(Wikipedia) |
FORZA “Deus caritas est”?!
Altro che la Chiesa di Maria... e Giuseppe!?
Questa è la Chiesa ... del “latinorum”!!!
Caro BENEDETTO XVI ...
Corra, corra ai ripari (... invece di pensare alle scomuniche)! Faccia come insegna CONFUCIO: provveda a RETTIFICARE I NOMI. L’Eu-angélo dell’AMORE (“charitas”) è diventato il Van-gélo della preziosi-tà (“caritas”), e la Parola (“Logos”) è diventato il marchio capitalistico di una fabbrica (“Logo”) infernale ... di affari e di morte?! Ci illumini: un pò di CHIAREZZA!!! FRANCESCO e CHIARA di Assisi si sbagliavano?! Claritas e Charitas, Charitas e Claritas... o no?!
Federico La Sala
“DEUS CARITAS EST”: IL “LOGO” DEL GRANDE MERCANTE
di Federico La Sala *
In principio era il Logos, non il “Logo”!!! “Arbeit Macht Frei”: “il lavoro rende liberi”, così sul campo recintato degli esseri umani!!! “Deus caritas est”: Dio è amore, così sul campo recintato della Parola (del Verbo, del Logos)!!! “La prima enciclica di Ratzinger è a pagamento”, L’Unità, 26.01.2006!!!
Il grande discendente dei mercanti del Tempio si sarà ripetuto in cor suo e riscritto davanti ai suoi occhi il vecchio slogan: con questo ‘logo’ vincerai! Ha preso ‘carta e penna’ e, sul campo recintato della Parola, ha cancellato la vecchia ‘dicitura’ e ri-scritto la ‘nuova’: “Deus caritas est” [Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006]!
Nell’anniversario del “Giorno della memoria”, il 27 gennaio, non poteva essere ‘lanciato’ nel ‘mondo’ un “Logo” ... più ‘bello’ e più ‘accattivante’, molto ‘ac-captivante’!!!
Il Faraone, travestito da Mosè, da Elia, e da Gesù, ha dato inizio alla ‘campagna’ del Terzo Millennio - avanti Cristo!!! (Federico La Sala)
*www.ildialogo.org/filosofia, Giovedì, 26 gennaio 2006.
Per la novella di Pirandello, cfr.,
Sugli altri temi, cfr.:
FARE COME GIOVANNI XXII E GIOVANNI PAOLO II: RESTITUIRE L’ANELLO A GIUSEPPE!!!
L’Eu-angélo non è un "messaggio" di "mammasantissima"!!!
Lettera aperta al predicatore del papa
(E se “in capite” ci fosse il veleno)
di p. fausto marinetti *
Caro predicatore del Papa,
tu predichi la quaresima al papa, ma chi la predica a te? Non credi che spetta di diritto a noi, le vittime dei preti pedofili, perché ci hanno definiti “invisibili”, come gli angeli? O, se vuoi, ai martiri, perché quelle mani consacrate, che hanno profanato il nostro corpo, ci hanno ucciso anche l’anima. E pensare che perfino gli atei romani erano arrivati a dire: “Maxima debetur puero reverentia”!
Quando predichi non girare attorno a te stesso per spiegare e tra-spiegare quel Cristo che si spiega solo vivendoLo. E’ per questo che vedi i peccati degli altri e non quelli di santa madre-chiesa? Non possiamo tacere, griderebbero le pietre: e se “in capite” ci fosse il veleno? Con quale autorevolezza può insegnare una chiesa, che assiste alla strage degli innocenti senza gridare in casa propria: “Chi scandalizza un bambino sarebbe meglio per lui mettersi una macina da mulino al collo e buttarsi nel mare”? Negli USA le vittime l’hanno scritto su un monumento dedicato a se stesse, piazzando una macina da mulino davanti all’episcopio di Davenport. Che lezione! Perché non ne mettiamo una nella piazza San Pietro? Tutto il mondo applaudirà quel papa che avrà questo santo coraggio.
“Sepolcri imbiancati, razza di vipere”, il Cristo non lo urla agli atei, alle prostitute, alle copie di fatto, ai divorziati, ma ai sacerdoti del suo tempo. Chi mai, oggi, osa gridarlo ai nuovi “padroni del tempio”? Siamo stufi di chiacchiere, specie se sanno d’incenso. La quaresima non può essere ridotta a uno sterile esercizio di belle devozioni, perché è il luogo di opere di giustizia, cioè di riparazione delle ingiustizie anche nei nostri confronti. Quindi:
1- Né esecutori materiale né mandanti né complici, nessuno resti impunito. Non si tratta di “errori”, ma di “crimini”. Se alcuni Vescovi sono colpevoli, per quale privilegio non devono pagare?
2- La tolleranza zero comincia dall’alto. Non si può premiare i complici per aver nascosto e smistato “le mele marce”, amplificando il disastro. Il card. Bernard Law, promosso arciprete della basilica di S. Maria Maggiore, pontifica (si dice che i comunicandi, quando si trovano davanti a lui si spostano nell’altra fila) e gode del privilegio dell’immunità. Per noi, ogni notte, il privilegio dell’incubo che qualcuno si infili nel nostro letto. I prelati colpevoli di omissione in atti d’ufficio siano giudicati, scontino la pena, facciano penitenza per il resto della loro vita.
3- Opera di giustizia è consegnare i latitanti alla polizia e rimpatriare i fuggitivi dai paesi d’origine alla vigilia del processo (almeno 200 dagli USA). Chi li nasconde sottocoperta nella “barca di Pietro”? Secondo il codice penale è reato di complicità.
4- Perché non hai il coraggio di dire al papa, che il card. Ratzinger ha sbagliato quando dettava ai vescovi le “istruzioni per l’uso” della pedofilia clericale? Può un papa starsene assiso sul trono di Pietro, cioè sul mucchio dei bambini macellati e farsi chiamare “padre di tutti”? Non sarebbe meglio buttare via le insegne pagane, vestirsi di sacco, coprirsi la testa di cenere, convocare dodici vittime e lavargli i piedi, urbi et orbi?
5- La Conferenza Episcopale Americana solo nel 2006 emana le “Norme essenziali” per gestire “la cosa”. Se oggi si riconosce che i delinquenti vanno consegnati alla polizia, vuol dire che ieri, coprendoli, si è sbagliato. Quale penitenza ci si propone di fare?
6- Chiudete tutti i seminari, per carità!, é contro natura crescere un ragazzo senza la mamma e la famiglia, che voi tanto predicate a parole. Se è così essenziale, non è una violenza educare in un ambiente di soli maschi? Se i trasgressori avessero avuto una formazione “normale”, avreste la consolazione di dire: “Non è colpa nostra se, ecc.”. Invece vi confortate con giustificazioni speciose, distinguendo tra pedofilia ed efebofilia o allegando: “Dopotutto la pedofilia si consuma soprattutto tra le mura domestiche...”. Ma chi commette di questi crimini non ha fatto professione di castità, non ha dichiarato al mondo di “agire in persona Christi”. Di grazia, il prete è “configurato a Cristo” anche quando consuma il suo delitto? Nessuna tolleranza zero toglierà di mezzo “le mele marce”, perché il marcio prima di stare nei frutti bacati, negli effetti, sta ma nella causa, l’apartheid del seminario. Il direttore spirituale non sostituisce la mamma; le pratiche di pietà non suppliscono le emozioni né controllano le pulsioni; ascetismo e misticismo non sostituiscono quella “dolce metà”, che completa “l’altra metà”. Ricordi s. Tommaso? “Gratia naturam non destruit”. Perfino l’ONU condanna ogni forma di reclutamento e di segregazione dei minori dalla famiglia (cf Convention on the Rights of the Child, U.N. General Assembly, Document A/RES/44/25, 12.12.1989). I primi cristiani ci hanno lasciato in eredità un’esperienza insuperabile: i presbiteri erano coltivati nel popolo, dal popolo. Solo persone mature, anziane, di provata esperienza possono presiedere la comunità.
7- La causa ultima della pedofilia (agli esperti pronunciarsi su possibili fattori genetici e socio-culturali) non sta anche in una visione distorta del piacere sessuale? Nelle facoltà teologiche sarebbe doveroso approfondire dei testi come quello di C. Jacobelli, Risus pascalis, Il fondamento teologico del piacere sessuale. Fino a quando non avremo una cultura positiva della corporeità; fino a quando non impareremo dai laici, che la gestione del regno del corpo umano appartiene al loro sacerdozio, non potremo mai cambiare rotta. A loro, non a voi, spetta di dettar legge sulla famiglia.
8- Prima di cercare la pagliuzza nell’occhio del fratello (gay, divorziato, ecc.), togliamo la trave dal nostro. Come riparate il male che voi avete occasionato, se non provocato? E la condizione di tutto è la trasparenza. Perfino i senza Dio hanno fatto la loro glasnost! Perché nascondete i numeri (=la realtà) dei preti e delle suore costretti/e a lasciare, occultate i loro figli, le suore abusate, le donne tradite, le novizie importate dal sud del mondo? Riparare vuol dire restituire agli umiliati e offesi la dignità di persone e non costringerli all’anonimato, a farsi “invisibili” per non dare scandalo. Il loro annientamento è il vero scandalo. Il figlio del prete ha diritto di avere un padre; il figlio della suora non sia abortito; il prete che si innamora si sposi. Non è un delitto. Legiferate che non potete fare quello che volete delle offerte, dell’8 per mille, degli immobili e dei capitali, perché “i figli” devono mangiare prima dei “padri/madri”.
Anche noi piangiamo sulla Chiesa. Papa Ratzinger non fa altro che “parlare” di amore, ma lascia in ombra il suo presupposto: la giustizia, che è il suo piedestallo. In campo civile, trattandosi di delitti, bisogna applicare la giustizia. Se rompo la gamba a uno non posso aggiustargliela con una preghierina, con la carità, ma per giustizia devo risarcire i danni. Non si può obliterare la giustizia in nome dell’amore. Sarebbe come dire: noi cristiani, siamo passati al piano superiore, quello inferiore della giustizia non ci riguarda. Senza giustizia non c’è neanche l’uomo come fai a fare il cristiano? La giustizia umana è imperfetta, certo, ma guai se non ci fosse almeno quella nel serraglio della storia. Gesù propone la “sua” legge, la carità, il perdono, nell’intimo della coscienza, non in piazza, cioè nella gestione della convivenza civile. Al giudizio l’esame è in umanità, non in cristianità. Ci verrà chiesto come abbiamo trattato l’uomo nei suoi bisogni primari. Se trovi uno senza scarpe e tu ne hai due paia; per giustizia uno spetta a te, l’altro a lui. Se arrivano due senza scarpe, per amore le dai a loro e tu resti senza. Se non c’è cultura, si capovolgono le cose, come ha fatto l’arcivescovo di Agrigento, contro-denunciando la vittima di don Puleo. E’ il replay della famosa favola del lupo, che beve a monte, e dice all’agnello: “Perché mi sporchi l’acqua?”. Ma mons. Ferraro è ancora là, nel suo regno, a pontificare.
Don Zeno, un vero profeta, diceva: una civiltà si giudica da come tratta la sessualità. Aveva immerso mani e cuore nelle vittime di tante aberrazioni. Noi cristiani, diceva, non chiamiamo il figlio della ragazza madre: "figlio del peccato" come se l’avesse generato il diavolo? Agli orfani abbiamo dato l’istituto non la paternità/maternità, perché non abbiamo messo a frutto la fede, che fa fare le cose impossibili all’uomo (superare i vincoli del sangue). Scriveva al papa di essere un "segugio di Dio. Io conosco il tanfo di satana. E in Vaticano ce n’è parecchio...". Perché la vostra dottrina e la vostra prassi sono funzionali ad un sistema di ingiustizia.
Come possiamo pretendere, da chi non ha vissuto il Calvario nella propria carne, che provi quello che proviamo noi? Tra noi e te c’è il guado delle nostre lacrime e del nostro sangue. E’ questo il battesimo di cui tutti abbiamo bisogno. Visto che sei prossimo alla pensione, perché non vai a stare con gli ultimi per vedere quali quaresimali ti suggerisce la nostra vita di croce? Coraggio, alcuni sono andati a passare la vecchiaia nelle baraccopoli. Noi, con tutte le vittime dell’ingiustizia, ti faremo vedere che il nostro corpo è un ostensorio esposto 24 ore su 24 con le stesse stigmate di Cristo. Ti aspettiamo a cuore e braccia aperti.
p. fausto marinetti
* IL DIALOGO, Giovedì, 15 marzo 2007
Lettera a Bruno Zanin, una vittima della pedofilia clericale
di Fausto Marinetti *
Caro Bruno Zanin,
grazie per il coraggio di riconoscere di essere un uomo. Non hai paura di te. E neppure "al figlio dell’uomo" fai paura, perché lui, ama ogni figlio d’uomo, qualunque cosa abbia fatto.
Tu non ti riempi la bocca di belle parole come facciamo "noi", uomini di chiesa. Sei quello che sei: "Sì, sì, no, no". Fai parte di quella stirpe, che il Cristo cercava allora come oggi: i pubblicani e le meretrici. E lui ha il coraggio di metterli in prima fila, scandalizzando gli osservanti della legge, i benpensanti, compresi coloro che dicono di "amare la chiesa, perché amano Cristo" (attenzione alla cripto-ipocrisia!). Quelli che antepongono la diplomazia al vangelo, quelli che predicano bene e razzolano male, quelli che impongono agli altri dei pesi che loro non muovono con un dito.
Il tuo coraggio ha dato frutto: altre vittime si sono fatte avanti a raccontare il loro trauma. E’ la riprova della mia ipotesi: se tutte le diocesi mettessero a disposizione un telefono verde, quante altre vittime verrebbero alla luce? Quello che noi vediamo è solo il top dell’iceberg... la "sporcizia" è sotto sotto, ma basta stuzzicarla e viene a galla.
Alcuni hanno rivelato nomi eccellenti, ma sono ancora in "coma emotivo", impigliati nella ragnatela della paura, del tradimento, dell’orrore che li paralizza.
Confessano di non aver neppure la forza di denunciare. Non ne vogliono sapere di andare in tribunale, sarebbe rivivere il Calvario, che stanno tentando di cancellare dalla loro carne. E poi ci sono monsignori intoccabili, una sorta di casta, perché, a volte, si servono delle "opere buone" per coprire i loro delitti. Il brutto è che non sono capaci di gettare la maschera come, invece, fai tu. Ma se è gente che fa professione di fede e di carità; se è gente votata al vangelo, come fa a servire Dio e stuprare i suoi figli? E si fanno chiamare "padri"...
Vedi? Io vengo dal di dentro e conosco certi meccanismi o strategie clericali. Credo che uno dei fattori ai quali imputare questa contraddizione, sia la "troppa verità", che li porta all’arroganza della verità (quella che in passato ha fatto le "sante" crociate, bruciato streghe, condannato Galilei, collaborato con la "conquista" e con la shoà, ecc.). Quanta saggezza nelle parole di Paolo: "Chi sta in piedi non si esalti troppo, perché anche lui può cadere...".
Oh se tutti i Fisichella avessero un po’ di spazio dentro di sé (oltre che per la teologia e il catechismo) per accogliere le vittime! Forse è per la troppa verità di cui sono sazi; forse è per la troppa dottrina, che hanno bisogno di nascondersi dietro agli "operai del bene", che, per fortuna, ci sono ancora tra le loro fila, e spesso tollerati quando non ostacolati, contrariati, ecc.? Tu sai che io sono stato dieci anni con uno perseguitato da loro: Don Zeno, il quale non gliele mandava a dire e, con il suo esempio ha criticato e messo in evidenza certa cultura cattolica che non ha niente a che fare con il vangelo. Non si tratta di virgole, ma di vedere la dignità umana secondo gli occhi e il cuore di Dio. Ti faccio qualche esempio:
1 - La cultura clericale non ha sempre trattato il figlio della ragazza-madre come "figlio del peccato"? E lui ironizzava: "Mai sentito dire che il diavolo abbia fatto dei figli!". Quando veniva accolta in comunità una gestante, ci insegnava che era come un ostensorio della vita e, quindi, dovevamo rispettarla, onorarla e anche venerarla come si venera l’eucarestia.
2 - Nel 1943 all’ombra del Santuario di Pompei trova un istituto con la scritta "Casa dei figli dei carcerati". E lui va in bestia: "Questi bambini non sono i figli dei carcerati, ma i gioielli di Dio Padre, carne battezzata, senza macchia d’origine" (27.2.1943). E quando la comunità verrà sciolta dal braccio secolare, con il beneplacito della S. Sede, circa 700 "figli" sono strappati alle madri e riportati negli istituti, scoppiando dal dolore, dirà: "C’è da meravigliarsi che il clero abbia accettato collegi e orfanotrofi? Un flagello! A Pompei hanno fatto perfino la Casa dei figli dei carcerati. Una scritta a caratteri cubitali. Tu, prete, hai il coraggio di chiamare così coloro, che Dio ha scelto, perché rifiutati dagli uomini? Disprezzati dal mondo è un conto, ma anche dalla Chiesa non è troppo? É lecito commettere di questi guai? Siamo come il sacerdote e il levita della parabola del samaritano. Il Calvario è la storia di Dio nell’umanità e Cristo continua a dire alla Chiesa: Donna, ecco tuo figlio. E alle vittime: Figli, ecco vostra madre".
3- Di fronte a un’Italia alla fame, nel dopoguerra, scrive a Pio XII: "In rerum natura non si sono mai visti i babbi e le mamme benestanti e i figli poveri, affamati, ignudi, senza casa. Si è visto e si vede spesso l’inverso. Noi ecclesiastici, padri per divina elezione, di fronte ai figli siamo quindi contro natura, in peccato, dal quale hanno diritto di difendersi. Vuol cambiare rotta? Io ci sto e chissà quanti ci stanno..." (25.5.1953).
Ma Fisichella crede proprio che basta mascherarsi con le opere buone di madre Teresa per cancellare le migliaia di vittime della pedofilia clericale? Altro che insistere nel dire che si tratta di "casi isolati", di responsabilità personale di alcuni preti che "non dovevano diventare preti"! E quella dei vescovi che li hanno smistati qua e là? E la copertura...
La tua confessione "coram populo" ci invita tutti a gettare la maschera, a riconoscerci semplicemente uomini, a non ritenerci migliori degli altri, perché il nostro vanto è proprio quello di essere della stessa pasta di Adamo, creature fragili e perfettibili. Chi non ha bisogno di farsi perdonare qualche cosa? Perché i prelati non dovrebbero ammetterlo? Per salvare l’immagine? Che cosa è questa benedetta immagine se non, appunto, un’immagine?
Fisichella ha perso un’occasione unica durante la trasmissione di Annozero? Se invece di arrampicarsi sui vetri per difendere a tutti i costi la chiesa, (Cristo non ha bisogno di crociati, vecchi o nuovi), si fosse inginocchiato davanti alla donna stuprata per anni da don Contini, che cosa sarebbe successo? Un’occasione d’oro mancata. Mancanza di coraggio o di fede?
Certo, meglio la diplomazia, l’arte di non perdere la faccia, "l’istituzione va salvata ad ogni costo"! Ma Cristo, altro che faccia...!, non ha perso tutto quanto quando è andato ad "abitare" sul Calvario? Se è vero che vi sta a cuore l’istituzione, perché non prevenire tanto male, tanta aberrazione coltivata nei seminari, tanta cultura sessuofobica, che non vi fa vedere la corporeità, i figli, le donne, ecc. con gli occhi di Dio?
Perché non si ha questo santo coraggio? Perché siamo diventati ecclesio-latri, abbiamo messo la chiesa al posto di Dio? Ma dove esiste nel vangelo il "culto" alla chiesa, al papa, ai principi della Chiesa?
E quanti disastri continua a fare l’idolatria del prete? Cosa non si fa per fargli credere di essere "altro" dal popolo, un diverso, un eletto, un predestinato? Non si è forse elaborata una "dottrina" per metterlo sul piedestallo di Dio stesso?
La teologia distingue tra il sacerdozio di "uomini speciali" e il "sacerdozio comune dei fedeli". Al sacerdote sono affidati poteri essenziali per la salvezza: celebrare l’eucarestia e perdonare in nome di Dio. Il concilio di Trento dichiara: "Se uno dice che nel Nuovo Testamento non c’è traccia visibile del sacerdozio e del potere di consacrare il corpo e il sangue di Cristo e di rimettere i peccati, sia anatema" (n°. 961). Il celibato obbligatorio rinforza la mistica del prete, che lo pone al di sopra dei laici. Quando viene ordinato si unisce a Cristo in tale maniera che è sostanzialmente diverso dagli altri (catechismo, 1581), perché "possiede l’autorità di agire con il potere e nella persona di Cristo stesso" (1548). Viene messo sul pulpito, accanto a Dio, di cui gode onori e privilegi. Il curato d’Ars dice: "Che cosa è un prete? Un uomo che sta al posto di Dio, investito di tutti i suoi poteri. Quando perdona non dice "Dio ti perdoni", ma "Io ti perdono". Se incontrassi un prete e un angelo, prima saluterei il prete poi l’angelo. Questi è amico di Dio, il prete sta al suo posto". S. Teresa baciava dove passava un prete. "Il sacerdote agisce in persona Christi e questo culmina quando consacra il pane e il vino" (Giovanni Paolo II, giovedì santo 2004). La divisione tra preti e laici è di origine divina (can. 207). Ma l’aureola anzitempo gioca brutti scherzi: ti illude di essere costituito in grazia, immune dal peccato, specie da quello banale e volgare del sesso, che spetta ai comuni mortali. Il passaggio dal potere al privilegio, dall’elite alla casta è breve. E così va a finire che il clericalismo distorce, distrugge, avvelena la missione della Chiesa. Se non è la causa di molti problemi, certo li causa per conservare privilegi, potere, prestigio, immagine. Quindi non è ammessa nessuna debolezza, lo scandalo va soppresso, le vittime messe a tacere. Corruzione e abuso inevitabili (cf "Sex, priests & secret codes, R. Sipe, T. Doyle, P. Wall, Los Angeles, 2006).
Se si fa credere al prete di essere "come Dio", è chiaro che questo influisce e condiziona la sua psiche al punto di considerarsi al di sopra della legge umana e inconsciamente si permette delle libertà, che non sono concesse ai comuni mortali.
Non ce n’è abbastanza per riflettere e decidere di cambiare rotta?
* Il dialogo, Sabato, 04 agosto 2007
*Ringraziamo Fausto Marinetti per averci inviato questa sua lettera a Bruno Zanin, una vittima della pedofilia clericale che ha raccontato la sua storia in un libro che fa tremare: "Nessuno dovrà saperlo" dove con raro coraggio ammette, come conseguenza, di essere diventato omosessuale, non pedofilo. Per lui, come per tanti altre vittime della pedofilia dei preti, nessuno muove un dito, neppure le scuse come avviene in America dove le vittime hanno diritto alle pubbliche scuse del vescovo, possono "raccontare" in chiesa il "fattaccio" o scriverlo sul giornale della diocesi. Possono anche giungere ad erigere nella piazza di Davenport, davanti alla casa del vescovo, una macina da mulino con le parole di Cristo: "Chi scandalizza un bambino sarebbe meglio per lui mettersi una macina da mulino al collo e buttarsi nel mare".
Verrà il giorno in cui in piazza S. Pietro, al posto della fontana, si metterà una gigantesca macina da mulino a perpetua memoria delle vittime dei preti?
TRE ANNI DI PROVA PER LA MESSA IN LATINO
CITTA’ DEL VATICANO - Vinte le perplessità di molti episcopati nazionali e singoli vescovi, dato ascolto ai molti dubbi e obiezioni del suo gregge, dopo mille indiscrezioni e annunci smentiti, il Papa pubblicherà il motu proprio che liberalizza la messa in latino secondo il rito tridentino. Dal Concilio per celebrarla era necessario uno speciale "indulto" del vescovo, che Benedetto XVI abolisce, venendo incontro in questo modo alle aspirazioni dei cattolici più tradizionalisti. L’abbandono della messa in latino è stato, infatti, uno dei motivi di allontanamento dalla Chiesa cattolica di mons. Marcel Lefebvre e dei suoi seguaci, dichiarati scismatici da Roma. Il motu proprio "Summorum Pontificum cura", secondo indiscrezioni, dovrebbe entrare in vigore il 14 settembre per dare ai vescovi il tempo di organizzarsi per rispondere alle eventuali richieste dei fedeli di celebrazioni in latino, e sembra che, dopo tre anni, sarà chiesto ai vescovi di far giungere a Roma un resoconto sull’esperienza, indicando eventuali difficoltà. La pubblicazione dell’atteso documento è stata annunciata per domani da una nota della sala stampa vaticana.
La messa in latino secondo il rito tridentino, disposto dal papa san Pio V a seguito del Concilio di Trento (1542-1563), è rimasta in uso - con i successivi aggiornamenti - sino al 1970, anno in cui Paolo VI, dopo alcuni anni di sperimentazione, codificò nel nuovo messale la messa (in latino e nelle lingue moderne) secondo le indicazioni scaturite dalla costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium. L’ultimo messale romano aggiornato del rito tridentino fu pubblicato per disposizione di Giovanni XXIII nel 1962, lo stesso anno che si aprì il Concilio Vaticano II. Con il motu proprio - che in questi mesi è stato ampiamente modificato e rimaneggiato, per la reazione fortemente negativa di alcuni episcopati, in particolare quello francese -, papa Ratzinger pubblicherà anche una lettera esplicativa in cui presumibilmente cercherà di chiarire le perplessità di quanti temono che queste disposizioni significhino un ritorno al passato e una negazione del Concilio. E per favorire la ricezione positiva di questo testo la scorsa settimana ha convocato una riunione di cardinali e vescovi di tutto il mondo per illustrarne contenuti e obiettivi. Alcuni episcopati temono infatti di essere scavalcati, non essendo più necessario l’"indulto" del vescovo per celebrare secondo il rito tridentino. Intanto la agenzia vaticana Fides ha ammonito che il motu proprio "andrebbe accolto in maniera molto favorevole da tutti poiché si tratta non di un provvedimento restrittivo, ma di un vero "allargamento delle possibilità, secondo l’ormai nota linea ratzingeriana dell"allargamento della ragioné".
"A nessuno - rimarca Fides - sarà impedito alcunché, al limite verrà impedito di impedire la celebrazione secondo il rito antico". "Non si comprende - aggiunge l’agenzia - perché molti, talora forieri delle più libertarie teorie in molti campi, oggi temano una maggiore libertà nella scelta del rito in cui celebrare la divina Eucaristia. Impressione, fondata, è che siano essi i medesimi forieri di quella perniciosa creatività liturgica che troppo spesso stravolge i riti impedendo ad essi di parlare realmente al Popolo di Dio. Chi ha paura della libertà? Speriamo nessuno". "Il Motu proprio - è la conclusione - è un atto della responsabilità personale del Papa che allarga la libertà nella Chiesa".
* Ansa» 2007-07-06 20:10
"BRUCEREM IL VATICAN...."
di Angela Azzarro *
COME FAR ARRIVARE LA VOCE DEL GAY PRIDE AI MEDIA? COSA PENSA IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DI CIÒ CHE I SUOI ELETTORI, NON QUELLI DELLA DESTRA, GLI HANNO CHIESTO? FARÀ LA LEGGE SULLE UNIONI CIVILI E QUELLA CONTRO LE DISCRIMINAZIONI OMOFOBICHE? DIRÀ CHE LE OFFESE DA PARTE DEL VATICANO CONTRO GAY, LESBICHE, TRANS NON SONO PIÙ ACCETTABILI IN UNO STATO LAICO? *
Ventiquattro ore dopo il Family day i più grandi giornali e telegiornali italiani non avevano avuto dubbi: il titolo di apertura era stato dedicato - nella stampa scritta, a caratteri cubitali - al presunto milione che aveva occupato piazza San Giovanni in difesa dei valori tradizionali. I giorni successivi la litania non era cambiata: tutto un susseguirsi di dichiarazioni e servizi per dire che quella manifestazione chiedeva, pretendeva una risposta da parte della politica.
Il giorno dopo il Pride, con un milione di donne e uomini in piazza per chiedere l’estensione dei diritti a tutte e tutti, la stampa e i tg non hanno avuto lo stesso riguardo. Portare tante persone, gay, lesbiche, trans, non è bastato per conquistare i titoli di apertura, né per sperare che il lunedì fosse dedicato alle reazioni della politica. Che cosa farà da oggi il governo Prodi? Cosa pensa il presidente del Consiglio di ciò che i suoi elettori, non quelli della destra, gli hanno chiesto? Farà la legge sulle unioni civili e quella contro le discriminazioni omofobiche? Dirà che le offese da parte del Vaticano contro gay, lesbiche, trans non sono più accettabili in uno Stato laico?
Silenzio. Un assordante silenzio, con Prodi che preferisce denunciare «la brutta aria» che c’è nel Paese, riferendosi alla destra che blocca le decisioni. Insomma, per parafrasare la sua dichiarazione: aria fritta. La distanza tra i cittadini, le cittadine e la politica, anche e soprattutto quella fatta dai media, non era mai stata così ampia. Drammatica. La crisi della politica e della rappresentanza così pesante e disarmante. Se il Papa parla e offende gay, lesbiche o trans accusandoli di essere pedofili e perversi le prime pagine sono assicurate, blindate. Si riempiono subito di titoli cubitali. Poche le proteste. Poche le voci di editorialisti che si sollevano per dire che così cresce l’odio, la violenza contro gli omosessuali. Poche voci si sollevano dal pulpito dei grandi quotidiani per dire che non approvare una legge sulle unioni civili è un fatto grave, che lede l’uguaglianza sancita dalla Costituzione.
A questo punto resta la domanda: che cosa fare per conquistare spazio, visibilità alle ragioni della civiltà e della laicità? Non è bastato, nel silenzio degli organi di informazione, portare un milione di persone in piazza. Non è bastato riempire piazza San Giovanni con una manifestazione rabbiosa, ma pacifica, dura ma anche orgogliosa. No, non è bastato. Bisogna forse arrivare a gesti eclatanti davanti al Vaticano o al Parlamento, bruciarsi come gesto disperato, come un ultimo tentativo di vedersi riconosciuto un diritto? Certo è che così non si può andare avanti. La totale impermeabilità tra media e politica da una parte e società civile dall’altra è talmente alta che non si può stare più indifferenti.
Fa bene Aurelio Mancuso, presidente dell’Arcigay, a lanciare lo sciopero fiscale e a invitare lesbiche, gay, trans a restituire le tessere elettorali. In Italia le persone non eterosessuali sono considerate cittadine di serie B, non godono degli stessi diritti. Tanto vale allora non assumersi neanche i doveri oppure esasperare lo scollamento privandosi della possibilità di decidere chi votare e chi no. Forse così i politici capirebbero, forse così capirebbe anche la Chiesa che dei contributi Irpef vive. Lo capirebbero anche le cosiddette famiglie tradizionali al cui welfare contribuiscono quegli uomini e quelle donne che, oggi, non possono avere una relazione riconosciuta e tutelata, oppure come single non possono sperare in nessuna facilitazione.
Il Pride di sabato è riuscito perché ha parlato un linguaggio che coinvolge tutte e tutti. Non riguarda solo gay, lesbiche e trans. Lo ha dimostrato l’ampia partecipazione in maniera organizzata del movimento femminista e l’ampia presenza di eterosessuali. E’ importante che quel coinvolgimento continui e che le associazioni omosessuali non siamo lasciate sole in questo momento, forse il più delicato, quello più duro da digerire. Non si aspetti l’ennesima esternazione del Papa per risollevare la richiesta delle unioni civili. Deve essere un sentire comune, una richiesta continua, condivisa, in ogni sede, in ogni occasione. Ma prima di tutto bisogna affrontare il rapporto con l’informazione, metterlo al centro dell’azione politica. Oggi sicuramente i giornali daranno molto più spazio alle polemiche sullo spettacolo annullato a Bologna "La Madonna piange sperma", perché considerato blasfemo, che alle richieste di un milione di persone.
NAZARET senza acca ...... e "Deus caritas est" anche, purtroppo, e da secoli!!!
Bagnasco: "Il no ai Dico?
Come a pedofilia e incesto"
Poi la Cei: "Male interpretato"
Il capo dei vescovi: "Domani si potrebbero legalizzare altre aberrazioni". Poi una nota : "E’ stato forzato il suo pensiero". Duri Pecoraro Scanio e Pollastrini. Mastella: "Atteggiamenti isterici". Berlusconi: "Vescovi liberi di esprimersi, ma i laici sono liberi di pensare il contrario
Le debolezze di Benedetto sedicesimo
di Filippo Gentiloni (il manifesto, 18.03.2007)
Giorno dopo giorno si chiarisce sempre meglio la linea del pontificato di Benedetto XVI: la sua strategia, ma anche la sua debolezza. In primo piano una pretesa, quella di restituire al Vaticano la possibilità di un magistero universale, ascoltato da tutto il mondo, anche se non sempre seguito. Un freno a quel relativismo - tutte le posizioni sono egualmente valide, tutte incerte - che è, per il papa, la malattia mortale del mondo moderno.
Per la chiesa cattolica un magistero privilegiato, non una posizione di parità con tutte le altre cattedre. Lo esigerebbe la verità. Una posizione indubbiamente rigida, contraria allo spirito e alla cultura moderni ma in linea con una certa forte tradizione cattolica. Una posizione che trova il suo sostegno non tanto nel Vangelo quanto in una presunta ragione. Il Vangelo, infatti non è di tutti ma soltanto dei credenti cristiani (cattolici), mentre la ragione - quella di Ratzinger - si presume universale. In nome della ragione il papa potrebbe parlare a tutti (sul matrimonio e la famiglia, ad esempio, sulle nascite e le morti).
La debolezza di questa posizione è evidente, nonostante le sue pretese. La ragione, ormai da qualche secolo (dalle scoperte geografiche?) non è più eguale per tutti. Non esiste più - se mai è esistita - una ragione unica e universale, anche in Africa e in Oriente, della quale il Vaticano sarebbe custode.
Perciò il discorso di Ratzinger appare carico di una rigida pretesa ormai fuori tempo, antistorica. La sua base - il rapporto stretto fra fede cattolica e ragione universale - non regge più. Una debolezza che non può non venire alla luce. Perciò hanno buon gioco le contestazioni, sia quelle chiare che provengono dal mondo laico e di altre fedi, sia quelle più velate che hanno origine dallo stesso mondo cattolico. Significative le perplessità estremamente autorevoli dello stesso cardinale Martini. Significativi anche i tentativi vaticani di colpire in qualche modo chi si oppone, come nel caso di Sobrino, esponente di spicco della teologia della liberazione. Proprio quella teologia che, sull’onda del Concilio, aveva cercato di superare l’ancoraggio della fede alla ragione, rafforzando, invece, quello alle pagine bibliche. Ma il concilio Vaticano II dal pontificato di Benedetto XVI sembra ormai lontano, ben più di qualche decennio.
Bisognerà cominciare, come qualcuno ha detto, a pensare a un altro concilio?
"Amore non è se non godimento. Io amo le donne così come amo il vino, il gioco, la scienza. In altri termini: il vino, il gioco, la scienza mi procurano diletto. E il diletto è il senso ultimo della vita. Non si gode per nessun altro fine: è il godimento il fine ultimo"
Lorenzo Valla (1407-1457)
Caro Biagio Allevato
vedo che, avendo frequentato la scuola del "cattolicesimo" platonico e la loro "caverna a luci rosse, le lezioni della Voce di Fiore cominciano a farti bene e a renderti - finalmente - spiritoso e a riattivare la tua memoria - quella delle tue origini, di Gioacchino, e di San Giovanni in Fiore: Die Heilung durch den Geist!!!
Morrone e Vattimo insegnano: il Festival di Filosofia in Calabria ha riaperto i collegamenti con l’epoca che viene - e già annunciata!!!
Bravo!!! La (solle)citazione di Lorenzo Valla è molto pertinente ... ma devi assolutamente andare oltre il "latinorum" del "logo" di Mammasantissima (e del suo Figlio-Padrino), perché - se non comprendi l’importanza dell’"H" - rischi solo di prenderti un "ictus"!!! Non una malattia sessuale!!!
Co-ito viene dal latino: co-eo, co-ire e, tradotto, in italiano correttamente vuol dire "andato insieme, accoppiato, unito, con-giunto" con un’altra persona. Quindi il tuo "co-ito ergo sum" denuncia un’incertezza. Devi camminare ancora!!! Così è un passo ... con te stesso - ancora confuso!!! Con chi ti accompagni, quando cammini con la tua persona - con te stesso - o con un’altra persona? Con il "Dio" dei nostri "Padri" (Giuseppe") e delle nostre "Madri" - Amore, o con il "Dio" di "Mammasantissima" - Mammona?! Questa è la differenza - non della "natura" (e di tutti i suoi sessi - omosessuale maschile, omosessuale femminile, bisessuale, transessuale, eunuchi, ecc...), ma del "Dio" che spinge all’accoppiamento delle "due persone" - come all’interno così all’esterno, come in cielo così in terra!!!
Che vuoi fare?!!! Vuoi seguire Mammona (Deus caritas est) o Amore (Deus charitas est)? Solo su questa strada è possibile capire il "grande comandamento" e la differenza tra i pesci vivi e i pesci morti - quelli con la H e quelli senza !!! Vedi tu ... e cerca di stare bene (eu-).
Questo insegna Lorenzo Valla: il godimento!!! La differenza tra vero e falso bene (De voluptate) - tra il buon-messaggio (charitas) e il cattivo-messaggio (caritas) - il vangelo della morte (ictus)!!! Leggi bene ... e non confondere il Logos di Giovanni, con il "logo" dei mercanti e dei figli di Mammona e di Mammasantissima!!!
A Lorenzo Valla, in eterno!!!
La Fenomenologia dello Spirito dei "Due Soli" fa sempre più passi avanti
Biagio e Federico,
giuro, i vostri botta e risposta sono favolosi, mitici. Una sfida all’ultimo motto, all’ultimo verbo, all’ultima parola.
Un inseguimento catartico, un’intesa manifesta, un in-contro d’amorosi dissensi.
Un parto delle nuvole pesanti.
Mi inchino e vi ringrazio davvero di cuore, certo che, in ultimo, vi ritroverete d’amore, davanti all’Amore, nel regno dei cieli.
Vostro frate Emiliano
Caro frà Emiliano,
come avrai notato il "duello" prosegue senza risparmio di colpi, condotto dal nostro Federico con la più raffinata arte. Le sue parole scintillano come spade affilatissime, ma la vittoria è tenuta sempre in pugno dal "digiunante" (siamo in tempo di Quaresima)...
Il vittorioso sarà chiunque saprà dire di NO (vedi Chiesa) proprio a quelle seduzioni così chiaramente espresse nel dialogo "De Voluptate" citato dal nostro Prof. Come si possa dapprima inneggiare all’edonismo, e quindi all’utilitarismo, all’individualismo e all’egoismo, per poi denunciare e condannare quelle ingiustizie (verso le donne, per esempio) della nostra società che sono i frutti di questo comportamento scellerato, che finisce per privilegiare i più forti e i più furbi, per me resta un mistero !
Ma non è forse questa la "cultura" che porta al consumismo più sfrenato (non solamente di beni materiali, ma pure di droge ! ), a un così disordinato senso della sessualità, interpretata come un superficiale godimento, al quale si può benissimo subordinare la nostra stessa dignità di persone (vedi per es. vallettopoli) ?
In una società come la nostra, alla ricerca della gratificazione immediata, non poteva non attecchire quella "cultura della morte" che tutti possiamo constatare e che ritiene l’aborto e l’eutanasia beni e diritti . Dove sono finiti i valori, il senso della vita ? Contro questo soggettivismo etico, per fortuna, si è sempre schierata la Chiesa, illuminandoci la strada attraverso la Verità su Cristo, su se stessa e sull’uomo.
Non confondiamo la Croce di Cristo, morto per la salvezza di tutti, con la croce ansata di quei culti fallici pagani, tanto cari a quei faraoni egiziani che il Prof. La Sala prende come riferimento per schernire la figura del nostro Santo Padre...
Pax et Bonum.
Blasius
Carissimo e stimatissimo Biagio,
con Federico - il prof. La Sala, per i più - c’è un confronto quotidiano e un dibattito continuo. Non mi sembra che la faccenda in questione si possa schematizzare con una contrapposizione del tipo aut aut. E non mi pare, in fondo, che Federico lo faccia. So che lui ricorre a una serie di provocazioni. Del resto tu rispondi, come si dice, per le rime. Ma, credimi, può esserci una via di mezzo. Io, per esempio, non punto affatto la spada contro la Chiesa. Ma riconosco che certi suoi metodi, certi suoi contenuti e certi suoi linguaggi sono proprio fuori del tempo. E se mirano ad avvicinare gli altri, in realtà non fanno che allontanarli. L’ho verificato nel piccolo, frequentando un gruppo di giovani che discutono settimanalmente di fede e cristianesimo. M’è parso di intendere, e lo scrivo con umiltà, che molti di loro pratichino un cristianesimo di dottrina, rigido, giudicante e discriminante. Io trovo, e lo dico senza demagogia o volontà di convertire, che la posizione di Vattimo sull’universalità del cristianesimo sia la più condivisibile tra quelle in giro. Sai che ti stimo e ti voglio bene. Per questo, ti dico: attenzione, Dio l’hanno ucciso i credenti. E la Sua resurrezione è, a mio avviso, in prospettiva della Salvezza. Ma la Salvezza è rivolta a tutti quanti si convertiranno e opereranno la Sua carità. Non convince chi, in forza d’uno scientismo metafisico prodotto dalla secolarizzazione, impone l’(unica) area della moralità. "Non giudicate", è scritto nel Vangelo. Conto nella tua apertura (al dialogo).
Ti ringrazio e ti abbraccio.
Tuo Emiliano, frate florense
INTERVISTA Ha ragione il Papa: solo eros e agape rendono possibile la conoscenza, anzi fanno dell’altro una persona. Parla il filosofo Marion
Senza amore non si pensa
«Da Galileo in poi, gli affetti appaiono secondari in filosofia rispetto alla ragione. Invece non sono soltanto passioni dell’animo, bensì costituenti originari dell’ego»
Da Parigi Daniele Zappalà (Avvenire, 05.05.2007)
«
L’amore è molto più che una passione o un affetto. In un certo senso, è molto più di una conoscenza. È ciò che rende possibile la stessa conoscenza». Lo sostiene è il filosofo francese Jean-Luc Marion, successore di Emmanuel Lévinas alla Sorbona e di Paul Ricoeur all’Università di Chicago. Il Fenomeno Erotico, appena tradotto in Italia per Cantagalli (pp. 288, euro 18,50), ha già suscitato forti reazioni in Francia.
Professore, lei denuncia l’indifferenza della filosofia moderna verso l’amore. Come la spiega?
«Dall’epoca di Galileo in poi, gli affetti appaiono secondari in filosofia rispetto al pensiero teoretico, la cui analisi si basa sulla conoscenza e la rappresentazione. Soprattutto, si comincia a parlare di odio, amore e dei diversi affetti solo sulla base di un ego già costituito. L’amore, in altri termini, è visto come una passione dell’animo e non come un costituente originario dell’ego. Ciò che cerco di mostrare, invece, è che l’amore e l’odio precedono lo stesso ego e giungono in vista della sua costituzione».
Può farci qualche esempio?
«L’ego si esprime, per così dire, sotto forma di figure o stadi amorosi. Innanzitutto, la situazione di voler essere amati. Poi, voler amare a condizione di essere amati. In seguito, prendere la decisione di amare senza essere amati».
Il pensiero contemporaneo è attraversato dal tema dell’angoscia verso la complessità delle relazioni sociali. Esistono oggi maggiori ostacoli al desiderio di amare?
«Questa cosiddetta angoscia, soprattutto rispetto alle relazioni sociali, diventa comprensibile a mio avviso come una manifestazione dell’amore. L’angoscia non esisterebbe se il nostro rapporto col mondo fosse esclusivamente d’interesse, di conoscenza e di rappresentazione. Questo rapporto col mondo è in realtà fin dall’inizio permeato dall’amore, erotizzato in senso lato. Ciò è vero, del resto, anche per la stessa attività filosofica. Fin dall’origine, la filosofia è amor e della saggezza e non saggezza. Prima della conoscenza, esiste l’amore della conoscenza».
Comunemente, l’amore è immaginato come una pura emozione slegata da solidi appigli razionali. Che ne pensa?
«In un certo senso, l’amore è una forma di conoscenza. È solo amandola o odiandola che posso avere davvero accesso a una persona. La pura emozione, il puro piacere, il puro odio diventano significativi all’interno di questo processo di accesso all’altro o a se stessi. A mio avviso, è decisivo comprendere che esiste sempre un itinerario fra due soggetti, un itinerario che obbedisce a una propria logica».
Una logica che include il dono...
«Questo legame fra amore e dono appare in una situazione: quando l’individuo comprende chiaramente che è impossibile amare solo a condizione che l’altro ami. Una forma, o se vogliamo uno stadio, molto comune di amore consiste nell’esser pronti ad amare a condizione che l’altro ci ami. Ma questa reciprocità in realtà rende impossibile l’amore, riducendolo come a una forma di contratto. Un contratto, soprattutto, che non può essere rispettato. Se per amare attendo che l’altro mi ami, dovrò attendere molto a lungo e, in ogni caso, amerò molto poco. Per amare, occorre in realtà far sempre il primo passo. Se l’amore è visto come uno scambio e non come un dono, esso non supererà mai un certo stadio di maturazione e rischierà sempre di precipitare».
Amare significa anche veder emergere l’altro come persona?
«Direi che l’altro diventa persona all’interno di un processo d’amore. Nella vita di tutti i giorni, in genere non incontriamo gli altri in qualità di persone, ma in una funzione sociale che altri potrebbero ricoprire al loro posto. Siamo una persona se amiamo o siamo amati. In caso contrario, rischiamo di restare esseri umani in un senso più spersonalizzato». Internet e le comunicazioni a distanza creano talora l’impressione di forme di passione interpersonale, di «amore», senza mediazione del volto. Ciò è davvero possibile? «Solo il linguaggio, compreso quello del volto, può creare una situazione di amore. Una relazione sessuale senza la parola non è erotica. Mentre una relazione non sessuale con la parola può spesso divenire erotica in senso lato. Anche il volto parla, è essenzialmente una parola o un principio di parola».
In che senso l’amore umano può divenire trascendente?
«L’amore fra esseri umani è trascendente perché trascende l’individualità di chi ama in direzione di chi è amato. Da un punto di vista cristiano, i comandamenti dell’amore verso Dio e verso il prossimo corrispondono a un unico imperativo. Per questo, le regole dell’amore di Dio e dell’amore dell’altro possono essere confrontate».
Che impressione le ha lasciato la prima enciclica di Papa Benedetto XVI dedicata all’amore?
«Trovo molto positivo che l’insegnamento del Magistero si concentri sul centro della rivelazione cristiana. È strano, in proposito, che quest’enciclica sia apparsa a qualcuno come un’originalità. Trovo che la distinzione fra eros e agape sia molto utile, soprattutto per ritrovare l’origine comune e l’unità dell’amore. Tale distinzione non dovrebbe invece mai lasciar pensare che esistono due tipi di amore e credo si tratti di uno dei punti più forti dell’enciclica. Trovo perfettamente giusto e come un’innovazione il fatto di ricordare questa verità della filosofia e, credo, anche della teologia spirituale. L’amore ha una propria razionalità, unica ed universale. Una razionalità che non esige la ricerca della reciprocità».
IN LUNGHE CATENE DIFFICILI DA SPEZZARE
di AUGUSTO CAVADI *
Per diventare misogino, essere cattolico non e’ necessario. Ma aiuta. Non e’ necessario: infatti i rudimenti della concezione della donna come maschio quasi perfetto me li ha impartiti un padre miscredente, laico, socialista (pre-craxiano: nenniano). Ma aiuta: infatti, quando - con stupore e disappunto da parte dei miei genitori - sono entrato nell’associazionismo cattolico, ho ben presto misurato la distanza fra la rivoluzionarieta’ di certe asserzioni ed il conservatorismo della pratica quotidiana. Da una parte il papa scriveva che l’essere umano puo’ considerarsi "imago Dei" solo in quanto coppia; dall’altra, si dava (e si da’) per scontato che una persona di sesso femminile non possa presiedere una comunita’ celebrante. Il mio esodo - progressivo, ma inarrestabile - dalla cultura cattolica passo’ per un episodio preciso. Un prete piu’ anziano di me - peraltro tra i piu’ preparati della sua generazione - volendo esprimere con forza il suo dissenso da una mia opinione, trovo’ spontaneo apostrofarmi con un inequivoco: "Ma hai proprio un cervello da femmina!". Obiettai solo, con un sorriso amaro, che speravo di averne meta’ femminile e meta’ maschile: in modo che, junghianamente, sarei potuto essere "completo".
So che certe distinzioni risultano fastidiose o, per lo meno, farraginose. Ma non sempre si possono evitare. Per esempio, quella suggerita da un’acuta fucilata di Nietzsche (recentemente definito da Rene’ Girard il piu’ grande teologo dopo san Paolo): c’e’ stato un solo cristiano ed e’ morto sulla croce. Che, tradotto in altri termini, significa: una cosa e’ stata la "buona notizia" annunziata dal maestro nomade di Galilea ed un’altra la dottrina cattolica (e, piu’ in generale, cristiana) che si e’ sviluppata a partire da quel seme. La psicanalista e teologa protestante Hanna Wolff lo ha spiegato in uno dei quattro o cinque libri che mi hanno cambiato la vita (Gesu’, la maschilita’ esemplare, Queriniana, Brescia 1985): il Nazareno (per quanto possiamo cogliere da un’esegesi accurata dei quattro vangeli) ha saputo accettare il femminile dentro di se’ e, proprio per questo, non aver paura del femminile fuori di se’. Egli ha dunque rotto con la tradizione patriarcale precedente, ma la sua rottura e’ stata tanto eclatante che i discepoli non sono riusciti a reggerla: e, subito dopo la sua morte, hanno attivato processi di normalizzazione. Col risultato che, dopo la breve parentesi gesuana, l’antifemminismo ha ripreso vigore, si e’ fatto senso comune e ha improntato di se’ l’occidente cristiano.
Se ci chiediamo se questa mentalita’ della disparita’ ontologica e psicologica fra maschi e femmine (dura a destrutturarsi persino oggi, dopo decenni di femminismo teorico e militante) spieghi, da sola, l’impressionante catena di violenza contro le donne, non possiamo che rispondere negativamente. Che cosa, allora, trasforma una cultura maschilista in pratiche prevaricatrici? Ho l’impressione che entri in gioco non questo o quell’altro fattore, bensi’ un groviglio - difficilmente solubile - di fattori. Tra cui primeggia una connotazione peculiare dell’immagine femminile agli occhi di noi uomini: la diversita’. Sin da bambino, il pianeta-donna ha esercitato nei miei confronti una duplice, contraddittoria, forza: di attrazione e di paura, di curiosita’ e di diffidenza, di desiderio e di minaccia. Per ragioni varie, che solo in minima parte potrei attribuire a meriti miei, maturare come persona ha significato - tra l’altro - sciogliere questa ambiguita’ e lasciar prevalere, di fronte ad ogni diversita’ (le donne, ma anche gli omosessuali, gli immigrati di colore, i portatori di handicap fisici e psichici...), il sapore della familiarita’ rispetto al sentimento di estraneita’. Ovviamente, familiarita’ non equivale ad omologazione. Avvertire cio’ che, in radice, accomuna non implica cecita’ riguardo alle differenze che interpellano le nostre certezze.
Qui, forse, uno dei bivi decisivi. C’e’ chi accetta la sfida della diversita’ (e, nel caso di maschi, del femminile come metafora di ogni diversita’) per mettersi in gioco, per riaffermare alcune convinzioni ma anche liberarsi da pregiudizi e da errati giudizi; e c’e’ chi non la regge e, per quanto sta in lui, tenta di sopprimerla. Non e’ un caso che, di solito, le idiosincrasie s’inanellino in lunghe catene difficili da spezzare: misoginia, omofobia, razzismo... E’ di per se’ evidente che questa mentalita’ sia - gia’ a livello ideologico - violenta. Ma, poiche’ in genere il diverso e’ piu’ debole (fisicamente, economicamente, militarmente...), il pensiero omologante ha mille occasioni per farsi gesto prepotente: stupro, derisione, schiavizzazione... Quando un soggetto allergico alla diversita’ si impossessa - sessualmente o socialmente - dell’altro, ha la sensazione di aver risolto molti problemi in un solo colpo: da una parte ha soddisfatto attrazione, curiosita’, desiderio; dall’altra ha cancellato dal proprio orizzonte ogni fonte di paura, di diffidenza, di minaccia. Ma, proprio nella misura in cui riesce a fagocitare e a spazzar via ogni alterita’, egli desertifica il piccolo mondo che lo circonda e costruisce da se’ la prigione dell’isolamento. Ecco un punto nevralgico: chi progetta ed esercita violenza, nonostante le intenzioni, si condanna alla solitudine. Come i signorotti medievali, deve scavare fossati sempre piu’ profondi per distanziarsi dagli estranei: ma, con cio’, trasforma in gabbie dorate il suo stesso castello. Sara’ proprio perche’ amo la solitudine come opzione, ma la detesterei se la sperimentassi in tempi e modi non programmati, che mi viene abbastanza facile sottrarmi alla tentazione di usare violenza. Cio’ non significa, purtroppo, che di fatto non sia stato troppe volte violento - nel corso della vita - con persone diverse da me per indole, formazione e prospettive (quali, per esempio, delle donne con cui ho condiviso tratti di strada importanti): ma ogni volta che non ho saputo gestire il conflitto, provocando nell’altro/a la decisione di fuggire, l’ho considerata - nonostante le apparenze - una mia sconfitta.
* Fonte: NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 80 del 5 maggio 2007 - articolo apparso su "Mezzocielo", anno XV, n. 1, 2007, dal titolo originale "Un uomo davanti al pianeta donna"
Il Papa parla Conferenza degli alti prelati del continente, denunciando i rischi della globalizzazione e rilegittimando "l’opzione preferenziale per i poveri"
Benedetto XVI ai vescovi latinoamericani
"Falliti Marx e capitalismo, serve Gesù" *
APARECIDA - Da più di cinque secoli il cristianesimo, integrandosi con le etnie indigene, ha creato in America latina "una grande sintonia pur nella diversità di culture e lingue". E oggi, anche se "l’identità cattolica" del continente è minacciata, il cristianesimo resta decisivo per la dignità e lo sviluppo integrale di uomini e donne. E questo tanto più davanti al fallimento di marxismo e capitalismo, con la loro promessa di creare strutture sociali "giuste" che avrebbero automaticamente "promosso la moralità comune".
E’ il messaggio di Benedetto XVI ai vescovi latinoamericani, riuniti nel santuario di Aparecida per la loro quinta Conferenza generale. Il Papa dichiara la "continuità" tra questa e le precedenti riunioni, parla di situazione cambiata in questi anni, a causa dei risvolti negativi della globalizzazione, e denuncia il "rischio" che i grandi monopoli trasformino "il lucro in valore supremo". Rilegittima inoltre la "opzione preferenziale per i poveri", cara alla Teologia della liberazione, dichiarandola "implicita nella fede cristologica in quel Dio che si è fatto povero per noi".
Davanti a 266 vescovi - 162 membri effettivi, 81 invitati, 8 osservatori e 15 periti - che da domani e fino al 31 maggio si interrogheranno su come costruire il futuro della Chiesa, insidiata da secolarizzazione e sette, nel più grande continente cattolico del mondo - Benedetto XVI si pone in una prospettiva diversa rispetto a Giovanni Paolo II, che parlò di luci e ombre dell’introduzione del cristianesimo in America latina, riconoscendo che alcuni cristiani portarono la fede, ma anche forme di crudele colonizzazione. Il cristianesimo, sottolinea invece il papa-teologo, si è integrato nelle etnie, ha creato unità e non è estraneo a nessuna cultura e persona.
Non hanno dunque senso certe tendenze indigeniste: "L’utopia di tornare a dare vita alle religioni precolombiane, separandole da Cristo e dalla Chiesa universale, non sarebbe un progresso, bensì un regresso, una involuzione". Il cristianesimo sa invece affermare che "i popoli latinoamericani e dei Caraibi hanno diritto a una vita piena", "con alcune condizioni più umane", senza "fame e ogni forma di violenza".
Benedetto Xvi spiega inoltre che "la Chiesa non fa proselitismo. Si sviluppa per attrazione": probabilmente, un modo per sottolineare in maniera indiretta le differenze, rispetto alle sette pentecostali molto presenti in America Latina.
E con la presenza ad Aparecida, il viaggio in Brasile del Pontefice volge alla fine. Nella notte italiana, è previsto il volo di ritorno, verso il Vaticano.
* la Repubblica, 13 maggio 2007
Anticipazione [da: Etica e morale, Morcelliana, pagine 116, euro 10,50
Il «testamento» del grande pensatore, erede della filosofia personalista, sull’etica come sintesi di prassi e norma morale fondata sul dialogo reciproco fra i diversi
Ricoeur, la vita buona è aver cura dell’altro
D efinirei la prospettiva etica con questi tre termini: auspicio della vita buona, con e per gli altri, all’interno di istituzioni giuste. Le tre componenti della definizione sono egualmente importanti. Parlando innanzitutto della vita buona, desidererei sottolineare il modo grammaticale di questa espressione tipicamente aristotelica: è ancora quello dell’ottativo e non già quello dell’imperativo. È, nel senso più forte della parola, un auspicio ( souhait): «Possa io, possa tu, possiamo noi vivere bene», e anticipiamo l’adempimento di questo auspicio con una esclamazione del tipo: «Felice colui che... !». Se la parola ’auspicio’ sembra troppo debole, parliamo - senza particolare fedeltà a Heidegger - di ’cura’: cura di sé, cura dell’altro, cura delle istituzioni.
Ma la cura di sé è un buon punto di partenza? Non sarebbe più opportuno partire dalla cura dell’altro? Se tuttavia insisto su questa prima componente, è proprio per sottolineare che il termine ’sé’ - che amerei associare a quello di ’stima’ sul piano etico fondamentale, riservando quello di ’rispetto’ al piano morale, deontologico della nostra ricerca - non si confonde affatto con l’io ( moi), e quindi con una posizione egologica che dall’incontro con l’altro sarebbe neces- sariamente sovvertita. Sono due le cose fondamentalmente stimabili in sé: innanzitutto, la capacità di scegliere in base a delle ragioni, di preferire questo a quello - in breve, la capacità di agire intenzionalmente; poi, la capacità di introdurre cambiamenti nel corso delle cose, di cominciare qualcosa nel mondo, la capacità di iniziativa. In tal senso, la stima di sé è il momento riflessivo della praxis: apprezzando le nostre azioni apprezziamo noi stessi in quanto ne siamo autori, e quindi in quanto altra cosa da semplici forze della natura o semplici strumenti. Si dovrebbe sviluppare tutta una teoria dell’azione per mostrare come la stima di sé accompagni la gerarchizzazione delle nostre azioni.
Passiamo al secondo momento: vivere bene con e per gli altri. In che modo la seconda componente della prospettiva etica, che designo con il bel nome di ’sollecitudine’, si connette con la prima? La stima di sé, con la quale abbiamo cominciato, non porta in sé, in ragione del suo carattere riflessivo, il pericolo di un ripiegamento sull’io, di una chiusura, di contro all’apertura sull’orizzonte della vita buona? Nonostante questo pericolo certo, la mia tesi è che la sollecitudine non si aggiunge dal di fuori alla stima di sé, ma ne dispiega l’implicita dimensione dialogale.
Stima di sé e sollecitudine non possono viversi e pensarsi l’una senza l’altra. Dire sé non è dire io. Sé implica altro da sé, affinché possa dire di qualcuno che stima se stesso come un altro. In verità, solo per astrazione si può parlare della stima di sé senza metterla in coppia con una richiesta di reciprocità, secondo uno schema di stima incrociata, riassunta nell’esclamazione ’anche tu’: anche tu sei un essere di iniziativa e di scelta, capace di agire secondo ragioni e gerarchizzando dei fini; e, stimando buoni gli oggetti della tua ricerca, sei capace di stimare te stesso. L’altro ( autrui) è colui che può dire io al pari di me e, come me, considerarsi un agente, autore e responsabile dei suoi atti. Altrimenti, nessuna regola di reciprocità sarebbe possibile. Il miracolo della reciprocità sta nel fatto che le persone siano riconosciute come insostituibili nello scambio stesso.
Questa reciprocità degli insostituibili è il segreto della sollecitudine. In apparenza, la reciprocità sembrerebbe completa solo nell’amicizia, ove l’uno stima l’altro quanto sé. Ma la reciprocità non esclude una certa inadeguatezza, come nella sottomissione del discepolo al maestro. L’ineguaglianza tuttavia è corretta dal riconoscimento della superiorità del maestro, riconoscimento che ristabilisce la reciprocità. Inversamente, l’ineguaglianza può provenire dalla debolezza dell’altro, dalla sua sofferenza. In questo caso è compito della compassione ristabilire la reciprocità, nella misura in cui, nella compassione, colui che pareva il solo a donare riceve, attraverso la gratitudine e la riconoscenza, più di quanto abbia donato. La sollecitudine ristabilisce l’eguaglianza là ove essa non è data, come invece nell’amicizia tra eguali.
Vivere bene, con e per l’altro, all’interno di istituzioni giuste. Che la prospettiva del vivere bene comprenda in qualche modo il senso della giustizia, è implicato nella nozione stessa dell’altro. L’altro è tanto l’altro quanto il tu. Correlativamente, la giustizia s’estende al di là del ’faccia a faccia’.
Sono qui in gioco due asserzioni: per la prima, il vivere bene non si limita alle relazioni interpersonali, ma s’estende alla vita nelle istituzioni; per la seconda, la giustizia presenta dei tratti etici non contenuti nella sollecitudine, essenzialmente un’esigenza di eguaglianza d’altro tipo rispetto a quello dell’amicizia.
Riguardo al primo punto, come «istituzione» si deve intendere, a questo livello della ricerca, tutte le strutture del vivere insieme di una comunità storica, irriducibili alle relazioni interpersonali e tuttavia connesse a esse in un senso significativo che la nozione di distribuzione - quale si ritrova nell’espressione ’giustizia distributiva’ - permette di chiarire.
In effetti, si può intendere una istituzione come un sistema di divisione, di ripartizione, attinente a diritti e doveri, redditi e patrimoni, responsabilità e poteri - in breve, vantaggi e oneri. Proprio questo carattere distributivo - nel senso ampio della parola - pone un problema di giustizia. Una istituzione ha un’ampiezza più vasta del ’faccia a faccia’ dell’amicizia o dell’amore: nell’istituzione, e attraverso i processi di distribuzione, la prospettiva etica s’estende a tutti coloro che il ’faccia a faccia’ lascia fuori in quanto terzi. Si forma così la categoria del ciascuno - che non è affatto il si - ma il partner di un sistema di distribuzione. La giustizia consiste precisamente nell’attribuire a ciascuno la sua parte.