Per la democrazia - dalla parte dei lavoratori...

A PROPOSITO DI MERITO. BRUNO TRENTIN, UN PROTAGONISTA DELLA CGIL E UN INNOVATORE PERMANENTE. Il ricordo di Guglielmo Epifani e l’ultimo articolo di Trentin, apparso su "l’Unità" - a cura di pfls.

venerdì 24 agosto 2007.
 

Dalla parte dei lavoratori

di Guglielmo Epifani *

Bruno Trentin è stato un innovatore permanente, è stato un uomo che ha segnato molto anche la storia recente del sindacato. La Cgil di oggi affonda una parte delle sue radici nei cambiamenti dei primi anni Novanta, un periodo che segna la sua identità moderna, e Bruno Trentin è stato in questo un protagonista.

Ho avuto con lui i contatti più stretti quando divenne segretario generale ed io, con Sergio Cofferati e Alfiero Grandi, entrai in segreteria. Trentin non avrebbe voluto quell’incarico, il periodo era difficile, ma dopo Pizzinato era lui il sindacalista di maggior prestigio. Accettò per senso di responsabilità.

La sua lezione, la sua eredità sta soprattutto nell’aver rifondato l’identità della Cgil, di averla basata sul programma, non più sull’appartenenza per logiche di partito. Il congresso del 1991 segnò una trasformazione in parte epocale, non più una Cgil retta da un patto tra forze politiche, ma da un’identità programmatica. E con regole di democrazia formali e sostanziali che hanno consentito all’organizzazione di passare indenne attraverso tutte le trasformazioni politiche, partitiche e istituzionali dell’ultimo ventennio. Un contributo molto alto, a mio avviso.

E poi l’identità della Cgil come sindacato dei diritti, collettivi e individuali, un messaggio culturale di grandissima modernità perché si superò il diritto specifico dell’appartenenza al lavoro, per considerare il diritto di cittadinanza. Fu una grande svolta culturale.

Infine i due accordi del 1992-1993 molto complessi, soprattutto il primo. Bruno Trentin lo firmò e si dimise perché non aveva ottemperato il mandato. Fu una fase molto drammatica della vita della Cgil, quella in cui Trentin fu più colpito. Ricordo il suo viaggio in Corsica, con le dimissioni, il travaglio di una scissione tra il mandato avuto e il senso di responsabilità: fece prevalere il senso di responsabilità. Di recente, quando trattando sulle pensioni Romano Prodi ha detto «o firma la Cgil o mi dimetto», ho pensato molto a Bruno Trentin, a quello che ha vissuto. Quando tornò dalla Corsica, ci fu un consiglio generale, era settembre, fu una riunione molto tesa, lo convincemmo a ritirare le dimissioni. Ero responsabile dell’organizzazione, poi fui il segretario aggiunto, quelle sue lacerazioni l’ho vissute da vicino.

Quello che non gli andò giù dell’accordo del ‘92 non fu il fatto che dovette accettarlo: lui voleva che si sospendessero gli effetti della contrattazione aziendale, non una moratoria di quella contrattazione. Trentin voleva salvare il principio secondo cui si poteva negoziare anche in quella fase drammatica. Poi gli effetti economici della contrattazione potevano slittare nel tempo. Questo passaggio chiave, fondato, rigoroso, non gli fu reso possibile. Ciò malgrado, lui firmò. Fece prevalere il senso di responsabilità su cui il presidente del Consiglio di allora, Giuliano Amato, lo aveva nei fatti sfidato.

Con l’accordo del 1993, invece, Bruno Trentin ridisegnò la politica dei redditi, della concertazione, della politica contrattuale: quel modello ha segnato, anche questo, l’ultimo ventennio della storia delle relazioni industriali. Lui, teorico dell’autonomia dei consigli dei delegati, capisce il valore della formalizzazione delle regole contrattuali e della politica di confronto. Il ‘93 rappresenta il culmine di questa stagione.

Non c’è dubbio che la sua storia, il suo lavoro, abbiamo lasciato un’impronta profonda nella storia recente della Cgil, non solo in quella “antica”, cioè quella degli anni Cinquanta quando lavorava all’Ufficio studi, oppure dell’Autunno caldo che lo vide alla guida dei metalmeccanici della Fiom: protagonista indiscusso sia dell’idea dell’unità dal basso del movimento sindacale, sia del rapporto tra operai e studenti, un rapporto sempre fortissimo. Bruno aveva un’attenzione speciale per i temi della cultura, della formazione.

Poi ho ricordi del suo essere. Il suo amore per il rigore, quasi calvinista nell’intransigenza, l’attaccamento al merito sopra ogni cosa. Molto determinato quando impostava le battaglie che riteneva fondamentali. Chiuso, apparentemente scontroso, freddo, glaciale, era però capace di grande ironia oltre che di grandi tormenti. E di sorridere sulle vicende del mondo, del sindacato, della politica.

Anche quando ha lasciato la Cgil, ha continuato a seguirne le vicende, con rispetto, ma seguiva tutto. Un attaccamento davvero forte. Infine ricordo anche le sue ultime riflessioni sul Partito Democratico, ne capiva l’importanza ma temeva le modalità di costruzione del processo.

Poi quest’anno di silenzio.

I funerali spero si facciano, come è giusto, nella sede della Cgil. Mi piacerebbe molto che la nostra scuola di Ariccia portasse il suo nome.

* l’Unità, Pubblicato il: 24.08.07,Modificato il: 24.08.07 alle ore 11.12


A proposito di merito*

di Bruno Trentin *

Ecco il testo completo dell’ultimo articolo scritto da Bruno Trentin per l’Unità. Un’analisi storica e filosofica del concetto di merito.

La meritocrazia come criterio di selezione degli individui al lavoro ritorna alla moda nel linguaggio della sinistra e del centrosinistra, dopo il 1989; ma prima ancora con la scoperta fatta da Claudio Martelli a un Congresso del Psi sulla validità di una società «dei meriti e dei bisogni». In realtà, sin dall’illuminismo, la meritocrazia che presupponeva la legittimazione della decisione discrezionale di un «governante», sia esso un caporeparto, un capo ufficio, un barone universitario o, naturalmente un politico inserito nella macchina di governo, era stata respinta.

Era stata respinta come una sostituzione della formazione e dell’educazione, che solo possono essere assunte come criterio di riconoscimento dell’attitudine di qualsiasi lavoratore di svolgere la funzione alla quale era candidato. Già Rousseau e, con lui, Condorcet respingevano con rigore qualsiasi criterio, diverso dalla conoscenza e dalla qualificazione specializzata, di valutazione del «valore» della persona e lo riconoscevano come una mera espressione di un potere autoritario e discriminatorio.

Ma da allora, con il sopravvento nel mondo delle imprese di una cultura del potere e dell’autorità il ricorso al «merito» (e non solo e non tanto alla qualificazione e alla competenza accertata) ha sempre avuto il ruolo di sancire, dalla prima rivoluzione industriale al fordismo, il potere indivisibile del padrone o del governante; e il significato di ridimensionare ogni valutazione fondata sulla conoscenza e il «sapere fare», valorizzando invece, come fattori determinanti, criteri come quelli della fedeltà, della lealtà nei confronti del superiore, di obbedienza e, in quel contesto, negli anni del fordismo, dell’anzianità aziendale.

Nella mia storia di sindacalista ho dovuto fare ogni giorno i conti la meritocrazia, e cioè con il ricorso al concetto di «merito», utilizzato (anche in termini salariali) come correttivo di riconoscimento della qualificazione e della competenza dei lavoratori. E, soprattutto negli anni 60 del secolo passato, quando mi sono confrontato con la struttura della retribuzione, alla Fiat e in altre grandi fabbriche e ho scoperto la funzione antisindacale degli «assegni» o «premi» di merito; quando questi, oltre a dividere i lavoratori della stessa qualifica o della stessa mansione, finirono per rappresentare un modo diverso di inquadramento, di promozione e di comando della persona, sanzionato, per gli impiegati, da una divisione normativa, che nulla aveva a che fare con l’efficienza e la funzionalità, ma che sancivano fino agli anni 70 la garanzia del posto di lavoro e quindi la fedeltà all’impresa.

Un sistema di inquadramento e di organizzazione del lavoro apertamente alternativo alla qualifica definita dalla contrattazione nazionale e aziendale. Ma molto presto questa utilizzazione dei premi di merito o dei premi tout court giunse alla penalizzazione degli scioperi e delle assenze individuali (anche per malattia), quando di fronte a poche ore di sciopero o alla conseguenza di un infortunio sul lavoro (mi ricordo bene una vertenza all’Italcementi a questo proposito), le imprese sopprimevano anche 6 mesi di premio.

È questa concezione del merito, della meritocrazia, della promozione sulla base di una decisione inappellabile di un’autorità «superiore» che è stato cancellato con la lotta dei metalmeccanici nel ‘69 e con lo Statuto dei diritti del lavoro che nel 1970 dava corpo alla grande idea di Di Vittorio di dieci anni prima. Purtroppo una parte della sinistra, i parlamentari del Pci, si astennero al momento della sua approvazione, solo perché esclusa dalla partecipazione al Governo.

Ma quello che è più interessante osservare è come, alla crisi successiva del Fordismo e alla trasformazione della filosofia dell’impresa, con la flessibilità ma anche con la responsabilità che incombe sul lavoratore sui risultati quantitativi e qualitativi delle sue opere, si sia accompagnato in Italia a una risorgenza delle forme più autoritarie del Taylorismo, particolarmente nei servizi, santificata non solo dal mito del manager che si fa strada con le gomitate e le stock options, ma dalla ideologia del liberismo autoritario. Con gli «yuppies» che privilegiano l’investimento finanziario a breve termine, ritorna così per gli strati più fragili (in termini di conoscenza) l’impero della meritocrazia.

A questa nuova trasformazione (e qualche volta degrado) del sistema industriale italiano ha però contribuito, bisogna riconoscerlo, l’egualitarismo salariale di una parte del movimento sindacale, a partire dall’accordo sul punto unico di scala mobile, che ha offerto, in un mercato del lavoro in cui prevale la diversità (anche di conoscenze) e nel quale diventa necessario ricostruire una solidarietà fra persone e fra diversi, una sostanziale legittimazione alle imprese che hanno saputo ricostruire un rapporto diverso (autoritario ma compassionevole) con la persona sulla base di una incomprensibile meritocrazia.

Non è casuale, del resto, che, di questi tempi, il concetto di merito, sinonimo di obbedienza e di dovere, abbia ritrovato un punto di riferimento nel sistema di promozione e di riconoscimento delle organizzazioni militari nel confronto del comportamento dei loro sottoposti.

Le stesse osservazioni si possono fare per i «bisogni», contrapposti negli anni 60 del secolo scorso, alle domande che prevalgono nel vissuto dei cittadini nella società dei consumi. Era questa anche la convinzione di un grande studioso marxista come Paul Sweezy. Sweezy opponeva i «needs» (i bisogni reali, le necessità) ai «wants» (le domande, i desideri), attribuendo implicitamente ad uno stato illuminato e autoritario la selezione, «nell’interesse dei cittadini» fra gli uni e gli altri. Come se non fossero giunti i tempi in cui le domande e i desideri, pur influenzati dalla pubblicità, di fronte alle dure scelte e alle priorità imposte dalla condizione del lavoro e dalle lotte dei lavoratori si trasformano gradualmente in diritti universali, attraverso i quali, i cittadini, i lavoratori (non un padrone o uno stato illuminato), con il conflitto sociale, riuscirono a far progredire la stessa nazione di democrazia.

Meriti e bisogni o capacità e diritti? Può sembrare una questione di vocabolario ma in realtà la meritocrazia nasconde il grande problema dell’affermazione dei diritti individuali di una società moderna.

E quello che sorprende è che la cultura della meritocrazia (magari come antidoto alla burocrazia, quando la meritocrazia è il pilastro della burocrazia) sia riapparsa nel linguaggio corrente del centrosinistra e della stessa sinistra, e con il predominio culturale del liberismo neoconservatore e autoritario, come un valore da riscoprire. Mentre in Europa e nel mondo oltre che nel nostro paese, i più noti giuristi, i più noti studiosi di economia e di sociologia, da Bertrand Swartz a Amartya Sen, a Alain Supiot si sono affannati ad individuare e a riscoprire dei criteri di selezione e di opportunità del lavoro qualificato, capaci di riconciliare - non per pochi ma per tutti- libertà e conoscenza; di immaginare una crescita dei saperi come un fattore essenziale, da incoraggiare e da prescrivere, introducendo così un elemento dinamico nella stessa crescita culturale della società contemporanea.

La «capability» di Amartya Sen non comporta soltanto la garanzia di una incessante mobilità professionale e sociale che deve ispirare un governo della flessibilità che non si traduca in precarietà e regressione. Ma essa rappresenta anche l’unica opportunità (solo questo, ma non è poco) di ricostruire sempre nella persona le condizioni di realizzare se stessa, «governando» il proprio lavoro. Perché questa sordità? Forse perché con una scelta acritica per la «modernizzazione», ci pieghiamo alla riesumazione - in piena rivoluzione della tecnologia e dei saperi - dei più vecchi dettami di una ideologia autoritaria.

Forse qui si trova la spiegazione (ma mi auguro di sbagliare) della ragione per cui malgrado importanti scelte programmatiche del centrosinistra in Italia, per affermare una società della conoscenza come condizione non solo di «dare occupazione» ma anche per affermare nuovi spazi di libertà alle giovani generazioni, la classe dirigente, anche di sinistra, finisce per fermarsi, in definitiva, di fronte alla scelta, certo molto costosa, di praticare nella scuola e nell’Università ma anche nelle imprese e nei territori, un sistema di formazione lungo tutto l’arco della vita, aperto, per tutta la durata della vita lavorativa, come sosteneva il patto di Lisbona, a tutti i cittadini di ogni sesso di ogni età e di ogni origine etnica (e non solo per una ristretta elite di tecnici o di ricercatori, dalla quale è pur giusto partire).

Speriamo che Romano Prodi che così bene ha iniziato questo mandato, sia capace di superare questa confusione di linguaggi, e di rompere questo handicap della cultura meritocratica del centro sinistra. Anche un auspicabile convegno sui valori, le scelte di civiltà di un nuovo partito aperto alle varie identità e alla storia dei partiti come della società civile, dovrebbe, a mio parere, assumere il governo e la socializzazione della conoscenza come insostituibile fattore di inclusione sociale.

* l’Unità, Pubblicato il: 24.08.07, Modificato il: 24.08.07 alle ore 13.00


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