BOLOGNA
Lo studioso del cristianesimo è morto l’altra notte; aveva 81 anni. Era stato allievo di Cantimori e Jedin
Alberigo e la Chiesa nella storia
Con Lercaro e Dossetti diede un contributo significativo alla stagione del dibattito
conciliare, nome di punta dell’«officina bolognese».
Fondò l’Istituto per le scienze
religiose «Giovanni XXIII»
di Andrea Riccardi (Avvenire, 16.06.2007)
Quando ho appreso la morte di Giuseppe Alberigo, storico della Chiesa di fama internazionale, mi sono ricordato quel che mi raccontò molti anni fa il cardinale Congar a proposito di questo studioso: «Mi ha colpito - mi disse - che potevamo passare un giorno a discutere con lui in un convegno, ma poi lo trovavo con la Bibbia la mattina presto in cappella». Infatti il professor Alberigo è stato, a suo modo, un uomo di fede che ha amato la Chiesa. La dimensione di fede di Pino, come lo chiamavano gli amici, seppure nascosta dal suo pudore, è stato il filo della sua esistenza. Così era toccato sempre e profondamente da una bella e partecipata liturgia, dalla predicazione della Parola di Dio, da una comunità credente. Questo va ricordato per non fermarsi all’erudito, allo studioso, all’uomo di tante battaglie.
Pietro Parente, cardinale e teologo della scuola romana, rammentando il suo intervento al Concilio Vaticano II in favore della collegialità, mi disse molti anni fa: «Avevo letto il libro di Alberigo, Lo sviluppo della dottrina sui poteri nella Chiesa universale, ed aveva ragione storicamente». Parente non era una personalità che si trovava sulla stessa lunghezza d’onda di Alberigo. Eppure con quel libro, nel 1964, il giovane studioso (era nato nel 1926) si impose all’attenzione non solo del mondo degli storici, ma anche di quello della Chiesa e della teologia.
Erano gli anni del Concilio, in cui Alberigo ha avuto un ruolo notevole nel quadro del lavoro dell’«officina bolognese», guidata da don Giuseppe Dossetti e in sintonia con il cardinale Lercaro, arcivescovo di Bologna. A quella stagione risalgono le sue relazioni con Congar, Chenu, ma anche con Joseph Ratzinger, con il migliore pensiero teologico europeo. E’ una storia solo in parte indagata, ma che si radica nell’esperienza del Centro di documentazione, poi Istituto per le scienze religiose di Bologna, fondato nel 1953 da Giuseppe Dossetti. Questi, qualche anno dopo l’inizio, scriveva a Lercaro: «Il Centro è nato da una constatazione: quella cioè che le istituzioni culturali italiane non danno quasi nessun posto alla scienza religiosa...».
Mai Alberigo ha nascosto come Giuseppe Dossetti rappresentasse una grande lezione per la sua vita prima che per le sue ricerche. Di lui scriveva assieme alla moglie: «la sua testimonianza ha sempre coniugato con tutte le sue forze creatività intellettuale, impegno interiore e dedizione personale in un contesto di fede cristiana intensamente professata».
Questo era un ideale di vita, che egli condivideva con Angelina, la moglie, compagna di tante avventure ecclesiali e intellettuali con un senso di "militanza" che appare originale rispetto allo stile di tanti accademici. Alberigo era però una storico rigoroso, che aveva assorbito l’insegnamento storiografico di Delio Cantimori (di cui era stato assistente) e di Hubert Jedin. La sua attenzione si era concentrata sul governo della Chiesa e le sue istituzioni, sui Concili e la loro storia.
La riforma della Chiesa e la ricerca dell’unità avevano attraversato come un’unica grande passione il suo lavoro di studioso. Credeva molto all’Ecclesia sempre reformanda e intendeva contribuirvi. Bisognava leggere e capire il cristianesimo nella storia: così fu intitolato il volume per i suoi settant’anni da amici e allievi, Cristianesimo nella storia; così è intitolata la rivista dell’Istituto che egli guidava. Storia e cristianesimo sono stati i poli dei suoi interessi di una vita: l’uno mai separato dall’altra. La grande lezione che egli traeva dai suoi studi storici era la scoperta della ricchezza delle dimensioni e dei volti della Chiesa nel passare dei secoli. A questo intendeva appassionare gli studiosi più giovani, che poi spesso hanno seguito loro percorsi propri, ma a partire dal suo insegnamento storiografico.
La figura paradigmatica del sentire tra grande storia e riforma nel presente gli era apparsa proprio papa Giovanni, a cui ha dedicato tanto studi e la cui beatificazione auspicava fin dai tempi del Concilio. Così concludeva un libro dedicato a Giovanni XXIII, scritto con Angelina: «Lavorando su Giovanni si ha l’inebriante impressione di fare storia del futuro». Questa era un po’ la sua convinzione: lavorando sulla storia si potevano preparare materiali per la storia del futuro.
In questa prospettiva Giovanni XXIII e la storia del Vaticano II erano stati i due campi in cui, negli ultimi due decenni, aveva lavorato e guidato una serie di studiosi. Le sue interpretazioni sul Concilio hanno fatto molto discutere. Il che non aveva preoccupato lo studioso di Bologna, il quale anzi lamentava che nella Chiesa e nel mondo degli storici la quantità e la qualità del dibattito si fossero ridotte. Per lui il dibattito non era però quello dei talk show, ma quello severo degli studi e delle idee, alla cui forza credeva fermamente. Viveva infatti il suo essere storico come un originale magistero e, conscio di questo, ponderava i suoi giudizi sui lavori propri ed altrui, lasciando stupiti i più giovani, abituati ad un altro modo di concepire la vita universitaria e la ricerca.
La cultura italiana non può dimenticare il grande contributo di Alberigo al risveglio dell’interesse per gli studi storici della Chiesa, del cristianesimo, della storia della teologia e in senso lato delle tematiche religiose. Si tratta di un settore quasi dimenticato nell’Università italiana, considerato solo buono per studiosi dell’antichità o un campo di carattere confessionale. Alberigo (che ha insegnato a Bologna dal 1968) è stata una delle personalità che, in tempi in cui gli studi religiosi erano trattati come una specie di archeologia, ha richiamato al loro valore per comprendere il presente e per una vera cultura umanistica ed è, in parte, riuscito a creare spazio a questa sensibilità.
Lo studioso di Bologna ha inteso, però, offrire i suoi studi alla Chiesa. Non lo faceva per coinvolgere l’autorità del Papa o della Chiesa in letture di cui portava la responsabilità personale. La presentazione dei lavori dell’Istituto da lui presieduto ai Papi (a partire da quella dei Conciliorum Oecumenicorum Decreta a Giovanni XXIII nel 1962 sino all’ultimo incontro con Benedetto XVI) esprime simbolicamente l’atteggiamento con cui Giuseppe Alberigo ha lavorato e vissuto: offrire la storia, la sua storiografia alla Chiesa.
la vita
Storico del Vaticano II *
Lo storico Giuseppe Alberigo, uno dei più illustri studiosi di storia della Chiesa, è morto l’altra notte all’ospedale Malpighi di Bologna. Aveva 81 anni. Colpito da un aneurisma nello scorso mese di aprile, alcune settimane fa Alberigo era entrato in coma e da allora non si è più ripreso. Giuseppe Alberigo dal 1967 era ordinario di storia della Chiesa nell’Università di Bologna e dirigeva nella stessa città l’Istituto per le scienze religiose Giovanni XXIII e la rivista «Cristianesimo nella Storia».
Ha ricevuto lauree «honoris causa» in Teologia dalle Università di Monaco di Baviera, di Strasburgo e di Munster. Ha collaborato alla preparazione della documentazione per la causa di beatificazione di Giovanni XXIII. Faceva parte del comitato internazionale della direzione della rivista «Concilium». Il professor Alberigo era considerato uno dei maggiori esperti dei Concili ecumenici. Ha curato una monumentale storia del Concilio Vaticano II uscita dal Mulino in cinque volumi fra il 1996 e il 2001. I fun erali si terranno lunedì alle ore 15 nella Chiesa di San Bartolomeo a Bologna.
il caso
Rottura o continuità? Dibattito aperto
sull’interpretazione del Concilio Vaticano II *
La visione del Concilio teorizzata da Alberigo nei cinque volumi della «Storia del Concilio Vaticano II» (pubblicata dal Mulino) e nel volumetto della «Breve Storia del Concilio Vaticano II» era caratterizzata in primo luogo da una dialettica, se non da un’opposizione tra «l’evento» del Concilio Vaticano II e «i documenti» dello stesso. La sua tesi era quella di una «rottura epocale» che avrebbe portato alla nascita di un nuovo cattolicesimo, di un corpo ecclesiale reimpiantato ex novo dal Concilio. Sua anche l’idea di una contrapposizione tra «due Concili», quello di Giovanni XXIII e quello di Paolo VI: il primo proteso al rinnovamento, l’altro impegnato nella reazione contro il presunto «spirito del Concilio».
Molti studiosi hanno contestato però l’enfasi che Alberigo e la «scuola di Bologna» hanno posto sul materiale memorialistico e periodistico (fonti secondarie), che si tradurrebbe in una sostanziale disattenzione per gli Atti Ufficiali del Concilio (fonti primarie), come ha rilevato l’arcivescovo Agostino Marchetto, attuale segretario del dicastero vaticano per i migranti e autore nel 2005 del volume «Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia», che ha contestato le tesi della scuola di Bologna.
«L’interpretazione del Concilio come rottura e nuovo inizio sta venendo a finire. È un’interpretazione oggi debolissima e senza appiglio reale nel corpo della Chiesa», ha affermato il cardinale Camillo Ruini alla presentazione dell’opera. Testimonia la centralità della questione per la vita della Chiesa proprio il discorso alla Curia Romana che Benedetto XVI ha dedicato all’argomento, nel dicembre 2005. Descrivendo la contrapposizione tra due ermeneutiche del Concilio, quella «della discontinuità e della rottura» e quella «della riforma» nella continuità sostenuta da Giovanni XXIII e da Paolo VI, Benedetto XVI ha affermato che «l’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti».
* Avvenire, 16.06.2007.
Alberigo e Ratzinger, i due professori *
L’ultimo atto pubblico importante del professor Giuseppe Alberigo, prima della morte avvenuta il 15 giugno, è stato un incontro con Benedetto XVI, il 7 febbraio, in coda all’udienza generale del mercoledì.
In quell’incontro Alberigo portò in dono al papa il primo volume dei “Conciliorum Oecumenicorum Generaliumque Decreta”, la nuova edizione di una delle due opere maggiori dell’”officina” bolognese fondata da don Giuseppe Dossetti, assieme alla grande “Storia del Concilio Vaticano II” pubblicata in cinque volumi man mano portati in dono all’allora cardinale Joseph Ratzinger.
Nel 2001, nel presentargli l’ultimo volume di quest’opera, Alberigo seppe da Ratzinger che egli aveva intenzione di lasciare le proprie carte sul Vaticano II, dopo il pensionamento, proprio all’Istituto bolognese diretto dallo stesso Alberigo. Successivamente, da papa, Ratzinger avrebbe confermato ad Alberigo che di questa sua intenzione aveva scritto nel testamento, “pur lasciando libertà di non ottemperare le sue volontà all’esecutore testamentario”.
A rivelare queste confidenze di Ratzinger ad Alberigo è stato il suo discepolo Alberto Melloni, sul “Corriere della Sera” del 28 maggio.
Sull’opera svolta da Alberigo come studioso e come uomo di Chiesa www.chiesa ha pubblicato vari servizi. Tre in particolare. Il primo sull’interpretazione del Concilio: “Vaticano II: la vera storia che nessuno ha ancora raccontato”. E gli altri due sull’”officina” bolognese: “Papa monarca, addio. Il programma dei progressisti in conclave” e “Il Concilio di Bologna. Fortune e tramonto di un sogno di riforma della Chiesa”.
Sull’interpretazione del Vaticano II, dal punto di vista di Benedetto XVI, fa testo il discorso rivolto dal papa alla curia il 22 dicembre 2005.
* SETTIMO CIELO di SANDRO MAGISTER, 18.06.2007
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
L’ITALIA E L’ANNO DELLA VERGOGNA (1994): L’ALLARME DI DON GIUSEPPE DOSSETTI
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
Muore Alberigo. Ha difeso il Concilio
di Fulvio Fania (Liberazione, 16 giugno 2007)
La "Officina’ perde il suo maestro. Alberigo, l’allievo di Dossetti, si è spento nella notte di ieri. Nella sua "scuola di Bologna", tra gli storici e gli intellettuali della Fondazione per le scienze religiose intitolata a Giovanni XXIII, temevano questa brutta notizia da metà aprile, quando Alberigo è stato colpito da un gravissimo aneurisma che non ha lasciato scampo ai suoi 81 anni.
Eppure in quei giorni "l’appello di Alberigo", lanciato a febbraio, dava ancora molto fastidio ai vertici della Cei. Erano poche righe, drammatiche per un cattolico come lui, una severa protesta per l’annuncio da parte del cardinal Ruini della "nota vincolante" contro i Dico. «La chiesa italiana sta subendo un’immeritata involuzione, supplichiamo i pastori di evitare tanta sciagura», aveva scritto l’anziano studioso e migliaia di persone sono accorse a sottoscrivere il suo allarme e quella scelta di laicità.
La maniera di Alberigo non consentiva splendidi isolamenti in mezzo ai libri benché i libri e la ricerca fossero la ragione del suo impegno anche dentro la Chiesa.
Un’impresa senza uguali quella che ereditò da Dossetti: costruire un centro di studi religiosi laico, non contrapposto alla Chiesa ma neppure subalterno ad essa, in un Paese come l’Italia in cui questo genere di discipline era praticamente monopolio ecclesiastico o affidato a singoli esperti. I cinque volumi della "Storia del Concilio", curati da Alberigo, hanno fatto il giro del mondo, tradotti in diverse lingue, mentre l’originario istituto, poi trasformato in fondazione, si è arricchito di una gigantesca documentazione sulla storia della Chiesa.
Alberigo muore proprio mentre l’ostilità ai "dossettiani di Bologna" si rafforza nelle alte sfere della gerarchia, soprattutto italiana, sempre più insofferente al peso culturale della loro istituzione nonché alle simpatie politiche verso il cattolicesimo popolare. Il 7 febbraio scorso lo storico si presentò a Benedetto XVI al termine dell’udienza generale. Gli consegnò l’ultima opera collettiva del suo istituto, uno studio sui decreti dei "Concili ecumenici e generali". Alberigo e Ratzinger si conoscevano bene. Nel Concilio infatti il teologo bavarese, allora considerato un innovatore, accompagnava il cardinale Frings; Alberigo seguiva invece con Dossetti il cardinale Giacomo Lercaro.
Secondo quanto riferiscono i "bolognesi" il papa nel breve colloquio avrebbe promesso di lasciare alla Fondazione tutte le sue carte personali del Vaticano II. Ciò non ha impedito, però, che all’inizio di giugno un corsivo anonimo dell’Osservatore romano sparasse a zero contro il volume sui concili costringendo Alberto Melloni, lo studioso più in vista del gruppo bolognese, a replicare sul "Corriere della sera".
Ma la vera ragione del contendere è un Concilio solo, appunto il Vaticano II. Ruini ha dichiarato guerra al presunto dominio storiografico del centro dossettiano, già pochi mesi dopo l’avvento del nuovo papa. «L’interpretazione del Concilio come rottura e nuovo inizio - disse - sta venendo a finire». Senza nominarlo, il cardinale stava parlando di Alberigo mentre presentava una nuova storia pubblicata da monsignor Marchetto. «E’ un’interpretazione debolissima - incalzò l’allora presidente Cei - senza appiglio reale nel corpo della Chiesa» e quindi - concluse - occorre «una nuova ricostruzione del Vaticano II che sia anche, finalmente, una storia di verità».
Insomma, guai a chi parla ancora di spirito del Concilio, guai a chi - come Alberigo e i suoi - distingue tra la «complessità dell’evento assembleare», per la vivacità e le aspirazioni che lo animarono, e «la relativa aridità delle sue decisioni». Così giudicando, infatti, si ricava come minimo l’impressione di un Concilio ibernato o comunque ridotto ad un fatto da archiviare. Alberigo invece vorrebbe rimetterlo in moto, chiede una «ricezione selettiva di ciò che è vivo e ciò che è morto» ma anche «creativa» per la chiesa contemporanea.
Il vento tuttavia soffia avverso da parecchi anni. Ratzinger è diventato papa proprio nel quarantesimo anniversario delle conclusioni del Vaticano II. Quando celebrò la ricorrenza parlò soprattutto della Madonna ma il 22 dicembre 2005 rivolse alla Curia un discorso denso di indicazioni. Polemizzò contro «l’ermeneutica della discontinuità», la tesi secondo cui il Concilio segnò una «rottura» rispetto alla chiesa preconciliare, e contro la pretesa di uno «spirito» di quella grande assemblea che sarebbe stato travisato nei compromessi finali.
La "scuola di Bologna" resiste anche quando si tratta di criticare storicamente i papi, da Paolo VI a Wojtyla, facendo risaltare la figura sempre amata di Giovanni XXIII. Odiati dai tradizionalisti, che li considerano un’inesaurita fucina di catto-comunisti, gli studiosi si sono però attirati anche qualche critica di storici progressisti: non è facile infatti mantenere sempre l’equilibrio tra la rigorosa indagine storiografica e la passione militante per un papato e un concilio di 40 anni fa che potrebbero ancora suggerire la via alla chiesa di domani.
Il nuovo Messale in inglese e l’eredità del Concilio
di Massimo Faggioli
in “popoli” dell’ottobre 2011
Nella prima domenica di Avvento (27 novembre) la Chiesa cattolica degli Stati uniti - al pari di quelle di Gran Bretagna, Sudafrica, Australia e Nuova Zelanda - inizierà a usare la nuova traduzione inglese del Messale romano.
Il cambiamento avviene dopo un lungo iter in cui non sono mancate tensioni tra Roma e la Chiesa statunitense, né divisioni all’interno di quest’ultima. È utile dunque ricostruire brevemente le tappe di una vicenda che, seppure estremamente importante per il mondo cattolico, ha avuto scarsa eco in Italia. Dopo l’approvazione, durante il Concilio Vaticano II, della Costituzione sulla Sacra liturgia Sacrosanctum Concilium (1963), avvenuta anche grazie all’appoggio decisivo dei vescovi americani, nel 1973 fu approvata da Roma e iniziò a essere usata nelle chiese statunitensi la prima traduzione del Messale dal latino all’inglese realizzata da Icel (International Commission on English in the Liturgy), commissione fondata proprio durante il Concilio dalle Conferenze episcopali anglofone.
Tra 1994 e 1998 la Congregazione per il culto divino iniziò a manifestare obiezioni nei confronti delle nuove traduzioni in lingua inglese dei testi liturgici fatte secondo il principio della «equivalenza dinamica».
Nel 1999 il cardinale Medina escluse l’«equivalenza dinamica» come metodo accettabile. Il passo successivo fu l’istruzione vaticana Liturgiam authenticam del 2001, tuttora in vigore e valida per tutte le Chiese, secondo la quale le nuove traduzioni devono seguire il principio di «equivalenza formale»: ogni parola latina deve avere un corrispondente nella traduzione, e sintassi, punteggiatura e vocabolario della lingua latina devono essere riprodotti fedelmente.
Nel 2002 iniziò l’emarginazione di Icel come luogo di elaborazione dei testi liturgici in lingua inglese, a favore di un nuovo organismo di creazione vaticana, Vox Clara, che dipende dalla Congregazione per il culto divino; Icel fu riorganizzata in modo da non rispondere più ai vescovi ma al Vaticano. Iniziò in quel periodo il lavoro per una nuova traduzione inglese del Messale.
Nel 2008 la nuova traduzione preparata da Icel fu presentata e subito subissata di critiche da parte di molti teologi e liturgisti anglofoni quanto alla qualità della traduzione; il testo fu comunque inviato a Roma per l’approvazione. Vox Clara introdusse a questo testo circa 10mila modifiche, il Vaticano approvò e inviò il nuovo Messale ai vescovi perché venisse introdotto all’inizio dell’anno liturgico 2011-2012.
Nel corso degli ultimi due anni il dibattito si è acceso in ogni Paese anglofono toccato dalla nuova traduzione del Messale. Negli Stati Uniti esso è stato particolarmente intenso non solo per la consistenza numerica della Chiesa cattolica (67 milioni di fedeli, circa il 23% dei cittadini adulti), ma anche per il ruolo decisivo giocato, tra Icel e Vox Clara, dal cardinale Francis George, arcivescovo di Chicago e fino alla fine del 2010 presidente della Conferenza episcopale Usa (Usccb), la quale è stata teatro di numerose e palesi irregolarità procedurali finalizzate a far passare il testo «romano» senza possibilità di intervento da parte dei vescovi.
Dall’assemblea della Usccb del novembre 2009 buona parte dei liturgisti americani ha cercato di rimettere in discussione il nuovo Messale. Fino all’inizio del 2011 i vescovi e teologi americani erano ancora divisi sulla sua accettabilità; negli ultimi mesi, però, i critici hanno pubblicamente rinunciato a portare avanti la loro «resistenza» in nome dell’unità della Chiesa americana. Noti liturgisti che avevano contestato la qualità linguistica e teologica del nuovo Messale si sono messi a disposizione dei vescovi, al fine di limitare i danni nel corso del delicato processo di recezione.
Anche tra il laicato statunitense le critiche sono proseguite (si veda, per esempio, il sito www.whatifwejustsaidwait.org) fino all’inizio del 2011, quando anche i più convinti oppositorihanno dichiarato la loro disponibilità a lavorare per una migliore recezione del nuovo Messale, al fine di non lacerare la comunione ecclesiale.
Ma quali sono le principali critiche rivolte al nuovo Messale? C’è anzitutto un problema di chiarezza del testo: la nuova traduzione, che ha dovuto mantenere la struttura della frase latina, è ricca di espressioni complesse non facilmente comprensibili da un anglofono medio.
C’è poi un problema di lunghezza delle frasi: per esempio, la lunghezza delle frasi delle preghiere eucaristiche del nuovo Messale (aumentate mediamente del 78% rispetto al precedente) fa diventare quei testi totalmente estranei al ritmo della lingua inglese.
Infine, ci sono rilevanti cambiamenti di formule ormai entrate a far parte della lingua liturgica dopo il Concilio. Un esempio: quando il sacerdote dice «Il Signore sia con voi», ora anche gli anglofoni, come facciamo noi italiani, risponderanno «And with your spirit» («E con il tuo spirito»), formula certo più aderente al latino, ma ben diversa dall’espressione colloquiale, «And also with you» («E anche con te»), a cui erano abituati. Ancora: durante la consacrazione del vino, al posto di «cup» ci sarà l’arcaico «chalice».
E l’espressione «For you and for all» («Per voi e per tutti») sarà sostituita da «For you and for many» («Per voi e per molti»): in quest’ultimo caso, tra l’altro, è evidente che con la nuova traduzione si è voluto trasmettere un contenuto teologico particolare, una questione che va al di là della maggiore o minore vicinanza ai testi latini.
Del resto tutta la vicenda dell’elaborazione del nuovo Messale ha significati più profondi di una semplice controversia linguistica. Colpiscono due aspetti, collegati tra loro. In primo luogo, chi vive in America sa che la qualità liturgica nelle chiese cattoliche è notoriamente molto alta: dal punto di vista della solennità, della musica, della cura delle letture e degli arredi sacri, ecc.
I motivi sono molti, specialmente per quanto riguarda la musica (tra cui un interessante fenomeno di migrazione verso la cultura cattolica di una tradizione liturgica congregazionale-protestante), ma in particolare vi è il successo del processo di recezione della riforma liturgica del Concilio negli Usa, come ha evidenziato il recente studio di Mark Massa, The American Catholic Revolution: How the ’60s Changed the Church Forever (New York, Oxford University Press, 2010).
Al contrario di altri casi additati dai nostalgici, la riforma liturgica conciliare in America non ha dato luogo ad «abusi» né alla distruzione di un patrimonio rituale - molto cattolico e molto americano - che è ancora forte e sentito. Dunque, delle tante riforme di cui gli anti-conciliari o i cattolici conservatori americani potrebbero sentire il bisogno, quella della liturgia è percepita come la meno urgente.
In secondo luogo, è evidente che al cuore delle tensioni tra Roma e le Chiese anglofone, e all’interno di queste, vi è la consapevolezza che la riforma liturgica del Concilio è «il» simbolo del Vaticano II e in qualche modo il custode della sua ecclesiologia. Quanti attaccano la riforma liturgica sanno bene che il Vaticano II è ancora sulla strada di una sua «canonizzazione», ovvero di una sua stabilizzazione culturale come nuova forma espressiva della fede cattolica.
Modificare la liturgia del Concilio (e in questo caso, latinizzarne la lingua) può essere letto come un sottinteso appello a rimettere in discussione tutto il resto del Vaticano II.
La nuova traduzione in inglese del Messale appare dunque un terreno di confronto circa l’interpretazione del Concilio: un confronto particolarmente delicato e dall’esito incerto per un cattolicesimo, come quello anglofono, culturalmente poco attaccato alle nostalgie dell’età tridentina.
Testimoni del nostro tempo
QUATTRO PADRI
di Raniero La Valle
Dal sito http://www.giuseppebarbaglio.it/,
un sito amico da conoscere e da visitare, Dalla sezione “Testimonianze”
riprendiamo un articolo di Raniero La Valle *
Nel giro di poche settimane, in questa prima parte del 2007, l’anno delle Grandi Delusioni, sono venuti a mancare quattro pilastri della Chiesa italiana, quattro Padri della Chiesa, potremmo dire. E la prima reazione è di sgomento: e adesso come facciamo? Non è la stessa cosa procedere senza di loro, siamo impoveriti, anche proprio come Chiesa, e altri non se ne vedono sorgere di eguali. E la seconda reazione è di dire: meno male che ci sono stati.
Il primo a morire è stato Giuseppe Barbaglio, un grande biblista innamorato di Paolo di Tarso e della sua folgorante relazione con Gesù di Nazaret; e innamorato anche di Gesù, di cui ha rifatto la storia come “ebreo di Galilea”, in modo tale da potersi affermare che dopo le sue ricerche conosciamo l’uomo Gesù come mai lo avevamo conosciuto prima; e questo ha fatto con rigore scientifico e fede, con libertà e fedeltà, cose che di rado vanno d’accordo, e che sono invece ben presenti e armoniose in tutte e quattro le persone che ci hanno lasciato.
Poi è morto mons. Luigi Sartori, il patriarca dei teologi italiani, senza il quale l’ecumenismo in Italia non sarebbe decollato, uomo di Chiesa e del Concilio, sempre più persuaso che il futuro della teologia e della fede stia nella grazia del pluralismo religioso.
La terza scomparsa è stata di una donna, e pochi se ne sono accorti perché già stava nascosta. Ma la Chiesa vera vive di mille e mille di queste persone che se ne stanno nascoste, ma sanno donare intelligenza e carità, leggere le Scritture e pregare come nessun altro mai, e che così generano (padri o madri che siano) e fanno crescere la Chiesa di tutti.
Si chiamava Maria Gallo, e quando l’ho conosciuta era una ragazza che studiava e amava come le altre di quella generazione. Poi ha scelto la vita monastica nella comunità di Dossetti, e ha continuato ad amare e studiare, per parlare in ebreo a Gerusalemme con gli ebrei, in greco nei monasteri ortodossi con i greci, in arabo con gli arabi in Palestina, leggendo e commentando i loro testi, dai “midrash” al Corano alla “Vita in Cristo” di Nicolas Cabasilas, ed elaborando i criteri di una “comunità fondata sulla Bibbia”.
Infine è venuto a mancare Giuseppe Alberigo, grande storico della Chiesa e dei Concili. Senza di lui il Concilio Vaticano II sarebbe stata un’altra cosa, perché non avrebbe potuto avvalersi di una edizione critica di tutte le decisioni dei precedenti Concili ecumenici, che egli predispose e pubblicò giusto in tempo prima del suo inizio; né il Concilio sarebbe stato agevolato nella ripresa del tema antico della collegialità episcopale, se egli non ne avesse dissodato il terreno con i suoi studi sull’episcopato, il cardinalato e i poteri nella Chiesa universale; né il Concilio né papa Giovanni avrebbero trovato chi subito ne mettesse insieme la portata storica, i documenti e la memoria, quando ancora freschi erano i ricordi e l’esperienza di quegli eventi.
Alberigo molto amava la Chiesa ed è morto “supplicando” l’episcopato italiano di non fare passi falsi e di non voler coartare la libertà dei parlamentari nelle sue incursioni nei problemi civili, ciò che definiva una “sciagura”. E novemila fedeli firmarono, d’accordo con lui. Per tutto questo “L’osservatore romano” non lo amava, mentre molto lo apprezzava il cardinale Ratzinger prima, Benedetto XVI poi, che in una recentissima udienza gli aveva confermato la promessa di lasciare al suo Istituto bolognese le carte personali relative alla sua partecipazione al Concilio.
Per Alberigo il punto vero non era che si dovesse fare la storia della Chiesa, ma che la Chiesa fosse storia. Il giornale vaticano invece ha continuato a preferire l’apologetica alla storia, molto disdegnando gli storici. Per questo attaccava Alberigo ad ogni suo libro sulla storia del Vaticano II che usciva; e da ultimo l’attaccò che già era in coma, col pretesto di una riedizione ampliata (e, secondo il giornale, troppo ampliata) delle decisioni degli antichi Concili. Erano passati i tempi in cui il quotidiano della Santa Sede parlava bene di lui, come quando, nel maggio 1971, pubblicò un articolo del grande Hubert Jedin, che riconosceva l’importanza del suo apporto alle elaborazioni del Concilio, sulla “linea genuina della tradizione”.
Ma degli ultimi sgarbi ecclesiastici, romani e bolognesi, Alberigo non ha potuto sapere; lo avrà saputo ora, quando però, accolto dall’amore di Dio, non ne poteva più essere ferito.
Raniero La Valle
Articolo tratto da:
FORUM (63) Koinonia
http://utenti.lycos.it/periodicokoinonia/
* Il Dialogo, Martedì, 17 luglio 2007
Ricordo di Giuseppe Alberigo
di Giancarla Codrignani *
Per la scomparsa di Giuseppe Alberigo ancora una volta si sono sprecati sui media i termini di "disubbidienza" e "dissenso". Personalmente non mi riesce di capirne il senso: c’è un’obbedienza che impegna il clero in termini disciplinari canonici, ma neppure il prete può andare contro la coscienza. Non c’è bisogno di scomodare la Riforma e farsi definire protestanti, perché lo diceva già san Tomaso. Nel caso di Alberigo credo che poche persone siano state più "fedeli" non solo all’impegno cristiano, ma alla Chiesa.
Come i cinque volumi della “Storia del Concilio Vaticano II”, così anche l’ultima ricerca del "suo" Istituto per le scienze religiose, lo studio sui decreti dei "Concili ecumenici e generali" l’aveva personalmente presentata al Papa. Alberigo era un professore di storia, non un ideologo: si possono criticare le sue opere nel normale confronto scientifico, non aprire conflitti sulla verità delle ricerche come ha fatto il cardinal Ruini sostenendo che “l’interpretazione del Concilio come rottura e nuovo inizio sta venendo a finire” ed è necessaria “una nuova ricostruzione del Vaticano II che sia anche, finalmente, una storia di verità”.
Sono passati quarant’anni dalla fine del Concilio voluto da Giovanni XXIII e le nuove generazioni cattoliche, poco abituate alla lettura di ciò che la Chiesa ha detto e dice nel corso dei secoli, possono non avvertire l’importanza del rinnovamento avanzato dal Vaticano II e subire la visione riduttiva proposta dagli ultimi pontefici. Ebbe un carattere - ed oggi è un’accusa - eminentemente pastorale e non dogmatico; per cui i suoi documenti rappresenterebbero indicazioni generiche che non fanno dottrina.
I credenti convinti della presenza dello Spirito santo nei Concili trovano qualche difficoltà a prescindere dalla lettera dei testi usciti dall’assemblea conciliare e solennemente proclamati. Alberigo ha raccolto la tradizione del Vaticano II da storico: scomodo non è stato il suo lavoro, scomodi sono i testi del Vaticano II per chi intende rimuoverli e restaurare valori cattolici tradizionali poco sensibili ai "segni dei tempi".
L’opera di Giuseppe Alberigo è destinata, dunque, a restare come patrimonio storico necessario e la scuola bolognese che, istituita all’origine da Giuseppe Dossetti, si riconosce nel suo magistero dovrà mantenerne lo spirito e il metodo.
Se la Chiesa gerarchica attuale se ne rendesse conto, sentirebbe che è opera da fare propria: le religioni nel nostro tempo sono, tutte, a rischio, perché sempre nuovi "segni dei tempi" le incalzano a dare nuove speranze davanti ai problemi inediti della storia. La tentazione di richiudersi nella difesa delle proprie cittadelle, forse manterrà le posizioni, ma, se non eviterà integralismi e conflitti, sarà perdente di fronte ad un futuro complesso e secolarizzato. Alberigo era ben consapevole di questi pericoli ed era sempre stato attento a richiamarli all’attenzione comune. Ultima sua testimonianza l’appello di cattolici - diecimila sono state le adesioni - contro l’ingerenza del magistero in campo politico e sociale, a sostegno della laicità.
Mancherà a tutti la compostezza degli interventi appassionati di quest’uomo di fede, uno dei pochi che abbia accolto la responsabilità riconosciuta ai laici e ancora così poco praticata. Il suo ricordo invita tutti i cristiani ad essere responsabili in prima persona: solo così ci si può dire obbedienti.
Giancarla Codrignani
Articolo tratto da:
FORUM (61) Koinonia
http://utenti.lycos.it/periodicokoinonia/
* Il Diaologo, Venerdì, 29 giugno 2007
La morte di GIUSEPPE ALBERIGO Una chiesa conciliare attorno ad Alberigo *
di Enrico Peyretti
COMMIATO A GIUSEPPE ALBERIGO
L’ultima buona azione che fanno i morti è radunare gli amici, raccomandando loro di continuare in ciò che di meglio essi hanno cercato di fare. Dopo il funerale di Giuseppe Alberigo, il 18 giugno a Bologna, abbiamo incontrato Raniero La Valle, Valerio Onida, Leopoldo Elia, Umberto Allegretti, Giancarlo Gaeta, Pier Cesare e Elena Bori, Luciano Guerzoni, Giovanni Miccoli, Paolo Bettiolo, naturalmente il vescovo Luigi Bettazzi, ed altri, tra cui anche alcuni giovani di Pax Christi. Cioè, un bel raduno di persone vicine al cristianesimo “conciliare” di Alberigo. Abbiamo visto anche Alberto Melloni, Enzo Bianchi, Guido Dotti. Hanno concelebrato una ventina di preti di questa parte della chiesa bolognese, ben distinta dall’altra. Dall’arcivescovo Carlo Caffarra neppure un messaggio. Era presente il sindaco Cofferati.
Il teologo Pino Ruggieri ha ricordato il rigore con cui Alberigo ha studiato la radicale storicità del cristianesimo, senza preoccupazione apologetica; come ha sempre lavorato, con amore di credente, perché le istituzioni lasciassero trasparire il mistero della chiesa, dall’opposizione alla Lex fundamentalis negli anni ’70, fino all’appello dello scorso febbraio alla Cei affinché non dividesse i cattolici italiani con una imposizione sull’attività legislativa; ha annunciato la pubblicazione di un testo di Alberigo, Sinodo come liturgia, nella scia di Lercaro e Dossetti, sulla sinodalità costitutiva della chiesa, non solo tra i vescovi ma all’interno di ogni chiesa, sulla base della tesi che la forma sinodale è una espansione dell’eucarestia. Come Dossetti, Alberigo era convinto che in Italia la catastrofica crisi sociale e la crisi della chiesa siano intimamente legate.
Bettazzi, con poche chiarissime parole, ha ricordato il proprio intervento in Concilio sulla collegialità episcopale, preparato con Alberigo e Dossetti, su cui era d’accordo allora anche Ratzinger, e ha sottolineato come per merito di Alberigo si è diffusa la conoscenza del Concilio, che abbiamo sognato e ancora sogniamo.
Nella veglia di preghiera di sabato 16 è stato letto, quasi come un vangelo, un brano dell’allocuzione di Giovanni XXIII, Gaudet Mater Ecclesia, all’apertura del Concilio, l’11 ottobre 1962.
L’Istituto per le Scienze Religiose (segreteria@fscire.it), fondato da Dossetti e diretto finora da Alberigo, ha formato un buon gruppo di studiosi che promettono, come ci assicura Stefano Alberigo, il figlio, di continuare il serio lavoro condotto fino ad oggi.
Enrico Peyretti
Appello del prof. Giuseppe Alberigo alla CEI sul problema delle coppie di fatto
Articolo tratto da:
FORUM (60) Koinonia
http://utenti.lycos.it/periodicokoinonia/
* Il Dialogo, Mercoledì, 27 giugno 2007
Lutti
E’ morto Giuseppe Alberigo
Il cordoglio della redazione de "il dialogo"
Apprendiamo dai giornali la triste notizia della morte di Giuseppe Alberigo. Sapevamo della sua malattia. L’avevamo saputo da un comune amico pochi giorni dopo che l’ictus lo aveva colpito.
La sua morte ci colpisce particolarmente. Pochi giorni prima dell’ictus Giuseppe Alberigo ci aveva scritto per ringraziarci di aver sostenuto il suo appello pubblicandolo sul nostro sito e stimolandone la sottoscrizione. Ecco la sua email che porta la data dell’8 aprile:
Da: Alberigo [mailto:alberigo@alma.unibo.it]
Inviato: domenica 8 aprile 2007 9.58
A: redazione@ildialogo.org
Oggetto: per Giovanni Sarubbi
Caro Sarubbi,
non posso lasciar passare Pasqua senza ringraziarla di cuore per il "servizio" che ha fatto all’appello da me lanciato.
Confesso che non conoscevo "Il Dialogo" e perciò le sono doppiamente grato.
Con viva amicizia
Giuseppe Alberigo
Ci uniamo al dolore dei familiari e di quanti lo hanno conosciuto e amato per il suo impegno per la liberazione dell’umanità dalle sue troppe schiavitù. Riportiamo di seguito il testo dell’articolo comparso oggi sul quotidiano La Stampa.
Giovanni Sarubbi
Alberigo coscienza dei Papi
FRANCO GARELLI
La scomparsa a ottantun anni dello storico Giuseppe Alberigo, a seguito di un ictus che l’ha colpito di recente, priva certamente il mondo della cultura e del cattolicesimo italiano di un protagonista di rilievo. Il suo nome sarà sempre legato alla mitica figura di Giuseppe Dossetti, di cui è stato allievo, e alla straordinaria esperienza di studio e di riflessione laicale che è l’Istituto per le Scienze religiose di Bologna, che Alberigo ha ereditato dallo stesso Dossetti e che ha ampiamente sviluppato nel tempo, portandolo a essere un centro di ricerca scientifica di valore internazionale.
Alberigo non era un uomo facile o accomodante, e non solo per il forte temperamento che aveva. In lui il carattere deciso che permette ai leader di realizzare grandi imprese combaciava con l’idea di avere un’alta missione da compiere, ereditata dal suo maestro Dossetti. Oltre a ciò, come i grandi maestri universitari del passato, Alberigo ha sempre interpretato il suo ruolo in termini quasi sacrali, secondo uno stile austero ed esigente prima ancora con se stesso che con i suoi collaboratori.
Non mancano i riflessi di questi tratti biografici anche nella storiografia promossa da questo studioso. C’è chi parla al riguardo di una storia impegnata o «a tesi», tipica di chi - per stare ai temi cari di Alberigo - ha una forte passione per la riforma della Chiesa e cerca con il suo lavoro di costituire le basi per attuarla. Questa visione delle cose si riscontra indubbiamente nella più grande opera che Alberigo ha diretto e su cui è stato maggiormente impegnato il suo gruppo bolognese: una storia del Concilio Vaticano II in cinque volumi e tradotta in numerose lingue. Si tratta di uno dei lavori più letti e consultati sull’argomento, che individua la novità del Vaticano II nella rottura con la tradizione e nell’essere stato più un evento dello Spirito (ancorché «tradito» in seguito) che una produzione di norme e di documenti. Proprio per il suo carattere dirompente, questa interpretazione del Concilio - pur da molti accettata - è stata di recente messa in discussione dai vertici della Chiesa italiana, con il cardinal Ruini che l’ha definita come «debolissima e senza appiglio reale nel corpo della Chiesa».
La Chiesa ufficiale (anche quella di Bologna) ha via via sempre più guardato con cautela a uno studioso che non ha mai disgiunto il suo impegno di ricerca da quello della presenza pubblica. In momenti decisivi della storia ecclesiale italiana, Alberigo non ha mancato di far sentire alta la sua voce, richiamando i valori della laicità, del pluralismo religioso e della corresponsabilità nella Chiesa. A più riprese ha apprezzato, ad esempio, le molte aperture che hanno caratterizzato il pontificato di Giovanni Paolo II (come l’impegno per la pace, i mea culpa della Chiesa), anche se tra i punti di debolezza ha rilevato un’eccessiva personalizzazione della chiesa nella figura del Papa, l’eccesso di abbraccio con le folle, un orientamento troppo eurocentrico. Anche sul ruolo di Ratzinger nella Curia romana il suo giudizio era articolato, come quando affermava che il prelato tedesco da cardinale ha spesso contraddetto il teologo.
Il sogno di Alberigo era comunque per un Papa che fosse un Padre non nel senso del paternalismo ma della «forza»; capace di interpretare una paternità spirituale profonda; che «certamente sia il custode delle certezze della fede, ma anche si senta in cammino e in ricerca». L’ultima presa di posizione pubblica di Alberigo è avvenuta sulla recente battaglia sulle coppie di fatto, per scongiurare che la presidenza della Cei imponesse ai parlamentari cattolici di rifiutare il progetto di legge sui «diritti delle convivenze».
Al di là degli aspetti controversi che sempre accompagnano una figura di rilievo, resta la grande eredità di pensiero e di strutture che Alberigo ha costruito nel tempo. L’Istituto per le Scienze religiose di Bologna è costituito da un patrimonio di risorse storiche (volumi, documenti, ricerche) senza uguali. Ma ancor più preziose sono le risorse umane e il capitale culturale che egli ha contribuito a formare, pensando ai molti studiosi che hanno frequentato l’«officina» di Bologna, anche se - come sovente accade - i più non sono rimasti. La scuola di Bologna può offrire molti spunti per meglio comprendere i non facili rapporti tra laici e cattolici e per richiamare gli intellettuali alle loro responsabilità pubbliche.
* Il Dialogo, Sabato, 16 giugno 2007
Lutto
Addio a Giuseppe Alberigo il partigiano del Concilio
Storico della Chiesa, si batté a fianco di Dossetti
di ACHILLE SCALABRIN *
E’ MORTO l’ultimo ’partigiano del Concilio’, protagonista laico di una stagione che ha segnato il volto della Chiesa e del mondo. Giuseppe Alberigo, storico della Chiesa di fama internazionale, si è spento a Bologna all’età di 81 anni, dopo aver dedicato gli ultimi quaranta alla ’difesa’ di un evento la cui importanza si va sempre più confondendo nelle nebbie. Nel capoluogo emiliano era giunto - questo giovane lombardo di belle speranze, allievo di Delio Cantimori e di Hubert Jedin - richiamato soprattutto dalla presenza di Giuseppe Dossetti, sulla cui scia muoverà il suo percorso intellettuale, fino a diventarne il più fedele allievo e aiuto. E’ a fianco del ’padre costituente’ quando questi nel ’53 dà vita nella Bologna comunista all’Istituto per le scienze religiose, l’’alta scuola dei dotti’ alla quale il futuro monaco di Monte Sole affida le sopravvissute speranze di rinnovamento culturale del cattolicesimo italiano. E’ a fianco a don Dossetti quando nel ’63 questi viene nominato segretario dei quattro moderatori del Vaticano II - il bolognese card. Lercaro, Agagianian, Dopfner, Suenens -, al cui lavoro contribuirà con proposte e stimoli determinanti, provenienti dall’«officina bolognese». Ed è «lo spirito del Concilio» che impronterà la vita e l’opera di questo intellettuale dolce e intransigente, al punto di sfidare, con ragionamenti di matrice evangelica, la Curia romana e ogni sua manovra di ridimensionamento di quell’evento storico.
LA NECESSITÀ di un rinnovamento della Chiesa è ben chiara ad Alberigo già negli anni Cinquanta, quando nell’Istituto di via San Vitale 114 (di cui è stato la guida onnipresente) metterà le sue energie al servizio di un dibattito storico e culturale che vedrà via via coinvolti tra gli altri, e sotto la supervisione di Dossetti, Delio Cantimori, Augusto Del Noce, Paolo Prodi, Gabriella Zarri. Il papato di Pio XII è quanto di più lontano possano desiderare. Rivelerà lo stesso Alberigo molti anni dopo in un’intervista che nel ’53 un monaco benedettino «pio e assai famoso», in quei giorni ospite a casa sua, lo invita a pregare per la morte del papa - avvenuta cinque anni dopo - con queste parole: «Ora il Santo Padre è un peso per la Chiesa, preghiamo perché il Signore se lo prenda presto». Le speranze occupano l’animo di questi cattolici inquieti con l’arrivo al Soglio pontificio di Giovanni XXIII e con l’annuncio del Vaticano II. Tra il ’58 e il ’63 il riformismo è il nuovo sigillo che segna le pagine più importanti, infrangendo resistenze e paure. I lavori si chiudono nel ’65, due anni dopo l’elezione di Paolo VI.
A CAVALLO tra l’Italia contadina e quella industriale, alla vigilia del Sessantotto e dei suoi rivoluzionamenti, è dal Concilio che una schiera sempre più ampia di fedeli attinge ispirazioni e conferme. La sacramentalità della consacrazione episcopale, la collegialità, il diaconato, le nuove relazioni tra la Chiesa e il popolo ebraico, l’universalismo che si sostituisce all’eurocentrismo - idee su cui il contributo di Dossetti e dei suoi allievi è stato importante - sono lì a rendere «attuale la speranza e l’ottimismo del Vangelo». Il Vaticano II, nella lettura che ne dà Alberigo, va letto come una rottura e un nuovo inizio. Quasi un passaggio di frontiera. Ma ben presto i ’bolognesi’ e quanti si ispirano a questa lettura, devono a malincuore rendersi conto che l’evento «si è concluso troppo presto», per usare parole di Dossetti. La possibilità di un costume nuovo, di uno spirito nuovo, di un’anima nuova nella Chiesa evapora velocemente. Prova ne è anche la «liquidazione» del card. Lercaro da parte di papa Montini, perché reo di essersi mosso contro la guerra in Vietnam e, secondo molti, di aver accettato la cittadinanza onoraria di Bologna dalle mani del sindaco comunista Fanti.
NEI CINQUE volumi in cui tra il 1995 e il 2001 Giuseppe Alberigo, con l’apporto di studiosi di varie provenienze, racchiude la «Storia del Concilio Vaticano II» (la più consultata nel mondo) c’è tutta l’interpretazione cara ai cattolici democratici e meno alla Curia romana. Non è un caso che l’opera sia stata paragonata dal card. Camillo Ruini, allora presidente della Cei, a quella di fra’ Paolo Sarpi sul Concilio di Trento, messa all’indice dei libri proibiti. E non è un caso che a fronte di oltre duecento recensioni favorevoli in tutto il mondo spicchino quattro stroncature dell’Osservatore romano.
MA L’AUTOREVOLEZZA di Alberigo è sempre stata tale da consentirgli di tenere rapporti a 360 gradi con le gerarchie cattoliche e vaticane, di sfidarle sul piano delle idee e delle interpretazioni. Ha avuto frequentazioni con quattro papi, da Roncalli a Montini, da Wojtyla a Ratzinger, ma senza paura di esprimere in pubblico i suoi dissensi. Con quest’ultimo, allora teologo di punta, collaborò ai tempi del Vaticano II ma non mancò poi di imputargli «la massima resistenza agli impulsi conciliari» quand’era a capo della Congregazione per la Dottrina della Fede. Nel marzo del 2007 il contrasto si è fatto più aspro sulle convivenze di fatto. Alberigo scongiurò la Cei di non redigere il documento di ’scomunica’ sui Dico. Parole durissime, quelle usate del professore bolognese nel suo appello, che accusava la Chiesa italiana di subire «un’immeritata involuzione», tale da far ricadere l’Italia «nella deprecata condizione di conflitto tra la condizione di credente e quella di cittadino». Insomma ai tempi del «non expedit». E supplicava (inutilmente) ai Pastori di «evitare tanta sciagura». Il cattolico conciliare Alberigo vedeva in questa Italia del XXI secolo un «residuo dello Stato Pontificio» in cui la Chiesa «si è ridotta ad essere un partito politico», e la Cei «una caserma» in cui vige «il bisogno del nemico», che dopo la caduta del comunismo è diventato «la cultura e la società laica, la modernità».
UN PUNGOLO, ecco cosa è stato questo storico della Chiesa. Uno spirito guerriero alieno alle crociate, un cattolico liberale predisposto al dialogo, dentro e fuori la comunità cristiana. All’indomani dell’11 settembre, in un’intervista ci diceva coraggiosamente quanto pericoloso fosse «vedere i rapporti con l’Islam solo come conflittuali», e rimandava ancora una volta a Giovanni XXIII per il quale «è sempre molto di più ciò che unisce da ciò che divide». Anche per questo Alberigo lascia un vuoto che non sarà facile colmare. Tra i credenti come tra i laici.
* Il Dialogo, Lunedì, 18 giugno 2007
Riprendiamo questo articolo dal "Resto del Carlino, Il (Nazionale)" del 16/06/2007 riportato nella rassegna stampa di articolo 21 del 16 giugno u.s.
Coordinate: http://www.articolo21.info/rassegne/generale16062007/Art00316.htm
anatemi
Cento anni di modernismo nelle libertà perdute della Chiesa
Nel luglio del 1907, Pio X stigmatizzava la corrente religiosa di Murri e Bonaiuti. Due mesi più tardi, l’enciclica «Pascendi Dominici gregis» condannerà ancora il movimento definito «sintesi di tutte le eresie»
di Alfonso Botti *
È passato un secolo da quando, nel luglio del 1907, con il decreto Lamentabili sane exitu Pio X condannava la corrente riformatrice religiosa da qualche anno divenuta nota con il nome di modernismo. Due mesi dopo, l’8 settembre, la condanna era reiterata con l’enciclica Pascendi Dominici gregis che stigmatizzava il modernismo come «sintesi di tutte le eresie». Si è soliti identificare il punto algido della controversia modernista con la pubblicazione di L’Évangile et l’Eglise (1902) dell’abate Loisy: il «piccolo libro» dalla copertina rossa in cui l’esegeta francese forniva una lettura tutta escatologica del regno predicato da Gesù, negando che egli avesse inteso fondare la Chiesa. A cui faceva seguire, l’anno dopo, Autour d’un petit livre nel quale esplicitava e ribadiva le proprie posizioni.
Un fenomeno europeo
Il modernismo si sviluppò tra il clero, gli intellettuali cattolici e i semplici credenti di base dagli ultimi anni del pontificato di Leone XIII alla condanna di papa Sarto. Poi cercò di organizzarsi come movimento per resistere e sopravvivere, ma fu sopraffatto. La controversia a cui diede vita produsse la crisi più importante nella Chiesa dopo la Riforma protestante e senza termini di paragone neppure con i sommovimenti prodotti dal giansenismo. Il fenomeno ebbe dimensioni a carattere europeo. Europea la statura dei suoi principali esponenti che mantenevano profondi e articolati rapporti con la cultura del Vecchio continente. Se ne trova conferma scorrendo l’elenco dei corrispondenti del pastore protestante francese Paul Sabatier, le cui carte sono conservate presso il Centro studi per la storia del modernismo di Urbino, fondato all’inizio degli anni Settanta da Lorenzo Bedeschi.
I più significativi rappresentanti della corrente furono, in Francia, oltre ai già citati Loisy e Sabatier, Bremond, Hébert, Houtin, Laberthonnière, il filosofo Le Roy; in Italia, Romolo Murri (il fondatore della prima democrazia cristiana), Buonaiuti, Minocchi, Fracassini, Semeria, Gallarati Scotti e lo scrittore Antonio Fogazzaro; in Gran Bretagna, l’ex gesuita Tyrrell, miss Petre e il barone d’origine austriaca von Hügel; in Germania i professori Schell, Schnitzer, Koch, Engert e Funk. In Spagna, a parte il limitato interesse verso il modernismo di alcuni religiosi e del sacerdote galiziano José Amor Ruibal, gli intellettuali che più si avvicinarono alla sensibilità modernista furono Leopoldo Alas, noto con lo pesudonimo di Clarín, suo fratello Genaro, il Pérez Galdós del romanzo Nazarín e, più di tutti, Unamuno.
Tra scienza e fede
L’assenza di modernisti in carne e ossa fu surrogata da Ortega y Gasset nel 1908 con la creazione del personaggio di Rubín de Cendoya nella recensione che dedicò all’edizione spagnola del Santo di Fogazzaro. Anni dopo, nel 1936, lo stesso fece lo scrittore basco Pío Baroja, con il personaggio di Javier Olarán, nel romanzo El cura de Monleón. Furono molte le riforme del cattolicesimo e della Chiesa auspicate dai modernisti. I temi più tipici delle loro ricerche storiche e religiose si possono riassumere nella formula della spinta verso la conciliazione tra la scienza e la fede cristiana. Un risultato che cercarono di perseguire muovendosi su differenti piani: con l’impiego del metodo storico-critico nell’esegesi biblica, nella storia della Chiesa e dei dogmi, nell’apologetica e l’agiografia; con la critica del tomismo come filosofia cristiana e del concetto stesso di «filosofia cristiana» al posto della quale si adoperarono a favore della libera ricerca filosofica, guardando con simpatia al pensiero di Blondel, Bergson e al pragmatismo statunitense; con l’accettazione dell’evoluzionismo darwinano per spiegare l’origine dell’uomo contro il tradizionale creazionismo del magistero ecclesiastico; prestando attenzione agli aspetti psicologici dell’esperienza religiosa sotto l’influenza di William James; con la netta opzione per la democratizzazione della Chiesa e della società, che assunse venature socialiste nel caso del Buonaiuti degli anni della rivista «Nova et vetera».
L’origine del sospetto
In definitiva i modernisti vollero togliere le incrostazioni confessionali che si erano depositate nel corso dei secoli attorno all’Evangelo e al messaggio cristiano per recuperarne l’autentico significato in vista del più proficuo dialogo con il mondo moderno. Fu una tendenza intellettuale, ma non elitaria, che trovava le proprie radici nel cattolicesino liberale francese e italiano, nel Reformkatholizismus tedesco, nell’americanismo (condannato dalla Chiesa nel 1899 con la Lettera Testem benevolentiae), nel positivismo e nel nuovo protagonismo delle masse dell’Europa di quegli anni. La Chiesa ebbe paura e condannò la corrrente riformatrice. Costruì anzi con «il modernista» il proprio nemico interno. I modernisti dovettero scegliere tra deporre l’abito talare, la sospensione a divinis e il mesto ritorno all’ovile. Alcuni continuarono a pubblicare i risultati delle proprie ricerche coperti da pseudonimi.
Quelli che non obbedirono o che vennero scoperti furono scomunicati (Loisy, Buonaiuti, Murri). Per questo motivo la crisi modernista si frantumò in tante crisi personali, di coscienza, esistenziali. Le pubblicazioni moderniste e anche alcuni romanzi furono inseriti nell’Indice dei libri proibiti. Molte riviste cessarono le pubblicazioni. Nacque una cultura del sospetto contro ogni attività di ricerca nelle scienze religiose che non risparmiò neppure il futuro Giovanni XXIII. La grande mobilitazione antimodernista favorì i settori più intransigenti e integralisti della Chiesa e del cattolicesimo. Per meglio combattere la «eresia» modernista, un ecclesiastico prossimo a Pio X, monsignor Benigni, fondò nel 1909 Sodalitium Pianum o Società San Pio V (nota anche come Sapinière), un’organizzazione di spionaggio clericale, che contò sulla collaborazione di schiere di delatori, infiltrati e persino di cifrari segreti. A partire dal settembre del 1910 si introdusse l’obbligo del giuramento antimodernista per entrare nei seminari e nelle Università pontificie (Motu proprio Sacrorum antistitum).
Nel 1907 morirono nella Chiesa le inquietudini e il dubbio, la libertà di ricerca e la possibilità stessa del pluralismo teologico. I cattolici avrebbero dovuto aspettare quasi mezzo secolo e il Concilio Vaticano II per recuperare i livelli di libertà ecclesiale che il modernismo aveva fatto intravedere.
Non a caso proprio negli anni della primavera conciliare prese avvio lo studio del modernismo con le ricerche di Ranchetti, Scoppola, Bedeschi e, su tutti, Poulat, per dire solo dei principali. Di contro, il 1907, segnò il trionfo del clericalismo. La condanna e la repressione antimodernista favorirono i settori più ultramontani e integralisti sul piano religioso e quelli più illiberali e antidemocratici sul piano politico.
Vuoti di cultura
A ben guardare, però, e con la prospettiva che il tempo consente, occorre riconoscere che la Chiesa non respinse la modernità in toto. Il modernismo rappresentava infatti solo una delle vie o opzioni della modernizzazione cattolica. Nel suo complesso Curia romana e gerarchie ne scelsero un’altra.
Iniziò proprio allora, infatti, il cammino verso la modernità compatibile, la modernità «buona», dei mezzi, ma non dei contenuti, attraverso una complessa operazione di filtro e aggiustamento del tradizionale progetto di cristianità. Un progetto dal quale non si è scostato né il papa polacco né, a quanto è dato vedere, quello tedesco, che alla messa in latino di Pio V ha dato facoltà di tornare.
Senza la condanna del 1907, la storia del cattolicesimo e della Chiesa in Europa avrebbe probabilmente seguito un altro percorso. Senz’altro meno tardiva la sconfessione dell’Action française, che giunse solo nel 1926; senz’altro maggiori resistenze alla penetrazione del fascismo avrebbe offerto il mondo cattolico italiano e più difficili la sacralizzazione della Guerra civile spagnola e la stretta alleanza di quel cattolicesimo con il franchismo. La condanna lasciò indifferente la cultura laica e socialista che vi trovò conferme circa l’irriducibile antinomia tra religione, scienza e modernità. Contentò invece quella liberale moderata e conservatrice, che di un mondo cattolico disciplinato aveva bisogno.
A essa inconsapevolmente si ispirano «atei devoti» e «teocon» dei nostri giorni, ignari delle repliche farsesche della storia. Che nel dibattito culturale e politico degli ultimi tempi su scienza e religione, bioetica e darwinismo, laicità dello Stato e neoclericalismo sino rimasti del tutto assenti riferimenti sia al modernismo, sia al clericomoderatismo, la dice lunga sul vuoto di cultura storica su cui galleggia il paese.
* il manifesto, 13.07.2007
Un movimento fra studi e convegni
Una lunga attesa I cattolici avrebbero dovuto aspettare quasi mezzo secolo e il Concilio Vaticano II per recuperare i livelli di libertà ecclesiale che il modernismo aveva fatto intravedere
di A. B. (il manifesto, 13.7.2007)
Senza prendere in considerazione la prima fase di lavori - per lo più a opera degli stessi protagonisti - e le monografie sui singoli esponenti, gli studi di carattere storico (altri naturalmente ve ne sono dal taglio filosofico e teologico) dai quali, per vari motivi, non si può prescindere per avere una panoramica completa del modernismo sono i testi di Émile Poulat, Intégrisme et catholicisme intégral. Un réseau secret international (Casterman, 1969) e Storia, dogma e critica nella crisi modernista (Morcelliana, 1967) e i saggi di Michele Ranchetti, Cultura e riforma religiosa nella storia del modernismo (Einaudi, 1963), di Piero Scoppola, Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia (Il Mulino, 1963) e di Lorenzo Bedeschi, La Curia romana durante la crisi modernista (Guanda, 1966) e Lineamenti dell’antimodernismo (Guanda, 1968).
E ancora, vanno citati diversi altri autori. Come Alexander Vidler, The variety of Catholic Modernists (Cambridge University Press, 1970), Thomas Michael Loome, Liberal catholicism reform and Catholicism modernism (Matthias-Grünewald-Verlag, 1979), Maurilio Guasco, Modernismo. I fatti, le idee, i personaggi (San Paolo, 1995), Otto Weiss, Der modernismus in Deutschland. Ein Beitrag zur Theologiegeschichte (Regensburg, 1995), Pierre Colin, L’audace et le soupçon. La crise du modernisme dans le catholicisme français (Desclée de Brouwer, 1997), Roberta Fossati, Élites femminili e nuovi modelli religiosi nell’Italia tra Otto e Novecento (Quattroventi, 1997), Étienne Fouilloux, Une Église en quête de liberté. La pensée catholique française entre modernisme et Vatican II¸1914-1962 (Desclée de Brouwer, 1998), Giovanni Vian, La riforma della Chiesa per la restaurazione cristiana della società. Le visite apostoliche delle diocesi e dei seminari d’Italia promosse durante il pontificato di Pio X. 1903-1914 (Herder, 1998) e infine la raccolta di saggi Il modernismo tra cristianità e secolarizzazione (Quattroventi, 2000). Tra le iniziative editoriali più recenti si segnalano inoltre il volume della collana di scienze religiose dell’École des Hautes Études, Alfred Loisy cent ans après (Brepols, 2007), Spiritualità e utopia: la rivista «Coenobium» (1906-1919), a cura di Fabrizio Panzera e Daniela Saresella (Cisalpino, 2007) e il primo numero del 2007 del bimestrale «Humanitas» dedicato al Modernismo in Europa, a cura di Maurilio Guasco.
Per quanto riguarda gli appuntamenti di studio, due saranno quest’anno in Italia i principali convegni: il Seminario internazionale sulla «Pascendi cent’anni dopo», promosso dalla Fondazione Romolo Murri di Urbino il 12 e 13 ottobre, con la partecipazione, tra gli altri, di Claus Arnold, Rocco Cerrato, e il convegno coordinato da Michele Nicoletti e Otto Weiss, su Il modernismo in Italia e in Germania, a Trento dal 22 al 26 ottobre, su iniziativa del locale Istituto italo-tedesco. Per la primavera del 2008, infine, un convegno sulle principali riviste moderniste è stato annunciato all’Università statale di Milano.
Modernismo, quale eredità?
l’anniversario
Cento anni fa Pio X firmò la «Pascendi», un’enciclica tra le più discusse. Ma le critiche risentono di tanti pregiudizi. Una rilettura
di Corrado Pizziolo* (Avvenire, 05.09.2007)
Ricorre tra pochi giorni il centesimo anniversario dell’enciclica di Pio X Pascendi Dominici Gregis, pubblicata con la data dell’8 settembre 1907. Indubbiamente questo anniversario merita di essere ricordato, dal momento che si tratta di uno dei pronunciamenti papali più importanti e decisivi non solo del pontificato di Papa Sarto, ma dell’intero secolo scorso. Si tratta anche di uno dei testi magisteriali più controversi: esaltato senza riserve nella prima parte del ’900; criticato (se non vilipeso) successivamente. In realtà la valutazione negativa che molti oggi riservano alla Pascendi è probabilmente frutto di un pregiudizio: essa viene spesso citata come un documento con cui il «bieco potere ecclesiastico« stroncò senza pietà le voci profetiche che si appellavano ad un rinnovamento della Chiesa. Le cose non stanno certamente così. Se da un lato va detto con chiarezza che l’applicazione concreta delle direttive disciplinari indicate dalla Pascendi e da successivi documenti fu, in molti casi, eccessiva, occorre - d’altro lato - riconoscere con altrettanta chiarezza che l’enciclica di Pio X non dava corpo a delle fantasie. Il Papa, infatti, si trovò realmente ad affrontare posizioni che, pur in buona fede, proponevano soluzioni riduttive e inaccettabili su temi assolutamente fondamentali e decisivi per la fede della Chiesa.
Lo scopo dell’enciclica
Il motivo che determinò la pubblicazione della Pascendi è dichiarato immediatamente proprio nel sottotitolo del documento: «Sugli errori del Modernismo».
Cos’è il Modernismo? Possiamo definirlo una crisi di crescita nell’organismo della Chiesa cattolica. Negli anni a cavallo tra ’800 e ’900, da più parti venne avvertita l’urgenza di superare la grave frattura che era venuta progressivamente a crearsi tra il pensiero cattolico e la cultura moderna. Era una frattura che riguardava ambiti molteplici: la filosofia, la religione, la scienza, la politi ca... E che sembrava rendere non più comunicabile al mondo moderno la fede cristiana.
Molti intellettuali cattolici si sentirono perciò chiamati ad un’opera di conciliazione tra le conquiste della modernità e la tradizione cattolica. Di conseguenza si misero volenterosamente all’opera. Come purtroppo accade spesso in situazioni simili, i tentativi di questi studiosi non sempre ebbero risultati soddisfacenti per la fede cattolica. Lo sforzo di dialogare con la nuova sensibilità filosofica e scientifica dell’epoca moderna, introducendone le novità nella fede cristiana, approdò, in una certa misura, a compromettere l’identità della fede stessa. Si trattava di un pericolo a cui il Pontefice, che in modo tutto particolare è chiamato a custodire l’integrità della fede ecclesiale nella Rivelazione cristiana, non poteva evidentemente rimanere indifferente.
L’intervento inteso a denunciare gli errori presenti in questi tentativi di «modernizzare» la tradizione cattolica (di qui il termine «modernismo»), si concretizzò appunto nell’enciclica Pascendi. Essa fu preceduta di pochi mesi (3 luglio 1907) da un altro importante documento papale (il decreto Lamentabili Sane Exitu) che enumerava una lunga serie di errori «modernisti» circolanti tra i cattolici.
I punti nodali in questione
Rispetto al decreto che l’aveva preceduta, l’enciclica si presenta come un testo fortemente unitario. Essa intende dare un volto e una figura precisi al cosiddetto «Modernismo», raccogliendo in un sistema organico le diverse e variegate posizioni fino a quel momento espresse dai vari autori. Il documento si articola in tre parti, precedute da un’introduzione che fornisce la giustificazione dell’enciclica in relazione alla gravità del male e all’urgenza del rimedio reso necessario dagli errori diffusi dai modernisti dentro la Chiesa stessa. Le tre parti sono dedicate, rispettivamente, la prima all’analisi e all’interpretazione della posizione modernista; l a seconda all’identificazione delle cause del modernismo; la terza all’indicazione dei rimedi. Più che descrivere analiticamente i contenuti dell’enciclica, vale la pena di individuare gli aspetti nodali che essa pone in evidenza (ovviamente in continuità con il decreto Lamentabili). Questo ci permetterà di cogliere l’importanza e, per tanti aspetti, l’attualità di questo documento papale.
La questione dell’esegesi biblica
Fu proprio la questione dell’esegesi biblica a innescare la crisi modernista. Alcuni esegeti (in particolare Loisy) introdussero anche in ambito cattolico l’esegesi scientifica (o critica storica) applicata alla Bibbia, già da tempo praticata in ambito protestante. A questi studiosi la Pascendi rimprovera un uso dell’esegesi scientifica viziato da presupposti filosofici non compatibili con la fede cristiana. Questi presupposti (precisamente l’«agnosticismo» e l’«immanentismo» tipici del positivismo di fine ’800), rifiutando radicalmente il carattere soprannaturale del testo biblico, conducono l’esegesi scientifica a conclusioni completamente diverse rispetto a quelle trasmesse dalla fede. Un testo biblico dice cose del tutto differenti se esaminato da un esegeta scientifico o letto da un credente. Per salvare sia la scienza che la fede, gli esegeti modernisti proponevano una radicale spartizione di campi: una cosa è la scienza, un’altra è la fede; una cosa è l’esegesi scientifica, un’altra è l’esegesi teologica. Ma qual è il guaio di questa soluzione? Secondo la mentalità positivistica del tempo (presente anche nel pensiero modernistico), solo l’esegesi scientifica dice cose vere, sicure e verificabili. La lettura di fede invece non è reale: è una lettura puramente soggettiva, al limite fantastica, frutto di un vago e imprecisato sentimento religioso.
Occorre riconoscere che il prezzo pagato dall’esegesi modernista per mettere al sicuro la fede di fronte alla critica storica, proponendo semplicistica mente una netta separazione di campi, si rivelava troppo alto. Tale prezzo infatti era il regresso ad una concezione fideistica e irrazionalistica della fede e della teologia. La condanna decretata dal Magistero antimodernista concerne quindi propriamente non l’esegesi scientifica in quanto tale, ma l’esegesi scientifica professata dal modernismo, nel senso di «comandata» dalla sua filosofia. È a questa filosofia che propriamente il Magistero addebita la dichiarata opposizione tra la fede e la storia e tra l’esegesi teologica e l’esegesi scientifica.
In questo senso è decisamente sbagliata l’opinione che accusa la Pascendi di essere pregiudizialmente contraria alla scienza. È da rilevare invece che il problema del rapporto tra l’esegesi scientifica (o metodo storico-critico) e l’esegesi credente (o teologica) continua a proporsi ancor oggi come una questione con cui fare i conti. Non si spiegherebbe altrimenti perché Benedetto XVI dedichi (cento anni dopo) la premessa del suo recente libro su Gesù di Nazareth proprio a ricordare il valore e i limiti del metodo storico-critico, insistendo sulla necessità di un’esegesi scientifica illuminata dalla fede.
La questione della rivelazione
La questione dell’esegesi faceva dunque emergere il problema della fede, ridotta, dal pensiero modernistico, a semplice sentimento soggettivo. Strettamente collegata al tema della fede, appare la questione della rivelazione. Nella posizione dei cosiddetti «modernisti» l’enciclica ravvisava una concezione di rivelazione largamente influenzata dalla cultura del tempo. In nome dell’autonomia dello spirito umano si rifiutava infatti di intendere la rivelazione come qualcosa di proveniente dall’esterno dell’uomo. La rivelazione tendeva pertanto ad essere risolta in un’esperienza puramente interiore e, più precisamente, nel sentimento religioso o mistico. In ultima analisi, la rivelazione non sembrava differenziarsi dalla coscienza umana, ma si identificava co n essa. Sentimento religioso, fede e rivelazione, sostanzialmente venivano a coincidere.
Questo portava, ovviamente, all’impossibilità di distinguere fra religioni naturali e religione soprannaturale: anche il cristianesimo, come tutte le altre religioni, non è che il prodotto della natura umana.
L’enciclica ribadisce il rifiuto della nozione in qualsiasi modo naturalistica della rivelazione, precisando che la nozione cattolica di rivelazione si esprime, contro ogni equivoco, nella nozione di rivelazione intesa come «esterna», cioè come comunicazione all’uomo da parte di Dio. La precisazione dell’enciclica può apparire oggi abbastanza ovvia, specialmente alla luce della costituzione dogmatica Dei Verbum del Vaticano II, la quale precisa che la rivelazione non è semplicemente una comunicazione di verità concettuali, ma è l’auto-comunicazione di Dio stesso all’uomo, culminante in Gesù Cristo.
Tuttavia tale apparente ovvietà non è affatto da dare per scontata. La sensibilità della cultura - anche religiosa - attuale tende ad equiparare tutte le religioni esistenti, ponendole tutte sullo stesso piano. Non riappare forse l’idea che la religione (ogni religione, quindi anche il cristianesimo) non sia altro che il prodotto dello spirito umano? Che la cosiddetta «rivelazione« non sia altro che una generica e inesprimibile esperienza del trascendente, esclusivamente frutto del sentimento religioso?
La questione del dogma
In continuità con la nozione modernistica di rivelazione, che si rifà alla nozione di fede intesa come sentimento religioso, emerge la questione del dogma ecclesiastico.
Secondo i modernisti - afferma la Pascendi - è il sentimento religioso che fa emergere Dio nella coscienza, ma lo fa emergere in forma indistinta e confusa. Occorre allora l’intervento dell’intelletto che si impadronisce del sentimento e lo elabora in affermazioni concettuali. Le formulazioni che ne derivano costituiscono appunto i dogmi, i q uali sono dei semplici simboli o strumenti concettuali. Essi servono al credente come norma pratica in funzione della sua esperienza religiosa. Quando viene meno la loro efficacia in ordine alla vita del credente, devono necessariamente essere modificati in vista di un’efficienza rinnovata.
Contro la nozione modernista di dogma, il documento del Papa rifiuta la riduzione del dogma a semplice simbolo o a norma pratica. Riafferma invece che il dogma si collega direttamente alla fede, intesa, però, non nel senso modernista, ma nel senso cattolico, cioè nel senso di derivare dalla rivelazione di Dio i propri contenuti. Proprio di questa fede il dogma va inteso come «norma«, cioè come interpretazione autentica e infallibile.
Alla luce di questi brevi cenni si può comprendere l’importanza dei temi toccati dall’enciclica Pascendi. Essa affronta i fondamenti della fede cattolica, in un momento storico in cui apparivano messi seriamente in discussione. Va certamente detto che i problemi sollevati dagli autori accusati di modernismo erano problemi reali: il rapporto tra fede e storia e tra fede e scienza; la relazione tra coscienza umana e rivelazione di Dio; il rapporto tra il linguaggio umano del dogma e la verità soprannaturale che esso esprime; il senso di un’autorità nella Chiesa... Ma va anche affermato che molte delle soluzioni che venivano prospettate non erano compatibili con la fede cattolica. Di qui la doverosa necessità di un intervento del Magistero.
Possiamo anche aggiungere che il Magistero del tempo non disponeva di una teologia adeguata per affrontare le questioni che la nuova cultura moderna suscitava. In questo senso l’intenzione dell’enciclica non fu quella di risolvere tutti i problemi in questione, ma quella di ribadire l’identità e l’integralità della fede cattolica, riassegnando alla teologia il compito di ripensare le tematiche in questione. Un frutto di questa rinnovata riflessione possiamo certamente riconoscerlo nel Concilio Vatic ano II, senza però pensare che tutti gli interrogativi sorti nel periodo modernistico abbiano trovato adeguata e definitiva soluzione. Essi rimangono, in buona parte, ancora molto attuali e richiedono nuovi sforzi di riflessione. Si tratterà però, alla luce dell’insegnamento della Pascendi, di uno sforzo che dovrà compiersi nel pieno rispetto dell’identità della fede e della tradizione di quel popolo di Dio che è la Chiesa.
* docente di Introduzione alla Teologia contemporanea
I CATTOLICI E LA COSCIENZA
di Marco Politi (la Repubblica, 09.11.2007)
Nella bufera di polemiche, scatenatasi dopo l’appello di papa Ratzinger all’obiezione di coscienza dei farmacisti, si è levata sommessa ma chiara la voce di Federica Rossi Gasparrini.
Cattolica. Presidente della Federcasalinghe. Moderata. L’obiezione del medico si può capire, ha dichiarato, quella dei farmacisti sarebbe un abuso: «Il loro è un servizio pubblico. Lo trovo antidemocratico». Proprio perché l’aborto è drammatico, ha argomentato, la “pillola del giorno dopo” serve per bloccare una gravidanza al più presto, «senza traumi, prima ancora che ci sia una differenziazione cellulare». E poi va tenuto conto di tutte le posizioni.
Forse perché nasce da quello che una volta si chiamava il focolare, forse perché nutrita dall’esperienza delle fatiche di tantissime donne - credenti per giunta - questa reazione illumina il vicolo cieco verso cui tende la gerarchia ecclesiastica con il suo interventismo permanente nella legislazione italiana.
Perché la contrapposizione, che si profila in Italia, non è tra ghibellini e guelfi o tra laici irriducibili e veri credenti e nemmeno tra chi negherebbe alla Chiesa un ruolo nella sfera pubblica e chi sta a difesa della sua libertà di parola. Lo scontro è soprattutto interno alla vasta comunità di coloro - e in Italia sono l’87 percento - che si richiamano al cattolicesimo.
Il guaio della Chiesa, ha riassunto tempo fa in una folgorante vignetta Massimo Bucchi, è che «non ama le persone di fatto». Questa gerarchia ecclesiastica, che dopo ottant’anni di Concordato e di insegnamento religioso nelle scuole non è riuscita a portare agli italiani i Vangeli (ignorati dal settanta per cento), questa gerarchia che non sposta di una virgola il comportamento dei credenti rispetto alle relazioni prematrimoniali, i contraccettjvi, i divorzi, gli aborti, le coppie di fatto, continua a premere sistematicamente perché - dove manca la convinzione delle coscienze - il braccio secolare della legge irreggimenti le scelte dei cittadini credenti e non credenti.
Quanto più i parroci, nei loro rapporti quotidiani con la gente, si sono aperti via via senza demonizzazioni alla contraccezione, alle convivenze, agli omosessuali tanto più la gerarchia, dal Papa alla Cei, tallona ossessivamente la classe politica perché produca norme per contrastare o lasci cadere i progetti di nuove, utili leggi.
Certo fa cadere le braccia li fatto che, appena il Pontefice alza il dito, scatti automatico il «sissignore» di esponenti del centro destra e della pattuglia teodem del neonato Pd. Ma va detto sinceramente che nella piena legittimità di qualsiasi posizione né Pedrizzi di An né l’azzurra Bertolini né l’ulivista Bobba rappresentano «i cattolici». Loro sono «una» delle opinioni all’interno del mondo cattolico. La cattolicità reale nel suo complesso non vive affatto in conflitto con la necessaria laicità delle istituzioni, non si sente assediata da «nichilismo e relativismo» e al contrario è abituata da decenni a convivere in clima di comprensione con i diversamente credenti.
Milioni di credenti apprezzano la voce della Chiesa, quando offre un punto fermo e un orizzonte in una società in continuo cambiamento. Ma vogliono poter decidere da soli. D’altronde il 74 per cento del cattolici praticanti italiani, secondo l’ultimo sondaggio Ipsos, hanno ripetuto (come da tanti anni) che la Chiesa deve parlare con assoluta libertà, ma «poi prevale la coscienza». Gli italiani, credenti e non credenti, non vogliono un «Partito di Dio» guidato dalla gerarchia ecclesiastica.
Il valore del cattolicesimo democratico è di aver rotto con la concezione dei fedeli quale «gregge», che nella società civile e in politica va letteralmente guidato - Pio X ne era ferreamente convinto - dal romano pontefice. Gli Alberigo e gli Scoppola, scomparsi entrambi in questo 2007 e la cui assenza in certi ambienti ecclesiastici viene vissuta come liberazione da voci fastidiose, hanno insegnato che i laici cattolici, dovunque sia la loro collocazione e nella piena accettazione del pluralismo, devono assumersi la responsabilità - pur ispirati dalla fede e illuminati dal magistero - di leggere autonomamente gli eventi della storia e della società per trovare senza tutori, nell’indipendenza del confronto politico, le soluzioni necessarie.
Inaugurando il suo pontificato, Benedetto XVI spiegò che il concetto stesso di «gregge» era un lascito dei monarchi assoluti dell’Antico Oriente. La Chiesa oggi è a un bivio: o riconosce realmente l’autonomia dei cattolici nella vita pubblica e l’autonomia di coscienza dei cittadini credenti oppure si immagina una società che non c’è. Perché per quanto possa trovare politici compiacenti, c’è a destra e a sinistra una massa enorme, benché tacita, di cittadini credenti che nel nucleo del pensiero dei cattolici Scoppola e Alberigo si riconosce. Anche se non possiede la loro acutezza di espressione.
I diritti di noi credenti
di Paola Gaiotti De Biase ("Europa”, 14 ottobre 2011)
Mauro Ceruti su Europa così chiude un discorso, peraltro largamente condivisibile, anche se non mi pare rifletta tutti i dati reali delle scelte politiche dei cattolici in questo ventennio. «Queste idee e queste esperienze sono state elaborate nei vitali laboratori della cultura e dell’associazionismo cattolici: tuttavia non hanno trovato un modo per fare rete fra loro e tanto meno adeguate forme per affermare una loro più ampia rilevanza politica. Ma è proprio la rilevanza di questo patrimonio culturale e organizzativo che impone ai cattolici un rinnovato impegno politico, al servizio di un grande progetto (da condividere laicamente con tutti, senza distinzioni e senza steccati) per il bene comune della nazione».
Tutto bene: ma non dovremmo anche domandarci, se si ritiene che questa rete da condividere laicamente non siamo riusciti a costruirla, perché questo è avvenuto.
Chi ha impedito che i cattolici si ritrovassero tutti sulla linea di Amartya Sen in economia, su una cultura della pace e un’idea della globalizzazione e del ruolo dell’Europa, che guidasse la nostra politica internazionale, sul rapporto dell’uomo con la natura? Chi ha indebolito sistematicamente l’autonomia politica dei laici che si muovevano in questa direzione? Chi li ha indirizzati sistematicamente verso sponde politiche altre da quelle declinate nell’articolo di Cerruti? Chi ha irriso ai cattolici adulti, da Prodi alla Bindi a Franceschini che si sono mossi in queste direzioni?
Chi ha ignorato le molte militanze cattoliche che si muovevano sulla linea di quel patrimonio ideale? Perché è importante che l’associazionismo cattolico si ritrovi su alcune grandi griglie ideali, e perfino anche che sappia definire in modo corretto le divisioni strutturalmente inevitabili nel concreto delle scelte politiche in una democrazia (insomma voglio dire che esista anche grazie ai cattolici una destra decente): ma non possiamo dimenticare due cose, semplici e irrefutabili.
La prima è che questo è possibile solo in un contesto esplicito di ricerca, di approfondimento, di competenza tecnica e dunque di autonomia laicale e di responsabilità diretta, non delegata da nessuno. Sono stata colpita dall’invito del Papa ai cattolici a impegnarsi politicamente. Mi pare che sia nella storia difficile del regno sia in quella della repubblica i cattolici non abbiano avuto bisogno di inviti e sollecitazioni: lo hanno fatto in molti da soli, in nome del loro essere cittadini come gli altri, e talora non senza difficoltà.
La seconda è che l’associazionismo cattolico non pensi di sostituire con l’impegno politico quello che è il nostro vero problema di credenti, da affrontare da laici insieme ma con coraggio: la coerenza della Chiesa di fronte alle aspettative svegliate dal Concilio Vaticano II, al necessario equilibrio per cui logica della profezia e logica dell’istituzione trovino la loro mediazione, non limitandosi la prima ai discorsi e la seconda ai fatti, ma innovando il modo concreto di essere Chiesa.