di Guglielmo Epifani *
Bruno Trentin è stato un innovatore permanente, è stato un uomo che ha segnato molto anche la storia recente del sindacato. La Cgil di oggi affonda una parte delle sue radici nei cambiamenti dei primi anni Novanta, un periodo che segna la sua identità moderna, e Bruno Trentin è stato in questo un protagonista.
Ho avuto con lui i contatti più stretti quando divenne segretario generale ed io, con Sergio Cofferati e Alfiero Grandi, entrai in segreteria. Trentin non avrebbe voluto quell’incarico, il periodo era difficile, ma dopo Pizzinato era lui il sindacalista di maggior prestigio. Accettò per senso di responsabilità.
La sua lezione, la sua eredità sta soprattutto nell’aver rifondato l’identità della Cgil, di averla basata sul programma, non più sull’appartenenza per logiche di partito. Il congresso del 1991 segnò una trasformazione in parte epocale, non più una Cgil retta da un patto tra forze politiche, ma da un’identità programmatica. E con regole di democrazia formali e sostanziali che hanno consentito all’organizzazione di passare indenne attraverso tutte le trasformazioni politiche, partitiche e istituzionali dell’ultimo ventennio. Un contributo molto alto, a mio avviso.
E poi l’identità della Cgil come sindacato dei diritti, collettivi e individuali, un messaggio culturale di grandissima modernità perché si superò il diritto specifico dell’appartenenza al lavoro, per considerare il diritto di cittadinanza. Fu una grande svolta culturale.
Infine i due accordi del 1992-1993 molto complessi, soprattutto il primo. Bruno Trentin lo firmò e si dimise perché non aveva ottemperato il mandato. Fu una fase molto drammatica della vita della Cgil, quella in cui Trentin fu più colpito. Ricordo il suo viaggio in Corsica, con le dimissioni, il travaglio di una scissione tra il mandato avuto e il senso di responsabilità: fece prevalere il senso di responsabilità. Di recente, quando trattando sulle pensioni Romano Prodi ha detto «o firma la Cgil o mi dimetto», ho pensato molto a Bruno Trentin, a quello che ha vissuto. Quando tornò dalla Corsica, ci fu un consiglio generale, era settembre, fu una riunione molto tesa, lo convincemmo a ritirare le dimissioni. Ero responsabile dell’organizzazione, poi fui il segretario aggiunto, quelle sue lacerazioni l’ho vissute da vicino.
Quello che non gli andò giù dell’accordo del ‘92 non fu il fatto che dovette accettarlo: lui voleva che si sospendessero gli effetti della contrattazione aziendale, non una moratoria di quella contrattazione. Trentin voleva salvare il principio secondo cui si poteva negoziare anche in quella fase drammatica. Poi gli effetti economici della contrattazione potevano slittare nel tempo. Questo passaggio chiave, fondato, rigoroso, non gli fu reso possibile. Ciò malgrado, lui firmò. Fece prevalere il senso di responsabilità su cui il presidente del Consiglio di allora, Giuliano Amato, lo aveva nei fatti sfidato.
Con l’accordo del 1993, invece, Bruno Trentin ridisegnò la politica dei redditi, della concertazione, della politica contrattuale: quel modello ha segnato, anche questo, l’ultimo ventennio della storia delle relazioni industriali. Lui, teorico dell’autonomia dei consigli dei delegati, capisce il valore della formalizzazione delle regole contrattuali e della politica di confronto. Il ‘93 rappresenta il culmine di questa stagione.
Non c’è dubbio che la sua storia, il suo lavoro, abbiamo lasciato un’impronta profonda nella storia recente della Cgil, non solo in quella “antica”, cioè quella degli anni Cinquanta quando lavorava all’Ufficio studi, oppure dell’Autunno caldo che lo vide alla guida dei metalmeccanici della Fiom: protagonista indiscusso sia dell’idea dell’unità dal basso del movimento sindacale, sia del rapporto tra operai e studenti, un rapporto sempre fortissimo. Bruno aveva un’attenzione speciale per i temi della cultura, della formazione.
Poi ho ricordi del suo essere. Il suo amore per il rigore, quasi calvinista nell’intransigenza, l’attaccamento al merito sopra ogni cosa. Molto determinato quando impostava le battaglie che riteneva fondamentali. Chiuso, apparentemente scontroso, freddo, glaciale, era però capace di grande ironia oltre che di grandi tormenti. E di sorridere sulle vicende del mondo, del sindacato, della politica.
Anche quando ha lasciato la Cgil, ha continuato a seguirne le vicende, con rispetto, ma seguiva tutto. Un attaccamento davvero forte. Infine ricordo anche le sue ultime riflessioni sul Partito Democratico, ne capiva l’importanza ma temeva le modalità di costruzione del processo.
Poi quest’anno di silenzio.
I funerali spero si facciano, come è giusto, nella sede della Cgil. Mi piacerebbe molto che la nostra scuola di Ariccia portasse il suo nome.
* l’Unità, Pubblicato il: 24.08.07,Modificato il: 24.08.07 alle ore 11.12
A proposito di merito*
di Bruno Trentin *
Ecco il testo completo dell’ultimo articolo scritto da Bruno Trentin per l’Unità. Un’analisi storica e filosofica del concetto di merito.
La meritocrazia come criterio di selezione degli individui al lavoro ritorna alla moda nel linguaggio della sinistra e del centrosinistra, dopo il 1989; ma prima ancora con la scoperta fatta da Claudio Martelli a un Congresso del Psi sulla validità di una società «dei meriti e dei bisogni». In realtà, sin dall’illuminismo, la meritocrazia che presupponeva la legittimazione della decisione discrezionale di un «governante», sia esso un caporeparto, un capo ufficio, un barone universitario o, naturalmente un politico inserito nella macchina di governo, era stata respinta.
Era stata respinta come una sostituzione della formazione e dell’educazione, che solo possono essere assunte come criterio di riconoscimento dell’attitudine di qualsiasi lavoratore di svolgere la funzione alla quale era candidato. Già Rousseau e, con lui, Condorcet respingevano con rigore qualsiasi criterio, diverso dalla conoscenza e dalla qualificazione specializzata, di valutazione del «valore» della persona e lo riconoscevano come una mera espressione di un potere autoritario e discriminatorio.
Ma da allora, con il sopravvento nel mondo delle imprese di una cultura del potere e dell’autorità il ricorso al «merito» (e non solo e non tanto alla qualificazione e alla competenza accertata) ha sempre avuto il ruolo di sancire, dalla prima rivoluzione industriale al fordismo, il potere indivisibile del padrone o del governante; e il significato di ridimensionare ogni valutazione fondata sulla conoscenza e il «sapere fare», valorizzando invece, come fattori determinanti, criteri come quelli della fedeltà, della lealtà nei confronti del superiore, di obbedienza e, in quel contesto, negli anni del fordismo, dell’anzianità aziendale.
Nella mia storia di sindacalista ho dovuto fare ogni giorno i conti la meritocrazia, e cioè con il ricorso al concetto di «merito», utilizzato (anche in termini salariali) come correttivo di riconoscimento della qualificazione e della competenza dei lavoratori. E, soprattutto negli anni 60 del secolo passato, quando mi sono confrontato con la struttura della retribuzione, alla Fiat e in altre grandi fabbriche e ho scoperto la funzione antisindacale degli «assegni» o «premi» di merito; quando questi, oltre a dividere i lavoratori della stessa qualifica o della stessa mansione, finirono per rappresentare un modo diverso di inquadramento, di promozione e di comando della persona, sanzionato, per gli impiegati, da una divisione normativa, che nulla aveva a che fare con l’efficienza e la funzionalità, ma che sancivano fino agli anni 70 la garanzia del posto di lavoro e quindi la fedeltà all’impresa.
Un sistema di inquadramento e di organizzazione del lavoro apertamente alternativo alla qualifica definita dalla contrattazione nazionale e aziendale. Ma molto presto questa utilizzazione dei premi di merito o dei premi tout court giunse alla penalizzazione degli scioperi e delle assenze individuali (anche per malattia), quando di fronte a poche ore di sciopero o alla conseguenza di un infortunio sul lavoro (mi ricordo bene una vertenza all’Italcementi a questo proposito), le imprese sopprimevano anche 6 mesi di premio.
È questa concezione del merito, della meritocrazia, della promozione sulla base di una decisione inappellabile di un’autorità «superiore» che è stato cancellato con la lotta dei metalmeccanici nel ‘69 e con lo Statuto dei diritti del lavoro che nel 1970 dava corpo alla grande idea di Di Vittorio di dieci anni prima. Purtroppo una parte della sinistra, i parlamentari del Pci, si astennero al momento della sua approvazione, solo perché esclusa dalla partecipazione al Governo.
Ma quello che è più interessante osservare è come, alla crisi successiva del Fordismo e alla trasformazione della filosofia dell’impresa, con la flessibilità ma anche con la responsabilità che incombe sul lavoratore sui risultati quantitativi e qualitativi delle sue opere, si sia accompagnato in Italia a una risorgenza delle forme più autoritarie del Taylorismo, particolarmente nei servizi, santificata non solo dal mito del manager che si fa strada con le gomitate e le stock options, ma dalla ideologia del liberismo autoritario. Con gli «yuppies» che privilegiano l’investimento finanziario a breve termine, ritorna così per gli strati più fragili (in termini di conoscenza) l’impero della meritocrazia.
A questa nuova trasformazione (e qualche volta degrado) del sistema industriale italiano ha però contribuito, bisogna riconoscerlo, l’egualitarismo salariale di una parte del movimento sindacale, a partire dall’accordo sul punto unico di scala mobile, che ha offerto, in un mercato del lavoro in cui prevale la diversità (anche di conoscenze) e nel quale diventa necessario ricostruire una solidarietà fra persone e fra diversi, una sostanziale legittimazione alle imprese che hanno saputo ricostruire un rapporto diverso (autoritario ma compassionevole) con la persona sulla base di una incomprensibile meritocrazia.
Non è casuale, del resto, che, di questi tempi, il concetto di merito, sinonimo di obbedienza e di dovere, abbia ritrovato un punto di riferimento nel sistema di promozione e di riconoscimento delle organizzazioni militari nel confronto del comportamento dei loro sottoposti.
Le stesse osservazioni si possono fare per i «bisogni», contrapposti negli anni 60 del secolo scorso, alle domande che prevalgono nel vissuto dei cittadini nella società dei consumi. Era questa anche la convinzione di un grande studioso marxista come Paul Sweezy. Sweezy opponeva i «needs» (i bisogni reali, le necessità) ai «wants» (le domande, i desideri), attribuendo implicitamente ad uno stato illuminato e autoritario la selezione, «nell’interesse dei cittadini» fra gli uni e gli altri. Come se non fossero giunti i tempi in cui le domande e i desideri, pur influenzati dalla pubblicità, di fronte alle dure scelte e alle priorità imposte dalla condizione del lavoro e dalle lotte dei lavoratori si trasformano gradualmente in diritti universali, attraverso i quali, i cittadini, i lavoratori (non un padrone o uno stato illuminato), con il conflitto sociale, riuscirono a far progredire la stessa nazione di democrazia.
Meriti e bisogni o capacità e diritti? Può sembrare una questione di vocabolario ma in realtà la meritocrazia nasconde il grande problema dell’affermazione dei diritti individuali di una società moderna.
E quello che sorprende è che la cultura della meritocrazia (magari come antidoto alla burocrazia, quando la meritocrazia è il pilastro della burocrazia) sia riapparsa nel linguaggio corrente del centrosinistra e della stessa sinistra, e con il predominio culturale del liberismo neoconservatore e autoritario, come un valore da riscoprire. Mentre in Europa e nel mondo oltre che nel nostro paese, i più noti giuristi, i più noti studiosi di economia e di sociologia, da Bertrand Swartz a Amartya Sen, a Alain Supiot si sono affannati ad individuare e a riscoprire dei criteri di selezione e di opportunità del lavoro qualificato, capaci di riconciliare - non per pochi ma per tutti- libertà e conoscenza; di immaginare una crescita dei saperi come un fattore essenziale, da incoraggiare e da prescrivere, introducendo così un elemento dinamico nella stessa crescita culturale della società contemporanea.
La «capability» di Amartya Sen non comporta soltanto la garanzia di una incessante mobilità professionale e sociale che deve ispirare un governo della flessibilità che non si traduca in precarietà e regressione. Ma essa rappresenta anche l’unica opportunità (solo questo, ma non è poco) di ricostruire sempre nella persona le condizioni di realizzare se stessa, «governando» il proprio lavoro. Perché questa sordità? Forse perché con una scelta acritica per la «modernizzazione», ci pieghiamo alla riesumazione - in piena rivoluzione della tecnologia e dei saperi - dei più vecchi dettami di una ideologia autoritaria.
Forse qui si trova la spiegazione (ma mi auguro di sbagliare) della ragione per cui malgrado importanti scelte programmatiche del centrosinistra in Italia, per affermare una società della conoscenza come condizione non solo di «dare occupazione» ma anche per affermare nuovi spazi di libertà alle giovani generazioni, la classe dirigente, anche di sinistra, finisce per fermarsi, in definitiva, di fronte alla scelta, certo molto costosa, di praticare nella scuola e nell’Università ma anche nelle imprese e nei territori, un sistema di formazione lungo tutto l’arco della vita, aperto, per tutta la durata della vita lavorativa, come sosteneva il patto di Lisbona, a tutti i cittadini di ogni sesso di ogni età e di ogni origine etnica (e non solo per una ristretta elite di tecnici o di ricercatori, dalla quale è pur giusto partire).
Speriamo che Romano Prodi che così bene ha iniziato questo mandato, sia capace di superare questa confusione di linguaggi, e di rompere questo handicap della cultura meritocratica del centro sinistra. Anche un auspicabile convegno sui valori, le scelte di civiltà di un nuovo partito aperto alle varie identità e alla storia dei partiti come della società civile, dovrebbe, a mio parere, assumere il governo e la socializzazione della conoscenza come insostituibile fattore di inclusione sociale.
* l’Unità, Pubblicato il: 24.08.07, Modificato il: 24.08.07 alle ore 13.00
Spunta dal passato il diario da adolescente del sindacalista. Un monito sul valore dell’antifascismo
Trentin, la scelta partigiana
"La guerra vera per l’Italia vera"
Un piccolo quaderno nero, un diario intensissimo che copre due mesi, 22 settembre-15 novembre 1943, prima di entrare nella Resistenza Bruno Trentin, allora sedicenne, appena rientrato in Italia dall’esilio francese, lo aveva poi sepolto in un cassetto. La sua compagna, Marcelle Padovani, lo ha ritrovato e ora Donzelli lo pubblica
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 04.05.08)
Nessuno ha mai saputo di questo piccolo quaderno nero, non i figli né la compagna né gli amici più intimi. Bruno Trentin l’ha protetto da sguardi e parole indiscrete per oltre sei decenni, lasciandolo scivolare sotto vecchie carte, come si fa con gli oggetti preziosi ma un po’ ingombranti, sepolti nel mucchio e mai dimenticati. È il diario dei suoi sedici anni, un documento privato ma con straordinario valore pubblico, la cronaca minuziosa e lucida dei sessanta giorni che segnarono le scelte d’una generazione, e anche il destino d’una nazione. Un journal de guerre, come titola espressivamente il giovane diarista, che comincia all’indomani dell’armistizio, il 22 settembre del 1943, per interrompersi due mesi più tardi, il 15 novembre, a pochi giorni dall’arresto insieme al padre Silvio. Due le epigrafi poste in prima pagina, «Allons enfants de la Patrie!» e «C’est la lutte finale!», la Marsigliese e l’Internazionale. Per raccontare la sua guerra antifascista Trentin sceglie il francese, "figlio guascone" di esuli italiani.
«Quando Marcelle Padovani me l’ha mostrato, è stata un’emozione molto forte: come ritrovare un tesoro al modo di Stevenson», racconta Carmine Donzelli, che ha deciso di darlo subito alle stampe. Inusuale anche la veste grafica, nella calligrafia meticolosa, nell’ordinata scansione in paragrafi, perfino nell’accurata illustrazione tra fotografie, mappe e ritagli di giornale: «Anche in questo non comune gusto grafico», dice l’editore, «si riconosce la naturale eleganza dell’autore, una precocità fulminante e quel razionalismo cartesiano respirato nelle scuole francesi».
A Cédon de Pavie in Guascogna Bruno era nato il 9 dicembre del 1926, il padre Silvio un insigne giurista costretto all’emigrazione dalle «leggi fascistissime». Oltralpe dunque crebbe e si formò, guascone nelle radici e nel temperamento, lettore avido di D’Artagnan e ragazzo scalpitante: le foto giovanili ne mostrano l’indole da furetto indomito che pochi anni più tardi troverà una sua più misurata intensità. Inquieta e fremente - racconta Iginio Ariemma nella sua informata introduzione - è anche l’atmosfera respirata a casa e nella libreria paterna di Tolosa, la Librairie du Languedoc, crocevia degli esuli di Giustizia e Libertà e dei volontari andati a morire in Spagna.
«Ma un adolescente ribelle», spiega Donzelli, «può voler di più, magari mostrare ai padri che anche lui ci sa fare, su una spinta che mescola conflitto e assimilazione». Così nel 1942 Bruno appena sedicenne fonda un gruppetto anarchico, tappezza Tolosa di scritte antifasciste, utilizzando per la propaganda la carta intestata della libreria di famiglia... Per caso o per sfida? La polizia lo scopre, finisce in prigione. Di quell’episodio racconterà la visita in carcere della madre e un furente schiaffo sulla guancia: «Se fai il nome di tuo padre, t’ammazzo...». Per Bruno resterà uno dei ricordi più cari.
Quando può rientrare in Italia, dopo la caduta del fascismo, Silvio porterà con sé quel figlio precoce e inquieto. Ne fa il suo braccio destro, lo coinvolge nella sua attività clandestina di leader azionista della Resistenza veneta. L’arrivo è a Mestre, poi Treviso, il 4 settembre del 1943. La guerra sta per cominciare, quella vera, la guerra contro il nazifascismo - come annota Bruno nel diario - il patriottismo autentico contrapposto a quello fasullo di marca fascista... Nel journal il ragazzo trascrive ogni dettaglio, eventi e personaggi, incontri riservati, le prime azioni di sabotaggio, l’organizzazione delle bande partigiane. La cautela del cospiratore appare scossa dalla furia di divorare «conoscenze luoghi e persone», come se la scrittura potesse mimare e sostituirsi all’azione. Le sue fonti sono diversissime, dai quotidiani fascisti a Radio Londra e Radio Mosca, le agenzie internazionali, gli ambienti azionisti frequentati da Silvio. Nulla gli sfugge della scena mondiale, il fronte interno e l’Egeo, il Pacifico e la Russia. La sintonia politico-culturale tra padre e figlio sembra cementarsi, il diario è anche testimonianza d’un genitore ritrovato, «si è costruito quel rapporto che era in parte mancato», confesserà più tardi Bruno.
Resistenza e ancora Resistenza: la parola ricorre tra le pagine quando ancora se ne faceva scarso impiego, fa notare Claudio Pavone nella sua Postfazione. Dall’iniziale scetticismo verso i connazionali, intorpiditi dal ventennio nero, Trentin scopre pian piano una diffusa volontà di riscatto, in un crescendo di giudizi affilati che mescolano lungimiranza - l’eccidio di Cefalonia interpretato come pagina nobile contro il nazifascismo -, patriottica indignazione (il re «miserabile piccolo sgorbio ricoperto d’oro e medaglie finte») e accenti enfatici verso «le gloriose avanguardie dei figli di Lenin» immolate contro la «bestia nazista». Una passione questa sul fronte orientale talvolta raffreddata in un lessico più cauto, in termini come «rossi» e «bolscevichi». Nell’oscillazione lessicale sempre Pavone rintraccia i conflitti politici che agitano la sinistra resistenziale, ma anche «quel groviglio proprio d’una generazione del quale vanno colte sia le contraddizioni e le coerenze che il significato profondo».
Puntuale e quotidiano fino al 13 ottobre, nell’ultimo mese il diario acquista un passo più lento e frammentato, spia dell’aumentato rischio dei cospiratori. Il 15 novembre l’interruzione improvvisa, con una frase secca scritta a matita: «Tempo perduto. Ora all’opra!». È l’unica scritta in italiano, una sorta di epigrafe generazionale che riecheggia l’analogo appello di Giaime Pintor e disegna la parabola politica e esistenziale del giovane guascone partito dalla Marsigliese e approdato alla lingua dei padri. Per Bruno comincia una nuova vita. Quattro giorni più tardi l’arresto a Padova insieme a Silvio: nel tragitto verso la federazione fascista Bruno ingoia tutte le carte compromettenti, procurandosi un’occlusione intestinale. La carcerazione non durerà a lungo, ma nel marzo successivo l’attende lo strappo più doloroso, la perdita del padre. Al lutto privato s’aggiunge il peso simbolico della successione. Nell’aprile del 1944 Bruno è già in montagna.
Perché il prolungato silenzio su questo Journal de guerre? «Forse per una scelta di stile», risponde Donzelli. «Tra i dirigenti della sinistra vigeva la regola che non ci si doveva vantare. O forse Trentin è stato trattenuto dalla radicalità dei suoi giudizi giovanili. A me è sembrato sbagliato censurarlo, soprattutto in questi tempi confusi. Il diario ripristina con un’urgenza perentoria l’idea che c’è stata una guerra contro il fascismo, e che non è possibile equiparare i combattenti dell’una e dell’altra parte. È un documento sul valore imprescindibile dell’antifascismo. La Liberazione non è stata liberazione punto è basta, ma liberazione dal fascismo. È bene ricordarlo, altrimenti rischiamo che i miti fondativi della storia repubblicana perdano senso perché fondati sull’equivoco».
BRUNO TRENTIN:
22 settembre 1934 Sono esattamente 14 giorni che il popolo italiano ha preso coscienza con una gioia trepidante dell’armistizio con le potenze Anglo-sassoni. Gioia ben presto delusa dall’annuncio dell’occupazione integrale dell’Italia settentrionale da parte delle truppe tedesche. Dall’8 settembre 1943, il nord della penisola vive la più terribile e la più penosa delle tragedie.
L’8, mio padre era a casa dei suoceri, mio fratello a casa di amici. Io passeggiavo per caso sulla piazza principale di Treviso (Veneto). Si è radunata una folla confusa e incerta. Corrono delle voci: la Pace... la Pace!... Voci, ma nessuno ne sa niente. Tutto a un tratto, un uomo compare a un balcone e urla: «Italiani! Una grande notizia... Armistizio!... la guerra del fascismo è finita!... Vendetta contro quelli che vi ci hanno trascinato!...». La gente grida di gioia, i soldati si abbracciano, si corre per le strade, si canta. Io, tremante, tesissimo, mi precipito attraverso il dedalo delle viuzze sporche della città bassa. In cinque minuti sono da mio nonno; irrompo nella stanza in cui mio padre sta discutendo con alcuni amici; grido: «Badoglio ha firmato l’armistizio!». Mio padre si alza in piedi, grave, senza inutili esplosioni di gioia; si guardano tutti tra loro... «È la guerra che comincia!».... La guerra vera per l’Italia vera. Da quel giorno, le nostre volontà: quella di mio padre, di mio fratello e la mia, si sono sforzate di farla, questa guerra, con ogni mezzo.
Il 9 settembre, mio padre va a trovare il comandante della piazza, il generale Coturri. Questi si rifiuta di organizzare la resistenza alle truppe tedesche che avanzano verso Treviso per occuparla. Il 10, un altro generale, tremante di paura, si sottrae. L’11 un terzo generale del «fu esercito italiano» e il prefetto della città non si vogliono compromettere. Paura! Paura! Corriamo di prefettura in prefettura, dall’ufficio dello Stato maggiore al Municipio. La nostra delusione, la nostra amarezza sono grandi; tutti tremano di paura. Lo sgomento, il panico poco a poco si impossessano della popolazione. Qualche giorno prima, urlavano di gioia. L’11 settembre già tremavano per la loro salvezza. I tedeschi si avvicinano a Treviso. I soldati scappano in disordine, buttando le armi, le uniformi, gli ufficiali, in borghese, scappano in macchina attraversando a tutta velocità le vie della città. Di fronte all’impossibilità di organizzare in città una resistenza armata, partiamo a nostra volta per nasconderci in campagna. Comincia in Italia una nuova vita: la vita clandestina.
25 settembre 1943
Si è costituito il governo fantoccio di Mussolini. Tra questi ministri, tra questi uomini abietti che non hanno vergogna di incitare il popolo italiano a collaborare con le orde naziste, si ritrovano alcune vecchie conoscenze, già famose per la loro integrità e la loro grandezza d’animo. In particolare, quel caro maresciallo Graziani che si è tanto graziosamente distinto in Abissinia nell’impiegare i gas contro dei negri inermi, ha portato a termine la sua carriera di macellaio sanguinario, mettendosi a servire tra le file nemiche, come ministro della guerra di un governo fascista venduto alla Germania al prezzo più basso, fianco a fianco coi suoi colleghi tedeschi, macellai come lui.
Ma ci sono anche degli ufficiali che hanno saputo lavare nel sangue l’onore così compromesso di questa Italia martirizzata. È il caso del generale della divisione «Acqui» a cui era stata affidata la difesa dell’isola greca di Cefalonia, e che con una fermezza e uno stoicismo ammirevoli ha ordinato ai suoi uomini di resistere ad ogni costo all’invasore nazista.
Soverchiato dalla schiacciante superiorità del nemico, insieme col suo stato maggiore rifiutò di arrendersi, cosicché i tre quarti della divisione, con tutti gli ufficiali, furono annientati. I Tedeschi fecero solo quattromila prigionieri. Una pagina gloriosa come questa mostra che c’è ancora della buona genia di Italiani: Italiani che hanno a cuore l’onore del loro paese e la loro libertà.
8 ottobre 1943
L’automobile s’inerpica per uno stretto sentiero di montagna, il tempo è cattivo, piove. Sono in macchina, con mio padre e uno dei nostri. Il nostro obiettivo è di andare a P..., paesino della montagna veneta, per discutere e prendere accordi con i capi di un movimento di patrioti italiani, armati fino ai denti, che tengono le alture. Intorno alle 5, arriviamo in paese. Parcheggiamo l’automobile nel cortile di una locanda che è una delle ultime case di P. «Loro» sono lì, ad attenderci: due giovani ufficiali degli «Alpini» dell’esercito Italiano. La barba lunga, indosso un completo di velluto, l’aria risoluta... Poche parole per presentarci, e ci sediamo attorno a un tavolo, davanti a un bicchiere di vino: siamo soli. Le discussioni che sono seguite sono state di carattere troppo confidenziale perché possa trascriverle su questo diario. Tuttavia, mentre parlavamo, tra noi, sentivamo qualcos’altro.. un bisogno di essere affettuosi, nonostante parlassimo di questioni terribilmente serie e importanti.
Negli occhi di quei montanari si percepiva una grande aspettativa, un po’ di riconoscenza, per quella gente di laggiù, per quei rappresentanti dei partiti di resistenza, che erano saliti fin lì per provare a creare qualcosa di veramente organizzato... forse anche un po’ di diffidenza per quegli uomini ben vestiti, un po’ pieni di illusioni.
Arriva un capitano degli Alpini, è il capo del gruppo. Pelle abbronzata, baffi corti... doveva avere attorno ai trentacinque anni: il tipico montanaro veneto. I suoi occhi chiari ti frugano dentro e ti spogliano. «... allora è vero, ci sono degli amici che vogliono aiutarci... ci sono altri Italiani che vogliono battersi con noi; allora, non ci sono solo bastardi e traditori?... no, c’è anche un’Italia vera»; e anche noi pensiamo che ci sia un’Italia vera, un vero simbolo di libertà piena di vita e di splendore dentro gli occhi di quell’uomo dagli abiti logori e dalla barba lunga.
Ci sono uomini che hanno pensato come me, che hanno giudicato come me e che vogliono lottare come me contro lo stesso nemico. Non siamo soli! Sotto la maschera consunta e rappezzata, dietro a questa maschera del fascismo, spunta un’altra cosa, una cosa vera, un popolo vero... il vero popolo italiano; non la folla fasulla che urlava «a noi» senza sapere perché... no, un popolo vero... grave, risoluto, splendente di forza e di luce... il popolo libero, il popolo che spezza le sue catene, e che grida altolà!
Quel popolo che era sul Piave contro l’Austriaco, che era a Vittorio Veneto dopo Caporetto, che era anche a Guadalajara contro le Camicie Nere, è nato di nuovo, puro, vergine, inattaccabile...
Abbiamo finito di parlare. Gli accordi sono presi... al minimo segnale devo raggiungerli anch’io per lottare al loro fianco... Stringiamo le mani callose, le stringiamo forte... Addio... L’automobile scende nella notte: un’ora dopo i grandi e sublimi contorni delle Alpi sfumano nel buio... Riscendiamo in città... per occuparci di loro, per riprendere la penna, la carta, l’elettricità, la radio... gli strumenti moderni della guerra... quegli strumenti offerti dalla civiltà...
© Marcelle Padovani e Donzelli Editore 2008
"Quando un’anima si presenta a Dio,
Dio non chiede mai qual è stata la sua professione di fede,
chiede che cosa hai fatto nella vita.
Un esame cui Trentin ha potuto rispondere a testa alta"
(Dall’omelia del cardinale Achille Silvestrini durante la messa per ricordare Bruno Trentin, Corriere della Sera del 27 settenbre 2007 - considerazione ripresa da l’Unità del 28 settembre 2007, nella "striscia rossa" ).
L’urlo dell’operaio, la voce di Bruno
di Chiara Ingrao *
Bruno Trentin io l’ho conosciuto da ragazzina, quando veniva a parlare di politica con mio padre, all’ora del pranzo. Mangiavo, sparecchiavo la tavola a turno con le mie sorelle, e ascoltavamo i discorsi dei grandi. E quando a tavola c’era Bruno lo sparecchiare si faceva più lento, perché avevi voglia di fermarti ad ascoltare. In quell’ascolto, fra la pasta e la fettina, fra l’insalata e il caffè, è iniziata la mia formazione di persona adulta.
Poi mi sono fatta adulta anch’io, e ho avuto in dono l’amicizia di Antonella, la figlia di Bruno, e poi direttamente di Bruno - non più padre ma fratello maggiore, con la sua splendida compagna Marie, nelle camminate in montagna e nelle serate di chiacchiere. E nel sindacato metalmeccanici, dove lavoravo allora e dove ho imparato quasi tutto, di ciò che è importante nella vita e di ciò che so e ciò che ho vissuto in quella forma speciale del rapporto con gli altri che si chiama politica. Una politica generosa, cosa oggi così rara. Una politica del fare, del riflettere, dell’ascolto attento dell’umana esperienza, in ogni luogo: e prima di tutto nella fabbrica, nel ricostruire il sapere del lavoro, restituirgli dignità, riconoscerne la forza di trasformare il mondo.
C’è quello slogan che ripetevamo sempre: «resisteremo un minuto di più del padrone». Oggi sembra obsoleto, la parola «padrone» non si usa più. Ma non è questione di definizioni. È una scelta di libertà, resistere a chi ti vuol essere padrone. Quella scelta, Bruno ci ha insegnato che si può viverla e gridarla in piazza; ma che non basta. Che poi va sempre cercato lo sbocco, il risultato concreto, la conquista da «portare a casa» - per non fermarsi allo sfogo di rabbia, ma costruire le tappe di un percorso di liberazione. Ci ha insegnato che dunque bisogna imparare l’arte della trattativa: che non è quella misera cosa di mercato delle vacche oggi così frequente, ma è l’arte di «fissare i paletti», si diceva allora, saper distinguere fra ciò che essenziale e irrinunciabile e ciò che si può cedere o rinviare al domani, per consolidare il risultato dell’oggi.
E questa distinzione costruirla non a tavolino, dentro la testa di un leader, o in un sondaggio d’opinione - ma nell’ascolto e nel confronto con le lavoratrici e i lavoratori, sapendo che i soggetti centrali sono loro, ed è loro il diritto ad avere l’ultima parola.
Nel corso di quell’esperienza io ho incontrato Paolo, il mio compagno di vita, allora sindacalista della Fiom nella mitica «Quinta lega» della Fiat Mirafiori. Paolo racconta sempre di quanto gli diceva un delegato della Fiat, sull’urlo che scoppiava a volte sulle catene di montaggio. Un urlo improvviso, come di bestia ferita: un urlo che faceva accapponare la pelle.
L’urlo di chi non ce la faceva più, a reggere quella condizione e quel ritmo, ma non aveva parole per dirlo. Bruno ci ha insegnato ad ascoltare la voce umana dentro quell’urlo disumano: a decifrarne il senso, a camminare insieme a chi grida, cercando insieme di ritrovare la parole e la voce, perché nessuno debba più urlare in quel modo, perché nessuno debba mai sentirsi bestia senza parole.
Ferisce, ricordarlo oggi: perché a Bruno, nel suo ultimo anno di vita, sono mancate proprio le parole, la voce. Bruno, che ha dato a tutti noi tanta forza da camparci sopra tutta la vita, ha conosciuto la ferita della debolezza, della fragilità, dell’impossibilità di muoversi. Bruno che ci insegnato la libertà, è stato prigioniero dentro al proprio corpo. È duro parlarne, si vorrebbe ricordarlo come lo abbiamo avuto accanto tutta la vita, come lo vediamo nel bellissimo manifesto della Cgil. Eppure è importante, non cancellare quell’ultimo anno - perché questo Bruno ci ha insegnato: a non voltare mai la faccia dall’altra parte, e meno che mai di fronte alla sofferenza. Anche in questo anno di sofferenza, Bruno ci ha insegnato tantissimo. Vorrei trovare le parole giuste per spiegarlo, e certo molto meglio di me potrebbe farlo chi gli è stato accanto tutti i giorni, con l’amore di tutta una vita: Marie, Antonella, Giorgio. Bruno se n’è andato. Dopo tanto dolore, viene da pensare che non ce l’ha fatta, a resistere un minuto di più. E invece dobbiamo saperlo, e riuscire a dirlo, che non è così: che la dignità, la capacità di lottare, l’amore grande per la vita che ci ha comunicato anche quando aveva già di fronte a sé la morte, resisterà dentro di noi molto di più di un minuto, molto di più della morte padrona. Resisterà la voce azzurra dei suoi occhi, la stretta intensa delle mani, la voglia di feroce di libertà nel lavoro ostinato in palestra, ma anche negli scatti di rabbia, che di botto gli restituivano la voce. Resisterà la sua capacità di afferrare la vita per il bavero, negli attimi brevi di gioia catturati tra le foglie di un albero, o negli occhi grandi della sua nuova nipotina, Giulia. Resisterà la luce del suo sorriso, che in quei momenti ci illuminava la giornata.
Abbiamo inseguito quei sorrisi - goffamente, come potevamo. Sapendo che a volte non si poteva, e si doveva imparare ad accettare l’impotenza, offrendo solo la semplice umana fatica della condivisione. È con questa coscienza che un giorno, andando a trovarlo, ho portato con me un libro: Se questo è un uomo. Ho cercato una pagina - quella in cui Primo Levi racconta di come cercava di condividere, con un compagno di prigionia insieme a cui trasportava la zuppa del rancio, le parole del Canto di Ulisse. Bruno le parole non poteva più condividerle: ma a me sembrava di riconoscere, nella lotta muta della sua anima, la stessa grandezza di Primo Levi, anche lui umiliato nel corpo, eppure sempre vivo nella sua dignità, nella libertà interiore che sconfigge ogni prigione. Ho provato a dirglielo quel giorno. E con quelle parole vorrei ricordarlo oggi, e dirgli il mio grazie per tutto ciò che ci ha dato, per ciò che è stato per tutti noi:
«...Quante altre cose ci sarebbero da dire, e il sole è già alto, mezzogiorno è vicino. Ho fretta, una fretta furibonda. Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca:
Considerate la vostra semenza:
Fatti non foste a viver come bruti,
Ma per seguir virtute e conoscenza.
Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono.
Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene. O forse è qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle.
Li miei compagni fec’io si acuti...
(...)Che Pikolo mi scusi, ho dimenticato almeno quattro terzine.
Ca ne fait rien, vas-y tout de meme - ...Quando mi apparve una montagna, bruna / Per la distanza, e parvemi alta tanto / Che mai veduta non ne avevo alcuna.
Sì, sì, "alta tanto", non "molto alta", proposizione consecutiva. E le montagne, quando si vedono di lontano... le montagne... oh Pikolo, Pikolo, di’ qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie montagne, che comparivano nel bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino!
Basta, bisogna proseguire, queste sono cose che si pensano ma non si dicono. Pikolo attende e mi guarda. (...)È tardi, è tardi, siamo arrivati alla cucina, bisogna concludere: Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque,
Alla quarta levar la poppa in suso
E la prora ire in giù, come altrui piacque...
Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo "come altrui piacque", prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui... Siamo oramai nella fila per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa degli altri Kommandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle spalle. - Kraut und Ruben? - Kraut und Ruben. - Si annunzia ufficialmente che oggi la zuppa è di cavoli e rape: - Choux et navets -.- Kaposzta és répak.
Infin che ’l mar fu sopra noi rinchiuso».
* l’Unità, Pubblicato il: 28.08.07, Modificato il: 28.08.07 alle ore 8.18
Quel che devo a Trentin
di Furio Colombo *
Questo non è un ricordo e non è un addio.
Questa è la testimonianza di una presenza che resta nella vita e nella cultura italiana persino in un tempo barbaro che vede futuro e modernità nello smantellamento, nel vandalismo, nel rimuovere e negare come segno di presenza e di afona egemonia.
Bruno Trentin era di quegli italiani che pensavano di essere in debito con il proprio Paese, un Paese che era stato fascista, razzista, e distruttivo. Intendevano restituire a quel Paese dignità e rispetto. Pensava di essere in debito verso chi, isolato e privo di risorse e di diritti, poteva diventare la parte spezzata, il peso morto e vendicativo di un Paese che non sarebbe mai diventato moderno.
Bruno Trentin aveva, come immagine della modernità, una eguaglianza solida di diritti garantiti e di accessi possibili. Credeva in un mondo in cui ha senso parlare di mercato solo se rendi forte, orgogliosa e rispettata la parte debole e la metti al sicuro dall’essere folla e dall’essere massa.
Spesso, parlando di lui, e persino apprezzandone le straordinarie doti di leader, si è trascurato un dato formativo essenziale.
Ossia quegli studi americani che lo hanno guidato a farsi protagonista di un impegno sindacale in cui vedeva diritti individuali, vite, destini, persone anche quando aveva di fronte piazze e cortei.
In giorni di lutto e rimpianto, in cui si è pensato a questo evento più come a una morte d’estate che a una dolorosa amputazione di un mondo già tanto precario e in pericolo, ci sono ragioni che mi importa molto di ricordare.
Per esempio, una serie di conversazioni che abbiamo avuto, accanto alla sua scrivania, messa per traverso nella sua stanza di Segretario generale della Cgil. Avevi l’impressione di essere nel cuore di un mondo di conoscenza, non nel punto di comando di una organizzazione sindacale. Era come la conversazione con un docente di uno strano campus universitario, qualcuno che ha da passare e condividere cultura nuova. Stavo lavorando per la Rai Tre di Angelo Guglielmi a un documentario che non era sull’Italia ma sull’America, non sul presente ma sul futuro, non sul lavoro ma sulla vita.
L’intervista, durata quasi un’ora nella sua versione televisiva, ma molto più lunga nella realtà, nella mia memoria, nel materiale di lavoro, ha contato immensamente per due libri che negli anni Ottanta mi sono importati molto e che qualcuno fra coloro che erano giovani allora qualche volta mi ricorda ancora: Cosa farò da grande e Carriera vale una vita.
Si tenga presente che li ho scritti nel cuore della mia esperienza americana e mentre ero presidente della Fiat Usa. La voce, lo sguardo, l’intelligente frugare nel futuro di Bruno Trentin e «il lato americano» della sua vita, che ci è servito da punto di incontro, hanno profondamente contato in questi due libri, e questo è un grazie. Un grazie in più oltre a quello che gli deve ogni italiano che ha condiviso in quegli anni, e fino a poco fa, un sogno civile fatto di offerta, di un dare di più al proprio Paese, alla propria cultura, al periodo storico che ci accade di attraversare, invece di scardinare passaggi, rimuovere pezzi, appropriarsi di beni comuni e sbandierare egoismi e reclami privati.
Per fortuna - e questo è il senso della storia - la vita e il lavoro di una persona come Bruno Trentin non vanno via con la morte. Restano le orme di un percorso nobile che a mano a mano altri scopriranno e seguiranno. È un percorso che si chiama civiltà e che, anche a distanza di anni, aiuta a distinguere, a capire, a rifiutare il peggio, a fare un po’ meglio.
colombo_f@posta.senato.it
* l’Unità, Pubblicato il: 27.08.07, Modificato il: 27.08.07 alle ore 10.14
«Addio Bruno»
Lunedì i funerali di Trentin
di Bruno Ugolini *
È piombata all’improvviso la notizia della scomparsa di Bruno Trentin. Ha scosso gli animi dei molti che lo hanno conosciuto, ascoltato, amato. Per le sue idee, per la sua passione, per il suo rigore, per il suo stile di vita.
Il cronista che qui scrive lo ha seguito per anni, fin da quando era prestigioso dirigente dei metalmeccanici. Quel che ha imparato lo ha imparato da lui. Anche nel saper affrontare, come in queste ore, momenti di acuto dolore.
Già in questi mesi di sofferenza, dopo la caduta dello scorso anno, si è sentita la sua mancanza. Alludo all’assenza amara di una voce che sapeva guardare con lucidità e con speranza le vicende di un mondo, di un Paese, di una politica che a stento cerca il filo di un futuro incerto.
Autonomia, lavoro, libertà. Sono le tre parole care a Bruno Trentin. E tornano in mente ora, mentre tento di ripensare, così come l’ho conosciuta, la vita di un dirigente sindacale, di un dirigente politico, di un leader della sinistra italiana ed europea. A molti poteva apparire, di primo acchito, come un aristocratico, un raffinato intellettuale, chiuso nella sua torre d’avorio. Ma era lo stesso uomo che nell’autunno caldo affrontava tempestose assemblee operaie, a volte rischiava di buscare i bulloni in testa.
Aveva il gusto del confronto, aspro, non solo con gli avversari politici, con le controparti imprenditoriali o con dirigenti di partito. Sapeva affrontare anche masse di lavoratori agitati da ribellismi corporativi. Perché non li considerava plebaglia pezzente, capace solo di invocare le grazie di un boss o di un moderno principe o di protestare al vento. Considerava i «salariati» come dei protagonisti, dei «produttori». Così li aveva chiamati nel titolo di un bel libro: Da sfruttati a produttori. Era il senso di una battaglia fatta di unità, di lotte e di conquiste ma soprattutto intrisa di un concetto a lui molto caro: «autonomia». È la sua prima parola. Autonomia per il sindacato, per la Cgil, per i lavoratori, autonomia per «sé».
Non era facile riassorbire Trentin in qualche parrocchia grande o piccola. I suoi amici politici sono stati, certo, Norberto Bobbio, Riccardo Lombardi, Vittorio Foa, Pietro Ingrao e molti altri Ma non è stato mai semplice incasellarlo in una precisa corrente. Meglio ripescare le parole lontane di uno stimato giornalista, Giorgio Bocca. Nel 1975 scriveva su Il Giorno: «Quando parla uno come Trentin non ha senso chiedersi se appartenga alla destra o alla sinistra del partito comunista, perché quando parla uno come lui si capisce che il duro ripensamento critico e la ricerca creativa appartengono a tutti coloro che vogliono uscire dai luoghi comuni, dalle pigrizie».
È abituato fin da piccolo alle difficoltà, alle «scalate». Forse per questo ha continuato ad amare tanto la montagna, le rocce da dominare. Nasce in Francia a Pavie, vicino a Tolosa, nella regione della Guascogna, il 18 dicembre del 1926. Il padre Silvio Trentin, professore di diritto amministrativo a Ca’ Foscari, Venezia, non ha voluto giurare fedeltà al fascismo. È emigrato, prima facendo il contadino, poi il tipografo ad Auch, poi il libraio a Tolosa. Fonda un movimento di sinistra: «Libertà e federalità». E così operando incontra altri esuli come Lusso, Carlo Rosselli, Cianca, Amendola, Nenni, Saragat. Il figlio Bruno cresce in tale clima. Frequenta il liceo di Tolosa.
È un quindicenne dalle idee anarchiche che assiste all’invasione dei tedeschi, organizza con altri un «gruppo insurrezionale», finisce in carcere. Riesce ad uscire e va a fare il contadino per qualche mese in un campo di rifugiati spagnoli. L’8 settembre del 1943 padre e figlio decidono di rientrare in Italia ma sono arrestati. Silvio, sofferente al cuore, morirà il 12 marzo del 1944, a 59 anni, in una clinica di Padova.
Bruno, comandante di una brigata partigiana delle formazioni di Giustizia e Libertà conosce Riccardo Lombardi. Siamo nel 1946 ed entra nel Partito D’Azione. Si laurea così in giurisprudenza all’Università di Padova con Norberto Bobbio e vince una borsa di studio ad Harward per qualche mese. Ed ecco l’incontro decisivo con la Cgil e con Giuseppe Di Vittorio. Sta nell’ufficio studi, accanto a Vittorio Foa e decide d’scriversi al Partito comunista. Nel 1958 è vicesegretario della Cgil e nel 1962 va a dirigere la Fiom, il sindacato dei metalmeccanici. Un’esperienza prolungatasi per 15 anni, fino al 1977, e che trasforma la sua biografia. Trentin, con Piero Boni, con Pierre Carniti, con Giorgio Benvenuto, con molti altri, costruisce un’esperienza inedita di unità sindacale, di democrazia operaia.
Sono gli anni sessanta, quelli dell’autunno caldo. Ma anche in queste circostanze Trentin mette in campo una «filosofia» che lo accompagnerà nel corso degli anni sindacali. Quella contro la «faciloneria», contro quei dirigenti sindacali che amano sommare tutte le «esigenze», senza scegliere. È la polemica nei confronti di un sindacalismo modello Cgt, fatto più di propaganda che di risultati.
Così è contrario - ma resta in minoranza - agli aumenti eguali per tutti, battendosi per il cosiddetto salario di qualifica. Perché la qualifica, la professionalità, è frutto di sacrifici, di studi di impegno «da far pagare al padrone». Sono tempi non facili, di scontri anche nel Pci e negli stessi organismi dirigenti della Fiom, ad esempio quando occorre battersi per i nuovi organismi di base, al posto delle vecchie commissioni interne. C’è negli interventi di Trentin un’ossessione continua, la determinazione a puntare più sugli assetti di potere nella fabbrica e nella società che alla redistribuzione del reddito. È il braccio di ferro instaurato a Mirafiori, proprio nell’autunno caldo, tra il sindacato che vuole i delegati e «Lotta Continua» che invoca cento lire all’ora d’aumento salariale e disprezza gli «accordi-bidone».
Dopo l’esperienza tra i metalmeccanici Trentin approda alla segreteria della Cgil e, nel 1988, assume la carica di segretario generale. Sono gli anni della concertazione, allorché, nel 1992 (governo Amato) firma un accordo che cancella la scala mobile senza contropartite e poi si dimette. Ha agito per senso di responsabilità, di fronte al tracollo economico ma denuncia il condizionamento del «male oscuro» che percorre le correnti politiche della Cgil (in seguito superate).
Un anno dopo contribuisce a costruire un’intesa (governo Ciampi) con un nuovo sistema contrattuale come alternativa alla scala mobile. È lui, da segretario generale della Cgil, a promuovere quella che diventa la nuova organizzazione degli atipici, il Nidil. E sempre in quel ruolo consegna al suo sindacato, attraverso una lunga discussione collettiva, una piattaforma per il futuro, un «programma fondamentale» imperniato sui diritti e sulla solidarietà.
Abbiamo citato la parola autonomia. Bisogna citarne un’altra: lavoro. E qui arriviamo ai suoi ultimi impegni, durante l’esperienza di euro parlamentare per i Ds e a capo dell’ufficio programma del partito guidato da Piero Fassino. Trentin non può ipotizzare una sinistra staccata dai temi del lavoro. L’obiettivo sta nel cambiare il lavoro nei suoi aspetti di fatica e di stress, ma anche nel rapporto con le gerarchie proprietarie, senza chiudersi in una nostalgica difesa del fordismo. Il perno centrale sta nel «sapere», nella conoscenza, da conquistare giorno per giorno.
Anche per queste ragioni confessa, nella sua ultima intervista, a proposito del futuro partito democratico, che vorrebbe morire socialista. Perché tutto si può buttare, dopo il crollo del cosiddetto socialismo reale, ma non la possibilità di rendere gli uomini e le donne che lavorano non oggetti inanimati, bensì dei protagonisti. È un po’ il senso delle sue parole durante un incontro con un gruppo di studenti che qui mi piace rammentare. E così arriviamo alla terza parola: «libertà», la libertà di vivere una vita degna di essere vissuta. Sono il modo migliore per ricordarlo: «Mi chiamo Bruno Trentin, ho 71 anni. Ho passato tutta una vita nel lavoro sindacale. Probabilmente questa scelta l’ho fatta perché ho scoperto, anche quand’ero molto giovane, nella classe lavoratrice, una straordinaria voglia di conoscenza e di libertà, proprio in quei lavoratori che non avevano avuto la fortuna di un’educazione, di partecipare ad un’esperienza di studi. Proprio lì ho trovato un bisogno straordinario, molto più grande di quello di avere un alto salario, ecco, di diventare persone libere, di esprimersi attraverso il proprio lavoro liberamente, di conoscere. E questo spiega anche la grande fierezza, che risorge continuamente nel mondo del lavoro, in tutti i continenti, in tutti i paesi. Questa è la cosa che mi ha profondamente affascinato e che mi ha dato la voglia di mettermi proprio al servizio di questa causa».
Uomini come Bruno Trentin, sono nati e vissuti per questi ideali. Qualcuno oggi sostiene che sono ideali morti e sepolti. Perché tutto è cambiato e quell’antico, orgoglioso mondo del lavoro non esisterebbe più. Come se nelle nuove forme lavorative, quelle che impegnano milioni di giovani e meno giovani, non rinascesse una spinta proprio alla riconquista di spazi di libertà e autonomia. È la lezione che nasce dagli ultimi scritti di Trentin, nella sua tenace e troppo spesso ignorata scrittura di un programma per la sinistra. Dove non ci si rifugia nella nostalgia del passato ma si delinea una strategia innovativa basata su nuovi obiettivi. A cominciare da quelli che parlano di conoscenza, di formazione, le armi moderne per rendere davvero ancora una volta liberi milioni di donne e uomini che trascorrono gran parte della propria vita, anche dopo il duemila, lavorando. E connotando così profondamente le proprie esistenze.
brunougolini@mclink.it
* l’Unità, Pubblicato il: 24.08.07, Modificato il: 24.08.07 alle ore 17.19
Quel suo Sì che salvò il Paese e il sindacato
di Sergio Cofferati *
Per i sindacalisti della mia generazione Bruno Trentin è stato un costante punto di riferimento, da quando era segretario generale della Fiom nella stagione dei consigli, da lui fortemente voluta, fino a quando accettò di di dirigere la Cgil in un momento di grande difficoltà per l’organizzazione. Fu un punto di riferimento anche per chi veniva da esperienze e da categorie diverse dalla sua.
Quando diventai segretario generale dei chimici Bruno era già da tempo passato alla segreteria confederale. Nella cultura sindacale dell’industria di quegli anni l’esperienza dei metalmeccanici era davvero lontana da quella dei chimici. Tuttavia il rispetto che la mia categoria, tradizionalmente moderata, nutriva nei confronti di Bruno era rilevantissimo.
A lui e alla sua cultura il sindacato deve alcune delle innovazioni più importanti degli ultimi decenni: a partire da certi strumenti di regolazione contrattuale di un mercato del lavoro che andava cambiando, da lui promossi già negli anni 70, per arrivare ai nuovi modelli di relazione fra le parti sociali.
Il momento più alto di questa opera di innovazione fu il protocollo sulla politica dei redditi del 23 luglio ’93, firmato col governo Ciampi, che per la parte relativa alla struttura e alle regole contrattuali è ancor oggi efficiente e operativo.
Il contributo che Bruno Trentin, con la sua specifica autonomia e capacità operativa, ha dato al risanamento economico del Paese negli anni 90, è stato straordinario. È importante ricordarlo, per il complesso e doloroso percorso che lo contrassegnò. Non a caso il ’92, e in particolare l’estate-autunno di quell’anno, è ricordato come uno dei periodi più drammatici della storia recente della nostra economia. Allora la moneta italiana venne svalutata del 30% e la Banca d’Italia fu costretta a bruciare ingentissime risorse a difesa della lira. L’azione del governo e della Banca d’Italia fu accompagnata da una difficilissima e sofferta intesa sindacale. Il 31 luglio governo, imprese e sindacati firmarono un accordo che non solo sanciva il superamento irreversibile della scala mobile ma anche congelava per un tempo determinato una parte della libera contrattazione fra imprese e sindacati.
Fu un difficile e duro accordo sull’emergenza, che mise a repentaglio la tenuta dello stesso governo. Bruno lo firmò per senso di responsabilità. Non aveva un mandato della maggioranza della sua organizzazione. Firmò e dopo un’ora si dimise. La decisione venne presa durante una tesissima riunione tra lui e i segretari confederali che lo accompagnavano al negoziato.
Quella firma consentì all’economia italiana di creare le condizioni per una tenuta adeguata di fronte all’emergenza. E le successive dimissioni furono un gesto di esemplare rigore verso il sindacato.
Non fu facile, nell’autunno successivo, convincere Bruno a ritirare le dimissioni. Ma nulla fu facile, allora: ricordo le contestazioni dei sindacalisti durante lo sciopero di settembre. Il primo bersaglio fu proprio lui, a Firenze. Bruno rispose, come sempre, difendendo le ragioni dell’unità sindacale.
Nello stesso autunno riprese la trattativa col governo per definire il protocollo sulla politica dei redditi. Una parte venne conclusa col governo Amato. Poi, col governo Ciampi, la trattativa si completò con la parte più impegnativa, che portò a individuare regole e comportamenti necessari a un’equa ripartizione dei redditi, sia attraverso la politica governativa, sia attraverso la contrattazione sindacale.
Se l’Italia è riuscita a entrare nel gruppo di testa europeo e a rispettare i parametri di Maastricht, è in larga parte merito di quell’intesa e del clima di rispetto fra le parti che si creò allora.Bruno Trentin è sempre stato un europeista convinto. Il contributo da lui dato, con gli accordi del ‘92-93, alla collocazione europea del suo Paese è stato forse il naturale e rilevante approdo di un’idea e di una storia.
Ma c’è un altro aspetto, fra i tanti della cultura di Bruno, che mi piace ricordare: la sua capacità di ascoltare, di tenere conto delle opinioni degli altri, senza mai rinunciare alla sua. Quando mi volle in segreteria, notai che la stessa segretaria era molto ampia, non solo per numero (15 persone), ma anche per l’orizzonte di opinioni diverse che esprimeva: da Ottaviano Del Turco, aggiunto di Trentin, a Guglielmo Epifani, per arrivare ai segretari più radicali, come Paolo Lucchesi e Fausto Bertinotti.
Lui era in grado non solo di rispettare le tante sensibilità diverse della Cgil, anche di farsi carico di volta in volta delle problematiche più difficili che ognuna di quelle sensibilità rappresentava. Il suo era davvero un esercizio di leadership non limitativa delle opinioni altrui, ma sempre volta a trovare una sintesi.
Io penso che per queste ragioni Bruno Trentin, che è stato un punto di riferimento importantissimo per la Cgil e la sinistra, resterà un modello indimenticabile per molti cittadini di questo Paese.
* l’Unità, Pubblicato il: 25.08.07, Modificato il: 25.08.07 alle ore 11.59
Il mio amico Bruno Trentin
Molto vicini e molto lontani
Il grande sindacalista della Cgil scomparso
La sua fu un’esperienza forte, ostinata, drammatica, contradditoria. Partigiano con Giustizia e Libertà, leader insolito nella Cgil, comunista silenzioso nel Pci. Era un compagno leale con il quale discutevamo accanitamente e con difficoltà. Restammo amici, anche nel disaccordo
di Rossana Rossanda (il manifesto, 25.08.2007)
Il lavoro è un terreno bruciante, che i partiti dell’ex sinistra e le ideologie del postomoderno cercano di eludere, e sul quale si è misurata tutta l’esistenza di Bruno Trentin. Ne ha costituito l’impegno politico e la domanda morale, su di esso si sono costruite le sue grandi scelte, grandi amicizie e grandi rotture. Certo è stato, dopo Di Vittorio, il segretario della Cgil nel quale sono state riposte più speranze, ma anche il più attaccato - fino alle monetine che gli tirarono addosso - quando parve deluderle. Ed ha finito per essere molto grande anche la sua solitudine, non priva di acerbità inflitte e amarezze subite.
Era venuto al Pci dalla Cgil nel 1950, e in esso ha avuto un fascino forte quanto la diffidenza dell’apparato e dei dirigenti, Ingrao escluso. Ricordo la commissione elettorale del IX congresso, nel 1960, che promosse lui e me nel Comitato centrale; era, credo, il più giovane e questo sollevava molti sospetti. Non era troppo poco sperimentato, solo dieci anni, undici in Cgil? Non si era formato in Francia, Tolosa, e nel partito d’azione, che poco aveva amato i comunisti e poco ne era stato riamato, non era figlio di Silvio Trentin, non era stato partigiano in Veneto nelle file di Giustizia e Libertà? Non era il percorso abituale di un dirigente comunista.
Origine e cultura lo rendevano diverso, e il suo riserbo suonava come una bizzarra forma di aristocrazia, attributo insolito in un sindacalista staordinarimente comunicante con i lavoratori e che andava contando sempre di più in quella Cgil che per il Pci era forza conclamata e cruccio nascosto. Non era stato proprio lui, Trentin, al cuore di quel V congresso che la rinnovava a fondo e ne segnava un’autonomia? Non sarebbe stato l’unificatore dei sindacati metalmeccanici nella Flm? Non sostenne fino all’ultimo quel sindacato dei consigli che non andava né su né giù né ad Amendola né a Berlinguer? E perdipiù non pretendeva una politicità assoluta del sindacato, non solo contrattuale, non solo salariale e normativa ma portatrice di un progetto di società? Non cresceva con lui, e poi senza e perfino contro di lui, una sinistra intellettuale e di lotta che avrebbe contaminato Pci e Psi?
Gli anni ’60, crogiolo che avrebbe messo fine al progressismo nel 1968 e nell’autunno caldo del 1969, ebbero in lui un protagonista tanto formalmente disciplinato quanto non riducibile. Non a caso campeggiava sul suo studio in corso d’Italia una istantanea di Di Vittorio che era scrutato e scrutava il volto severo d’un operaio giovane, ambedue interrogativi l’uno dell’altro. La corrente che passava tra un sindacato di classe e i salariati era assieme più immediata e insubordinata di quella che intercorreva fra base e dirigenti di un partito, come il Pci, che si voleva leninista soltanto nel detenere una «coscienza esterna» alla classe. Ne vennero degli scontri. Nel 1962 il primo avvenne sull’analisi del capitalismo italiano, in un convegno indetto dall’Istituto Gramsci: Trentin e qualcun altro meno autorevole di lui avvertiva «badate, il capitalismo italiano sta cambiando, si ammoderna, rinnova i suoi quadri, cresce» e un Giorgio Amendola appassionato e sprezzante li tacciava tutti di farsi delle illusioni e assieme inclinare all’estremismo, mettendo in causa la tesi che, per la sua natura retriva e fascistizzante, il padronato italiano era incapace di essere una classe dirigente dei nostri tempi. In gioco era dunque il ruolo del partito: doveva approfondire la sua natura di classe o mantenere come obiettivo e limite l’ammodernamento del paese, possibilmente assieme a quel Psi con il quale la sinistra interna avrebbe impedito a lui, Amendola, due anni dopo, spento Togliatti, di andare all’unificazione.
Quella volta Trentin non vinse e Amendola non perdette. Il volgere delle cose avrebbe portato il Pci, invece che a una radicalizzazione della lotta, a sperare di reggere dall’esterno i fili del centrosinistra che si stava tessendo: ora passano i socialisti, poi passeremo noi (e per noi non si intendeva la rivoluzione). Trentin si tenne distante dal dibattito, almeno quello più esplicito, seguiva dalla Cgil il formarsi delle lotte di quel decennio, cogliendone le novità e, come sarebbe stato sempre, nulla concedendo ad alcune forme estreme e contro il sindacato, alle quali non rimproverava la violenza ma quella che considerava una miopia, una elementarietà. Ed esterno rimase allo scontro nel XI congresso, o così parve a noi ingraiani che ne finimmo duramente sconfitti.
Ma con lui restò abituale lo scambiarsi le idee, vedersi, spesso assieme a Segio Garavini o con Vittorio Foa, mantenendo diversi i campi di intervento, lui molto corso d’Italia, noi molto Botteghe Oscure. E’ stato fra i sindacalisti uno degli osservatori più attenti del 1968 e dell’autunno caldo 1969, sostenne a lungo il sindacato dei consigli, anch’esso oggetto di diffidenza della segreteria del partito. Era come se tenesse sempre più lo sguardo sul mutare del capitale e dell’organizzazione del lavoro e delle figure sociali, e questo ci legava. Ma non avrebbe mai appoggiato il manifesto - come Ingrao, nel Pci non avrebbe mai scelto una posizione formale di minoranza. Il giorno della nostra radiazione, nel novembre del 1969, due amici erano assenti dal Comitato centrale per impegni sindacali, Trentin e Garavini. Garavini telegrafò che votava contro, Bruno non si fece vivo.
Ma non finì un’amicizia fra alcuni di noi che era stata grande. Eravamo su postazioni diverse, noi molto attenti alle nuove forme di lotta e alle loro elaborazioni più avanzate, lui molto interessato alle prime e del tutto indifferente alle seconde. Anche la sua consuetudine con Garavini si sarebbe allentata perché Sergio era molto amico di Raniero Panzieri, mentre Trentin con i Quaderni rossi non si coinvolse, che io sappia, mai. Quanto a Classe Operaia e Contropiano fu sempre acerbamente critico - non lo persuase il discorso sull’operaio massa, non pensò mai al proletariato come una figura rozza e indistinta, e perciò tanto più combattiva, non credette a un’autonomia del politico che gli sarebbe sovrapposta, forma indiretta di «stato».
Ma ricordo la sua collera quando Lama all’Eur definì cenere le lotte degli anni ’60 e ’70, consiliarismo incluso, nel ringhiare dei delegati che però, come sempre, incassarono. Non so se Lama avesse trovato un accordo con Berlinguer. A Lama seguì la breve stagione di Antonio Pizzinato, quadro sindacale proveniente dalla Borletti di Milano, poi fu Bruno a diventare segretario generale. La sua fu un’esperienza forte, ostinata, drammatica, contraddittoria. Eravamo in pieno passaggio d’epoca nel corso degli ’80, in piena, avremmo detto allora, controrivoluzione mondiale, in pieno rivolgimento capitalistico dell’organizzazione del lavoro, in piena crisi dell’Est (Tentin fu il solo del Pci a darvi ascolto), in piena «rivoluzione» tecnologica. In Italia in pieno craxismo. L’attacco alla scala mobile investì più Botteghe Oscure che la Cgil, per strano che possa parere - la Cgil stentò ad appoggiare il referendum, che infatti fu perduto. Da parte sua, Trentin lo riteneva già un obiettivo arretrato rispetto alla contrattazione aziendale, che considerava decisiva assieme al contratto nazionale, mentre la Confindustria escludeva o l’una o l’altro. Nel 1992 al governo era Giuliano Amato, in ballo l’unificazione monetaria e il trattato di Maastricht, violenta la pressione per una rottura sindacale. Trentin fece allora la sua, credo, sola mossa interamente politica, l’occhio sul governo, sull’Europa e sul pericolo di isolamento della Cgil prima che su quelli che considerava i suoi mandanti, i lavoratori. Siglò il famoso accordo del 31 luglio e si dimise dalla segreteria della Cgil. Le dimissioni sarebbero rientrate. Ma quella data segnava in verità la sua fine. Un anno dopo sarebbe stato sostituito da Cofferati.
Non considerò mai quella sigla un errore, la difendeva ancora anni dopo, sostenendo che era stato l’unico modo di salvare sia il suo sindacato sia alcuni principi che sarebbero stati confermati negli accordi del 1993. Non credo che avesse ragione. Non ci perdonò l’attacco che gli muovemmo - che gli mossi. Si incrinò anche l’amicizia personale che aveva retto a molte vicissitudini e alla separazione degli itinerari; ci aveva legato, più che una consuetudine quotidiana, la formazione più europea che nazionale, più legata al nord che al sud, più interessata all’analisi che allo slogan. Tanto più forte fu la lacerazione. Ne ebbi ripetute requisitorie nelle più rare occasioni di incontro. La pace sarebbe stata dichiarata con qualche riga molti anni dopo.
Ma se fra noi lo scontro era iscritto nelle cose, fra lui e il Pci poi Pds, non lo era. Se non su un punto decisivo quanto poco esplicitato. Non facilitò né contrastò la svolta di Occhetto. Seguendo quel suo filo costante, coerente, testardo. Sapeva da un pezzo che il Pci non aveva un «progetto di società», come amava dire, e tantomeno basato su una trasformazione del lavoro. Sul quale si divise sempre da una sinistra che si dibatteva fra massificazione, esaltata come terreno di una nuova coscienza antagonista e nativamente ugualitaria, e radicalismo che egli non ammetteva, accusandolo di massimalismo o corporativismo. Tutto gli pareva subalterno, incapace di afferrare la crescita del capitale, incapace di opporvisi, al massimo condannato a una difesa perdente quando non preludeva a un salto dall’altra parte. Fu uno dei primi a capire la Trilaterale, non cedette a conclusioni sommarie, non credette in una vittoria assoluta del toyotismo, non sottovalutò un taylorismo duro a morire nelle grandi aziende, credette alla necessità dell’Europa e della moneta unica come passo in avanti rispetto all’angustia dello stato nazionale. Il suo Marx era quello della liberazione delle forse produttive, ma con un accento messo sull’irriducibilità della persona, sulla sua priorità rispetto alla massa, perfino alla classe, che aveva le sue radici in una sua lettura del personalismo di Mounier, in Maritain, in una Simone Weil amata e criticata per misticismo.
Negli anni ’90 avrebbe lavorato a lungo su Americanismo e fordismo di Gramsci. La sua impronta più profonda sta nella persuasione che nel lavoro c’è insieme un’alienazione e un principio di identità, che resta il luogo elettivo delle relazioni e della creatività - che si tratta di liberarlo, liberare l’uomo nel lavoro, non dal lavoro, non fuori di esso. Questa l’utopia nel suo libro meno noto, i due saggi de La città del Lavoro, il primo dei quali è uno dei più severi attacchi alla subalternità culturale della sinistra, che era stata anche sua.
Anche fra lui e la Cgil, senza strappi apparenti, dovette essere una dura separazione. Come il Pci, anch’essa è spietata con i dirigenti che lasciano sulla loro strada. In Cgil prese la direzione di un ufficio studi che non produsse o non fu lasciato produrre nulla di staordinario, come una Commissione sul programma del Pds in mutazione. Divenne deputato europeo. Bertinotti, che finché erano assieme in segreteria era stato oggetto di suoi attacchi asperrimi per estremismo, novimentismo, massimalismo (peraltro ricambiati in direzione opposta), lo incontrava a Bruxelles o Strasburgo, solo, e finivano per fare colazione insieme. Solo arrivava dovunque, nelle occasioni pubbliche. Al congresso di Rimini, che avrebbe visto la grande stagione di Cofferati, Trentin non stava alla presidenza, ma seduto a mezza sala, senza amici accanto, e col giornale aperto davanti agli oratori, segretario incluso.
Non so come la mettesse con gli esiti attuali della mondializzazione. Ci vedemmo sempre meno nella sua ospitale casa. Ai congressi ci abbracciavamo, ma con qualche imbarazzo, come due che si erano voluti bene molto tempo fa. L’ultima volta lo incontrai, inatteso, nel corteo che il manifesto fece per Giuliana Sgrena sequestrata in Iraq. Non lo percorremmo assieme, ci perdemmo nella folla.
Poi, negli ultimi due anni, le brutalità del corpo assalirono diversamente tutti e due. La sua banale caduta in montagna, che amava più di qualsiasi altro luogo, fu un’ironia crudele del caso. Non se ne rimise più e non so se abbia potuto riflettere sulla sua vita, sul suo tormentato e pur felice itinerario. Lo avrebbe sicuramente difeso tutto.