L’energia del vuoto, un mistero universale
di Margherita Hack *
Oggi conosciamo molto bene come si formano le stelle, come evolvono e come finiscono la loro vita, sappiamo che sono raggruppate in grandi continenti stellari -le galassie- e queste a loro volta in gruppi di poche decine di individui, o in grandi ammassi contenenti parecchie centinaia di galassie, e anche gli ammassi di galassie sono raggruppati a formare i superammassi. Sappiamo che galassie e ammassi di galassie sono immersi in uno spazio praticamente vuoto che espande e li trascina nel suo moto di espansione; quindi lo spazio non è un contenitore inerte di materia, ma è dotato di un’energia che lo fa espandere.
Oggi siamo riusciti ad osservare direttamente l’aspetto che aveva l’universo appena 380000 anni dopo il Big Bang, intendendo per Big Bang l’inizio dell’espansione; abbiamo osservato galassie formatesi quando l’universo aveva solo 700 milioni di anni, e dalla conoscenza della temperatura e della densità medie dell’universo possiamo calcolare temperatura e densità quando la scala dell’universo era migliaia di volte più piccola (intendendo per scala la distanza di due punti di riferimento, per esempio due galassie).
Le colonne di Ercole da superare sono rappresentate dall’intervallo fra 380000 anni, in cui ancora le galassie e le stelle non si sono ancora formate e i 700 milioni di anni in cui sono già osservabili le più antiche galassie. In questo intervallo di tempo si devono essere formate le prime stelle e le prime galassie. Solo grandi telescopi sensibili al lontano infrarosso riusciranno a «vedere» l’epoca di formazione di queste galassie primordiali. Ci riuscirà probabilmente il successore del telescopio spaziale Hubble.
Due grandi interrogativi aspettano una risposta: che cos’è la materia oscura? E cos’è l’energia oscura? Oggi ci rendiamo conto che la materia che si «vede», che emette cioè una qualche forma di radiazione elettromagnetica, rappresenta solo il 4%; il resto fa sentire la propria presenza grazie alla sua forza di attrazione gravitazionale, ma non sappiamo cosa sia: in parte potrebbe trattarsi di stelle di bassa luminosità, come le nane brune, o grossi pianeti come Giove, o residui di grosse stelle finite come buchi neri, ma la maggior parte potrebbe essere costituita da particelle elementari che non interagiscono con la radiazione elettromagnetica: si ipotizza l’esistenza di particelle chiamate WIMP (Weakly Interacting Massive Particle) a cui i fisici stanno dando la caccia, per ora senza successo.
L’energia oscura è una delle ultime sorprendenti scoperte. Sappiamo che l’universo è in espansione. Sappiamo che la densità di materia (inclusa la materia oscura) non è sufficiente a frenare l’espansione così tanto da arrivare ad una successiva fase di contrazione; si supponeva però che la stessa materia presente nell’universo esercitasse una autogravità che avrebbe comunque rallentato l’espansione. Invece più accurate misure della distanza di lontane galassie hanno mostrato che in realtà l’espansione andava rallentando fino a quando l’età dell’universo era di 4 o 5 miliardi di anni. Poi ha cominciato ad accelerare, come se ci fosse una forza che si oppone alla gravità. Si ritiene che il vuoto abbia una forma di energia, circa costante, opposta alla energia gravitazionale. Quest’ultima avrebbe prevalso sull’energia del vuoto nei primi 4 o 5 miliardi di età dell’universo, e poi col diminuire della densità, l’energia del vuoto avrebbe prevalso sulla gravitazione.
Per conoscere meglio come è variata nel lontano passato la legge di espansione dell’universo è necessario osservare un gran numero di lontane galassie, quindi a epoche sempre più lontane nel tempo. Lo potranno fare i grandi telescopi dell’ESO (European Southern Observatory) , con i suoi 4 specchi di 8 metri di diametro, e quello appena inaugurato, LBT, (Large Binocular Telescope), una collaborazione fra Italia, Germania e Stati Uniti, situato in Arizona, sul Monte Graham e costituito da due specchi di 8,40 metri di diametro portati da un’unica montatura, simile a un gigantesco binocolo.
Questi grandi telescopi, che anticipano le tecnologie che saranno impiegate nel corso di questo secolo per costruire specchi di 50 e 100 metri di diametro, potranno anche mostrarci l’immagine diretta di pianeti extrasolari, che finora sono stati scoperti solo indirettamente, in conseguenza delle perturbazioni che causano al moto della loro stella.
Infine due nuove «astronomie» potranno mostrarci altri aspetti dell’universo. Si tratta dell’astronomia dei neutrini, e dell’astronomia gravitazionale.
Tutte le stelle emettono grandi quantità di neutrini nel corso delle reazioni nucleari che avvengono nel loro interno. Grazie all’assenza di carica e alla loro minuscola massa i neutrini traversano liberamente tutto il raggio stellare e giungono fino a noi. In ogni istante il nostro corpo è traversato da sciami di neutrini provenienti da stelle e galassie. La difficoltà di osservarli consiste nella difficoltà di catturarli e misurarli. Per ora si sono misurati solo i neutrini provenienti dal Sole e dalla supernova della Grande Nube di Magellano di cui osservammo l’esplosione nel febbraio del 1987. I «telescopi» per neutrini sono sempre situati sotto grandi masse di terra, montagne come il Gran sasso, o in profonde miniere, che arrestano tutte le altre particelle dei raggi cosmici, mentre solo i neutrini passano indisturbati. In grandi piscine contenenti trielina, o anche acqua, gli atomi colpiti da neutrini danno luogo a scintillazioni misurabili che permettono di contare i neutrini arrivati. Forse in questo secolo riusciremo a studiare tutto il cielo con i neutrini, a scoprire per esempio l’esplosione di lontane supernovae che la polvere interstellare ci nasconde, misurando l’arrivo dei neutrini, che esse emettono in enorme quantità.
Einstein aveva predetto che come una carica elettrica in moto genera onde elettromagnetiche, anche un corpo materiale in moto dovrebbe generare onde gravitazionali. Queste non sono state ancora osservate direttamente, anche se ci sono prove indirette della loro esistenza, fornite da una coppia di stelle di neutroni. L’Italia è impegnata nella ricerca della rivelazione delle onde gravitazionali con un grandioso strumento- VIRGO- una collaborazione italo-francese.
In tutte queste avventure astrofisiche del XXI secolo i ricercatori italiani sono presenti sia con le attrezzature dell’Osservatorio europeo dell’emisfero australe e dell’agenzia spaziale europea di cui l’Italia fa parte, sia col grande telescopio binoculare appena inaugurato, sia col telescopio nazionale Galileo situato alle Canarie, con la grandiosa attrezzatura per la rivelazione dei neutrini situata sotto il Gran Sasso, con l’interferometro VIRGO, con la partecipazione alla strumentazione di PLANCK, il satellite che andrà a studiare dettagli ancora più fini di quelli osservati dai suoi predecessori, delle caratteristiche dell’universo all’età di 380000 anni, per citare solo le imprese maggiori. Speriamo che i giovani che si affacciano oggi al mondo della ricerca abbiano la possibilità di sfruttare tutti questi straordinari strumenti e di potere iniziare la loro carriera di ricercatori nelle nostre università, nei nostri istituti di ricerca, senza essere costretti ad emigrare.
* l’Unità, Pubblicato il: 21.05.07, Modificato il: 21.05.07 alle ore 11.24
Cultura
Il cielo stellato e sconosciuto
SCIENZA. Appena pubblicati i risultati di uno studio internazionale e incrociato sulla «mappa dell’energia oscura». I dati raccolti si basano su 226 milioni di galassie, ma si stima che ne esistano 2mila miliardi. Le verifiche si sono svolte nell’Osservatorio Interamericano di Cerro Tololo, in Cile. Coinvolte più di 25 istituzioni di 7 paesi, la ricerca verte su 758 notti di osservazione. Marco Gatti (Università della Pennsylvania): «Ho visto la cartografia completa, mi ha tolto il respiro»
di Luca Tancredi Barone (il manifesto, 31.5.2021)
Come sa qualsiasi studente di liceo, diceva Kant che c’erano solo due cose che riempivano il suo animo di «ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse», e una delle due era quello che oggi chiameremmo il cosmo. Ma gli occhi con cui il grande filosofo di Königsberg osservava il cielo stellato più di 200 anni fa erano senza dubbio assai diversi da quelli con cui lo osservano oggi gli astronomi e i cosmologi di tutto il mondo.
QUESTA SETTIMANA è stata pubblicata una batteria di 26 articoli scientifici, che coinvolgono più di 400 scienziate e scienziati di 25 istituzioni scientifiche in sette paesi, sulla Dark Energy Survey, una specie di cartografia dell’«energia oscura» (che secondo i cosmologi è responsabile dell’espansione accelerata dell’universo), basata su 758 notti di osservazione di ben un ottavo della volta celeste. I dati pubblicati questa settimana si riferiscono ai primi tre dei sei anni che è durato il progetto, e si basano su 226 milioni di galassie. È un numero di oggetti da capogiro, anche se solo una piccola percentuale di tutte le galassie che si stima esistano (circa 2mila miliardi): per la cronaca, e per togliere ogni tentazione di superbia antropocentrica, ogni galassia può essere costituita da centinaia di milioni di stelle.
Ma l’oggetto di questa survey, effettuata grazie a una fotocamera della bellezza di 570 megapixels montata sul telescopio Víctor Manuel Blanco di 4 metri di diametro, nell’Osservatorio Interamericano di Cerro Tololo, in Cile, non sono in realtà né le stelle, né le galassie, ma tutto quello che invece non vediamo: la materia oscura (che tiene insieme le galassie) e, appunto, l’energia oscura, che insieme costituiscono il 95% dell’universo. Se ci si pensa, è sconcertante: in pratica, tutta la materia che conosciamo e possiamo immaginare, le stelle, i pianeti, ogni elemento della tavola periodica, tutto insieme questo forma solo un ventesimo della realtà. Sul resto, che sappiamo deve esserci perché altrimenti i nostri modelli cosmologici non reggono, abbiamo solo qualche idea vaga e molti interrogativi.
La Dark Energy Survey ha come obiettivo proprio quello di dare qualche risposta su come è fatto l’universo a grande scala, almeno negli ultimi sette miliardi di anni, e confermare o smentire se l’idea che ce ne siamo fatti regge alla prova dei fatti.
E, PIÙ O MENO, REGGE: la distribuzione della massa osservata su questo campione enorme di oggetti cosmologici è in linea con le osservazioni precedenti, soprattutto con quelle del satellite dell’Agenzia spaziale europea Planck, i cui dati avevano misurato precisamente la radiazione di fondo dell’universo com’era «solo» 400mila anni dopo il Big Bang, avvenuto circa 13 miliardi di anni fa. Le piccole fluttuazioni di questa radiazione indicano come la materia si è poi distribuita nell’universo nel corso della sua evoluzione. La radiazione di fondo infatti non è proprio uniforme, ma è come un foglio rugoso: da lontano sembra uniforme, ma se ci passiamo il dito sopra presenta irregolarità. La survey ha osservato che la materia è leggermente meno grumosa di quanto previsto, anche se non è ancora chiaro perché.
Fra gli scienziati coinvolti, tre degli autori principali di diversi degli articoli scientifici pubblicati questa settimana sono italiani: Giulia Giannini, dottoranda dell’Istituto di fisica delle alte energie (Ifae) di Barcellona, Marco Raveri e Marco Gatti, entrambi postdoc dell’università della Pennsylvania. «È stato come se nel 1300 ti avessero consegnato una mappa dettagliata della terra», racconta Gatti al manifesto. «È la cartografia della materia oscura, che non possiamo vedere, più grande e dettagliata disponibile: io sono stato il primo a vederla completata, e in quel momento mi ha tolto il respiro», spiega.
Gatti, Raveri e Giannini sono molto giovani, e nonostante questo sono gli autori principali di alcuni di questi articoli che segneranno una svolta non solo nella cosmologia, ma anche nelle loro carriere: «si tratta di una collaborazione da sempre aperta ai ricercatori più giovani», dice questo 31enne di Albissola Marina (Savona). Il compito di Gatti e dei suoi colleghi è stato quello di ideare un algoritmo statistico capace di valutare, grazie a un fenomeno relativistico dovuto al fatto che la concentrazione di materia devia la luce (noto come «lente gravitazionale debole»), la distribuzione delle masse lungo la nostra linea di vista, cioè la ragnatela cosmica lungo la quale si distribuiscono gli ammassi di galassie e la materia.
INOLTRE HA CREATO il catalogo di tutte queste galassie e misurato i loro parametri fisici e infine, assieme a Giannini, ha ideato un metodo statistico affidabile per stimarne le distanze senza doverle misurare individualmente. «Ma per fare tutto questo ci vogliono potenze di calcolo enormi, 40 milioni di ore di CPU dei supercomputer più potenti del mondo», osserva Gatti.
Ai tempi di Kant non era neppure chiaro che il sole fosse una delle stelle, né che formasse parte di una galassia, né - meno ancora - che potessero esisterne delle altre. Il ventesimo secolo è stato quello in cui si è scoperta l’espansione dell’universo, e la radiazione cosmica di fondo, la firma inequivocabile di un Big Bang. Ma il cosmo del 21º secolo si annuncia ancora più promettente per l’«ammirazione e venerazione» dei cosmologi: oggi si possono misurare parametri cosmologici con una precisione inimmaginabile anche solo 20 anni fa, e possediamo infrastrutture informatiche capaci di gestire moli impressionanti di Big data.
«SIAMO ENTRATI nell’era della cosmologia di precisione», riflette Gatti. «È più difficile fare scoperte mozzafiato, è tutto più lento, lo sforzo cooperativo di centinaia di ricercatori in tutto il mondo è ingente. Ma i progressi, anche se minimi, sono fondamentali, e, proprio come al Cern per la fisica delle particelle, ci permetteranno di ridisegnare i modelli di come funziona l’universo. Per ora il modello cosmologico standard sembra tenere: ma non metterei la mano sul fuoco che fra 10 anni sia ancora così».
Samantha Cristoforetti sarà al comando della Stazione Spaziale Internazionale. Accadrà nella primavera del 2022, come annuncia l’Agenzia Spaziale Europea, nell’ambito della «Expedition 68» a bordo di una capsula Crew Dragon di SpaceX. Nella missione saranno con lei anche gli astronauti Nasa Kjell Lindgren e Bob Hines.
Terza donna al mondo a guidare la Stazione Spaziale Internazionale, dopo due colleghe di nazionalità americana, sarà la seconda astronauta di origine europea (il primo è stato Frank De Winne). Il comando della Stazione era già stato in precedenza affidato all’italiano Luca Parmitano («Expedition 61»), vero è che nel caso di Cristoforetti, nata a Milano nel 1977 e dal 2015 ambasciatrice Unicef, si tratta di una prima volta, nella congiunzione di «donna europea», in questo senso arrivano le congratulazioni da parte di Palazzo Chigi che ha consegnato i propri entusiasmi ai social. La sua nomina «è un’ispirazione per un’intera generazione che sta concorrendo per entrare nel corpo astronauti dell’Esa», ha dichiarato il direttore generale dell’Esa Josef Aschbacher. E anche lei stessa dichiara di essere «onorata» della convergenza di scelte sul suo nome, già ampiamente riconosciuto, la responsabilità di rappresentanza che le viene conferita. «Sono onorata - aggiunge l’astronauta - della mia nomina alla posizione di comandante e non vedo l’ora di attingere all’esperienza che ho acquisito nello spazio e sulla Terra per guidare una squadra molto competente in orbita».
Della sua competenza internazionale avevamo già consistenti conferme, astronauta ingegnera e aviatrice, tra il 2014 e il 2015, Samantha Cristoforetti con la missione Expedition 42/ Expedition 43 è stata nello spazio per 199 giorni, raggiungendo così il record europeo (e il record femminile) di permanenza in un singolo volo. (red. cult.)
Serve un’enorme immaginazione per figurarsi il mondo
Il lato oscuro dell’universo
di Michela Dall’Aglio (Doppiozero, 13.03,2019)
L’oscurità ha un fascino innegabile. Nell’oscurità si entra con timore ed eccitazione per scoprire un mistero, per sapere e capire. Paradossalmente ci spinge ad avventurarci nelle tenebre il desiderio di farvi luce. E quando, alla fine, l’enigma si scioglie, insieme all’entusiasmo c’è la preoccupazione che ormai tutto sia noto e non rimanga più niente da scoprire. L’universo se ne ride della nostra ingenuità presuntuosa e quando siamo tentati di pensare di averne quasi capito ogni cosa, ci rilancia una sfida. Emblematico esempio è l’affermazione attribuita a lord Kelvin, fisico tra i più eminenti del secolo scorso, il quale, attorno al 1900, quando si riteneva che l’elettromagnetismo e la fisica newtoniana potessero spiegare tutta la realtà, sentenziò: «Non c’è più nulla da scoprire in fisica, resta solo da fare misure sempre più precise». E dopo soli cinque anni Albert Einstein pubblicò la teoria della relatività ristretta e nel 1915 quella della relatività generale rivoluzionando completamente la cosmologia.
Da allora gli scienziati si sono fatti più prudenti e, nonostante le straordinarie scoperte degli ultimi decenni attorno alla natura intrinseca della realtà e alle dinamiche del cosmo, nessuno ha avuto l’ardire di esprimersi con la sicumera di lord Kelvin. E giustamente, perché ultimamente sull’orizzonte della scienza si sono affacciate due grandi nuove entità, ancora ben lungi dall’essere chiarite. La prima è la materia oscura (dark matter), espressione dal duplice significato che ben le si attaglia: si tratta, infatti, di un argomento oscuro, perché complesso e ancora ignoto, e, allo stesso tempo, di una sostanza oscura, perché non riflettendo la luce è assolutamente inosservabile, ma produce degli effetti sulla materia visibile. La seconda, ancora più misteriosa della prima, è l’energia oscura, una forza della cui esistenza gli scienziati hanno prova certa, però non ne sanno assolutamente nulla. A causa loro l’universo, che ormai ci sembrava quasi a portata di mano (almeno intellettualmente), c’è sfuggito di nuovo.
Il tema, benché non proprio elementare, è intrigante anche per i profani e sono usciti di recente molti libri che ne trattano. Tra questi ne segnalo due in particolare. Il primo, L’altra faccia dell’universo (il Mulino) è scritto da Luca Amendola, docente di Fisica Teorica in Germania presso l’Università di Heidelberg. In esso l’autore vuole raccontare lo stato attuale delle conoscenze in materia spiegando anche come sono state acquisite e quali prospettive teoriche e applicazioni pratiche ne possano derivare. Del secondo, L’universo oscuro (Carocci), è autore Andrea Cimatti, professore di Fisica e Astronomia all’Università di Bologna. Egli intende «offrire a un pubblico di non esperti un quadro introduttivo e aggiornato sulle attuali conoscenze dell’universo», o meglio sarebbe dire, come subito precisa, sulle attuali non conoscenze. Si tratta di due saggi brevi che grazie alle competenze degli autori e alla loro scrittura chiara e divulgativa interessano certamente a fisici e cosmologi, però sanno catturare l’attenzione anche di chi è semplicemente curioso di sapere qualcosa dell’incredibile realtà in cui siamo immersi.
Se la materia oscura non emette né assorbe radiazione elettromagnetica (luce) ed è perciò totalmente invisibile agli occhi e agli strumenti, come mai si è arrivati a immaginarne e poi a provarne l’esistenza, per di più senza sapere di che cosa sia fatta? Il primo scienziato a parlarne, negli anni Trenta del secolo scorso, fu il fisico svizzero Fritz Zwicky, il quale fu anche il primo ad analizzare il moto delle galassie anziché quello delle singole stelle. Per effetto dell’attrazione gravitazionale, le galassie tendono a raccogliersi in ammassi più grandi «muovendosi come molecole in un gas» (Amendola).
Studiando il moto dell’ammasso di galassie chiamato Chioma di Berenice, Zwicky giunse a un risultato che definì - con un certo aplomb, va detto - «piuttosto inaspettato»: la massa necessaria a tenere insieme le galassie nell’ammasso doveva essere di circa centocinquanta volte maggiore di quella rappresentata dalle stelle visibili. Diversi anni dopo, nel 1974, grazie a nuovi strumenti, in particolare al telescopio di Mount Palomar in California, Vera Rubin, astronoma americana la cui famiglia era originaria dell’Europa dell’Est, osservando il moto di altre galassie a spirale come la nostra, notò che le stelle esterne «ruotavano molto più velocemente di quanto predetto dalla legge kepleriana, come se fosse presente molta più massa di quella visibile nel bulge», cioè nel massiccio rigonfiamento che sta al centro delle galassie (Amendola). Trovò così una prima importante conferma l’osservazione di Zwicky, e a partire dagli anni ’80 del secolo scorso un numero crescente di scienziati si convinse della sua esistenza, fino ad arrivare all’odierna quasi unanimità.
Si stanno facendo diverse ipotesi su cosa sia la materia oscura, ancora nessuna sufficientemente testata. Ad ogni modo, si sa che «le galassie sono distribuite in una struttura che assomiglia a una ragnatela cosmica», afferma Andrea Cimatti, che assomiglia molto alle reti neuronali del cervello - il che non significa niente, ma è molto suggestivo. Le galassie e gli ammassi di galassie si trovano al centro di una immane sfera di materia oscura, il cui compito potrebbe essere proprio quello di tenerle insieme impedendone la disgregazione. «La nostra visione un po’ naïve di un universo composto da oggetti luminosi - avverte - viene quindi stravolta... gli oggetti luminosi sono solo punte di iceberg che nascondono grandi quantità di materia non direttamente osservabili».
Nell’universo, la materia ordinaria, composta di particelle note, rappresenta circa il 5% della materia esistente; quella oscura, dotata di massa ma invisibile, ne rappresenta circa il 25%. E il restante 70% cos’è? Energia oscura, rispondono gli scienziati. Qualcosa di ancora più grande e misterioso della materia oscura. Se ne cominciò a ragionare diversi anni fa quando, in seguito alle osservazioni di Georges Lemaître, Edwin Hubble e altri, si comprese che l’universo, fino ad allora considerato statico, si sta espandendo e da circa cinque miliardi di anni lo sta facendo a una velocità crescente e francamente impressionante: le misure attuali, precisa Andrea Cimatti, parlano di un’espansione di 70 km al secondo per ogni megaparsec (un Mpc=3,086x1019km, cifra incomprensibile per i più ma utile per farci un’idea dell’immensità dell’universo!). Per spiegare l’espansione accelerata, attraverso calcoli e considerazioni che sia Amendola che Cimatti riferiscono con dovizia di particolari, si è arrivati a postulare l’esistenza di una forza repulsiva che, come in un gioco alla fune, contrasta la forza di gravità causando un’accelerazione dell’espansione e impedendo che «quattordici miliardi di anni dopo la sua nascita, l’universo non [sia] né svuotato né collassato» (Amendola). E questa potrebbe essere una risposta parziale, ma comunque soddisfacente alla domanda: a cosa serve l’energia oscura.
Se ci si chiede, invece, cosa sia, il buio è assoluto: la natura di questa componente determinante e maggioritaria dell’universo per ora è del tutto ignota. Tra le ipotesi fatte è che possa essere l’energia intrinseca dello spazio vuoto, il quale non è, come si tende ancora a pensare tra profani, uno spazio senza niente dentro. Infatti, anche togliendo da una porzione di spazio particelle, radiazioni e campi elettromagnetici e gravitazionali, quello che resta è comunque uno spazio quantistico in cui particelle e antiparticelle virtuali - un tipo di particelle dalle caratteristiche peculiari - fluttuano vorticosamente annichilendosi istantaneamente; «l’energia collettiva di queste particelle è chiamata energia del vuoto» (Cimatti). Dunque, in realtà, in natura il vuoto assoluto non esiste. Quello che chiamiamo così è il vuoto quantistico, ed è pieno di particelle e di campi (manifestazioni diverse di una stessa realtà materiale) che vibrano, si muovono velocissime, interagiscono, scompaiono o si trasformano.
Ed è interessante notare, senza spingerci oltre in una materia che si fa decisamente difficile, come scrutare il cosmo infinitamente grande sia possibile soltanto attraverso la conoscenza dell’infinitamente piccolo, ossia della costituzione fondamentale della materia. Di questo si occupa la meccanica quantistica che, mostrando la trama del tessuto di cui è fatto il mondo, rivela una realtà completamente diversa da quella percepita dai sensi, governata da leggi surreali, controintuitive, che contraddicono la nostra esperienza o ne esulano. Gli scienziati considerano la meccanica quantistica una stupenda descrizione del funzionamento di ogni cosa; per quanto ancora nessuno sia in grado di dire esattamente perché, essa funziona talmente bene che le sue applicazioni pratiche -trasmissioni satellitari, internet, computer e medicina nucleare - hanno cambiato radicalmente la nostra vita.
Insomma, l’universo è un luogo molto strano e siamo ben lontani dall’averne chiariti i misteri. Soprattutto quello che Albert Einstein considerava il più grande di tutti, l’unico vero mistero dell’universo: la sua comprensibilità. Come mai la mente dell’uomo lo capisce e lo può descrivere perfettamente con la matematica? Qualcuno tra gli scienziati più inclini alla poesia, suggerisce che l’essere umano stia all’universo come la mente sta al corpo; in questa prospettiva potremmo essere l’autocoscienza di sé dell’universo. Chissà se lo sapremo mai. Certo è che, come disse il grande fisico Richard Feynmann, «serve un’enorme immaginazione per figurarsi com’è fatto davvero il mondo» (Le battute memorabili di Feynman, Adelphi).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA LUCE, LA TERRA, E LA LINEA DELLA BELLEZZA: LA MENTE ACCOGLIENTE. "Note per una epistemologia genesica"
Federico La Sala
“Così al Cern si farà luce sull’Universo oscuro”
Fabiola Gianotti è leader del laboratorio n°1 al mondo
“Ci stiamo preparando a decifrare il 95% del cosmo”
di Stefano Massarelli (La Stampa, TuttoScienze, 14.02.2018)
La conoscenza dei componenti della materia, dell’Universo e di noi stessi è solo agli inizi. Ciò che osserveremo al Cern di Ginevra nei prossimi anni potrebbe spalancare le porte a una nuova fisica e a un nuovo modo di osservare la realtà, a partire dai minuscoli quark. A guidare questo cammino saranno i 17 mila ricercatori di 110 Paesi che collaborano agli esperimenti dell’acceleratore di particelle tra Francia e Svizzera sotto la guida di Fabiola Gianotti. È lei che nel 2012 ha annunciato la scoperta del Bosone di Higgs, un risultato reso possibile - ha spiegato nella lezione all’Accademica dei Lincei a Roma - anche dalle tecnologie futuristiche della mega-macchina «Lhc», il «Large hadron collider».
Torniamo a quel 4 luglio 2012, quando lei era responsabile del test «Atlas»: quali prospettive ha aperto l’Higgs?
«La scoperta ha rappresentato allo stesso tempo un grande traguardo e un nuovo inizio. Un grande traguardo perché ci ha permesso di completare il disegno del Modello Standard, che è la teoria che descrive i componenti fondamentali della materia e le loro interazioni. Un nuovo inizio perché ci ha permesso di aprire le porte verso una nuova fisica. Il Modello Standard, infatti, seppure verificato a livello sperimentale, non è in grado di rispondere a tutte le domande ancora aperte della fisica. Il Bosone di Higgs rappresenta proprio uno degli strumenti attraverso cui indagare questa nuova fisica. Oggi, per esempio, stiamo misurando con attenzione i suoi comportamenti e le interazioni con le altre particelle: se dovessimo effettuare osservazioni che si discostano dal Modello Standard, ciò significherebbe che stiamo entrando in un terreno inesplorato».
A quali altre domande si tenta di dare una risposta con «Lhc»?
«Uno dei grandi interrogativi riguarda la comprensione dell’Universo oscuro. Ciò che riusciamo a vedere è solo il 5% della materia che compone l’Universo, che per il restante 95% è composto di materia ed energie a noi sconosciute. Tra i nostri obiettivi c’è quello di scoprire l’identità della materia oscura che costituisce circa il 25% dell’Universo. Abbiamo prove indirette della sua esistenza, ma non si è rivelata. Oltre a “Lhc”, numerose altre strutture nel mondo le danno la caccia, tra cui i Laboratori del Gran Sasso dell’Infn».
Un’altra questione riguarda l’origine dell’Universo: cosa sappiamo del Big Bang?
«Quello che osserviamo con i telescopi si ferma a circa 380 mila anni dopo il Big Bang, perché in epoche precedenti la luce è rimasta intrappolata in un gas opaco di particelle e quindi non è potuta giungere fino a noi. Per indagare oltre dobbiamo ricorrere agli acceleratori di particelle, attraverso cui si replicano le reazioni nei primi istanti dell’Universo. Con gli esperimenti attuali abbiamo studiato fenomeni che sono avvenuti un milionesimo di milionesimo di secondo dopo il Big Bang. Ma andare oltre è difficile: ci sono fenomeni che ancora non conosciamo».
Quali saranno i prossimi sviluppi dell’acceleratore «Lhc»?
«L’attuale ciclo, il “Run2”, terminerà a fine 2018. In seguito sarà effettuato un potenziamento e l’acceleratore riprenderà l’attività nel 2021, con fasci più intensi e maggiori energie. La quantità di dati aumenterà di 20-30 volte e ci permetterà di cogliere maggiori opportunità, effettuare possibili nuove scoperte e fornire anche risposte alle domande ancora irrisolte».
Al momento della nascita dell’Universo esistevano quantità pressoché simili di materia e antimateria, dopodiché quest’ultima è scomparsa. Sappiamo che fine abbia fatto?
«“Lhc” lavora anche per rispondere a questo quesito. Uno dei test - “LHCb” - si occupa di effettuare ricerche proprio sull’asimmetria tra materia e antimateria e di spiegare il perché quest’ultima sia scomparsa. Inoltre abbiamo a disposizione l’unica installazione al mondo per la produzione di antiprotoni e antielettroni, i quali vengono sintetizzati a formare molecole di anti-idrogeno: studiamo il comportamento di questo “equivalente” dell’idrogeno nell’antimateria e questo sembra comportarsi esattamente come l’idrogeno conosciuto».
Intorno al 2035 «Lhc» terminerà la sua attività. E dopo?
«Cominciamo a proporre nuove idee per quello che potrebbe essere il successore: si pensa a un super-acceleratore più grande e sempre circolare, anche se sono state avanzate ipotesi di infrastrutture lineari. È un momento strategico, in cui pianificare il futuro in previsione della nuova fisica».
Scienza e Filosofia
La particella dal doppio «charm»
di Vincenzo Barone (Il Sole-24 Ore, 24 luglio 2017)
«Three quarks for Muster Mark!». Nel 1964 il fisico statunitense Murray Gell-Mann si ispirò a questa misteriosa frase tratta da Finnegans Wake di James Joyce per battezzare i mattoni fondamentali della materia, i quark. La parola cruciale nella frase è la prima, three: tre erano infatti i quark (denominati u, d, s) che, sulla base di una precisa simmetria matematica, riuscivano a spiegare le particelle note all’epoca (a partire da quelle più familiari, come il protone, costituito da due u e un d). Nel giro di qualche anno il quadro si arricchì di nuovi elementi. Nel 1970 Sheldon Glashow, John Iliopoulos e Luciano Maiani - con quella mossa tipica dei fisici teorici che inventano cose che si rivelano poi reali - proposero l’esistenza di un quarto quark, il quark c, caratterizzato da una proprietà quantistica chiamata, con una certa dose di fantasia e di ironia, charm («fascino»).
La verifica della teoria GIM (come è comunemente nota dalle iniziali degli autori) giunse quattro anni dopo, nel corso della cosiddetta «Rivoluzione di Novembre» del 1974, quando due collaborazioni sperimentali scoprirono - cioè produssero alle macchine acceleratrici - la prima particella dotata di «fascino», la J/psi, contenente il quarkc (gli scopritori, Samuel Ting e Burton Richter, furono premiati con il Nobel nel 1976). -La peculiarità del c è di essere un oggetto elementare piuttosto pesante, centinaia di volte più degli altri quark, e persino più pesante di un oggetto composto come il protone. In seguito i quark sono diventati definitivamente sei - ai tre di Gell-Mann e al c si sono aggiunti il b (beauty, o bottom) e il t (top), anch’essi di grande massa (quella del top è addirittura mostruosa) - e lo studio dei quark pesanti è diventato uno dei rami più fecondi della fisica delle particelle (chi volesse approfondire questi argomenti può farlo su un ottimo libro di Antonio Ereditato, appena uscito per il Saggiatore).
Di particelle contenenti il quark c ne sono state scoperte nel frattempo molte altre, ma l’ultima, annunciata qualche giorno fa da LHCb, un grande esperimento del CERN di Ginevra di cui è responsabile Giovanni Passaleva, dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, è degna di nota, oltre che lungamente attesa. -Si tratta infatti di una particella che contiene due quarkc, oltre a un quarku. Una particella dal «fascino» doppio, insomma, con una carica elettrica anch’essa doppia e una massa che è circa quattro volte quella del protone.
Il suo nome, già pronto prima che venisse scoperta, è Xi (più precisamente «Xi-cc», perché le Xi sono una dozzina): la peculiarità della sua struttura è che il piccolo u si muove nel campo dei due grossi c come un pianeta attorno a una stella binaria, a differenza di quel che accade nelle altre particelle pesanti conosciute, in cui i «pianeti» sono due e la «stella» una.
L’utilità della Xi e delle altre particelle dotate di «fascino» e di «bellezza» che ancora mancano all’appello sta nelle preziose informazioni che esse forniscono su una delle quattro forze fondamentali della natura, la forza forte, quella che tiene assieme i nuclei e i loro costituenti (protoni e neutroni), e che in definitiva ci dà sostanza e massa. Non bisogna dimenticare infatti che, mentre il famoso bosone di Higgs è responsabile delle masse dei quark, queste rappresentano solo una piccolissima frazione della massa dei corpi ordinari (compresa la nostra). Il 99% di ciò che misuriamo con la bilancia è in realtà energia: l’energia di interazione dei quark, dovuta alla forza forte. Capire come funziona questa forza significa dunque, in ultima analisi, capire un aspetto di noi stessi. La teoria della forza forte, la cromodinamica quantistica (QCD), è potente ed elegante, ma in molti casi non è facile risolvere le sue equazioni. Per ricostruire il protone a partire dai quark, per esempio, bisogna ricorrere a modelli fenomenologici o a stratagemmi di calcolo. Lo studio delle particelle contenenti i quark c e b permette allora di affinare questi metodi e di estendere l’applicabilità della QCD.
La scoperta della Xi non è eclatante come quella di altre celebri particelle del passato (la stessa J/psi, i bosoni W e Z di Rubbia, il bosone di Higgs), ma non si deve pensare che la fisica proceda saltando da un colpo sensazionale a un altro. C’è una fisica normale e paziente, che verifica nei minimi dettagli anche le teorie consolidate, che effettua misure di precisione, che va alla ricerca di eventi rari e proibiti (come fa LHCb, per comprendere l’asimmetria tra materia e antimateria nell’universo). La storia, d’altronde, insegna che le novità nascono spesso da piccole crepe nei vecchi edifici. All’inizio del Novecento nessuno poteva immaginare che da misure della radiazione in una fornace, condotte con teutonico rigore per verificare la vecchia termodinamica e la vecchia teoria elettromagnetica, sarebbe scaturita la meccanica quantistica.
Il modo migliore per rendere omaggio ai moderni cacciatori di particelle è ricordare quanto è complicato scoprire una nuova particella. Non è come frugare in una scatola piena di oggetti cercandone uno dalla forma particolare. Particelle come la Xi vivono per un tempo molto breve, disintegrandosi in tanti frammenti - altre particelle più piccole che vengono catturate dai rivelatori. La scatola è piena di cocci, quindi, e i fisici sperimentali devono farne combaciare alcuni ricostruendo l’oggetto frantumato. Ma dato che i cocci possono combaciare anche fortuitamente, per essere sicuri dell’esistenza dell’oggetto in questione bisogna raccogliere tanti mucchietti di pezzi che collimano. Osservando trilioni di urti di protoni, LHCb ha trovato un eccesso di eventi (qualche centinaio) che corrispondono alla disintegrazione della Xi: il picco è bellissimo, da manuale, e la particella con doppio charm è inequivocabilmente là. O meglio, era là, perché è vissuta meno di un milionesimo di milionesimo di secondo: il fascino, si sa, non può durare a lungo.
Fabiola Gianotti, il bosone Higgs è una porta verso il futuro
Particella straordinaria, capaci di portare a una nuova fisica
di Redazione ANSA *
Sono in arrivo risultati interessantissimi per la fisica, grazie alla straordinaria quantità di dati che sta producendo l’acceleratore di particelle più grande del mondo, il Large Hadron Collider (Lhc) del Cern di Ginevra. E’ entusiasta, Fabiola Gianotti, la prima donna che nel gennaio 2016 è salita alla direzione del Cern e "bellissimo" è il termine con cui descrive quanto sta accadendo nella fisica, con i dati che ogni giorno arrivano più numerosi. "E’ una soddisfazione vedere una macchina capace di spingersi al di là dei suoi limiti", ha detto Gianotti all’ANSA riferendosi all’intensità raggiunta dai fasci che scorrono e collidono all’interno dell’acceleratore, "del 50% superiore a quella prevista dal progetto".
In questi giorni il direttore generale del Cern è a Venezia per la conferenza internazionale della Società Europea di Fisica (Eps), organizzata da Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) e università di Padova. Almeno un migliaio i fisici arrivati da tutto il mondo per conoscere gli ultimi risultati prodotti dall’acceleratore Lhc e i dati che rendono sempre più preciso il ritratto del bosone di Higgs, la particella grazie alla quale esiste la massa e la cui scoperta era stata annunciata nel 2012 come la tessera che confermava la teoria di riferimento della fisica, il Modello Standard. Questa stessa particella potrebbe mostrare qualcosa di radicalmente nuovo.
"Il bosone di Higgs è una particella molto speciale: potrebbe essere una porta verso una nuova fisica", ha detto Gianotti, che all’epoca della scoperta era a capo di uno dei due esperimenti che l’hanno vista, Atlas. Il Modello Standard descrive nei dettagli tutti i possibili modi con cui il bosone di Higgs può accoppiarsi con altre particelle, "e proprio per questo l’osservazione sperimentale di una deviazione, anche piccola, rispetto a quanto prevede la teoria, potrebbe fornire l’evidenza di una nuova fisica".
Continuare a studiare il bosone di Higgs è quindi "un grande capitolo delle ricerche in corso al Cern - ha rilevato - e l’altro grande capitolo sono le domande ancora aperte", sull’asimmetria fra materia e antimateria, la natura della materia oscura, ossia la materia invisibile e misteriosa che costituisce circa il 25% dell’universo, e lo stato della materia primordiale (il cosiddetto plasma di quark e gluoni) prodotto subito dopo il Big Bang.
In questo momento così entusiasmante per la fisica, essere a capo del Cern, spiega, "è un lavoro bellissimo", un nuovo punto di vista da cui si ha "uno sguardo globale" che abbraccia "eccellenza della ricerca, innovazione tecnologica, formazione promozione dei giovani" e una "collaborazione internazionale che comprende ricercatori di tutto il mondo, all’insegna della pace". Una realtà quella del Cern, nella quale l’Italia ha avuto e continua ad avere "un ruolo fondamentale" attraverso l’Infn e le università collegate. Basti pensare che, sui 13.000 ricercatori del Cern gli italiani sono 2.000".
Come direttore generale del Cern, infine, per Fabiola Gianotti il tempo libero è ancora meno che in passato, con poco spazio da dedicare alla sua passione di sempre, la musica, e poi allo sport: correre, nuotare e soprattutto la montagna. "Non c’e’ niente di più gratificante che imparare qualcosa di nuovo, e - ha concluso - grazie al mio lavoro questo mi succede ogni giorno".
AL DI LA’ DELL’ORIZZONTE DEMIURGICO. "X"- LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA
La vita futura della particella Xi
Quali sono gli scenari che si disegneranno dopo la scoperta di Ginevra? Un puzzle da completare: l’85% della materia e i due terzi dell’energia dell’universo sono ancora «oscure». Al Cern stanno già progettando il prossimo acceleratore, che entrerà in funzione nel 2040
di Andrea Capocci (il manifesto Alias, 09.07.2017)
Per la prima volta, nei laboratori del Cern di Ginevra è stata rilevata la particella Xi, un’importante conferma del «modello standard» della fisica delle particelle. Lo ha annunciato Giovanni Passaleva, che dirige il gruppo di ricerca che ha compiuto la scoperta, all’annuale conferenza europea sulla fisica delle alte energie (si tiene in questi giorni a Venezia). Il gruppo di Passaleva lavora presso l’acceleratore di particelle Lhc lo stesso che ha permesso la scoperta del bosone di Higgs. Per dare l’idea della complessità di un esperimento del genere: la lista degli autori occupa da sola tre pagine dell’articolo scientifico che riporta la scoperta.
Il «modello standard» è la teoria che descrive le particelle fondamentali con cui si spiega la materia di cui è composto l’universo e le sue interazioni. Come ipotizzarono Murray Gell Mann e George Zweig nel 1964, le particelle più pesanti presenti nel nucleo degli atomi che strutturano la materia, i protoni e i neutroni, sono composte da particelle ancor più elementari, dette «quark». I quark sono di sei tipi diversi, distinti per massa e carica elettrica. I quark possono aggregarsi tra loro, ma soltanto se la loro combinazione rispetta alcune regole. Protoni e neutroni sono l’esempio di aggregazione più comune. Altre combinazioni sono possibili, ma si trasformano (i fisici dicono «decadono») in altre particelle molto rapidamente e normalmente non sono osservabili con gli strumenti tradizionali. Una particella Xi, ad esempio, decade dopo meno di un millesimo di miliardesimo di secondo. Alle energie elevate che possono essere raggiunte al Cern (14 TeV), però, si possono generare moltissime particelle di questo tipo, misurandone le proprietà fisiche con precisione.
A QUESTO SCOPO, l’acceleratore Lhc del Cern studia le collisioni tra fasci di protoni lanciati a velocità prossime a quelle della luce. In queste collisioni, le particelle ne formano alcune più instabili, che decadono a loro volta dando vita ad altre particelle. In questo modo, gli scienziati ritengono di poter rilevare anche le particelle, come la Xi, la cui esistenza è prevista dalle leggi della fisica ma che di fatto sono talmente instabili da non poter essere individuate con altre tecniche. Come previsto dal Modello Standard, la particella Xi è composta da due quark del tipo «charm» e un quark «up» e pesa come quattro protoni, le particelle atomiche con la massa maggiore. La sua esistenza non è un’assoluta novità. Già nel 2002, al Fermilab di Chicago era stata avvistata una particella con caratteristiche simili, ma con una massa inferiore a quella teorica. Ma la misura di allora fu accolta da una certa diffidenza. L’esperimento descritto a Venezia invece rimette a posto le cose. Dunque, l’idea che abbiamo sul funzionamento della cosiddetta «interazione forte» che tiene insieme le particelle elementari, è corretta.
È L’ENNESIMA CONFERMA di una teoria che dagli anni ’60 ha sbagliato poche previsioni. Molte di queste sono state verificate proprio al Cern, anche con gli acceleratori delle generazioni precedenti rispetto al Lhc. Fu una scoperta simile, l’osservazione dei bosoni W e Z previsti dalla teoria, a meritare a Carlo Rubbia il premio Nobel del 1984 insieme a Simon van der Meer. Pochi anni fa, sempre all’Lhc, la scoperta del bosone di Higgs (altro premio Nobel) fu effettuata in maniera analoga. In quel caso, la scoperta era ancor più rilevante. Il bosone di Higgs, oltre a confermare il Modello Standard, gioca un ruolo decisivo anche nelle teorie sull’origine dell’universo nei primi momenti successivi al Big Bang.
Questo tipo di scoperte lasciano un’impressione da «fine della storia»: il modello standard funziona, gli esperimenti non fanno altro che confermarlo e dunque non c’è motivo di andare avanti alla ricerca di nuove teorie. Ma è davvero così? Ovviamente, no. Il modello standard, nonostante la sua efficacia, lascia insoddisfatte molte domande. Ad esempio: il modello si basa su ben 19 costanti, il cui valore è fissato dagli esperimenti: è possibile capire l’origine di questi numeri con una teoria ancor più elementare? Oppure: come conciliare le interazioni fondamentali descritte dal modello standard (l’interazione «forte» e quella «elettrodebole») con la forza di gravità, mirabilmente studiata da Einstein ma in un quadro teorico completamente diverso?
INFINE, FORSE IL QUESITO più importante: l’85% della materia e i due terzi dell’energia dell’universo sono ancora «oscure», cioè non sappiamo di cosa siano fatte. Il Modello Standard, dunque, ci racconta solo un piccolo pezzo della realtà. Riusciremo un giorno a completarlo? Sono domande molto difficili, e che non interrogano solo gli scienziati del Cern. La fisica delle alte energie si rivolge sempre più spesso verso lo spazio alla ricerca di risposte adeguate. Sulla Terra, l’atmosfera ci protegge da fenomeni fisici intensi come quelli provocati da protoni lanciati alla velocità della luce. Ma nelle stelle e nelle galassie lontane avvengono reazioni che coinvolgono energie inaccessibili persino ai laboratori del Cern.
MOLTI STUDIOSI di fisica delle particelle oggi utilizzano telescopi spaziali o osservatori posti in luoghi inusuali, sotto al Gran Sasso o a due chilometri di profondità nel ghiaccio dell’Antartide, come l’osservatorio IceCube. In quelle condizioni, la schermatura dall’esterno è tale da permettere di isolare i neutrini, altre particelle ancora misteriose e provenienti dalle zone più remote e irrequiete dell’universo.Lo stesso Cern, in questo momento, è impegnato nella ricerca delle particelle che potrebbero semplificare il Modello Standard con le sue 19 costanti ancora da spiegare. Tale «ineleganza» potrebbe essere superata dalla teoria detta «Supersymmetry» o «SuSy», secondo cui ogni particella elementare possiede una compagna «super-simmetrica». Al Cern finora queste particelle non sono state avvistate. Potrebbe trattarsi della bocciatura della teoria SuSy, o l’indicazione che le particelle supersimmetriche devono essere cercate a livelli energetici ancora maggiori: su questo, solo gli esperimenti futuri potranno darci qualche indicazione in più, se Lhc sarà in grado di raggiungere energie ancora superiori ai 14 TeV attuali.
NEL FRATTEMPO, AL CERN stanno già lavorando alla progettazione del prossimo acceleratore, ancora più grande e potente dell’Lhc attuale. Per ora, il progetto si chiama Future Circular Collider (Fcc). Si tratterà di un tunnel lungo cento chilometri (rispetto ai ventisette attuali) in cui a collidere saranno fasci di protoni, elettroni e delle loro controparti di anti-materia, gli anti-protoni e i positroni. Nel Fcc si potranno raggiungere energie dell’ordine dei 100 TeV, sette volte più dell’acceleratore attuale.
Dato che l’acceleratore Lhc, entrato in funzione nel 2008, proseguirà la sua attività ancora per una ventina d’anni, per vedere in funzione il Fcc occorrerà aspettare il 2040, o giù di lì. Sembra un orizzonte temporale lunghissimo, in un’epoca dominata dalla precarietà delle cose e delle persone. Lo sforzo finanziario a carico degli stati europei genererà legittime discussioni sulle priorità da assegnare ai sempre più magri bilanci nazionali. Ma gli studi sull’impatto economico del Lhc, come quello dell’economista Massimo Florio dell’Università di Milano, suggeriscono che anche un laboratorio di fisica teorica può creare ricchezza: a patto che le tecnologie e le conoscenze prodotte al Cern circolino senza barriere poste da brevetti e copyright.
"Addio", materia oscura
Uno studio basato sui dati di Spitzer prende in esame la curva di rotazione galattica, un parametro che lega velocità di rotazione e raggio. Il ritmo di marcia costante di stelle o gas sarebbe determinato dalla presenza di materia visibile
di Agnese Cerroni *
Un girotondo a velocità costante che nega il ruolo della materia oscura nelle dinamiche interne ad una famiglia di stelle. Porta la firma della Case Western Reserve University l’ultimo studio a tema galattico, pubblicato sulla rivista Physical Review Letters e sulla piattaforma arXiv.org, che mette sotto esame 153 galassie - a spirale e irregolari, di vario taglio, dalle più grandi a quelle nane - alcune con rigonfiamento centrale altre senza, per studiare un parametro noto come rotation curve. Si tratta di una misura astronomica che mette in relazione la velocità orbitale delle stelle o dei gas all’interno di una galassia con la distanza radiale dal centro della stessa. In scala ben più ampia, è lo stesso rapporto che lega il periodo di rivoluzione di un pianeta alla distanza che lo separa dal Sole.
Già nel 1970 una coppia di ricercatori, Vera Rubin e Albert Bosma, notò che la velocità di rotazione di una galassia a spirale non diminuiva all’aumentare del suo raggio, contravvenendo alla Legge di Newton. Il motivo di tale anomalia era da ricercare nella presenza invisibile della enigmatica materia oscura che forniva una spinta gravitazionale aggiuntiva.
Le analisi odierne, elaborate sulla base dei dati prodotti dal telescopio NASA Spitzer, ribaltano questa prospettiva scardinando l’ipotesi dark matter: l’accelerazione osservata rispetto al raggio galattico - la rotation curve - sarebbe in relazione con la spinta gravitazionale esercitata soltanto dalla materia visibile e il legame velocità costante/raggio sarebbe l’equivalente di una legge di natura sinora sconosciuta.
Lo studio, boicottando la componente oscura, apre nuovi scenari per la comprensione delle dinamiche fisiche che regolano l’equilibrio dell’Universo.
* ASI - AGENZIA SPAZIALE ITALIANA, Giovedì 22 Settembre 2016 (ripresa parziale).
Dal Gran Sasso alla materia oscura
Il suo mistero appassiona gli scienziati da quasi un secolo.
Una massa che c’è ma non si vede, per spiegare il moto delle galassie.
Ma anche di che cosa è fatto l’Universo
Ora, dalle profondità dei laboratori abruzzesi, si prova a “catturarla”. E l’Italia è ancora una volta in prima linea nella ricerca fisica Come è avvenuto per la scoperta della “particella di Dio”
Stare al di sotto di 1.400 metri di roccia permette di schermare altri segnali
Le ipotesi fin dagli anni Trenta dopo l’osservazione della Chioma di Berenice
di Silvia Bencivelli (la Repubblica, 7.12.2015)
IL MISTERO cominciò con la Chioma di Berenice. Era il 1933: l’astronomo svizzero americano Fritz Zwicky la stava osservando nel cielo. E lei, che è una costellazione tra la Vergine e il Leone, si lasciava guardare. Solo che c’era una cosa che a Zwicky non tornava: le galassie là dentro correvano tutte insieme e velocemente. Troppo, per quello che diceva la teoria. Zwicky allora formulò un’ipotesi: ci deve essere una massa che tiene quelle galassie vicine tra loro ma che noi non vediamo. Solo che questa massa, secondo i calcoli, doveva essere quattrocento volte superiore a quella visibile. Un’enormità. Possibile che ci fosse un mistero così grande nell’Universo?
Possibile, e quel mistero c’è ancora: si chiama materia oscura. Oggi quattro esperimenti la cercano nell’Universo partendo dalle profondità della Terra: dall’interno del massiccio del Gran Sasso, una montagna che sotto 1.400 metri di altezza nasconde i laboratori sotterranei più grandi del mondo, i Laboratori nazionali del Gran Sasso dell’Infn, e una scommessa epocale per la scienza. Quei quattro esperimenti, infatti, sono alcuni dei corridori di una corsa che oggi, dopo settant’anni, potrebbe essere vicina al traguardo: la corsa a vedere che cosa tiene insieme la Chioma di Berenice. Cioè a osservare per primi la materia oscura.
Tra questi, nel gruppo di testa c’è Xenon 1T: un progetto internazionale che coinvolge 126 scienziati di 21 istituzioni di America, Europa e Asia e che investe 20 milioni di dollari. La sua leader si chiama Elena Aprile ed è una fisica italiana, professoressa alla Columbia University dal 1986: «Ho cominciato come studentessa di Carlo Rubbia nel 1977 - racconta con un forte accento americano - sono stata ad Harvard per il dottorato e poi sono venuta qui in America, dove sono rimasta. Ma sono contenta che oggi il mio esperimento sia al Gran Sasso: quello è il miglior laboratorio al mondo per la nostra ricerca».
Xenon 1T è oggi il rivelatore più sensibile di quelli al lavoro nei Laboratori del Gran Sasso, almeno a sentire chi ci sta lavorando. «Il nostro esperimento - spiega Gabriella Sartorelli, dell’Università di Bologna e della sezione Infn della stessa città, a capo dei ricercatori italiani - cerca le particelle di cui pensiamo che sia composta la materia oscura: le cosiddette Wimp (Weakly Interacting Massive Particle)».
Il rivelatore di Aprile e Sartorelli tenta di catturarle usando una “trappola” a base di xenon. Cioè: la Wimp dovrebbe interagire con lo xenon, che nel rivelatore è in forma sia liquida sia gassosa, e produrre due segnali luminosi che ci permettono di capire come e dove l’interazione è avvenuta.
Siccome però queste Wimp sono rare e deboli, c’è bisogno di una lunga serie di accorgimenti, come quello di usare un gas nobile (lo xenon, appunto) che si separa più facil- mente dalle impurità. O come quello di stare sotto i 1.400 metri di roccia, che scherma la pioggia incessante di altre particelle capaci di disturbare i rivelatori. E poi c’è la dimensione del rivelatore: 1T significa una tonnellata, di xenon s’intende.
«La probabilità di interazione tra Wimp e materia ordinaria è piccola, per cui c’è bisogno di rivelatori grandi - prosegue Sartorelli - Prima abbiamo avuto Xenon 10, poi Xenon 100 (chili), ma non abbiamo visto niente. Intanto gli americani hanno costruito Lux, che ha dentro 300 chili di xenon. E ancora niente. Adesso con una tonnellata speriamo di farcela, ma chissà. Intanto gli americani hanno in progetto un rivelatore da dieci tonnellate. Ma anche noi nei prossimi due anni vogliamo aumentare, e possiamo farlo facilmente».
La corsa alla rivelazione della materia oscura vede in pista anche DarkSide50, che sempre al Gran Sasso utilizza una trappola a base di un altro gas nobile, l’argon. Anche il suo leader è un italiano in America: Cristian Galbiati, professore di fisica a Princeton. Lui, ovviamente, scommette sul suo rivelatore: «I rivelatori a base di argon sono i più promettenti, perché sono gli unici privi del rumore di fondo della radioattività naturale». Infine, gli altri due esperimenti a caccia della materia oscura. Uno è Cresst, che cerca di osservare le interazioni tra le Wimp e i nuclei atomici di cristalli assorbitori: la responsabile del progetto è Federica Petricca, ricercatrice del Max Planck Institute for Physics di Monaco. L’altro è Dama/Libra, diretto da Rita Bernabei dell’università e della sezione Infn di Roma Tor Vergata: nel 1998 vide un segnale che fu interpretato come un’evidenza di materia oscura, e ha continuato a vederlo per quindici anni, ma non esistono altri esperimenti in grado di confermarlo.
Ma ci sono anche altri rivelatori europei, americani, canadesi, coreani, russi, giapponesi, cinesi, quelli al Cern di Ginevra (che però potrebbero rivelare solo segnali indiretti) e quelli nello spazio, come Ams, lo strumento per lo studio dei raggi cosmici che dal 2011 vola sulla Stazione Spaziale Internazionale.
Cioè: se non si fosse capito «qui, la questione è di arrivare primi: nessuno gioca per partecipare », dice senza mezzi termini Elena Aprile. Ma poi precisa anche: «In realtà è una strana competizione: tutti ci auguriamo che anche gli altri si muovano bene, perché chiunque arrivi primo, poi, avrà bisogno di conferme».
Il mistero della Chioma di Berenice potrebbe dunque essere vicino alla soluzione. Dopo Zwicky, negli anni Ssettanta l’astronoma Vera Rubin aveva osservato che anche all’interno delle galassie le stelle si comportano come se nell’Universo ci fosse una massa invisibile ai nostri occhi.
Da allora altre evidenze hanno mostrato che questa materia oscura rappresenta circa l’85 per cento della materia dell’universo ed è completamente diversa da quella ordinaria: «Come si fa a resistere all’idea di cercarla?», sorride Elena Aprile.
In palio c’è almeno un Nobel («ma non si va a Stoccolma così in fretta!»). E in questa corsa, sostiene Aprile che è venuta qui dall’America apposta, i Laboratori del Gran Sasso sono in testa: «Non possiamo dire che cosa succederà: è possibile che la prima Wimp sia dietro l’angolo oppure che l’abbiamo appena mancata. Ma la mia scommessa è che la vedremo proprio lì, al Gran Sasso».
“Ora nuovi enigmi: c’è un altro Bosone?”
-***A parlare è Stefano Ragazzi, direttore dei Laboratori del Gran Sasso dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare
di Valentina Arcovio (La Stampa TuttoScienze, 07.10.2015)
«Le scoperte di Kajita e McDonald hanno cambiato un pezzo importante del Modello Standard e hanno aperto la strada a nuovi interrogativi su cui stiamo lavorando». A parlare è Stefano Ragazzi, direttore dei Laboratori del Gran Sasso dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, il più grande laboratorio sotterraneo al mondo dedicato alla fisica astroparticellare, dove si svolgono ricerche di punta proprio sulla fisica del neutrino.
Professore, quale pilastro del Modello Standard hanno abbattuto i due nuovi Nobel?
«Il Modello Standard prevedeva l’esistenza di tre famiglie di neutrini con massa nulla. Il lavoro di Kajita e McDonald ha dimostrato, invece, che tutti i neutrini hanno una massa, che varia leggermente a seconda delle famiglie».
In che modo questa scoperta cambia la nostra visione dell’Universo?
«Non ha cambiato le nostre conoscenze sulla cosmologia, ma ha aperto un capitolo nuovo della fisica delle particelle. Grazie al lavoro dei due Nobel abbiamo aggiunto un altro pezzetto all’identikit di una delle particelle più elusive dell’Universo. Il neutrino, infatti, è ancora qualcosa di misterioso e Kajita e McDonald ci hanno dimostrato che il Modello Standard non lo descrive correttamente».
Che cosa manca oggi per completare l’identikit del neutrino?
«Sappiamo dove i neutrini vengono prodotti, a quante famiglie appartengono e che possono cambiare durante il loro percorso. Grazie ai due Nobel sappiamo che hanno una massa diversa a seconda della famiglia. Ma quello che ignoriamo è ancora tanto. Non sappiamo, per esempio, se la massa del neutrino è uguale a quella della sua antiparticella o meno. Se fosse così, potremmo avere un indizio importante che la massa del neutrino non è generata dallo stesso meccanismo delle altre particelle, il campo di Higgs. È possibile, ad esempio, che esista un’altra “particella di Dio”, oltre al famoso bosone di Higgs. E non è escluso che il neutrino sia simile alle particelle descritte da Ettore Majorana, cioè che coincidono con la propria antiparticella».
Anche i fisici italiani sono impegnati nello studio dei neutrini: su cosa ci concentrano?
«Innanzitutto, prima di Kajita e McDonald, era stato Bruno Pontecorvo a suggerire che i neutrini potessero oscillare, cioè cambiare famiglia. E oggi l’impegno dell’Italia nello studio di questa particella è davvero importante: i Laboratori del Gran Sasso dell’Infn hanno contribuito con l’esperimento “Macro” allo studio dei neutrini atmosferici, mentre le misure del test “Opera” hanno dimostrato l’esistenza dell’oscillazione dei neutrini dalla seconda famiglia alla terza, completando quindi gli studi di Kajita e McDonald. Ma non meno importante è il ruolo dell’esperimento “Gallex” nella comprensione dei neutrini solari e le successive misure di precisione condotte da “Borexino” sulle componenti del loro flusso».
Il Nobel della fisica ai detective del neutrino
“Hanno scoperto come si trasforma e che possiede una massa”
di Gabriele Beccaria (La Stampa TuttoScienze, 07.10.2015)
Si chiamano neutrini e con i fotoni (le particelle della luce) sono la «cosa» più abbondante del nostro Universo. Sono ovunque, ci investono e ci attraversano - 60 miliardi al secondo, per ogni centimetro quadrato della Terra - eppure non ce ne accorgiamo e sono così elusivi da sfuggire volentieri a chi si sforza di acchiapparli. Ecco perché chi li studia merita un Nobel, soprattutto se ne ha svelato uno (dei tanti) misteri. Così ieri l’Accademia di Stoccolma ha deciso di dare il premio per la fisica al giapponese Takaaki Kajita e al canadese Arthur B. McDonald.
Che cos’hanno scoperto? Che i neutrini, contrariamente a quanto molti colleghi avevano ipotizzato per anni, possiedono una massa, anche se minima. E l’hanno dedotto perché i neutrini - che sono davvero particelle bizzarre - non restano mai uguali a se stessi, ma sono dei camaleonti. Addirittura possono assumere tre forme diverse, note in gergo come «l’elettronico», «il muonico» e «il tauonico». E, non contenti, i neutrini hanno anche origini multiple: furono prodotti all’inizio di tutto, durante il Big Bang, e continuano a essere «sparati» da stelle (come il nostro Sole) e da altre molto più energetiche (come le supernovae) e a generarsi sopra le nostre teste, quando i raggi cosmici interagiscono con l’atmosfera terrestre.
Teorizzati nel 1930 dal futuro Nobel Wolfgang Pauli, i neutrini furono battezzati così da un altro cervello destinato al Premio, Enrico Fermi, e finalmente scoperti nel 1956 da due americani, Frederick Reines e Clyde Cowan, anche loro benedetti dal Nobel. Un’avventura accidentata che nel 2015 approda a Takaaki Kajita e ad Arthur B. McDonald, autori di due diversi test, ma complementari: i loro team, impegnati in gigantesche strutture sotterranee in Giappone e in Canada, chiamate Super-Kamiokande e Sudbury Neutrino Observatory, hanno svelato i comportamenti del neutrino, vale a dire le sue tre «oscillazioni», elettronica, muonica e tauonica (un fenomeno ipotizzato nel 1957 da un altro italiano, Bruno Pontecorvo).
E non basta. Portando alla luce la massa dei neutrini, i due scienziati hanno messo in crisi il Modello Standard, che regge (in modo sempre più imperfetto) l’edificio della fisica contemporanea. Tanto che «queste particelle misteriose, strutturalmente diverse da tutte le altre che conosciamo, potrebbero essere la porta su una nuova fisica», ha commentato ieri il presidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, Fernando Ferroni. Come cambieranno le idee sulla materia e sull’Universo, sulle sue origini e sulla sua evoluzione? È un’ulteriore avventura, degna di molti altri futuri Nobel.
I neutrini hanno una massa
Quei neutrini da Nobel
L’eredità di Pontecorvo
di Paolo Giordano (Corriere della Sera, 07.10.2015)
I neutrini hanno una massa. Irrisoria rispetto a quella delle altre particelle e di origine ancora ignota. L’evidenza di questa massa è stata provata dagli esperimenti valsi il Nobel a McDonald e Kajita (nella foto l’osservatorio dei neutrini in Giappone, in una miniera a 1.000 metri sottoterra)
All’inizio degli anni sessanta John Updike, lo scrittore della saga di Coniglio, dedicò una poesia ai neutrini. S’intitola Cosmic Gall, «Sfacciataggine cosmica», e comincia così: «I neutrini son piccolini. / Non hanno carica né massa / e non interagiscono per niente. / La Terra per loro è una palla demente / in cui passare semplicemente».
La poesia di Updike, pur nella sua irriverenza (l’originale rima in continuazione con «ass»), contiene alcune verità sui neutrini e almeno altrettante falsità. I neutrini sono effettivamente privi di carica elettrica e interagiscono poco volentieri con la materia. Di tutte le particelle conosciute (elettroni, quark, fotoni...) sono le più capricciose, le più difficili da rilevare negli esperimenti, tanto che la loro presenza è assai più spesso evidenziata come deficit di qualcosa. Possono attraversare spessori ragguardevoli - la Terra stessa, come dice Updike - senza subire alcun cambiamento, tanto che ce ne piovono addosso in continuazione, circa cinquantamila miliardi attraversano il nostro corpo ogni secondo, senza che ce ne accorgiamo.
Ciò che Updike non poteva sapere è che i neutrini, per quanto fantasmatici, possiedono una massa, irrisoria rispetto a quella delle altre particelle note e la cui origine è ancora sconosciuta, ma comunque una massa. L’evidenza di questa massa è stata provata dagli esperimenti per i quali, ieri, Arthur B. McDonald e Takaaki Kajita hanno vinto il premio Nobel per la fisica. L’idea stessa di dimostrare che una particella capace di bucare un pianeta abbia un peso dovrebbe dare la misura di quanto gli esperimenti guidati da McDonald e Kajita negli anni novanta fossero delicati e complessi.
Entrambi i laboratori esistono ancora: il Sudbury Neutrino Observatory (SNO) di McDonald in Canada, e Super-Kamiokande di Kajita in Giappone. Sono strutture di bellezza cinematografica: serbatoi di acqua pesante rivestiti in acciaio e punteggiati da migliaia di rivelatori, sferico il primo e cilindrico il secondo, dove gli scienziati entrano con tute sterili solo dopo essersi fatti la doccia. E sono interrati a profondità abissali per ridurre le interferenze. In una lezione a Berkeley, McDonald ha scherzato sul fatto che ogni Paese abbia bisogno di illustrare quelle profondità usando come scala un proprio monumento. Lui ha scelto l’Empire State Building. Per noi, il serbatoio di SNO si trova a circa tredici Moli Antonelliane sotto la superficie terrestre.
In realtà, la massa dei neutrini non è stata rivelata «direttamente» dagli esperimenti, bensì dedotta da un altro fenomeno, chiamato «oscillazione di neutrino». Consiste più o meno in questo. In natura sembrano esistere tre specie diverse di neutrini: i neutrini elettronici, muonici e tauonici. Se fossero davvero privi di massa, come la teoria (e anche Updike) li ha voluti per lungo tempo, ognuno resterebbe quello che è per sempre. L’elettronico resterebbe elettronico, il muonico muonico, il tauonico tauonico.
Negli esperimenti di McDonald e Kajita è stato invece dimostrato che i neutrini possono «oscillare» da un tipo all’altro. Attraversata una certa distanza alla folle velocità a cui viaggiano, diviene addirittura probabile che un neutrino elettronico diventi muonico, per esempio. E questo è possibile soltanto in presenza delle masse. Il sospetto che una simile metamorfosi fosse possibile si ebbe per la prima volta misurando la quantità di neutrini elettronici provenienti dal Sole, e accorgendosi che ne arrivavano a noi meno del previsto. Dov’erano finiti gli altri? Si erano persi per strada oppure si erano trasformati in qualcosa di diverso? McDonald e Kajita, insieme ai loro colleghi, hanno dimostrato che la seconda ipotesi era quella vera.
Ho sempre trovato un po’ meschino, quando si parla di successi della scienza, volerli associare a tutti i costi al proprio Paese, un campanilismo simile a quello che, secondo McDonald, si applica alla misura delle lunghezze. La ricerca ha uno sguardo assai più ampio di quello nazionale. Ma è doveroso, in questo caso, ricordare che la fisica dei neutrini ha alle spalle una tradizione italiana importante. Dopo che Dirac ne postulò l’esistenza, fu soprattutto Fermi a descrivere i processi ai quali i neutrini prendevano parte. Majorana ne diede una descrizione matematica nuova, che lasciò quesiti tuttora aperti. E l’idea germinale che condusse allo studio delle oscillazioni di neutrino fu presentata da Bruno Pontecorvo in un lavoro del 1957. La poesia scientifica di Updike si conclude con questi versi: «La notte (i neutrini) entrano in Nepal / e perforano l’amante e la sua amata / da sotto il letto, voi chiamatelo / stupendo; io lo chiamo idiota». Il Comitato del premio Nobel non era d’accordo con lui.
A Ginevra
Cern: ripartito il superacceleratore
Alla caccia della materia oscura
Dopo due anni di lavori per arrivare a una potenza doppia di quella che ha permesso di scoprire il bosone di Higgs
di Paolo Virtuani (Corriere della Sera, 05.03.2015)
Dopo due anni di lavori di potenziamento, a Pasqua è stato riacceso l’Lhc (Large Hadron Collider), il superacceleratore del Cern di Ginevra che ha già al suo attivo la scoperta del bosone di Higgs. «Sono contentissimo, come lo sono tutti qui al centro di controllo del Cern», ha commentato il direttore generale Rolf Heuer, che il 31 dicembre lascerà il posto a Fabiola Gianotti. «Ora si apre la porta su un universo sconosciuto e imprevedibile», ha spiegato Fernando Ferroni, presidente dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn).
Due anni di pausa
I due anni di intervallo sono serviti per una manutenzione della complicatissima macchina e per interventi necessari a ottenere la garanzia di poterla spingere ai limiti per i quali è stata costruita. L’obiettivo è ora quello di arrivare - prima dell’estate - alla potenza di 13 mila miliardi di elettronvolt (TeV), circa il doppio della potenza raggiunta nella prima fase di lavoro. Intanto nei mesi scorsi, dopo il raffreddamento a meno 271 gradi sotto zero, sono state effettuate accensioni parziali facendo scorrere i protoni solo in alcuni settori dell’anello sotterraneo di 27 chilometri a cento metri di profondità. Nel dicembre scorso sono entrati in azione fasci di particelle a 6,5 TeV e all’inizio di marzo si sono condotti test con gli esperimenti Lhcb e Alice.
Materia oscura
Ora l’obiettivo degli scienziati è arrivare ai limiti del cosiddetto Modello standard, ossia la teoria che spiega l’origine dell’universo. In modo particolare cercare di comprende cosa sia la materia oscura, che occupa il 25% dell’universo, e l’energia oscura che ne costituisce il 70%. «La materia oscura è stata ipotizzata per spiegare le anomalie del Modello standard, cioè il modello che spiega l’origine dell’universo. La scoperta della natura della materia oscura è il fronte più attivo sul quale punta l’Lhc», aveva detto nei giorni scorsi lo scienziato italiano Luciano Maiani, che è stato tra i padri dell’Lhc .«Con la ripartenza di Lhc l’avventura ricomincia, ci stiamo lasciando alle spalle il bosone di Higgs e ora si apre per noi una porta su un mondo che non conosciamo», ha affermato Ferroni. «Confidiamo che questa nuova esplorazione possa aiutarci a gettare un po’ di luce sulle componenti oscure dell’universo, ma speriamo anche in sorprese inaspettate».
La cosmologia “occulta” della materia oscura e dell’energia oscura deve andare a casa, e alla svelta.
Con un 95% e fischia di oggetti che non si vedono, l’Universo "ufficiale" ha infatti più a che fare con l’occultismo che con la razionalità.
MA COME SI FA A DAR FIDUCIA AD UN AMMINISTRATORE CHE È IN GRADO DI RENDER CONTO DI MENO DEL 5% DEL PATRIMONIO AMMINISTRATO, SENZA CONSIDERARLO POCO COMPETENTE?
Mah, chi lo sa.
Ciao.
Leo.
http://rinabrundu.files.wordpress.com/2012/06/lavvocato-hubble-e-la-presunta-espansione-delluniverso.pdf
Il bosone di Higgs
La verità dell’universo in una sola particella
L’annuncio al Cern di Ginevra. La potenza della teoria unita alla potenza della tecnologia
La particella catturata nel superacceleratore Lhc
È la base per una spiegazione del perché della massa
di Pietro Greco (l’Unità, 05.07.2012)
È la vittoria di due potenze, quella annunciata ieri al Cern di Ginevra dall’italiana Fabiola Gianotti, spokeperson dell’esperimento Atlas, e dall’americano Joe Incandela, spokeperson dell’esperimento Cms. Una è quella della tecnologia scientifica di frontiera, incarnata (o meglio, imbullonata) in Lhc: la macchina (appunto) più potente mai costruita dall’uomo. L’altra è la potenza della teoria: capace di prevedere un fenomeno sconosciuto, la cui realtà verrà provata dopo molti mesi o, addirittura, molti anni. Sono queste due potenze congiunte che hanno realizzato quella che può essere considerata, ormai a ragione, la più importante scoperta in fisica degli ultimi decenni. Forse dell’ultimo mezzo secolo.
Se la «potenza della tecnologia è chiara a tutti fin dai tempi di Galileo, quando il toscano mise a punto un cannocchiale più potente, lo puntò al cielo e vide - letteralmente - cose mai viste prima, meno nota, ma non meno importante, è la «potenza della teoria. Per trovarne un esempio altrettanto limpido di quella manifestata dal Modello Standard della Fisica delle Alte Energie, in particolare, dall’elaborazione del Modello Standard quel signore di 83 anni le cui guance ieri sono state solcate da (meritate) lacrime di gioia, lo scozzese Peter Higgs, occorre risalire alla teoria dell’elettrodinamica quantistica elaborata da Paul Dirac alla fine degli anni ’20 e racchiusa in una formula (elegante) che prevedeva l’esistenza di un tipo di materia - l’antimateria - di cui mai nessuno aveva prima parlato. L’esistenza dell’antimateria fu empiricamente provata pochi anni dopo.
DA EINSTEIN E NEWTON
Ancora, la «potenza delle teoria si era manifestata nel 1919, quando l’inglese Sir Arthur Eddington misurò la deviazione della luce da parte del campo gravitazionale del Sole proprio dell’angolo previsto dalla teoria della relatività generale del tedesco Albert Einstein. Con quella misura, titolò con una certa enfasi il New York Times in prima pagina, Einstein detronizzò Newton. Ancora. Una manifestazione della «potenza della teoria si ebbe quando il chimico russo Dimitri Ivanovic Mendeleev elaborò la «tavola periodica degli elementi, prevedendo non solo l’esistenza di elementi chimici fondamentali fino ad allora sconosciuti, ma anche le loro precise proprietà chimiche. Ieri si è manifestata di nuovo, con limpida chiarezza, la «potenza della teoria, accanto in virtù della «potenza della tecnologia. Perché è stata individuata una particella - il bosone di Higgs - messaggera di un campo di forze, il «campo di Higgs, le cui esistenze erano del tutto sconosciute prima che Peter Higgs le immaginasse. Le sue lacrime, ieri, hanno salutato il nuovo trionfo della «irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali. Vero è che Fabiola Gianotti e Joe Incandela hanno mostrato un filo di prudenza nel presentare i loro dati. Hanno detto che con una probabilità statistica di 5 sigma - il che, tradotto dal linguaggio dei fisici e dei matematici, significa tecnicamente una probabilità abbastanza solida da poter parlare a ragion veduta di certezza pressoché assoluta e, dunque, di «scoperta - hanno individuato una particella sconosciuta di massa pari a 125 GeV (giga elettronvolt) con le caratteristiche di un bosone.
Ma che c’è bisogno di ulteriori studi per assicurarsi che il bosone catturato sia effettivamente il «bosone di Higgs. Tuttavia, proprio la «potenza della teoria suggerisce che la particella catturata non possa essere altro che la particella prevista da Peter Higgs. Il quale non a caso è stato convocato a Ginevra e non a caso ha pianto di gioia.
REALTÀ COSMICA
Resta da vedere, tuttavia, se il bosone la cui cattura è stata annunciata ieri abbia solo le caratteristiche previste da Peter Higgs. O, invece, non abbia anche proprietà che spalancano a «nuova fisica. O meglio, come spiega il Cern in un suo comunicato ufficiale, alla possibilità di trovare una qualche spiegazione a quel 96% di realtà cosmica di cui non conosciamo la natura. Viviamo infatti in un universo costituito al 73% da un’energia (chiamata, appunto, oscura) e al 23% da una materia (chiamata, anch’essa, oscura) di cui non sappiamo spiegare origine e costituzione.
Il bosone di Higgs finalmente individuato potrebbe fornirci la chiave per gettare un po’ di luce su tanta - è il caso di dirlo - oscurità. Il che dimostra come if isici - aLhc,ma non solo aLhc - siano già al lavoro per andare oltre il Modello Standard, il cui ciclo si è ormai chiuso con la scoperta annunciata ieri. Il Modello Standard funziona (eccome!) ma non ci dice tutto sulla realtà fisica. Occorre, appunto, andare oltre. E proprio la grande macchina può aiutarci a fare i primi passi in questa ricognizione ancora più approfondita.
Non sarà sfuggito ai più attenti tra i lettori dell’Unità il contributo italiano alla scoperta. L’esperimento Atlas è diretto da Fabiola Gianotti (figlia di un geologo piemontese e di un’umanista siciliana, laureata a Milano); l’esperimento Cms è stato diretto fino a poco tempo fa da Guido Tonelli, dell’Infn (Istituto nazionale di fisica nucleare) di Pisa; italiano è anche il direttore scientifico del Cern, Sergio Bertolucci. Si tratta di una nuova evidenza empirica, è il caso di dirlo, che in alcuni settori la nostra comunità scientifica è all’avanguardia. E questa sua capacità le viene riconosciuta a livello internazionale. Ma è anche evidente - anche questa è, ahimè, un’altra ineludibile evidenza empirica - che la scienza italiana, anche quella di punta, è sottoposta a ristrettezze economiche senza pari e crescenti. E che in queste condizioni difficilmente il futuro - anche in fisica - potrà essere luminoso com’è il presente e com’è stato il passato.
Bene ha fatto, dunque, il presidente dell’Istituto nazionale di fisica nucleare, Fernando Ferroni, a sottolinearlo, nel franco dibattito telefonico con il ministro Francesco Profumo. Ma bene faremmo anche noi a tenerlo presente. Ce lo insegna la storia del pianeta degli ultimi sessant’anni (ma, a ben vedere, ce lo insegna la storia intera dell’umanità): non c’è nessuna crescita possibile, non c’è tantomeno alcuno sviluppo socialmente ed ecologicamente sostenibile, se un paese rinuncia a investire nella conoscenza. E la mancanza di investimenti (ovvero di fiducia) nella conoscenza è tanto più commendevole per un Paese che detiene - fingendo di non saperlo, fingendo di non vederlo - un patrimonio come quello che si è espresso ieri a Ginevra.
È un raggio di luce sull’oscurità
di Margherita Hack (l’Unità, 05.07.2012)
Si tratta di una bella conferma della teoria chiamata Modello Standard. Il Modello Standard spiega concretamente vari comportamenti delle particelle elementari, ma, per fare questo, ipotizza che ci sia una particella più grossa del protone, il Bosone di Higgs appunto, che spiegherebbe come si formano tutte le altre particelle che conosciamo. Sarebbe questo Bosone, infatti, a dare a tutte le altre particelle la massa. Il Bosone di Hoggs sarebbe, quindi, un po’ come il babbo e la mamma di tutte le particelle elementari. Io lo chiamo addirittura dio. Se dio infatti ha fatto tutto quello che vediamo, allora la particella che spiega come si forma la materia delle altre particelle dalle quali poi deriva tutto le stelle, gli elementi che abbiamo sulla Terra, compresi quelli che compongono gli esseri umani è veramente dio.
Questa particella però non era mai stata trovata. Come l’hanno cercata? Noi sappiamo che esiste un’eguaglianza tra massa ed energia, da questa conoscenza possiamo dedurre che se c’è sufficiente energia, si può creare una particella. Large Hadron Collider (Lhc), l’acceleratore di Ginevra, avrebbe potuto trovare questa particella perché è il più potente, quello che raggiunge livelli di energia mai raggiunti finora in laboratorio. Così Lhc ha cominciato a funzionare alla massima energia nella speranza di trovare il Bosone di Higgs. Sembra ci sia riuscito. Ora si comincia a capire concretamente la struttura della materia.
Qual è il prossimo passo? Dal punto di vista della fisica delle particelle non saprei dirlo, però so che noi astrofisici cerchiamo di capire cosa siano la materia oscura, che costituirebbe la maggior parte della materia dell’universo e sarebbe fatta da particelle elementari ancora sconosciute, e l’energia oscura. Non so se il Bosone di Higgs ci possa dare un aiuto in questa direzione, ma è possibile. Poi bisogna cercare di capire perchè l’universo è fatto di materia e non di antimateria. Oggi l’astrofisica riesce a vedere direttamente come era fatto l’universo 400mila anni dopo l’inizio dell’espansione. Dalle temperature e dalla densità della materia in quel momento, come i fisici, anche noi possiamo risalire ai valori di temperatura e densità della materia che si trovavano frazioni infinitesimali di secondo dopo il Big Bang.
SULLA MATERIA OSCURA:
premetto che la Professoressa Hack mi sta simpatica come persona, anche per il suo pragmatismo ed anche per le bordate che ha il coraggio di dare, alla politica così come alle istituzioni religiose che, procedendo spesso a braccetto con la politica, vanno, ogni tanto, rimesse un po’ sui binari giusti. Non mi piace, però, quando attaccando (magari anche in modo condivisibile) l’aspetto fiabesco e dunque scientificamente poco credibile di racconti religiosi come ad esempio, non so, mi viene in mente ora, la creazione di Eva e di Adamo, con di mezzo una costola ecc, finisce però quasi col delegittimare quello che è appunto il bisogno metafisico (e/o religioso, se qualcuno preferisce) che è insopprimibile in ogni essere umano, anzi, oserei dire, quasi in ogni essere vivente. Il bisogno metafisico di un essere umano è insopprimibile. Lo stesso fisico, sia con la relatività che con la meccanica quantistica, delega l’osservatore alla descrizione del comportamento delle cose, come se, appunto, le cose non avessero solo un’essenza propria indipendente da noi e dalla scintilla che ci anima e che ci fa osservare, ma bensì ne avessero anche un’altra, legata a doppio filo con la prima. A tal proposito, tornando al fiabesco, chiederei alla (a me comunque molto simpatica) professoressa Hack (ed anche a chi crede nell’esistenza della MATERIA OSCURA), ma lei pensa che credere alla MATERIA OSCURA (dark matter), come so che lei ci crede, sia meno ingenuo che credere a certi racconti fiabeschi di tante religioni? Ma ci rendiamo conto che l’aver supposto l’esistenza della materia oscura ha davvero poco di scientifico? Ok, la densità dell’Universo osservato è di quattro zeri inferiore a quella dell’Universo della cosmologia prevalente e le galassie, poi, ruotano troppo velocemente; e allora? Mi metto a parlare di materia oscura? E’ come se sento dei rumori in soffitta, allora salgo su a vedere e non trovo nessuno e dunque concludo che ci sono i fantasmi... Poi, tale materia oscura, ha una carta d’identità da fare invidia davvero alle fiabe più estreme: è densissima, dunque "pesantissima", ma oscura, che cioè non irradia, ma anche trasparente, in quanto, pur essendo molta, intorno alle galassie, ci permette però di osservare benissimo le stesse... Già l’etere del secolo scorso, che sarebbe dovuto essere finissimo e leggerissimo, ha fatto la fine che ha fatto; figuriamoci tale materia oscura, che fine presto farà..., nonostante sia piuttosto redditizia, nel doverla ricercare. Sempre al fine unico di restare ai fatti oggettivi ed analitici e non a semplici opinioni personali, segnalo un link al quale si possono trovare semplici spiegazioni alternative, di intuizione molto più diretta e soprattutto coerentemente supportate da numeri, alle discrepanze tra densità dell’Universo osservata e densità calcolata dalla cosmologia prevalente, nonchè al fenomeno della rotazione troppo veloce delle galassie ecc:
http://www.fisicamente.net/FISICA_2/UNIFICAZIONE_GRAVITA_ELETTROMAGNETISMO.pdf
Saluti.
Leonardo RUBINO. leonrubino@yahoo.it
A Stoccolma il premio per la fisica
Si sono rivelate decisive le ricerche sulle emissioni di luce delle supernove
L’acceleratore dell’Universo
Il Nobel a tre studiosi della materia oscura che espande il tutto
Una forza ancora enigmatica tra stelle e galassie che pervade il 70% del cosmo
di Barbara Gallavotti (La Stampa/TuttoScienze, 05.10.2011)
Il Novecento è stato il secolo delle grandi emozioni scientifiche: abbiamo scoperto che alla base della vita c’è l’espressione di un bellissima molecola chiamata DNA, abbiamo imparato a spezzare l’atomo (nel bene e nel male), abbiamo dato un’identità al manipolo di particelle che costituiscono la materia, e molto altro. Alla fine degli Anni 90 potevamo forse ritenerci soddisfatti. E invece no: il secolo doveva chiudersi con un ultimo fuoco d’artificio e nel 1998 abbiamo saputo che l’Universo non si espande a velocità costante, ma accelera sospinto da un motore misterioso chiamato «energia oscura».
Una scoperta che ha lasciato senza fiato i cosmologi e fatto immediatamente pensare al più ambito dei premi. Un Nobel atteso, dunque, quello che è stato assegnato ieri per metà a Saul Perlmutter e per l’altra metà a Brian P. Schmidt e Adam G. Riess. Come già avvenuto nel 2010, anche stavolta si tratta di tre ricercatori non certo attempati: il più «anziano», Perlmutter, è nato nel 1959, gli altri due nel 1967 e nel 1969.
All’inizio degli Anni 90 i cosmologi erano convinti che l’Universo fosse in espansione: galassie e corpi celesti avrebbero risentito ancora dell’effetto del Big Bang: l’ultimo alito di un soffio remoto, che tuttavia li avrebbe portati alla deriva sempre più lontano, a meno che l’attrazione reciproca della forza di gravità non avesse prima o poi avuto la meglio. All’epoca Perlmutter guidava un gruppo di ricerca, mentre Schmidt si trovava a capo di un altro, nel quale c’era Riess. Entrambi i gruppi intendevano localizzare alcune supernove particolarmente distanti, così da tracciare una mappa più precisa dell’ Universo. Il momento sembrava il più opportuno, perché a disposizione c’era una rete di telescopi sofisticati, computer potenti e apparecchi CCD con cui ottenere immagini digitali in modo veloce. La ricerca si prospettava interessante, ma non foriera di emozioni straordinarie. Invece le emozioni sono arrivate, perché lo studio delle emissioni di luce delle supernove non ha lasciato dubbi: i corpi celesti più lontani accelerano e di conseguenza ci deve essere qualcosa che li sospinge, un’«energia oscura», appunto, di cui ignoriamo la natura.
Negli ultimi anni astronomi e cosmologi hanno accumulato nuove prove a favore della sua esistenza, cogliendo tracce della sua ombra anche nel fondo di radiazione cosmica, quel debole mare di fotoni che si è formato circa 14 miliardi di anni fa, quando l’Universo aveva «appena» 300 mila anni, e che ancora oggi lo pervade. Eppure, il volto dell’energia oscura resta nascosto. I pochi indizi che trapelano ci dicono che è una entità estremamente forzuta e anche che la sua «stazza» è notevole. L’energia oscura, infatti, rappresenta il 70% dell’energia dell’Universo. Il restante 30% è sotto forma di materia (secondo l’equazione di Einstein E=Mc2, materia ed energia si equivalgono). In particolare il 5% è la materia che conosciamo e che compone ciò che ci circonda, dai nostri corpi alle galassie, e il restante 25% è materia oscura, un’altra signora cosmica dall’identità misteriosa.
Di certo l’energia oscura non è una forma di materia, e neppure di radiazione. Si pensa che sia una forma di energia associata a un «campo»: possiamo immaginarla come una versione moderna dell’impalpabile etere che un tempo si riteneva pervadere le sfere celesti. Stranamente, l’Universo non sembra aver risentito della sua forza per gran parte della propria esistenza e questo effetto tardivo è uno dei grandi interrogativi che la circondano.
Scoprire la natura dell’energia oscura è molto difficile anche perché al momento non è possibile immaginare esperimenti che permettano di ricrearla in laboratorio. Per ottenere indizi, ancora una volta, non resta che puntare i telescopi verso il cielo, contando su tecnologie sempre più avanzate per osservare corpi celesti ancora più lontani, così da misurare la loro apparente accelerazione ai confini dell’esistente. Così i cosmologi mirano anche a capire se l’energia oscura fa sentire la sua forza in modo omogeneo in tutto l’Universo o è più intensa in alcuni punti. Altre indicazioni potranno poi venire da studi sulla radiazione di fondo cosmica. Alla fine qualcuno riuscirà a sollevare il velo e allora capiremo quale sarà il destino dell’Universo, sapremo cioè se la sua espansione è destinata a fermarsi o se continuerà all’infinito, diluendo tutto ciò che esiste in un nulla cosmico.
FISICA
La massa mancante dell’universo
scoperta da stagista australiana
E’ una studentessa 22enne alla facoltà di ingegneria di Melbourne. Gli scienziati inseguivano la soluzione del rompicapo da decenni, lei ci è riuscita in tre settimane *
MELBOURNE - Team di scienziati di tutto il mondo l’hanno inseguita per decenni. Ma della cosidetta "massa mancante" dell’universo nessuna traccia. L’ha invece individuata, è in soli tre mesi, una studentessa di ingegneria aerospaziale dell’Università Monash di Melbourne, Amelia Fraser-McKelvie, di 22 anni, che ha condotto con astrofisici della Scuola di Fisica dell’ateneo una ricerca mirata a raggi X. La scoperta, descritta nella rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, è ancora più notevole perché Fraser-McKelvie, 22 anni, non è una ricercatrice di carriera, ma una studentessa che lavorava come stagista con una borsa di studio. Il suo relatore Kevin Pimbblet della Scuola di Fisica ha sottolineato come gli scienziati si siano scervellati per decenni sulla questione mentre lei ci ha messo solo 90 giorni.
"Si pensava da un punto di vista teorico che nell’universo dovesse esserci circa il doppio della massa, rispetto a quella che è stata osservata", scrive Pimbblet nella relazione di cui è coautore. "Si riteneva che la maggior parte di questa massa mancante dovesse essere situata in strutture cosmiche di grande scala fra i gruppi di galassie, chiamate filamenti. Gli astrofisici ritenevano che la massa fosse di bassa densità ma alta di temperatura, attorno al milione di gradi Celsius. In teoria quindi avrebbe dovuto essere osservabile sulle lunghezze d’onda dei raggi X. La scoperta di Fraser-McKelvie ha dimostrato che l’ipotesi era corretta", aggiunge lo scienziato.
Usando le sue conoscenze nel campo dell’astronomia a raggi X, la giovane studiosa ha riesaminato da vicino i dati raccolti dai colleghi più anziani, confermando la presenza dei filamenti, che fino allora era sfuggita. La scoperta potrà cambiare la maniera in cui sono costruiti i telescopi, sostiene Pimbblet.
* la Repubblica, 27 maggio 2011
Facciamo chiarezza sulla materia oscura
Per chi la scopre, Nobel sicuro.
Ma l’ultimo esperimento Xenon ha deluso le aspettative
di Amedeo Balbi (il Fatto - Saturno, 06.05.2011)
C’È UN ROMPICAPO che da parecchi decenni tiene occupato chi studia l’universo, e che stenta a trovare una soluzione. Erano gli anni Trenta del secolo scorso quando Fritz Zwicky, un astronomo svizzero emigrato in California, fece un’osservazione sorprendente. Studiando un gigantesco agglomerato di migliaia di galassie noto come “ammasso della Chioma”, Zwicky si rese conto che c’era qualcosa che non tornava: la materia visibile non poteva giustificare, da sola, l’enorme forza di gravità necessaria a tenere insieme l’ammasso. Tentò di attirare l’attenzione dei suoi colleghi sull’apparente contraddizione, e ipotizzò che esistesse una grande quantità di “materia oscura”, non visibile con i telescopi, che facesse da “collante” gravitazionale.
Zwicky aveva fama di eretico, e un carattere difficile. Nessuno diede peso alle sue idee sulla materia oscura. Ma parecchi anni dopo, intorno agli anni Settanta, l’argomento tornò alla ribalta. Diverse osservazioni - soprattutto quelle compiute dall’astronoma Vera Rubin - mostrarono che le galassie ruotavano in una maniera che non era compatibile con la sola presenza della materia che si riusciva a vedere con i telescopi. Di nuovo, sembrava esserci molta materia nascosta alla vista, ma capace di far sentire la sua presenza grazie alla forza di gravità. Questa volta la cosa fu presa seriamente. Negli anni Ottanta, grazie a un numero sempre crescente di conferme osservative, l’esistenza della materia oscura cominciò a essere un fatto accettato dalla maggioranza degli astrofisici. Fritz Zwicky ebbe la sua rivincita, sebbene postuma - è morto nel 1974.
Oggi, sappiamo con certezza che manca qualcosa nel quadro complessivo che usiamo per descrivere il cosmo. L’esistenza della materia oscura è una realtà con cui bisogna fare i conti. Si sono cercate strade alternative per provare a farne a meno (come quelle che prevedono di modificare l’azione della forza di gravità) ma non hanno avuto altrettanto successo. Sembra inevitabile che solo il cinque per cento dell’intero contenuto del cosmo sia fatto della materia che ci è familiare (gli atomi), mentre il venti per cento circa sarebbe costituito da materia non visibile di tipo completamente sconosciuto. E ciò che resta per completare l’inventario sarebbe, da quanto si è scoperto solo recentemente, una forma di energia ancora più esotica, associata allo spazio vuoto.
PARTICELLE ESOTICHE
Messi di fronte all’enigma di cosa potesse essere tutta quella materia che c’è ma non si vede, gli astrofisici hanno dovuto chiamare in soccorso i loro colleghi che studiano la fisica delle particelle elementari. I quali non hanno avuto poi troppe difficoltà a proporre candidati (reali o solo ipotetici) con le caratteristiche adatte al ruolo di inquilino nascosto dell’universo: particelle massicce che non emettono o assorbono radiazione elettromagnetica e che non sperimentano (o quasi) nessuna delle forze note, se non la gravità. Si è provato prima con i neutrini (scartati quasi subito), arrivando poco a poco a suggerirel’esistenzadiparticelle sempre più esotiche, dall’assione al neutralino.
E qui si viene alla nota dolente della questione. Se da un lato gli astrofisici sono assolutamente persuasi del fatto che la materia oscura sia reale, e che se ne possano vedere un po’ ovunque nel cosmo gli effetti gravitazionali che esercita sulla materia ordinaria, i fisici delle particelle elementari non si accontentano, e vorrebbero trovare una prova diretta dell’esistenza delle fantomatiche particelle. Il problema è che acchiappare una particella che è, per sua stessa natura, cocciutamente restia a interagire col mondo, è un’impresa complicatissima.
Eppure, ci si è provato in tutti i modi. Anche perché la posta in gioco è un premio Nobel sicuro. Ma finora non si è arrivato a un risultato conclusivo. L’ultimo in ordine di tempo a deludere le attese di chi spera di afferrare le particelle imprendibili è stato l’esperimento Xenon100, sepolto nelle profondità dei laboratori del Gran Sasso in modo che gli enormi strati di roccia della montagna lo tengano al riparo dalle distrazioni delle particelle ordinarie, lasciando passare soltanto le elusive particelle di materia oscura. Il sensibilissimo rivelatore di Xenon100 avrebbe dovuto vedere i piccoli e rari lampi causati dall’urto delle particelle di materia oscura con il cuore dell’apparato sperimentale (una grossa massa di atomi di xenon liquido purissimo, appunto). E in effetti ne ha visto qualcuno, ma non abbastanza: soltanto tre, un numero compatibile con il fondo naturale di radiazione. Fine della storia?
Le cose sono più complicate. L’e-sperimento DAMA, anch’esso operante nei laboratori del Gran Sasso, ormai da diversi anni riporta evidenze di variazioni stagionali nei segnali catturati dal suo rivelatore: variazioni che sarebberodovutealmotodellaTerra rispetto alle particelle di materia oscura presenti nella nostra galassia. Proprio in questi giorni, un esperimento indipendente chiamato CoGeNT, che prende dati da una miniera in Minnesota, ha annunciato di aver trovato conferma a quanto osservato da DAMA.
Riconciliare il risultato negativo di Xenon100 con quelli di DAMA e CoGeNT è possibile, a patto di abbandonare alcuni dei candidati possibili per la materia oscura a favore di altri. Ma se il cerchio continuasse a stringersi, le alternative potrebbero esaurirsi. Ora gli occhi dei fisici sono puntati a LHC, l’acceleratore del CERN. Tra i tanti prodotti delle tremende collisioni tra protoni che hanno luogo nel suo anello, potrebbe sbucare fuori anche qualcuna delleagognateparticelledimateria oscura. Ma se anche LHC non dovesse trovare traccia delle particelle mancanti, sarà il momento di cominciare a preoccuparsi. E, subito dopo, di farsi venire qualche idea nuova.
Link degli esperimenti: Xenon100: xenon.astro.columbia.edu / DAMA: people.roma2.infn.it/ da ma/web/home.html CoGeNT: cogent.pnnl.gov /
L’esperimento Ams alla ricerca di antimateria, materia oscura e strana
C’è molta Italia nell’ultimo viaggio dello shuttle Endeavour che, salvo imprevisti, partirà venerdì 29 aprile dal Kennedy Space Center alla volta della Stazione Spaziale Internazionale, in orbita a 400 chilometri di altezza.
di Pietro Greco (l’Unità, 27.04.2011)
Italiano è Paolo Nespoli, uno degli astronauti che riceverà l’equipaggio dello shuttle. Italiano è Roberto Vittori, uno degli astronauti che viaggerà con Endeavour. Ma per la gran parte italiano è, soprattutto, il rivelatore Ams (Alpha Magnetic Spectrometer), lo strumento che - come dicono all’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare - porta la Big Science nella «casa spaziale comune».
Ams è uno spettrometro molto particolare. Progettato per rilevare la presenza di una serie di particelle elementari che è pressoché impossibile incontrare sulla Terra o anche produrre nei grandi acceleratori. Gli obiettivi di Ams in realtà sono tre: rilevare antimateria, materia oscura e materia strana. Il primo tipo di materia di cui andrà a caccia Ams, l’antimateria, è conosciuta da poco (non più di ottant’anni) ma molto bene sulla Terra. È costituita di particelle (antielettroni, antiprotoni, antineutroni) del tutto simili a quelle della materia ordinaria - fatta di elettroni, protoni e neutroni - con una sola differenza: hanno carica elettrica opposta.
L’antimateria si produce ogni qual volta, dal vuoto quantistico, si produce materia. Inoltre ogni colta che una particella di materia ne incontra una di antimateria si annichilano. Queste affermazioni generano una domanda cui i fisici cercano di rispondere: perché allora nell’universo c’è materia - perché nella battaglia cosmica ha vinto per ragioni ancora non chiare o perché la fuori ci sono stelle e galassie di antimateria? A questa domanda fondamentale Ams cercherà di trovare una risposta.
Il secondo tipo di materia che Ams cercherà è chiamata «materia oscura». Oscura nel doppio senso: perché non la vediamo e perché non ne conosciamo la natura. Sappiamo - se le nostre teorie cosmologiche sono giuste - che là fuori ce ne deve essere tanta: solo il 4% del cosmo, infatti, è costituito da materia ordinaria, oltre un quarto è costituito da questa «materia oscura» e la restante parte è costituito da «energia oscura». Ams ha il compito di dare un grosso contributo ad attenuare la nostra ignoranza sugli elementi costitutivi dell’universo. Il terzo tipo di materia di cui Ams sarà a caccia è detta «materia strana» ed è costituita da particolari tipi di quark.
Perché l’esperimento Ams, diretto dal premio Nobel Samuel Ting, parla bene l’italiano? Per molti motivi. Perché il vice responsabile è l’italiano Roberto Battiston, perché hanno dato un contributo determinante a realizzarlo i fisici e i tecnici dell’Infn e dell’Asi, perché molta tecnologia è stata prodotta in Italia, anche da piccole e media aziende. A dimostrazione che in questo nostro strano paese, malgrado tutto, sappiamo ancora eccellere in molti settori scientifici di punta. Una capacità che costituisce un patrimonio da non disperdere.
CHE COS’È E CHE COSA INDAGHERÀ
Ams (Alpha Magnetic Spectrometer) è un rivelatore di particelle progettato per essere collocato sulla ISS, l’avamposto dell’uomo nello spazio, che orbita a 400 km di altezza. Il suo compito è quello di intercettare e identificare con i suoi rivelatori tipi di particelle elementari che non si possono riprodurre sulla Terra con gli acceleratori. Particelle che potrebbero rivelare l’esistenza di antistelle e antigalassie o darci qualche indizio in più sulla natura della materia oscura, che dovrebbe costituire circa un quarto di tutto l’Universo. Ams registrerà il passaggio di decine di miliardi di raggi cosmici provenienti dalle profondità dello spazio, misurandoli prima che si scompongano o si annichiliscano nell’interazione con l’atmosfera del nostro pianeta. Setacciando e analizzando questa enorme quantità di dati con tecnologie avanzatissime, i ricercatori sperano di trovare tracce preziose di questa materia sconosciuta, di poterla misurare e comprendere, in uno straordinario sforzo scientifico e di conoscenza.
Intervista
“Parte il cacciatore dell’Universo invisibile”
Dopodomani verrà lanciato con lo shuttle l’esperimento “Ams”
Dovrà scoprire i segreti della materia oscura e dell’antimateria
di Gabriele Beccaria (La Stampa TuttoScienze, 27.04.2011)
Sei giorni per portarlo in orbita e installarlo sulla Stazione Spaziale e poi il settimo - come in un’epifania biblica - inizierà a raccogliere dati e li invierà a Terra. L’occhio sull’Universo e sui suoi misteri sta per partire: l’appuntamento è per dopodomani, a bordo dello shuttle «Discovery». Grande quanto un autobus, pesa quasi 7 tonnellate e costa 1 miliardo e mezzo: si chiama «Ams», acronimo di Alpha magnetic spectrometer», ed è un peccato che ingegneri e scienziati non gli abbiano trovato un nome più evocativo, adeguato all’enfasi della sua missione.
Professor Roberto Battiston, lei è viceresponsabile dell’esperimento ideato con il Nobel Paul Ting e coordinatore italiano: «Ams» dovrà rispondere a domande da brivido sul passato e sul futuro del cosmo, legate alla ricerca di 3 tipi di materia: l’antimateria, la materia oscura e la materia «strana».
«E’ così. La prima domanda è questa: se nei primi momenti dell’Universo c’era una perfetta simmetria, con tante anti-particelle quante particelle, che fine hanno fatto le prime? Sappiamo che almeno una parte su 10 miliardi di materia è sopravvissuta all’annichilazione iniziale, e questa parte siamo noi e l’Universo visibile, ma allora dov’è la corrispondente parte di antimateria?».
Finora quale risposta ci si è dati?
«L’antimateria potrebbe essere sparita, perché la simmetria nascosta delle leggi della fisica l’avrebbe fatta “morire” più facilmente della materia. Finora, però, non abbiamo trovato indizi di questa possibilità. Un’altra teoria è che si sia creata un’isola di antimateria, anche se non la vediamo, perché, quando studiamo le galassie più lontane, non capiamo se siano fatte di materia o antimateria».
Che cosa vi aspettate di scoprire?
«O l’antimateria è davvero scomparsa, e in questo caso dovremo concentrarci sul perché, oppure - e sarebbe un esito clamoroso - vedremo qualche antinucleo di carbonio, ossigeno o elio e potremo dedurre che ce ne sono quantità enormi in qualche zona lontana dell’Universo».
Perché l’esito sarebbe clamoroso?
«A parte l’idrogeno e l’elio, gli atomi della tabella di Mendelev sono stati costruiti nel cuore delle stelle attraverso fusioni ad altissima temperatura tra atomi leggeri. Succede anche nel Sole: quando morirà, espellerà frammenti di materiali pesanti, che a loro volta si ricompatteranno in nuove stelle, che genereranno atomi ancora più pesanti, dal ferro all’uranio. La storia della Terra e dell’evoluzione è esattamente questa: una serie di trasformazioni realizzate in grandi fucine nucleari. Se trovassimo anche un solo antinucleo di carbonio o di ossigeno, significherebbe che ci sono delle antistelle al lavoro, che realizzano gli stessi processi di cui parlavo, ma a partire dall’antimateria».
Basterebbe un solo antinucleo?
«Sì. Avremmo l’indicazione che ne esistono quantità enormi, con intere galassie e “isole” nell’Universo. Sarebbe una scoperta straordinaria».
Seconda questione: la materia oscura: esiste e come la si trova?
«E’ noto che nell’Universo esiste una massa invisibile 6 volte maggiore di quella che vediamo e che emette luce. Ecco perché è stata chiamata materia oscura: non sappiamo che cosa sia, ma determina la forza gravitazionale delle galassie. Ora stiamo cercando in tanti modi le sue particelle: sulla Terra, nei laboratori del Gran Sasso, per esempio, e nello spazio, studiando le distorsioni delle distribuzioni dei raggi cosmici noti».
Il terzo tipo di materia che cercherà di intercettare «Ams» è quella «strana»: che caratteristiche ha?
«Se ne parla a proposito delle stelle di neutroni: quando una stella troppo grossa implode, può produrre un “nocciolo” che non è più formato di atomi, ma è un unico e gigantesco nucleo atomico di neutroni. I fisici teorici hanno dimostrato che questi neutroni potrebbero contenere un tipo particolare di quark, i quark “strani”».
E che stelle sarebbero?
«Sarebbero stelle debolmente cariche e frammenti di queste stelle potrebbero arrivare sulla Terra con caratteristiche peculiari: una massa molto grossa, 100 volte quella di un nucleo di idrogeno, ma una carica elettrica debolissima. Ecco perché saremmo di fronte alla materia “strana”: vìola il rapporto di equivalenza tra protoni e neutroni nella massa atomica. Ma non basta ancora. A parte antimateria, materia oscura e materia “strana”, la ragione più affascinante che ci spinge a fare tutte queste misure di precisione è la speranza di scoprire qualcosa che non ci aspettiamo: la logica che ci guida è la sorpresa».
Sorprese che rivoluzioneranno la concezione dell’Universo?
«Viviamo un momento storico incredibile: se apriamo i libri di testo, dobbiamo ammettere di conoscere meno del 4-5% del bilancio materiaenergia dell’intero Universo, mentre c’è un 95% di cui sappiamo di non sapere nulla. Stiamo andando un po’ alla cieca, ma le domande esistono».
E per tentare delle risposte quando comincerete a leggere i dati in arrivo dai 650 computer di «Ams»?
«Prestissimo. Il braccio robotico dello shuttle consegnerà “Ams” a quello della Stazione e sarà questo a collocarlo a un’estremità della struttura orbitante: a quel punto ci sarà un clic, anche se nello spazio non si sentirà, e si attiveranno tutte le connessioni elettriche, dando immediatamente il via all’esperimento».
In pratica, che cosa osserverete?
«A differenza di un telescopio che deve mettere a fuoco un “pezzo” di cielo, e si tratta di un’operazione che richiede tempo, “Ams” dovrà misurare e identificare le particelle che lo attraversano: già dopo pochi minuti dall’accensione vedremo subito se tutto funziona regolarmente».
Sarà un diluvio di dati, giusto?
«In effetti si tratta di un ritmo impressionante, anche 2 mila particelle al secondo che satureranno i software e in tempo reale riempiranno i database per la consultazione. Poi seguirà la seconda fase, con l’analisi raffinata delle caratteristiche delle particelle stesse: ci vorranno settimane, mesi e anche anni, soprattutto per gli eventi più rari e anomali, che richiederanno lunghe catene di verifiche e controlli».
All’esperimento partecipano 600 ricercatori di 16 nazioni e 60 sono italiani: è un ruolo di primo piano.
«Sì. Il nostro è un contributo molto importante - che vale il 25% del progetto - grazie all’Infn e all’Asi e per questo avremo un accesso facilitato ai dati e per molto tempo: “Ams” sta per diventare parte integrante della Stazione e quindi funzionerà almeno fino al 2020 e forse fino al 2028. Non ci sono elementi di consumo a bordo: si spegnerà quando si spegnerà la Stazione».
Si è acceso Icarus: dovrà svelare i segreti dell’Universo
L’obiettivo è capire i misteriosi «neutrini»
di Carlo Rubbia (Corriere della Sera, 29.03.2011)
La parola neutrino è italiana, coniata da Enrico Fermi nel 1934 per caratterizzare queste particelle dalle più straordinarie proprietà. Ogni secondo, di giorno come di notte, senza rendercene conto, siamo attraversati su ogni centimetro quadrato da ben 65 miliardi di neutrini solari, ad una velocità vicina a quella della luce. La maggioranza di questi neutrini proviene dal Sole e attraversa quasi senza effetti sia il Sole che la nostra Terra perdendosi nell’immensità del fondo cosmico.
I neutrini sono simili ai ben più familiari elettroni, ma con una cruciale differenza, quella di essere elettricamente neutri e influenzati solamente dalla forza debole trasmessa dai bosoni W e Z, per la cui scoperta al Cern ho ricevuto assieme a Van der Meer il premio Nobel per la Fisica nel 1984. Un grandissimo numero di neutrini sono anche prodotti da certi tipi di decadimenti radioattivi e da reazioni nucleari come quelle prodotte dal Sole, dai raggi cosmici e soprattutto dai reattori nucleari. Forse pochi sanno che una importante frazione dell’energia prodotta dalla fissione nucleare sfugge sotto forma di neutrini.
Postulato da Pauli nel 1930, il neutrino fu rivelato sperimentalmente nel 1956 da Cowan e Reines, che ricevettero solo quarant’anni dopo il premio Nobel. Il 23 febbraio 1987 neutrini provenienti dall’esplosione della supernova SN 1987A a 168 mila anni luce furono rivelati sperimentalmente in laboratori sotterranei in Giappone e negli Usa, la più luminosa esplosione stellare vista ad occhio nudo da quando Keplero osservò una supernova nel 1604.
Oggi sappiamo che i neutrini saranno la fine ultima della morte di ogni stella, incluso il nostro Sole, ma fortunatamente solo tra circa cinque miliardi di anni! Per comprendere l’immensità dell’Universo che ci circonda, basti pensare che all’incirca ogni secondo una nuova supernova esplode, trasformandosi in neutrini, da qualche parte dell’Universo!
I fisici sono quindi convinti che i neutrini siano uno dei più importanti e straordinari fenomeni cosmologici, in gran parte ancora tutti da scoprire, come confermato peraltro dai numerosi premi Nobel per la Fisica attribuiti a questo soggetto. Basti pensare che assieme a ogni protone proveniente dalla primordiale nucleosintesi, quella che generò circa tre minuti dopo il Big Bang tutta la materia conosciuta dell’universo - i famosi tre minuti così ben descritti dal libro di Steve Weinberg - sono generati ben un miliardo di neutrini, che ancora oggi attraversano lo spazio cosmico.
Come inizialmente postulato dal nostro Bruno Pontecorvo e dimostrato da numerosi esperimenti, oggi sappiamo che esistono almeno tre tipi diversi di neutrini. Uno dei fenomeni più straordinari è che essi spontaneamente «oscillano» tra di loro e cioè viaggiando a grandi distanze si trasformano continuamente tra di loro.
Da qui l’estremo interesse ad esempio del fascio di neutrini proveniente dal Cern di Ginevra che attraversando le Alpi e gli Appennini a grande distanza sottoterra, risale in superficie grazie alla rotazione della Terra e viene rilevato, unico in Europa, nei laboratori del Gran Sasso presso L’Aquila a circa 800 chilometri di distanza.
I nostri esperimenti al Gran Sasso stanno mostrando ogni giorno di più come i neutrini risultanti alla fine di questo lungo viaggio siano profondamente diversi da quelli inizialmente prodotti. Questi esperimenti sono anche centrali ad un’altra delle più straordinarie scoperte degli ultimi anni e cioè l’evidenza sperimentale di quella che comunemente si chiama la «materia oscura» , che diede tra l’altro il premio Nobel nel 2006 a John Mather e a George Smoot per il successo del satellite Cobe lanciato nel 1989 e del loro successivo prodigioso lavoro di ricerca con più di mille tra ricercatori e ingegneri.
Questo straordinario risultato, oggi confermato da molteplici osservazioni cosmologiche, ci dice che la materia ordinaria, quella di cui siamo fatti e caratterizzata dalla ben nota tabella degli elementi chimici di Mendeleiev, non è la forma predominante della materia dell’Universo e che una ben altra componente, molto più massiva, invisibile e fino ad ora completamente sconosciuta, in realtà controlla, grazie alla sua forza gravitazionale, la massa dell’Universo tutto intero.
Da qui l’immenso interesse di scoprire la presenza in laboratorio e la vera natura della materia oscura che senza dubbio ci attraversa continuamente, un risultato le cui conseguenze immense superano largamente quelle della fisica e cosmologia, della stessa importanza della rivoluzione copernicana quando si dimostrò che la Terra non era il centro dell’Universo. Lo studio della materia oscura è un altro argomento portante dell’Infn e dei laboratori del Gran Sasso. Quest’ultimo e quello dei neutrini sono ambedue campi di ricerca ancora tutti da scoprire.
E’ forse anche possibile che la materia oscura origini in una forma ancora da scoprire dovuta ai neutrini e più precisamente ai cosiddetti neutrini sterili. Ma potrebbe essere anche qualcosa d’altro, come ad esempio le particelle Susy che sono un soggetto centrale di ricerca dell’acceleratore Lhc al Cern di Ginevra. E’ questo un magnifico e meraviglioso esempio di quello che Galileo Galilei battezzò come «filosofia naturale» : solo l’esperimento potrà darci le risposte che ci attendono. E’ indubbio che queste grandissime potenziali scoperte necessitino di nuovi, più potenti strumenti di osservazione.
Da qui l’importanza dell’evento che si celebra oggi ai laboratori del Gran Sasso con l’inaugurazione dell’ esperimento Icarus, un programma di altissimo livello fondato sulla tecnica innovativa di liquidi criogenici di elevatissima purezza e di centrale importanza tanto per lo studio dei neutrini a grande distanza che per il problema della materia oscura. E’ questa un’occasione per celebrare vent’anni di originale ricerca e sviluppo attraverso la realizzazione concreta in Italia di uno strumento scientifico di grandi dimensioni, di altissima tecnologia e fino ad ora unico al mondo, e che, peraltro seguendo il nostro esempio, sia americani che giapponesi hanno iniziato a sviluppare e perseguire.
*Premio Nobel per la fisica
FISICA
Il Cern cattura l’antimateria grande mistero dell’universo
Per la prima volta, gli atomi specchio non sono scomparsi un attimo dopo la loro creazione. Permetteranno di capire come la materia e il suo opposto non si siano annullati al momento del Big Bang. E gli scienziati si divertono a ricordare Dan Brown
di ELENA DUSI *
CHIUSI in una "bottiglia", destano la stessa curiosità di un alieno piovuto sulla Terra. Sono frammenti di antimateria: testimoni di un universo misterioso e insieme protagonisti di romanzi thriller. I laboratori del Cern non solo hanno prodotto degli atomi di anti-idrogeno, ma per la prima volta oggi sono anche riusciti a "catturarli" prima che svanissero in una nuvola di energia.
L’antimateria è infatti una sorta di realtà capovolta, estremamente rara in natura, in cui i protoni hanno carica elettrica negativa e gli elettroni positiva. Quando entrano in contatto, materia e antimateria si annullano a vicenda creando una scarica di energia. Per questo le anti-particelle che finora il Cern (l’Organizzazione europea per la ricerca nucleare) era riuscito a creare in laboratorio erano svanite nel giro di pochi millisecondi: il tempo necessario a entrare in contatto con le pareti del contenitore fatte di materia.
L’esperimento Alpha condotto a Ginevra è riuscito ora a confinare 38 atomi di anti-idrogeno (formati da un protone negativo e un elettrone positivo). È stato necessario raffreddarli a meno 272 gradi (temperatura vicina allo zero assoluto) e poi usare un campo magnetico per spingerli al centro del contenitore, a debita distanza dalle pareti. Delle migliaia di particelle "aliene" create da Alpha, 38 hanno vissuto abbastanza a lungo (1,7 decimi di secondo) da poter essere studiate dai fisici. I risultati dell’esperimento vengono pubblicati giovedì da Nature.
Uno dei grandi misteri della cosmogonia riguarda proprio lo squilibrio fra materia e antimateria. Della prima è fatto tutto il nostro mondo. Della seconda esistono solo tracce infinitesime dell’universo. Il motivo è ignoto a tutti. E se le due si fossero trovate in perfetto equilibrio al momento del Big Bang, si sarebbero annullate a vicenda, riducendo l’esistenza del cosmo a un istantaneo scoppio di energia e nulla più.
"Per ragioni che nessuno comprende, la natura esclude la presenza dell’antimateria. Sapere che ne abbiamo intrappolati alcuni atomi nei nostri apparecchi ci dà una sensazione davvero speciale", spiega Jeffrey Hangst dell’università danese di Aarhus, responsabile di Alpha. "Ora che l’abbiamo raggiunta, siamo pronti a carpire i suoi segreti".
Il Cern è l’unico laboratorio al mondo con la tecnologia necessaria a catturare la materia-specchio, la cui esistenza fu teorizzata nel 1931 da Paul Dirac ed effettivamente osservata l’anno successivo. I primi 9 atomi di anti-idrogeno furono prodotti a Ginevra nel 1995. Nel 2002 le tecniche furono affinate tanto da permettere una produzione su larga scala. Negli ospedali, gli apparecchi Pet utilizzano correntemente i positroni (ovvero elettroni positivi) per la diagnosi di alcune malattie.
La fiction (e in particolare Dan Brown con Angeli e Demoni) ci ha messo poco a trasformare le fantomatiche bottiglie di antimateria in armi capaci di far esplodere il mondo. Ma Andrea Vacchi, scienziato italiano dell’Istituto nazionale di fisica nucleare, tranquillizza: "È davvero impossibile portare l’antimateria a spasso come accade nel romanzo". L’anti-idrogeno resta un regalo goloso per i fisici: eventuali differenze fra l’idrogeno e il suo opposto potrebbero indicarci dei "difetti" nello specchio della natura. E farci capire come mai sulla bilancia del cosmo oggi la materia di cui siamo fatti prevalga con tanto margine sull’antimateria.
* la Repubblica, 17 novembre 2010
Viaggio alle origini dell’Universo
di Cristiana Pulcinelli *
Se pensate che la domanda «da dove veniamo?» non abbia alcun senso, allora LHC non fa per voi.
Ma se, magari guardando il cielo stellato sopra la vostra testa, siete stati per un attimo sfiorati dalla voglia di sapere qualcosa sull’origine dell’universo, allora seguite attentamente quello che questa macchina farà nei prossimi anni.
LHC e gli esperimenti che ad esso sono collegati sono frutto di due caratteristiche della nostra specie: una smisurata curiosità e un’alta opinione di sé.
Noi uomini pensiamo non solo di poter giungere a capire cosa è successo 13,7 miliardi di anni fa, quando il nostro universo è nato, ma addirittura di trovare le prove delle nostre teorie. Così abbiamo deciso di costruire la macchina più potente e precisa mai fatta finora per arrivare a capire da dove veniamo e, forse, perché siamo così come siamo.
LHC sta per Large Hadron Collider. Si tratta di un acceleratore di particelle davvero molto potente. Il progetto della sua costruzione venne approvato nel 1994 dal consiglio del Cern (Conseil Européen pour la recherche nucléaire) e tra il 1996 e il 1998 furono approvati i 4 esperimenti che ad esso sono collegati. Da allora ad oggi si è lavorato alla costruzione di questo immenso macchinario. Ancora non è pronto, ma manca pochissimo: l’inaugurazione è prevista ad ottobre del 2008. Poi ci vorranno ancora un paio d’anni perché la macchina funzioni alla sua massima potenza.
L’acceleratore giace a 100 metri sotto il livello del suolo e si estende per 27 chilometri a cavallo tra la Svizzera e la Francia. Il tunnel circolare che lo ospita venne costruito per il vecchio acceleratore, Lep, smantellato nel 2000 per far posto al suo fratello maggiore. LHC è 100 volte più potente del Lep e 10 volte più potente dell’acceleratore americano Tevatron che si trova al Fermilab di Chicago. Quando entri nelle viscere della terra dove LHC riposa, vedi quante parti lo compongono e la moltitudine di gente che ci lavora, capisci perché i fisici delle particelle sono convinti che dopo di lui sarà il diluvio. Ovvero, che una macchina più grande di questa non verrà mai costruita. Lo sforzo compiuto per far vivere LHC e i suoi esperimenti è davvero immane.
Visitare il tunnel fa un certo effetto: la fine non si vede, al suo centro i tubi si estendono a perdita d’occhio. All’interno di quei tubi corrono i protoni, le particelle che normalmente si trovano nel nucleo degli atomi. I protoni corrono in due fasci di direzione opposta e vengono fatti accelerare fino a raggiungere il 99,9998% della velocità della luce. A intervalli regolari, i tubi sono incapsulati dentro dei magneti superconduttori che mantengono i protoni concentrati in un fascio di spessore inferiore a quello di un capello. Ce ne sono 9000 in tutto e sono nel luogo più freddo dell’universo: vengono tenuti infatti alla temperatura di -271 gradi centigradi grazie all’elio superfluido.
Tolte le apparecchiature, lo spazio restante nel tunnel non è molto, diciamo meno di due metri di larghezza. Il carrello che trasportava i vari componenti durante il montaggio della macchina aveva mezzo centimetro di gioco per ogni lato. Dato che doveva procedere con una lentezza esasperante, accadeva che il guidatore si addormentasse, così è stata tracciata una linea bianca a terra e il carrello è stato dotato di un lettore laser. Oggi, in quello spazio c’è una pista ciclabile: i tecnici vanno in bici per raggiungere i punti più lontani. Tutti con il casco in testa e, a tracolla, un kit che permette di respirare ossigeno in caso di incendio o di fuoriuscita di elio. Il punto più lontano da una delle uscite si trova a 1,7 chilometri: una distanza difficile da percorrere a piedi in caso di pericolo. Quando LHC entrerà in funzione nessuno potrà più entrare nel tunnel.
In quattro punti distinti dell’anello i fasci si incontrano e i protoni si scontrano producendo energia. Lì si aprono delle enormi caverne dove sono ospitati i quattro esperimenti di LHC: Atlas, CMS, Alice, LHCb. Atlas è il più grande: nella caverna che lo ospita ci starebbe mezza cattedrale di Notre Dame. Anche gli altri, tuttavia, non scherzano. Basti pensare che il magnete di CMS contiene tanto ferro quanto tutta la Torre Eiffel.
Ora che ancora non sono entrati in funzione si possono visitare dall’interno. La prima cosa che viene in mente è: così doveva essere il cantiere della Torre di Babele. Migliaia di lavoratori di tutte le nazionalità lavorano fianco a fianco. Inglese, francese, italiano, russo, indiano: le lingue si intrecciano nell’aria, ma anche sui cartelli appesi alle pareti che indicano l’uscita o i turni di lavorazione. «Tutti sentono di partecipare a un grande progetto» ci spiega la nostra guida. Se così non fosse, del resto, potrebbero dedicare vent’anni della loro vita a quest’idea? Intanto, tredici anni sono già passati a lavorare senza sapere se la macchina funzionerà. Tra gli operai, ci dicono, ci sono molti fisici russi: in patria le cose non vanno bene, così vengono qui a mettere a disposizione le loro conoscenze. Loro sanno che la precisione è fondamentale, anche nei dettagli. Sarà il clima che si respira, ma sembra di capire che qui potrebbe venir messo in discussione l’universo così come lo conosciamo.
Il fatto è che molte cose dell’universo ci sono ancora poco chiare. Ad esempio, la massa. Perché le particelle elementari sono dotate di massa e perché le loro masse sono diverse le une dalle altre? La fisica teorica ha supposto l’esistenza di una particella, chiamata il bosone di Higgs, che spieghi questo fatto: l’interazione delle particelle con questo bosone determinerebbe la loro massa. Ma purtroppo il bosone di Higgs finora non è mai stato visto.
Un altro mistero da svelare riguarda l’antimateria. L’antimateria è l’immagine speculare della materia: se per strada incontraste un’automobile fatta di antimateria non la distinguereste da quella fatta di materia. Ma se i due oggetti entrassero in contatto l’uno con l’altro, si annichilerebbero a vicenda lasciandosi alle spalle solo energia. I fisici ritengono che al momento della nascita dell’universo materia e antimateria siano state prodotte nella stessa quantità. Quando materia e antimateria si scontravano si annullavano a vicenda. Oggi però il nostro universo, dalle galassie al giornale che state leggendo, è fatto tutto di materia. Dove è finita l’antimateria? E perché la materia ha prevalso? Se potessimo vedere l’antimateria prodotta dal Big Bang, forse ne sapremmo di più.
Sempre in tema di questioni irrisolte: la materia oscura. Secondo i calcoli dei fisici, tutta la materia che noi vediamo è solo il 4% della massa totale dell’universo. Per spiegare alcuni effetti gravitazionali, si deve supporre l’esistenza di una materia oscura e una energia oscura che non possiamo vedere. Si pensa che l’universo sia composto per il 30% da materia oscura. Ma dove sono le sue particelle?
E ancora, alcuni fisici teorici ipotizzano che le nostre quattro dimensioni siano troppo poche per descrivere l’universo. Ce ne sarebbero altre che però non possiamo vedere. Aumentando l’energia saremo in grado di individuarle?
Gli esperimenti di LHC cercano risposte a queste domande. Le collisioni tra protoni, infatti, generano un’energia molto intensa, pari a quella che si poteva misurare qualche frazione di secondo dopo il Big Bang. Questo permette a particelle che oggi non ci sono più di tornare in vita. Ma la loro sopravvivenza dura una piccolissima frazione di secondo, poi si disintegrano dando vita a particelle conosciute. Ebbene, gli esperimenti di LHC vogliono vedere queste particelle prima che scompaiano di nuovo. In particolare, Atlas e Cms, con i loro rivelatori, cercano di «fotografare» quelle, come il bosone di Higgs, che darebbero risposta alle domande cui abbiamo accennato prima. E forse anche a qualcun’altra: «Se fossimo molto fortunati - spiegano i fisici - potremmo trovare il gravitone». Il gravitone è la particella che porta la forza di gravità, ma anch’esso, finora, è solo un’ipotesi. Alice e LHCb, invece, sono esperimenti più piccoli che lavorano su due campi specifici: il primo, attraverso le collisioni tra i nuclei di piombo, cercherà di ricreare uno stato della materia esistito per pochi milionesimi di secondo dopo il Big Bang; il secondo focalizzerà i suoi sforzi per capire il comportamento di materia e antimateria subito dopo il Big Bang.
Si dice che sui paesi che collaborano all’esperimento Atlas non tramonti mai il sole perché gli scienziati vengono da tutte le aree del mondo, escluso l’Antartide. E a CSM collaborano 2500 tra fisici, ingegneri e studenti provenienti da 135 istituti sparsi in 38 paesi. L’Italia ha un peso rilevante, non solo perché in quanto membro del Cern vi investe soldi, ma anche perché molti scienziati italiani partecipano all’impresa (l’Istituto nazionale di fisica nucleare coordina i circa 600 scienziati italiani che lavorano a LHC). Inoltre, l’industria italiana ha prodotto molte componenti di precisione.
Al Cern dicono che LHC può avere anche applicazioni tecniche: dalla medicina all’industria. Ben vengano, ma il centro della questione è un altro: il fatto che si sia trovato un accordo così vasto per finanziare un’impresa fondamentalmente conoscitiva ci fa ben sperare sulle sorti della nostra specie.
* l’Unità, Pubblicato il: 29.09.07, Modificato il: 29.09.07 alle ore 8.55
FESTIVAL
«Spoletoscienza» 20 anni dopo
Si tiene sabato e domenica la ventesima edizione di Spoletoscienza (a Spoleto, Chiostro San Nicolò), appuntamento nato nel 1989 come sezione aggiunta al Festival dei Due Mondi. Sabato, nell’incontro dal titolo «La Scienza al tramonto del secolo breve», dopo una relazione di Martin Bauer, reader in Social Psychology and Research Methodology della London School of Economics, sono previsti gli interventi di Alison Abbott, Paolo Fabbri, Paolo Rossi e dell’astrofico di Cambridge John Barrow.
L’impronta sull’universo
Il cosmo si espande secondo una rotta precisa, l’unica a consentire la nascita della vita.
Parla John Barrow, teorizzatore del «principio antropico»
di LUIGI DELL’AGLIO (Avvenire, 10.07.2008)
L’ universo si espande, ma non a caso. Se crescesse un po’ più rapidamente o un po’ più lentamente, la vita non esisterebbe affatto. Energia oscura: per capire questo mistero dell’universo bisogna ricorrere a una cifra illeggibile, pari a 10 seguito da 120 zeri. Bene, sarebbe bastata la mancanza di uno solo di questi zeri per mandare a monte il programma della vita nell’universo.
John D. Barrow, 55 anni, uno dei più grandi matematici e cosmologi viventi, torna con nuove ragioni a sostenere che l’universo è stato fatto per la vita e per il genere umano, come affermava anche nel libro che gli ha dato fama: The Anthropic Cosmological Principle, del 1986. Docente all’Università di Cambridge, insignito del premio Templeton 2006 («per aver contribuito al progresso della conoscenza in materia di scienza e religione») e del Queen’s Anniversary Prize, Barrow parlerà a Spoletoscienza sabato, presentando il suo ultimo libro, Cosmic Imagery.
Quanto manca perché la ricerca astrofisica possa risalire all’attimo del Big Bang, la grande esplosione che ha dato origine all’Universo?
«Siamo in grado di produrre una ben dimostrata ricostruzione storica dell’universo giovane, tornando indietro fino a un secondo dopo la sua tumultuosa nascita. In quel momento, la materia è un po’ più densa dell’acqua. Poi, entro i primi tre minuti, l’universo si comporta come un grande reattore nucleare che produce deuterio, elio e litio. Subito dopo si espande. E oggi le osservazioni astronomiche confermano il modello Big Bang, accettato da quasi tutti i cosmologi. Non c’è accordo, invece, sulla complicata sequenza di eventi che dal Big Bang porta alla formazione di galassie, stelle e pianeti».
Quand’è che l’Universo comincia a creare le condizioni favorevoli alla vita?
«Per poter disporre dei ’mattoni’ necessari, occorrono elementi più pesanti dell’idrogeno e dell’elio che compaiono nei primi minuti dal Big Bang. Gli elementi interessanti dal punto di vista biochimico, come il carbonio, sono prodotti dall’idrogeno e dall’elio nelle fornaci nucleari delle stelle. Quando le stelle muoiono, questi elementi si disperdono nello spazio e trovano la loro via nei pianeti e negli esseri viventi. Il processo dell’alchimia nucleare è lungo e lento. Ha bisogno di miliardi di anni. Perciò, per creare le condizioni favorevoli alla vita, l’universo deve essere grande, vecchio, buio e freddo».
Deve allontanarsi dall’immenso calore dell’universo giovane. E diventare grande. Ma perché anche buio?
«Man mano che ci si allontana dal Big Bang, l’energia cosmica ha una densità troppo bassa perché l’universo sia luminoso di notte. Più in generale, la stessa densità media dell’universo è veramente bassa: stelle e galassie sono separate da crescenti distanze astronomiche. Gli avamposti si allontanano. La vastità e la dispersione che regnano nell’universo avevano indotto non pochi filosofi a negare il carattere teleologico, cioè finalistico, del cosmo. Ma le apparenze ingannano. La scoperta dell’espansione dell’Universo (prevista dalla teoria generale della relatività, di Albert Einstein) ha mostrato la sottigliezza e la complessità della moderna cosmologia».
Perché l’Universo continua a espandersi?
«Ecco un mistero. L’universo segue una ’rotta’, diciamo così, ed è altamente improbabile che sia stata segnata dal caso. È uno spartiacque molto preciso: se l’Universo si espandesse troppo velocemente, non riuscirebbe ad aggregare materiale nelle galassie e nelle stelle (e non si formerebbero i mattoni della vita); se si espandesse troppo lentamente, collasserebbe in un processo di crescente contrazione e non durerebbe quei miliardi di anni necessari perché si formino le stelle. È fantastico che l’Universo abbia mantenuto questa rotta per quattordici miliardi di anni».
In quali direzioni punta oggi la ricerca cosmologica?
«Scopriamo sempre nuove cose sulla ’corsa’ dell’universo. Ma c’è un altro enigma, molto stringente, da spiegare. Come rilevano i più avanzati telescopi, pochi miliardi di anni fa l’espansione sembra aver subito un’accelerazione che è tuttora in atto. È come se il moto inflazionario dell’universo sia ripreso da capo. La spinta verrebbe dall’energia oscura che rappresenta circa il 70% di tutta l’energia cosmica. Secondo tutti i calcoli eseguiti, per poterne valutare l’importanza occorre considerare un numero spropositato: dieci seguito da centoventi zeri. Se questa cifra avesse perduto un solo zero, addio galassie, stelle e forme di vita (compresa la nostra)».