’unica. Anche questo, se ci pensiamo, è un comportamento abbastanza infantile.
Il teologo protestante Dietrich Bonhoeffer si richiamava alla necessità di diventare adulti nella fede, e cioè liberi e responsabili di fronte, per esempio, alla morte. Forse quello che manca al cattolicesimo italiano è proprio l’esperienza della Riforma, che per certi versi ha costretto i fedeli a vedersela da soli, senza le garanzie del clero.
Certamente il processo di privatizzazione che abbiamo descritto all’inizio dice anche di un tentativo, goffo e problematico quanto vogliamo, ma comunque in atto, di americanizzazione del legame sociale. Cioè, anche, di una tensione «protestante» interna allo stesso cattolicesimo, che testimonia a sua volta della voglia che molti hanno di dire la propria su molte questioni, di non cedere alla morsa di un potere sempre più distante e astratto, di essere soggetti e protagonisti delle proprie scelte e delle proprie decisioni. Anche questo è un segno dei tempi, come ha mostrato il filosofo americano Charles Taylor, nella sua monumentale ricerca sull’età secolare. Ai tempi della Riforma nessuno poteva nemmeno sognare di «scegliere» alcunché in campo religioso (cuius regio eius religio, si diceva, no?).
Oggi invece la scelta è un momento cruciale, di cui - e non è un caso - le gerarchie hanno un certo timore. Più libertà ha il singolo, più evidente si fa lo sgretolarsi dell’istituzione che lo vorrebbe amministrare. Mi sentirei però di chiudere con una nota di ottimismo: ho visto questa tensione, per quanto un po’ in controluce, ho visto questo crescente desiderio di autonomia. Prima o poi la sfida sarà lanciata, sarà qualcosa di enorme, i cui risultati decideranno le sorti di una delle religioni più tenaci della storia. Il meglio delle religioni, direbbe Ernst Bloch, è che producono eretici.
Pietro Scoppola storico cristiano
di Alberto Melloni (Corriere della Sera, 21 febbraio 2011)
Sono passati tre anni e mezzo dalla morte di Pietro Scoppola, pensatore storico e pensatore politico di grande peso nella vicenda italiana: il suo archivio, all’Istituto Sturzo, mette a disposizione degli studiosi un materiale fatto di corrispondenze, interventi, note di lavoro attraverso le quali emerge il firmamento dei suoi legami. Quelli con gli altri uomini del «mestiere» di storico, quelli politici con il mondo della sinistra democristiana, quelli con gli allievi avviati alla ricerca: una teoria di nomi - ed è un dato - che però può essere colta anche nei suoi saggi e nei suoi libri.
Lo dimostra la bella rilettura che ne fa Agostino Giovagnoli in Chiesa e democrazia. La lezione di Pietro Scoppola (pagine 294, € 24), appena uscito per i tipi del Mulino non per caso. Il primo lavoro sul modernismo dello storico romano - passato dal Senato all’università come professore di Storia della Chiesa, per poi passare alla Storia contemporanea - uscì infatti dalla casa editrice bolognese quasi a marcare la sintonia con l’esperimento che voleva alimentare il confronto intellettuale fra cattolici, liberali e la sinistra che si dirà riformista (una parola, ricorda giustamente Giovagnoli, che veniva proprio dalla storia del modernismo...).
E ripercorrendo il tratto che va da quei primi saggi fino alla ricerca su De Gasperi, sul mito perduto d’una nuova cristianità, sulla democrazia «dei cristiani», sulla repubblica dei partiti - Giovagnoli rende familiare il lettore al linguaggio e allo stile di Scoppola. Due tratti decisivi per capire lo storico e l’uomo: lo ricordava anche una bella serata organizzata qualche mese fa in Roma dall’editore Laterza con Camillo Brezzi, Paolo Prodi, Eugenio Scalfari e lo stesso Giovagnoli, allievo e ora studioso del maestro.
Il linguaggio di Scoppola è quello di un cattolico nato alla riflessione intellettuale sulle colonne di «Cronache Sociali» e plasmato spiritualmente dalla cultura degli intellettuali: quando Scoppola dice «religioso» ingloba quel fascio di significati che comprendono la fede, la dottrina, la disciplina, la verità, la rivelazione, la spiritualità; quando dice «coscienza» riassorbe tutta la riflessione che dal cardinale Newman a Blondel, da Maritain a Mounier percorre la filosofia («dei cristiani»?), zavorrata dalla pesantezza del rudimentale neotomismo di scuola ed esaltata dalla esperienza pratica della libertà.
Allo stesso modo, quando dice «democrazia» Scoppola non intende un regime in astratto o in concreto: ma la dialettica fra forme costituzionali e convinzioni, fra pensiero della cittadinanza e moralità civile. Per molti decenni il punto critico della ricerca di Scoppola è capire dove e come la politica italiana possa trovare una fonte a cui abbeverare la «democrazia» di cui la Dc è custode, come la «coscienza religiosa» possa alimentare un rinnovamento di cui il degrado politicistico, ben espresso dall’andreottismo, è la tomba: Scoppola lo fa con coraggio, da quando firma l’appello del 18 luglio 1960 contro Tambroni fino alla analisi sempre più lucida che accompagna gli anni postdemocristiani.
Quell’analisi, osserva Giovagnoli, che pur a distanza di così pochi anni si rivela come «inattuale», non nel senso della obsolescenza, ma al contrario per la stridente dissomiglianza qualitativa rispetto allo sciupìo di banalità sui valori, sulle identità e sul peso delle componenti che accompagnano questi più recenti mesi della nostra vita culturale e, direbbe Scoppola, «religiosa».
Ma la «inattualità» non è di oggi e, se posso permettermi, bisognerebbe stare attenti a non smussarla, alla ricerca di sintonie col Papa che in un cattolico sono normali; o che, ad altri livelli, non ci sono proprio. Venendo sulla storia italiana recente, ad esempio, sei pagine virtuosistiche (pp. 195-201) nelle quali si elencano i punti di contatto fra il pensiero scoppoliano e quello ruiniano, non possono che riconoscere che «fra i due non ci fu intesa». E forse qualcosa di più, se dopo il convegno su «Evangelizzazione e promozione umana» (1976!) Scoppola non fu mai più invitato ai convegni della Chiesa italiana e se è stato trattato dall’«Avvenire» di allora come un infame. Un ostracismo che non fa onore a chi lo decise, ma non appanna, per inattualità, la «coscienza religiosa» di chi lo subì.
La rivoluzione morale di Pietro Scoppola
Anticipiamo un brano da Chiesa e democrazia. La lezione di Pietro Scoppola, il nuovo libro di in uscita domani (il Mulino, pagg. 288, euro 24).
di Agostino Giovagnoli (la Repubblica, 18 febbraio 2011)
Nella primavera 1981 si aprì all’interno del mondo cattolico una discussione sulla identità della Dc. Venne sottolineato sia che questo partito non rappresentava la maggioranza degli italiani, sia che molti dei suoi elettori non erano cattolici in senso stretto. In un incontro riservato che si tenne a Roma, ci si interrogò sul significato dell’espressione "cattolicesimo di minoranza". Mons. Martini - già arcivescovo di Milano, ma non ancora cardinale - notò: «da noi c’è una minoranza che parte da una maggioranza». Rocco Buttiglione, allora vicino a Comunione e Liberazione, parlò di "coscienza nazionale smarrita" perché l’Italia si era distaccata dalla sua identità cattolica. Ma Scoppola contestò la possibilità di identificare meccanicamente identità nazionale e identità cattolica: la storia italiana, dal Risorgimento in poi, mostrava un rapporto complesso tra cattolici e nazione e non era certo possibile negare la presenza di importanti componenti non cattoliche nell’identità nazionale italiana. (...)
Dopo il 1983, Scoppola partecipò alla Commissione Bozzi per le riforme istituzionali e nel corso di tale esperienza, si convinse che si fosse ormai giunti in Italia «al termine di una lunga fase della nostra storia politica e democratica, caratterizzata da una aggregazione verso il centro delle forze politiche». Mentre il sistema politico restava bloccato, la società italiana continuava a cambiare, nel senso soprattutto di una crisi sempre più accentuata delle tradizionali identità ideologiche, sociali e politiche.
A Scoppola sembrò soprattutto necessario innestare un nuovo rapporto virtuoso tra cittadini ed istituzioni. Egli volse la sua attenzione agli enormi problemi nati dallo sviluppo dei decenni precedenti, «problemi economici ed istituzionali, molto complessi, ma anche e forse prima di tutto, problemi morali. Le società industriali consumano valori che non sono in grado di riprodurre così da determinare un generale processo di entropia morale, una caduta di energie morali nella società».
Il vuoto etico che emergeva nella società italiana è al centro de La nuova cristianità perduta, pubblicato nel 1985, forse il suo libro più singolare sotto il profilo storiografico, ma probabilmente anche il suo più riuscito come "storico del tempo presente". Fu scritto in vista del secondo convegno nazionale della Chiesa in Italia, che si tenne a Loreto nell’aprile 1985. Egli non partecipò a questo convegno, dopo aver invece partecipato con molta passione a quello su "Evangelizzazione e Promozione Umana" del 1976. Pubblicò perciò La nuova cristianità perduta quale «contributo alla riflessione della Chiesa italiana» per mettere a fuoco le responsabilità e le possibilità dei cristiani di fronte ai nuovi processi di secolarizzazione.
La sua riflessione abbracciò i cambiamenti dei costumi, le nuove sensibilità in tema di diritti civili, l’ampliamento dello spazio delle scelte individuali, nonché un pluralismo sempre più diffuso a livello di valori, opinioni e comportamenti. Egli avvertì che stavano cambiando i rapporti tra pubblico e privato, con una graduale perdita del tradizionale primato del primo sul secondo ed una attenuazione della altrettanto tradizionale separazione tra queste sfere. Registrò una progressiva riduzione degli spazi della vita sociale influenzati da orientamenti condivisi e un indebolimento della politica quale luogo di sintesi, dove tali orientamenti si trasformano in norme di legge. L’intero tessuto etico-civile italiano sembrava andare in frantumi.
Si era infatti realizzata in Italia «una profonda e radicale devastazione di tutte le culture tradizionali e di tutte le identità collettive preesistenti». Anche se la devastazione delle culture e delle identità costituiva indubbiamente «una sconfitta per la Chiesa», la secolarizzazione che si era prodotta non rappresentava affatto un successo della cultura laica: «in realtà nessuna cultura ha vinto; tutte si sono disgregate nell’impatto con la società di massa di tipo consumistico».
Alla crisi provocata dall’innesto del consumismo sui tradizionali mali italiani, era necessario rispondere dirigendosi verso il "mare aperto" dei valori e dei comportamenti: la riforma della politica doveva innestarsi in una più ampia riforma morale della società italiana. Appariva sempre più necessario un radicale mutamento dello stesso modo di pensare la politica ed i suoi presupposti.
La crisi dei partiti e delle istituzioni non poteva trovare soluzione solo all’interno della società politica, ma occorreva intervenire anche sulla società civile. Ormai «non si può più agire sulla politica e nella politica dimenticando la crisi del soggetto uomo»: era l’intuizione di quella che sarebbe stata poi chiamata la "questione antropologica".
I padri costituenti e la difesa della Carta
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 20.10.2009)
Il primo grido di allarme per le tentazioni distruttive verso la nostra Costituzione manifestate dalle maggioranze guidate da Silvio Berlusconi venne lanciato nel 1994 da Giuseppe Dossetti, uno dei padri più rappresentativi della nostra carta fondamentale e della nostra coscienza costituzionale. Con una lettera inviata il 25 aprile di quello stesso anno all’allora sindaco di Bologna, Walter Vitali, Dossetti lanciava i comitati per la difesa della Costituzione con queste parole: «Si tratta cioè di impedire ad una maggioranza che non ha ricevuto alcun mandato al riguardo di mutare la nostra Costituzione: [quella maggioranza] si arrogherebbe un compito che solo una nuova Assemblea Costituente, programmaticamente eletta per questo, e a sistema proporzionale, potrebbe assolvere come veramente rappresentativa di tutto il nostro popolo. Altrimenti sarebbe un colpo di stato».
Dossetti fu uno dei 556 deputati dell’Assemblea Costituente eletta il 2 giugno 1946, e poi membro della Commissione per la Costituzione (conosciuta anche come commissione dei 75) il cui compito era di elaborare un progetto di Costituzione. Il 21 novembre 1946, Dossetti presentò in Commissione la proposta relativa al diritto di resistenza. Queste le sue parole: «La resistenza individuale e collettiva agli atti dei poteri pubblici, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino». Rileggere oggi le discussioni dei costitutenti sul tema dell’oppressione e della necessità che la Costituzione si doti di strumenti di autodifesa è un’esperienza intellettuale unica perché rivela quanta attenzione, preparazione e serietà ci fosse in quell’Assemblea costitutiva della nostra democrazia. Riprendere in mano quella storia, quelle discussione è diventato essenziale per la nostra libertà.
Dossetti era un tomista e pensava al potere politico (quello costituito nello stato) come alla fonte di un rischio permanente dal quale premunirsi. Aldo Moro fu dalla sua parte e nonostante le ragionevoli perplessità nei confronti di un principio che era essenzialmente metagiuridico e di difficile traduzione in legge, tuttavia anche lui come Dossetti comprese quanto fosse essenziale per una democrazia che la cittadinanza venisse concepita e vissuta come un’identità politica non solo giuridica, perché alla sua base stava il dovere morale di preservare i fondamenti della sua stessa esistenza. È il cittadino che preserva se stesso preservando la carta.
E così, quando nel 1994 il padrone di Mediaset impresse una direzione autoritaria alla politica italiana e i partiti dell’opposizione anche allora sembrarono non comprendere per davvero la natura nuova e inquietante di quel corso politico, Dossetti riprese il ruolo morale di padre costituente e tornò a fare il dovere che la cittadinanza richiede: lanciò un movimento di cittadini attivi per esprimere un chiaro e forte "No!" alle manipolazioni della carta da parte di maggioranze o leader bramosi di dominio illimitato; un movimento che avesse il compito di far capire a tutta la nazione che la Costituzione non era a disposizione - proprio come non lo sono le donne, secondo la bella risposta di Rosy Bindi al capo della maggioranza.
La sovranità non è la stessa cosa del governo; e non lo sarebbe nemmeno se per ipotesi il governo godesse del 99% dei consensi elettorali. La differenza tra sovranità e maggioranza eletta che governa per un tempo limitato non è numerica, ma di forma e di sostanza. E infatti, nonostante Berlusconi si riempia la bocca della parola "popolo" egli pensa ai suoi elettori e a quelli che le sue strategie commerciali possono eventualmente catturare. Ma la sovranità e la costituzione non sono a disposizione di una parte, di nessuna parte, e non hanno nulla a che fare con la massa che un leader pensa di catturare, tenere o imbonire.
La ragione di questa indisponibilità è ancora una volta ben espressa dalle parole di Dossetti: «C’è una soglia che deve essere rispettata in modo assoluto... oltrepasserebbe questa soglia qualunque modificazione che si volesse apportare ai diritti inviolabili civili, politici, sociali previsti nell’attuale Costituzione. E così pure va ripetuto per una qualunque soluzione che intaccasse il principio della divisione e dell’equilibrio dei poteri fondamentali, legislativo, esecutivo e giudiziario, cioè per ogni avvio, che potrebbe essere irreversibile, di un potenziamento dell’esecutivo ai danni del legislativo, ancorché fosse realizzato con forme di referendum, che potrebbero trasformarsi in forme di plebiscito... In questo senso ho parlato prima di globalità del rifiuto cristiano e ritengo che non ci sia possibilità per le coscienze cristiane di nessuna trattativa».
La coscienza cristiana di Dossetti coincideva in quel caso perfettamente con quella pubblica del cittadino perché la difesa delle prerogative costituzionali era difesa della libertà di ciascuno di distinguersi ed essere autonomo dalla pretesa di omologazione e dominio di una maggioranza. Nel maggio 1947, intervenendo sul tema proposto da Dossetti, Antonio Giolitti (allora Pci) ricordò che «la garanzia essenziale del regime democratico è... l’autogoverno morale e politico del cittadino». Per questa ragione, benché il diritto di resistenza (che avrebbe dovuto essere contenuto nell’Articolo 50) non passò l’esame, esso fa parte comunque nella cultura etica della cittadinanza democratica. La vita della Costituzione è nelle mani dei cittadini. Ha scritto anni fa Paolo Pombeni che le idee dossettiane e dei costituenti sulla resistenza come autodifesa della Costituzione «scomparvero dall’attenzione dell’Assemblea Costituente e dalla stessa memoria storica», ma il loro principio ispiratore ha una portata che «dovrebbe essere rivalutata» perché, si potrebbe aggiungere, la Costituzione, scritta da una generazione che non è piú, è viva nel nostro presente e la sua persistenza é un nostro dovere civile.
La coerenza di uno storico cattolico
La morte di Pietro Scoppola. Dal contraddittorio rapporto della Chiesa con il fascismo al valore fondante della Resistenza, una lettura inquieta della società italiana
* di Gianpasquale Santomassimo (il manifesto, 27.10.2007).
Nell’Italia nuova uscita dal fascismo tutti i movimenti politici e culturali andavano alla ricerca delle proprie radici, e scoprivano i lineamenti di un paese diverso, dissimile e dissonante rispetto a quello incarnato dal circolo ristretto delle élites liberali. In maniera discosta e silenziosa rispetto al clamore e al contorno di polemiche che spesso accompagnavano le acquisizioni della storiografia sul movimento operaio, anche il movimento cattolico ricostruiva la sua storia, trovandosi di fronte a nodi corposi e dalle implicazioni controverse, che difficilmente potevano venire risolti con l’empito apologetico e provvidenzialistico delle storie ufficiali.
Non è un caso che la crisi modernista abbia rappresentato il primo e fondamentale banco di prova per una nuova generazione di cattolici democratici, tra i quali Pietro Scoppola è stato - accanto a don Lorenzo Bedeschi - l’interprete più autorevole di una nuova sensibilità problematica. In quella vicenda, che fu di arresto e di arretramento per la cultura ufficiale dei cattolici, ma anche di maturazione tormentata di coscienze e di pratiche autonome, era come riassunto il prezzo e la portata di un lungo contenzioso con la modernità che solo cinquant’anni dopo avrebbe trovato la sua soluzione, che oggi appare assai più precaria e insidiata da nuove ombre di quanto non apparisse al tempo dei primi studi di Scoppola. Si trattava, come lo stesso Scoppola scriveva riproponendo nel 1975 la nuova edizione di Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia, per gli storici del movimento cattolico di muovere dal «massiccio recupero della tradizione cattolico intransigente» all’«opposto recupero della tradizione cattolico liberale», che proprio nel dramma della condanna del modernismo aveva preso coscienza e aveva mosso un cammino destinato ad essere lungo e impervio.
Era, in sostanza, il nodo di quel rapporto tra cattolici e democrazia che sarebbe stato il fulcro di tutta l’opera di Scoppola: non solo come storico, ma anche come politico e ispiratore della politica.
Per chi studiava dall’interno quella storia era necessario tener conto della pluralità di tensioni, sensibilità, corpose tradizioni che a volte si inabissavano per poi riemergere a distanza: un mondo impossibile da riassumere nelle definizioni inevitabilmente semplificate che il linguaggio corrente imponeva e impone: la Chiesa, il mondo cattolico... Un mondo che dall’esterno appariva unito, ma in realtà era diviso al suo interno da opzioni non solo diverse ma talora contrapposte. La vicenda del rapporto tra Chiesa e fascismo, che fu il secondo grande tema di studio di Scoppola, esemplificava bene questo viluppo, tra il vistoso clericofascismo di molti, il sincero antifascismo democratico di pochi, il diffuso afascismo concorrenziale più che oppositivo al regime che fu la cifra maggioritaria dell’atteggiamento cattolico durante il ventennio.
L’interprete fondamentale di questo percorso fu da Scoppola identificato in Alcide De Gasperi, a cui dedicò gran parte dell’opera della sua piena maturità. Dire che si trattò di una rivalutazione del personaggio sarebbe improprio, in quanto non era mai mancata stima e ossequio dell’Italia ufficiale nei confronti della sua figura; ma si trattò di una valutazione profondamente diversa, che in qualche modo rovesciava i canoni tradizionali dell’interpretazione corrente.
Nelle pagine di Scoppola, De Gasperi non era più solo l’uomo della rottura dell’unità antifascista, ma anche il politico che aveva guidato l’esperienza unitaria di un biennio fondamentale per la democrazia italiana; e, soprattutto, uomo che aveva combattuto una battaglia silenziosa e sofferta contro le spinte autorevolissime che dal Vaticano e dagli Stati Uniti venivano verso una sostanziale fascistizzazione della politica italiana e dello stesso partito cattolico. Avere mantenuto al contrario aperti i termini di una dialettica costituzionale tra partiti ferocemente contrapposti era uno dei meriti maggiori ascrivibili al personaggio.
Le tesi di Scoppola cadevano in un periodo, quello della seconda metà degli anni Settanta, in cui pareva a molti che quella lacerazione fosse prossima a ricomporsi, ma avevano soprattutto un impianto realistico, di consapevolezza dello spessore reazionario della società italiana uscita dal fascismo, che metteva in crisi luoghi comuni e semplificazioni sulla «rivoluzione mancata», all’epoca quasi assiomatiche. In Scoppola c’era la consapevolezza di come la forma particolare dell’unità dei cattolici fosse un dato storico, non immutabile né eterno, e considerava già a breve distanza la tragedia di Aldo Moro come grande occasione mancata dalla democrazia italiana: per la sconfitta in sé di una prospettiva legata alla strategia dell’uomo e per la «dissipazione» di una «riserva di valori, di solidarietà, un senso di condivisione e responsabilità comuni». «Poteva essere l’occasione - diceva in una delle sue ultime interviste - per una maturazione morale, per la crescita di uno spirito democratico, di un ethos civile condiviso, e invece è andata perduta».
Proprio in direzione di un rilancio degli unici valori condivisi che storicamente la nostra democrazia avesse espresso era significativo il suo impegno in difesa della Costituzione e della Resistenza intesa non tanto come guerra guerreggiata, ma come impegno civile, moto di solidarietà, esperienza condivisa di sofferenza collettiva: Liberazione in senso più alto e complesso rispetto all’evento in sé. E’ questo il senso di un lucido libretto del 1995 che appunto 25 aprile Liberazione si intitola.
Più controverso appare agli occhi di chi scrive il suo impegno nelle campagne referendarie e per l’introduzione del maggioritario, non visto come panacea miracolistica come in tanti politologi, ma come forma di un nuovo rapporto tra politica e cittadini e come soluzione del problema storico dell’unità dei cattolici dissolvendo la forma partito in direzione di un impegno che liberamente muovesse in più direzioni. Obiettivo che era probabilmente raggiungibile anche senza sovvertire la civiltà del proporzionale che è stata storicamente la forma della nostra democrazia.
Rispetto ai problemi della Chiesa di oggi e del mondo cattolico vanno ricordate due preoccupazioni fondamentali dei suoi ultimi anni: in primo luogo la riconferma della laicità dell’agire politico e culturale, nella consapevolezza che esistono principi non negoziabili, come si torna a dire negli ultimi tempi, ma che essi operano nelle coscienze e nella storia, e dalla storia vengono incessabilmente rimodellati. Infine, la denuncia amara della «Chiesa silente», che parla con una voce sola sia pure autorevolissima e popolare. Era un commento in morte di Papa Wojtyla, la cui voce aveva come sovrastato quella della chiesa. Bisognava invece che la chiesa, intesa come comunità di fedeli, ricominciasse a parlare: «che parlino i laici, che parlino i preti, che parlino i vescovi, che ci sia dibattito. Anche che ci siano manifestazioni dialettiche all’interno della Chiesa: l’importante è che in qualche modo ci sia vita».
I CATTOLICI E LA COSCIENZA
di Marco Politi (la Repubblica, 09.11.2007)
Nella bufera di polemiche, scatenatasi dopo l’appello di papa Ratzinger all’obiezione di coscienza dei farmacisti, si è levata sommessa ma chiara la voce di Federica Rossi Gasparrini.
Cattolica. Presidente della Federcasalinghe. Moderata. L’obiezione del medico si può capire, ha dichiarato, quella dei farmacisti sarebbe un abuso: «Il loro è un servizio pubblico. Lo trovo antidemocratico». Proprio perché l’aborto è drammatico, ha argomentato, la “pillola del giorno dopo” serve per bloccare una gravidanza al più presto, «senza traumi, prima ancora che ci sia una differenziazione cellulare». E poi va tenuto conto di tutte le posizioni.
Forse perché nasce da quello che una volta si chiamava il focolare, forse perché nutrita dall’esperienza delle fatiche di tantissime donne - credenti per giunta - questa reazione illumina il vicolo cieco verso cui tende la gerarchia ecclesiastica con il suo interventismo permanente nella legislazione italiana.
Perché la contrapposizione, che si profila in Italia, non è tra ghibellini e guelfi o tra laici irriducibili e veri credenti e nemmeno tra chi negherebbe alla Chiesa un ruolo nella sfera pubblica e chi sta a difesa della sua libertà di parola. Lo scontro è soprattutto interno alla vasta comunità di coloro - e in Italia sono l’87 percento - che si richiamano al cattolicesimo.
Il guaio della Chiesa, ha riassunto tempo fa in una folgorante vignetta Massimo Bucchi, è che «non ama le persone di fatto». Questa gerarchia ecclesiastica, che dopo ottant’anni di Concordato e di insegnamento religioso nelle scuole non è riuscita a portare agli italiani i Vangeli (ignorati dal settanta per cento), questa gerarchia che non sposta di una virgola il comportamento dei credenti rispetto alle relazioni prematrimoniali, i contraccettjvi, i divorzi, gli aborti, le coppie di fatto, continua a premere sistematicamente perché - dove manca la convinzione delle coscienze - il braccio secolare della legge irreggimenti le scelte dei cittadini credenti e non credenti.
Quanto più i parroci, nei loro rapporti quotidiani con la gente, si sono aperti via via senza demonizzazioni alla contraccezione, alle convivenze, agli omosessuali tanto più la gerarchia, dal Papa alla Cei, tallona ossessivamente la classe politica perché produca norme per contrastare o lasci cadere i progetti di nuove, utili leggi.
Certo fa cadere le braccia li fatto che, appena il Pontefice alza il dito, scatti automatico il «sissignore» di esponenti del centro destra e della pattuglia teodem del neonato Pd. Ma va detto sinceramente che nella piena legittimità di qualsiasi posizione né Pedrizzi di An né l’azzurra Bertolini né l’ulivista Bobba rappresentano «i cattolici». Loro sono «una» delle opinioni all’interno del mondo cattolico. La cattolicità reale nel suo complesso non vive affatto in conflitto con la necessaria laicità delle istituzioni, non si sente assediata da «nichilismo e relativismo» e al contrario è abituata da decenni a convivere in clima di comprensione con i diversamente credenti.
Milioni di credenti apprezzano la voce della Chiesa, quando offre un punto fermo e un orizzonte in una società in continuo cambiamento. Ma vogliono poter decidere da soli. D’altronde il 74 per cento del cattolici praticanti italiani, secondo l’ultimo sondaggio Ipsos, hanno ripetuto (come da tanti anni) che la Chiesa deve parlare con assoluta libertà, ma «poi prevale la coscienza». Gli italiani, credenti e non credenti, non vogliono un «Partito di Dio» guidato dalla gerarchia ecclesiastica.
Il valore del cattolicesimo democratico è di aver rotto con la concezione dei fedeli quale «gregge», che nella società civile e in politica va letteralmente guidato - Pio X ne era ferreamente convinto - dal romano pontefice. Gli Alberigo e gli Scoppola, scomparsi entrambi in questo 2007 e la cui assenza in certi ambienti ecclesiastici viene vissuta come liberazione da voci fastidiose, hanno insegnato che i laici cattolici, dovunque sia la loro collocazione e nella piena accettazione del pluralismo, devono assumersi la responsabilità - pur ispirati dalla fede e illuminati dal magistero - di leggere autonomamente gli eventi della storia e della società per trovare senza tutori, nell’indipendenza del confronto politico, le soluzioni necessarie.
Inaugurando il suo pontificato, Benedetto XVI spiegò che il concetto stesso di «gregge» era un lascito dei monarchi assoluti dell’Antico Oriente. La Chiesa oggi è a un bivio: o riconosce realmente l’autonomia dei cattolici nella vita pubblica e l’autonomia di coscienza dei cittadini credenti oppure si immagina una società che non c’è. Perché per quanto possa trovare politici compiacenti, c’è a destra e a sinistra una massa enorme, benché tacita, di cittadini credenti che nel nucleo del pensiero dei cattolici Scoppola e Alberigo si riconosce. Anche se non possiede la loro acutezza di espressione.
A Bologna stamani l’ultimo saluto ad Ardigò
Si svolgeranno questa mattina alle 10, nella chiesa di San Giuseppe, in via Bellinzona a Bologna, i funerali di Achille Ardigò, il sociologo e intellettuale morto mercoledì sera all’età di 87 anni.
Protagonista della Dc di Aldo Moro, Ardigò è stato molto vicino a Giuseppe Dossetti in una lunga esperienza amministrativa a Bologna. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha voluto esprimere ieri il suo cordoglio in un messaggio inviato alla famiglia: «Partecipo con sincera commozione al cordoglio per la scomparsa di Achille Ardigò nel ricordo della sua personalità di illuminato e moderno studioso dell’evoluzione sociale e di protagonista del dibattito e della ricerca ideale in seno al mondo cattolico. Rendo in particolare omaggio al suo limpido attaccamento ai valori della democrazia e ai principi della Costituzione repubblicana».