Al di là del relativismo, dell’assolutismo, e dello scetticismo...

L’AMORE PER LA VERITA’, IL FASCINO DELLA LEGGE, E LA DEMOCRAZIA. "Perry Mason" di Erle Stanley Gardner e "Rashomon" di Kurosawa: che belle lezioni di filosofia!!! Un breve "saggio" di Gianrico Carofiglio - a cura di Federico La Sala

domenica 16 settembre 2007.
 

[...] Il processo dunque, attraverso la narrazione di storie, mira alla ricerca e alla ricostruzione della verità. Ma "la verità" è un concetto difficile da immobilizzare, che custodisce nelle pieghe delle lettere che la compongono, contraddizioni e significati nascosti. La locuzione "la verità" può essere anagrammata in "relativa"; ma anche in "rivelata" e anche, ancora, in "evitarla". Ognuno può scegliere l’anagramma e il significato che preferisce.

Per chi crede nel primato della tolleranza e dell’intelligenza critica è facile scegliere la soluzione proposta da Norberto Bobbio nella prefazione al Trattato dell’argomentazione di Perelman e Tyteca: "La teoria dell’argomentazione rifiuta le antitesi troppo nette: mostra che tra la verità assoluta degli invasati (rivelata ndr) e la non verità degli scettici (evitarla ndr) c’è posto per le verità (relative ndr) da sottoporsi a continua revisione mercè la tecnica di addurre ragioni pro e contro. Sa che quando gli uomini cessano di credere alle buone ragioni, comincia la violenza" [...]


-  Nel 1957 l’avvocato nato dalla fantasia di Erle Stanley Gardner
-  La sua umanità e il suo rigore lo resero universale

-  Perry Mason, il fascino della legge
-  Compie 50 anni la mitica serie tv

di GIANRICO CAROFIGLIO *

LE STORIE di Perry Mason sono uno dei più classici esempi di narrazione seriale, non solo nel senso della proposizione ripetuta dello stesso personaggio (anzi: dello stesso gruppo di personaggi, dalla segretaria, all’investigatore privato, al procuratore distrettuale), ma anche e soprattutto nel senso della riproposizione del medesimo, rassicurante schema narrativo. Tutti gli episodi della serie raccontano la stessa storia. Un innocente accusato di un grave delitto si rivolge all’avvocato Perry Mason che ne assume la difesa, affida le necessarie indagini al suo investigatore privato di fiducia e nel corso di spettacolari interrogatori riesce a dimostrare al giudice, alla giuria e anche a un inebetito pubblico ministero, l’innocenza del suo cliente e la colpevolezza del vero responsabile. Di regola, il principale testimone d’accusa.

Nella vita reale, ovviamente, le cose vanno in modo diverso, ma il successo di Erle Stanley Gardner e dei numerosi autori che dopo di lui si sono dedicati alla narrazione giudiziaria ha ragioni sicuramente più complesse della rassicurante ripetizione di uno schema e della felice costruzione di personaggi accattivanti. Il processo ha uno straordinario fascino narrativo perché è esso stesso un meccanismo per la produzione di storie e perché ha a che fare con il bisogno di mettere ordine nel caos dell’esistenza e dei diversi punti di vista sul male e sulla colpa.

Rashomon, capolavoro di Akira Kurosawa, è a suo modo la storia di un processo, e ripercorrerne la trama consente di capire molte cose sul fascino della narrazione giudiziaria e sul carattere illusorio delle nostre idee tradizionali sulla verità. In Rashomon si racconta di un bandito accusato di avere assassinato un samurai e di averne violentato la moglie. I tre protagonisti della vicenda, incluso il samurai morto (il cui spirito viene evocato da una maga) raccontano tre diverse versioni dei fatti, scaricando sugli altri la responsabilità, soprattutto morale dell’accaduto. Un boscaiolo, testimone esterno del dramma, racconta a sua volta una quarta versione, radicalmente diversa da quella dei tre protagonisti.

La storia di Rashomon ci fa riflettere su come i punti di vista incidano in modo determinante sulla percezione, sulla narrazione e, in un qualche modo, sulla creazione stessa della realtà da parte di soggetti diversi. In questo senso costituisce una sorta di paradigma di quello che accade sul palcoscenico processuale. Non è - palcoscenico - una parola presa a caso. Nel processo si discute del bene e del male, o quanto meno del giusto e dell’ingiusto in un contesto - l’udienza - che richiama alla mente i canoni aristotelici di unità di azione, di tempo e di luogo e nel quale si consumano conflitti spettacolari. Drammatici spesso, ma a volte anche comici.

Nei paesi di common law si tramandano numerosi aneddoti, a volte veri, spesso comunque verosimili, che mostrano la parte grottesca, ridicola o comica del processo. Un uomo era accusato di lesioni personali per aver staccato con un morso un pezzo di orecchio al suo avversario durante un litigio. Il pubblico ministero aveva esaminato il principale teste d’accusa, presente al fatto e dunque toccava al difensore dell’imputato procedere al controesame per cercare di inficiare l’attendibilità della deposizione.

Avvocato: "Dunque lei afferma che il mio cliente ha staccato l’orecchio alla persona offesa?"

Teste: "Sì".

Avvocato: "A che distanza dalla colluttazione si trovava lei?"

Teste: "Una ventina di metri, forse anche di più".

Avvocato: "Che ora era, più o meno?"

Teste: "Le nove di sera".

Avvocato: "Ed eravate nel parcheggio del supermercato, all’aperto, esatto?"

Teste: "Sì, esatto".

Avvocato: "Era ben illuminato?"

Teste: "Non molto".

Avvocato: "Si può dire che il tutto è accaduto nella semioscurità?"

Teste: "Sì, più o meno. Insomma, non c’era molta luce".

Avvocato: "Quindi mi faccia riepilogare: il fatto è accaduto alle nove di sera, in un parcheggio male illuminato e lei si trovava a più di venti metri dal punto specifico in cui si svolgeva l’azione. È esatto?"

Teste: "È esatto".

A questo punto - dicono i manuali - il difensore avrebbe dovuto fermarsi. Aveva ottenuto un risultato utile e durante la discussione avrebbe potuto attaccare l’attendibilità della testimonianza, sostenendo con buoni argomenti, che in quelle condizioni (distanza e cattiva illuminazione) non era possibile che il teste avesse visto l’azione del morso. Una delle regole fondamentali della cross examination è quella di non fare una domanda di troppo, perché un risultato brillante potrebbe venire sciupato o addirittura capovolto. In questo caso l’avvocato non si attenne a questa regola fondamentale. Vediamo l’epilogo del controesame.

Avvocato: "E lei vuol farci credere che in queste condizioni è riuscito a vedere il mio cliente che staccava un piccolo pezzo di orecchio al suo avversario?"

Teste: "Ma io non l’ho visto mentre lo staccava..."

Avvocato: "Allora come fa a sostenere che ..."

Teste: "... l’ho visto mentre lo sputava subito dopo".

Il processo dunque è spesso tragedia, a volte anche commedia, comunque un sofisticato macchinario spettacolare a doppio taglio; per quello che in esso accade e per le storie che in esso si raccontano.

Tutti nel processo, anche se in modi diversi, raccontano storie. I testimoni e gli imputati raccontano la loro versione di fatti vissuti o percepiti. I pubblici ministeri, gli avvocati, gli stessi giudici al momento di motivare le loro sentenze, prendono il materiale grezzo costituito da prove e indizi, lo mettono insieme, cercano di dargli struttura e senso in storie che raccontino in modo plausibile i fatti del passato.

Noi tutti costruiamo storie (nei processi ma anche nella vita) per cercare di mettere ordine nel caos, per cercare di estrarne una verità accettabile. Lo scopo del processo è selezionare, fra le storie proposte dalle parti in competizione, quella munita del migliore grado di accettabilità. Quella capace di spiegare tutti i dati di fatto, senza lasciarne fuori nessuno, secondo un criterio di congruenza narrativa. Superando i punti di vista e le prospettive particolari.

Il processo dunque, attraverso la narrazione di storie, mira alla ricerca e alla ricostruzione della verità. Ma "la verità" è un concetto difficile da immobilizzare, che custodisce nelle pieghe delle lettere che la compongono, contraddizioni e significati nascosti. La locuzione "la verità" può essere anagrammata in "relativa"; ma anche in "rivelata" e anche, ancora, in "evitarla". Ognuno può scegliere l’anagramma e il significato che preferisce.

Per chi crede nel primato della tolleranza e dell’intelligenza critica è facile scegliere la soluzione proposta da Norberto Bobbio nella prefazione al Trattato dell’argomentazione di Perelman e Tyteca: "La teoria dell’argomentazione rifiuta le antitesi troppo nette: mostra che tra la verità assoluta degli invasati (rivelata ndr) e la non verità degli scettici (evitarla ndr) c’è posto per le verità (relative ndr) da sottoporsi a continua revisione mercè la tecnica di addurre ragioni pro e contro. Sa che quando gli uomini cessano di credere alle buone ragioni, comincia la violenza".

LE AUDIOGALLERIE

* la Repubblica, 16 settembre 2007.


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