IL NOBEL A PAMUK
Elogio dell’artista non militante
di Barbara Spinelli *
A prima vista sembrerebbe che il premio Nobel sia andato a un letterato d’Oriente che ha acquisito grandezza grazie alle virtù dell’impegno: il tanto discusso engagement, che gli occidentali conobbero ai tempi di Sartre.
Di Orhan Pamuk si ricordano in questi giorni le battaglie care all’Europa, all’Occidente: l’indignazione per la fatwa che nell’89 colpì Rushdie, l’ostracismo e le minacce che il romanziere turco subì quando nel febbraio 2005 ebbe la sfacciataggine di dire, al giornale svizzero Tages-Anzeiger, una verità che i politici turchi non intendono ammettere: «Un milione di armeni e 30.000 curdi sono stati uccisi su queste terre, ma quasi nessuno ne parla a parte me. Per questo i nazionalisti mi odiano».
Pamuk non usa la parola genocidio a proposito degli armeni, ma il solo evocarli fu considerato un «insulto all’identità turca». Schieramento politico dunque, più che arte; militanza, più che romanzo: il pensiero che ha guidato i giurati di Stoccolma sembra esser questo, se del premiato scordiamo l’opera.
Le cose tuttavia non stanno così, a vederle da vicino. Troppo grande è la riluttanza di Pamuk a considerarsi un impegnato novecentesco, trapiantato nel nostro secolo. La parola stessa - impegno - è qualcosa che aborre: quando parla di militanza prende subito le distanze e dice che è «caduto nella politica» come si cade in un «destino malvagio». Non è Sartre e neppure Zola il suo modello, ma Nabokov, Dostoevskij, Proust.
L’impegno spinge a vedere il mondo in due colori (bianco-nero, bene-male) mentre Pamuk ama una gamma multipla di toni. I colori sono un Leitmotiv delle sue opere: il rosso che adora (e addirittura prende la parola come fosse un personaggio, in un capitolo de Il mio nome è rosso); il bianco che paralizza come nel Moby Dick di Melville (Neve); il «velluto del buio» che è Allah. Non è la militanza che l’ha reso grande ma questo andirivieni di colori, civiltà, passioni. L’impegno è un sottoprodotto della sua arte e non viceversa: è l’essere artista e non l’esser militante che gli dà quest’inusuale libertà di giudizio. La scelta di premiarlo è ben più saggia di quel che appare.
Leggere i romanzi di Pamuk aiuta a vivere il tempo che traversiamo proprio per questa sua allergia all’impegno univoco. Perché son romanzi che non connettono le cose le une alle altre ma incessantemente le sconnettono, scompongono le storie collettive e individuali, mostrando come solo la diversità di esperienze e caratteri produca quello cui tutti agogniamo: lo scintillio. Anche nelle sue posizioni politiche c’è questo scintillio, perché le idee che espone son sempre contraddittorie, mai accampano un’esclusiva verità, mai si presentano - capziose - come filo-occidentali. Si abbatte sull’Occidente l’11 settembre, e Pamuk ricorda l’umiliazione di un mondo arabo e musulmano che non sopporta l’arrogante Occidente. Vince Erdogan in Turchia, e Pamuk se la prende con le visioni sempliciste e demonizzanti sull’Islam, e con un’Europa e un’America che non mossero un dito, quando Erdogan fu incarcerato dal potere per aver recitato una innocua poesia musulmana.
Tutti parlano di guerra tra Occidente cristiano e Oriente musulmano, e lui ricorda che Oriente e Occidente devono poter vivere l’uno accanto all’altro, mescolandosi ma restando se stessi. Se non riescono a convivere è perché non hanno memoria di quel che sono, riducendo la propria molteplicità a un’unica identità: il cristianesimo in Europa, l’Islam a Oriente. Ricordare è quel che non dà confini al variare di colori e consente lo scintillio, anche quando il ricordo è orrido e provoca vergogna.
L’opera di Pamuk è così multicolore perché abitata dal ricordo. Ricordo del Libro dei Re scritto nella Persia dell’anno Mille, ricordo della fantastica scuola miniaturista di Herat nel ’400 quando fa apparizione il ritratto, e giungendo all’oggi: ricordo del romanzo ottocentesco, dell’impero ottomano, della distruzione delle minoranze in Turchia. Quel che lo interessa è l’affanno scabroso dei ricordi, quando per occultarli si edificano tabù. Parlando della questione armena a Le Monde, il 4 novembre 2005, ha detto: «Quando si cerca di reprimere i ricordi, c’è sempre qualcosa che ritorna. Io sono quel che ritorna».
Pamuk è quel che ritorna: sotto forma di fierezza e di vergogna, due parole che ricorrono nelle sue dichiarazioni e nei romanzi. Due parole apparentemente contrastanti, che però descrivono con precisione il rapporto tra Occidente e Oriente: il loro continuo mescolarsi e scindersi; la tendenza a risolvere queste complicazioni con la violenza.
Una tentazione forte in Occidente come in Oriente, quando prende il sopravvento la più mortifera delle passioni: il nazionalismo. In fondo, il nazionalismo è più inviso da Pamuk del fondamentalismo religioso: è il male da cui tutto discende. È quando l’Islam radicale si congiunge col nazionalismo che diventa letale. Di qui l’ansia di sconnettere, distinguere, con l’aiuto della memoria che fa tornare le diversità a galla e che fa capire la vergogna annidata nelle fierezze, l’invidia e l’umiliazione che impregnano il rapporto dell’Oriente con l’Occidente.
Il romanzo che più aiuta a capire e vivere il tempo presente è Il mio nome è rosso (Einaudi 2005), squisitamente descritto su la Repubblica del 13 ottobre da Pietro Citati. Aiuta perché il tema e la scrittura son sempre quelli: multicolori, zampillanti da innumerevoli punti di vista, ambigui, ripetutamente sfuggenti. E la guerra narrata (un regolamento di conti fra diverse scuole di miniaturisti, nella corte d’un sultano alla fine del Cinquecento) rimanda a tanti eventi presenti, trattati altrove dallo scrittore: rimanda all’11 settembre e alle guerre in Afghanistan e Iraq, agli eccidi di armeni e curdi nella sua Turchia, al mestiere di scrivere e impegnarsi. Nella scuola dei miniaturisti come nel mondo oggi, è la paura suscitata dal nuovo e dal diverso che genera prima solitudine, poi invidia, poi una micidiale umiliazione.
Spossessato delle sue tradizioni, il miniaturista del XVI secolo è sedotto da un’arte europea per lui affatto nuova e sacrilega - l’arte del ritratto, del quadro firmato, della prospettiva - e si sente abissalmente solo, sgomento, infine umiliato: non sarà mai all’altezza di Bellini e di quel che ha visto a Venezia, anche se vorrebbe appropriarsene; non sarà che un imitatore. Pamuk racconta, non sceglie. C’è qualcosa di grandioso nella scuola dell’antica Persia («I maestri di Herat cercavano di dipingere il mondo così com’è visto da Dio, e si guardavano dal mostrarsi originali e ancor meno dal firmare le opere»). E c’è il fascino della pittura europea, che permette all’artista di esprimere originalità, diversità, raffigurando il mondo come lo vede l’uomo. Lo stile stesso è equivoco. Per l’antica scuola dei miniaturisti è «un difetto che consente di riconoscere l’autore», dice un personaggio. Per l’europeo è la varietà infinitamente umana dell’arte.
L’idea che Pamuk ha dell’Europa, e che lo spinge ad esser fautore veemente dell’ingresso della Turchia nell’Unione, ha legami profondi con la materia dei suoi romanzi. L’Europa non è un polo di attrazione perché è cristiana, e non è in quanto tale che seduce e conta. Quel che attira è la varietà di cui è stata capace: una varietà che le viene dalla letteratura, dalla pittura, e dallo spazio che esse aprono all’individuo.
Pamuk lo ha spiegato quando ha ricevuto il premio per la Pace a Francoforte, nel 2005. Il vero dono europeo all’Oriente, ha detto, è l’arte del romanzo. «Il mondo intero esiste per entrare in un libro», così Mallarmé, e Pamuk lo cita quando spiega il proprio attaccamento all’Europa. È il ritratto raccontato che lo affascina: «Insieme con la musica orchestrale e l’arte del Rinascimento, è il romanzo che secondo me fonda l’essenza e l’identità dell’Europa», ha detto. Il romanzo è «scuola di pensiero, di comprensione, di immedesimazione». Il romanzo permette di entrare nei più diversi personaggi, specialmente nei più malvagi, e per natura esclude le bellicose visioni militanti.
Pamuk è un deciso oppositore delle guerre che l’America sta conducendo contro il terrorismo. È persuaso che il fossato tra Occidente e Oriente sia diventato un baratro, soprattutto a seguito della guerra in Iraq. Pamuk si rifiuta di metter sullo stesso piano l’11 settembre e il dominio americano sul mondo. Ma invita a capire quel che vien provocato da tale dominio: il rancore umiliato verso l’Occidente, e l’«idiota contrapposizione» tra Islam e cristianesimo. «Bisogna cercare di capire come mai milioni di persone nei Paesi poveri, rinchiusi in quella povertà e privati del diritto di decidere le proprie storie, sentono una tale collera verso l’America», scrive sul New York Review of Books poco dopo l’attentato alle torri (The Anger of the Damned, 15 novembre 2001).
Il romanzo e la letteratura ci salveranno, perché comprendono i più disparati colori, caratteri. In un articolo sul settimanale The Atlantic Monthly, nel 2004, Christopher Hitchens ha accusato Pamuk di mostrare troppa comprensione per l’Islam, nel romanzo Neve. Pamuk risponde che «la regola d’oro, per scrivere un bel romanzo, è di immedesimarsi in tutti i personaggi. È l’identificazione coi personaggi tenebrosi che rende il romanzo ancora migliore. Lo insegna Dostoevskij».
La libertà d’espressione è il suo pensiero dominante e anch’esso non nasce dalla militanza classica, che trasforma l’arte in politica. È una libertà indispensabile proprio perché il mondo è fatto di molteplici identità, che perennemente mutano e non sono riducibili a una religione. «È perché le nostre menti moderne sono così precarie, scivolose, che la libertà d’espressione diventa così importante: ne abbiamo bisogno per capire noi stessi, i nostri umbratili, contraddittori, più intimi pensieri; la fierezza e la vergogna che ci abitano» (Discorso al Pen Club, 25 aprile 2006). Ciascuno di noi ha, su tante vicende, visioni così discordi, scivolose. La libertà d’espressione serve a proteggerle simultaneamente tutte.
Pensare che oggi siamo in una guerra comporta un rischio contro il quale Pamuk mette in guardia. Il rischio è che tutti, in Europa, diveniamo come la Turchia: un Paese sempre minacciato dalla legge marziale. Un Paese che vorrebbe diventare europeo ma è ossessionato dall’identità e proprio per questo corre il pericolo di perderla. Lo scintillio cui aspiriamo è nel rifiuto di questo tipo di guerra, e il premio a Pamuk è, almeno secondo me, un omaggio a questo scintillio.
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La Stampa, 15.10.2006
Un assassino fra i libri di mille colori
Torna ’Il mio nome è rosso’ di Orhan Pamuk, la storia dei miniaturisti alla corte del Sultano
di Piero Citati *
Il mio nome è rosso, che Orhan Pamuk compose nel 1998 (ora in edizione tascabile: Einaudi, traduzione di Marta Bertocchi e Semsa Gezgin, pagg. 456, euro 11,80) è probabilmente il più bel romanzo apparso negli ultimi anni in qualsiasi lingua. è un robusto romanzo realistico: una favola a cui sia l’ Oriente sia l’ Occidente prendono parte: un colorato testo shakespeariano come quelli di Dickens: una nera storia di delitti notturni: una superba architettura intellettuale; un libro di miniature, dipinte non sappiamo se dall’ uomo o da Allah, re dei miniaturisti. Siamo su un teatro vasto come Istanbul. Moltissime voci - miniaturisti, calligrafi, visir, cavalli, alberi, monete, morti, spettri, mendicanti, ruffiane - inscenano insieme, ognuno con il proprio suono e colore, una immensa opera lirica, composta da un autore di cui ignoriamo il nome. Ciò che sorprende, in primo luogo, è la vicinanza con la grande tradizione. Nessuno scrittore occidentale sarebbe capace, oggi, di scrivere un libro dove continuano a parlare Tasso o Shakespeare o Rabelais.
Il mio nome è rosso è figlio di due testi: Il libro dei re di Firdousi e il Quintetto di Nezami, capolavori dell’ antica letteratura persiana. Ma discende anche dal più famoso libro di miniature persiane, Il libro dei re di Shah Tahmasp, composto nel sedicesimo secolo dai miniatori e dai calligrafi della scuola di Herat e della scuola di Tabriz, che avevano riunito i loro stili. Non c’ è nessuna differenza tra la parola e la miniatura: la parola splende di colori, la miniatura contiene il segreto delle parole; il fluire ininterrotto della scrittura assomiglia allo stormire delle foglie di platano e di melograno, che il pittore dipinge una per una.
Alla fine del sedicesimo secolo, il Sultano Effendi decise di far comporre un testo, che eguagliasse Il libro dei re di Shah Tahmasp, raccogliendo le apparenze e i segreti dell’ universo. Al Sultano turco non importavano né le guerre, né gli intrighi politici, né le ricchezze, né gli amori, né la morte. A lui importava soltanto di segnare con il proprio nome il foltissimo volume di miniature: la sua composizione è il vero soggetto del romanzo rosso, che Orhan Pamuk ha composto quattro secoli dopo.
Ottanta miniaturisti e calligrafi si raccolsero così nel laboratorio del Sultano. Ognuno aveva un compito. Ognuno lavorava nella sua piccola cella silenziosa, dove c’ erano le lunghe forbici per tagliare la carta, la vaschetta dei colori, il bricco del caffè, il pennello fatto con i peli delle orecchie del gatto, lo specchio per controllare le pagine, il focolare, i temperini, le penne dal manico d’ oro. Ciascuno cominciava a lavorare dopo la preghiera del mattino, fino a quando, a mezzanotte, i suoi occhi stanchi cominciavano a lacrimare per la fatica.
Le miniature non erano dipinte secondo un solo punto di vista, come la pittura europea, ma secondo molteplici punti di vista: certi oggetti erano visti di fronte, altri dall’ alto, come da un uccello in volo. Qualche pittore decorava soltanto i bordi delle pagine: foglie al suolo, nuvole ricciute alla maniera cinese, foreste dove si nascondevano le gazzelle, suonatori di liuto, passeri che saltellavano, nibbi inesperti. Qualcuno dipingeva rocce viola o verdi o celesti, che si muovevano come marosi e prorompevano le une sopra le altre. Qualcuno dipingeva case - così leggere da sembrare di pergamena: o svelti cipressi o alberi da frutta impreziositi da una fioritura bianca e rosa: o uomini fragilissimi, con le teste piccole e corpi svelti e flessibili; o cavalli con i colli arcuati come lettere del Corano. In un luogo della miniatura, dietro una roccia o una finestra o una porta, si affacciava un personaggio che guardava: il giovane Alessandro Magno o una ragazza o un dèmone. Guardava verso di noi, che a nostra volta li guardiamo, quattro secoli dopo, entrando anche noi nel libro di Pamuk.
Lo sguardo del pittore non era soltanto il suo sguardo: ma anche, e sopratutto, quello di Allah. Egli vedeva, o immaginava o creava il mondo, come lo creava e lo vedeva Allah. Quei fogli fittissimi dove tanti peli di orecchie di gatto si erano posati, non imitavano la realtà di ogni giorno, coi suoi volti, le strade, gli alberi e i cavalli. Il pittore guardava il mondo dall’ alto, come da un minareto; e la sua mente sovrana, e la sua memoria sovrana, si affidavano al tocco delicato e obbediente dei pennelli. Ogni artista inseguiva il culmine delle cose: il color rosso, al quale tutti i colori tendono e nel quale si perdono. Il rosso proclamava: «Non ho paura degli altri colori, delle ombre, della folla o della solitudine. Com’ è bello riempire con il mio fuoco vittorioso una superficie che mi attende! Dove io mi espando, gli occhi brillano, le passioni si fortificano, le sopracciglia si alzano, i cuori battono forte. Guardatemi, com’ è bello vivere. Contemplatemi, come è bello vedere. Io vedo dovunque. La vita comincia con me; e torna a me, credetemi». Il rosso era il colore di Allah: rossi erano gli abiti delle donne, l’ inchiostro, il sangue, il matrimonio, la morte, il fodero della spada, la sella dei cavalli, e la prodigiosa felicità, che risveglia in noi la pittura dei maestri. Quando il pennello occupava le mani dall’ alba a mezzanotte, gli occhi dei pittori si stancavano, si infiammavano, si indebolivano. Era una condizione tragica: la cecità era vicina.
I maestri di Shiraz consigliavano di non fissare mai un punto preciso, ma di guardare lontano, oltre ogni limite, lavando gli occhi con l’ acqua benedetta. Quasi sempre, la cecità giungeva: o il miniaturista si feriva gli occhi con uno spillone d’ oro. Ma egli sapeva che la cecità era la condizione suprema. Allora dipingeva soltanto con la mente e la memoria: la stessa memoria con cui Allah guardava i cavalli che aveva creato. Se non diventava cieco, doveva guardare il mondo come se non lo vedesse, entrando "nel velluto del buio" di Allah, dove avveniva la vera visione. Trovava il suo stile, che consisteva nella liberazione da ogni traccia di stile. Conosceva la felicità; e chi guardava i libri miniati possedeva la stessa felicità, perché la luce gli irradiava il viso. Mentre gli ottanta miniaturisti e calligrafi compivano il libro del Sultano, l’ arte della miniatura persiana e ottomana era minacciata. Da Venezia e da tutta l’ Europa, giungevano i capolavori occidentali. Lì c’ era ciò che noi siamo abituati a chiamare realtà: i volti reali con le rughe e le ombre, le montagne con le spaccature e gli abissi, i cavalli che imitavano i veri cavalli di Dio.
Il pittore disegnava tutto ciò che l’ occhio vedeva, come l’ occhio lo vedeva. I macellai, i sarti, i droghieri, i marinai, i doge di Venezia volevano ciascuno il proprio ritratto, come se ciascuno di loro volesse diventare una creatura completamente diversa dalle altre. Se i pittori occidentali avessero vinto, il mondo sarebbe completamente cambiato. Il cuore della miniatura sarebbe stato ogni particolare, amorosamente e fedelmente imitato, non la mente e la memoria riflesse di Allah. In quel momento, sarebbero scomparsi i colori purissimi, immersi in una luce uniformemente diffusa: il cielo d’ oro, l’ acqua d’ argento, il suolo celeste; e gli ardenti giallo limone, i teneri rosa salmone, i misteriosi bianchi avorio, che nessuno ha mai visto in natura.
Nel Mio nome è rosso, le notti e i giorni ad Istanbul, che Pamuk rappresenta, sono l’ eco e il riflesso delle miniature. è inverno. è notte. Regna il silenzio. Le strade e i muri sono coperti di neve: la luce fioca di una lampada ancora accesa filtra dalle persiane chiuse e si riflette nella neve. In due notti successive, due pittori vengono massacrati. Non sappiamo chi sia l’ assassino, sebbene nel libro di Pamuk egli ci parli come gli altri narratori. Il nostro orecchio ascolta soltanto il becchettio del passero, che beve l’ acqua dal secchio del pozzo. Quando giungono le prime luci, appaiono i luoghi di Istanbul: i palazzi, le piazze, le strade, le botteghe dei barbieri e dei sarti, dei fabbricanti di spade e di stivali, del velluto e dell’ argento. La folla si raccoglie nelle piazze, senza lasciare uno spazio vuoto. Qualcuno beve gli sciroppi d’ amarena o di datteri tiepidi d’ Arabia: mangia l’ uva sultanina, i fichi secchi, le gelatine di frutta, le caramelle di zucchero candito, il pane di mandorla, i dolci di sesamo o al miele. Qualcuno indossa le mussole, gli scialli, il velluto, qualsiasi stoffa tratta dalla cornucopia dei tessuti. Tutto è sontuoso e raccoglie lo scintillio delle luci. Le strade, le piazze, i vicoli moltiplicano i rumori: battono i bastoni delle ronde, ululano i cani idrofobi, i bambini piangono o si lamentano. Il libro del sultano Effendi è anche il Libro dei Morti. Un pittore viene sepolto in un pozzo: la sua anima si divincola inutilmente cercando di lasciare il corpo; un altro giace nel suo studio con la testa fracassata. Intorno si aggirano i fantasmi, le streghe i ginn trasportati dal vento, che penetrano negli oggetti, abitano le cose vuote, squittiscono nel silenzio.
Il mio nome è rosso è un libro doppio, come sono spesso i grandi libri. Da un lato, nel volume del Sultano Effendi, splende la voce della tradizione persiana: Il libro dei re di Shah Tahmasp continua ad essere il modello supremo. Dovunque risuona lo sguardo di Allah, la cecità come vera visione, la mente e la memoria, il rosso; e i celesti e i rosa e i verdi tenerissimi, di cui Allah si compiace. Ma, d’ altra parte, questa voce antica sembra esausta. Lo sguardo di Allah si allontana: il rosso impallidisce o diventa solo il colore dei morti; gli spettri si insinuano nelle cose. I ritratti, le prospettive, le rughe, le ombre, e i particolari realistici della pittura europea stanno per affascinare anche la Persia e la Turchia. Prima di massacrare il proprio nemico, il pittore assassino annuncia la prossima fine della miniatura e del mondo. «Le migliaia di uccelli di ogni specie, tra cui la saggia upupa, il passero saltellante, l’ inesperto nibbio, l’ usignolo poeta: i gatti quieti e i cani irrequieti: le nuvole ricciute, le erbette ripetute, le rocce simili ai marosi, le migliaia di cipressi, platani e melograni, le foglie disegnate con attenzione scrupolosa: i palazzi e tutti i loro mattoni lucidissimi, i principi tristi seduti sotto l’ albero primaverile, i sultani che cacciano con raffinatezza e le gazzelle che fuggono con la stessa raffinatezza: i galeoni infedeli e le città nemiche, e le notti buie o brillanti, e le stelle che sembrano fantasmi, e l’ amore e la morte che tu colori di rosso - tutte queste immagini, ricami e capricci, tutto il mondo che noi amiamo e dipingiamo, obbedendo allo sguardo di Dio, tutto, tutto scomparirà per sempre...». Anche gli altri miniaturisti del Sultano comprendono che i loro metodi moriranno, e i colori sbiadiranno. Forse, nessuno si interesserà più alla loro arte. I topi insaziabili divoreranno le pagine: i tarli, i vermi e gli insetti le corroderanno. I volumi verranno strappati, le pagine staccate: i ladri, i bambini e le donne che accendono i focolari distruggeranno i ricami e i disegni: le piogge intrideranno d’ acqua i fogli logori e bucherellati. Forse, resterà soltanto un ultimo volume, uscito per miracolo dal fondo asciuttissimo di una casa miracolosa. Ma nemmeno per questo libro ci sarà salvezza: perché la furia di un incendio spietato accenderà l’ ultimo rogo.
* la Repubblica, 03.01.2006
La paura di Orhan Pamuk
“Noi scrittori nel mirino, mai visto nulla del genere”
Il Nobel e l’autrice Elif Shafak indicati da alcuni media di essere al servizio di una lobby internazionale: “Critiche ridicole e pericolose”
di M. Ans. (la Repubblica, 15.12.2014)
«C’È una lobby internazionale degli scrittori», strillava qualche giorno fa dalle edicole turche il quotidiano pro governativo Akit. E indicava due reprobi fra gli autori scelti dalle «potenze occidentali» contro le autorità di Ankara: Elif Shafak e Orhan Pamuk. I due più noti intellettuali della Turchia, una con decine di romanzi all’attivo e tradotta in ogni continente, l’altro premiato con il Nobel per la Letteratura, tornati nel mirino.
Ma questa volta non dei nazionalisti, come accaduto in passato, con minacce di morte che li avevano costretti a scegliere di vivere all’estero (Shafak in Inghilterra, Pamuk negli Stati Uniti). Quanto degli stessi cantori dell’esecutivo conservatore islamico di Erdogan, desiderosi di affossarli. «Queste accuse conto noi due - dice a Repubblica Elif Shafak - sono così ridicole, però disturbano anche. Si sostiene che questa lobby letteraria avrebbe scelto alcuni autori di Paesi non occidentali, e per attaccare il governo turco sarebbero stati presi Pamuk e Shafak. L’implicazione è che entrambi, Orhan e io, saremmo pedine delle potenze imperiali».
A leggere l’articolo in questione le espressioni usate contro i due celebri scrittori, tra il meglio che il Paese della Mezzaluna possa offrire in letteratura e anche per la loro lucidità di pensiero e intervento su questioni culturali e sociali, è un concentrato di odio. «Quando parlo o scrivo per un grande giornale straniero - spiega Elif - tra i tantissimi tweet di apprezzamento che ricevo, ce ne sono sempre alcuni negativi, che mi accusano di parlare male della Turchia agli occidentali. Per loro questo è un “affare di famiglia”. Se critichi il governo in turco non si arrabbiano molto. Ma se lo fai su un giornale straniero, specialmente su un quotidiano molto influente, allora si irritano. Questo è il mondo in cui viviamo».
Anche Orhan Pamuk ha un rapporto conflittuale con il proprio Paese. L’unico turco ad aver mai vinto un premio Nobel nei giorni scorsi ha pubblicato il suo ultimo romanzo, uscito per il momento solo a Istanbul e Ankara (“Una stranezza nella mia mente” il titolo in lingua, che sarà pubblicato in Italia nel novembre 2015, e il cui primo capitolo è stato anticipato da Repubblica l’ 8 dicembre scorso).
Per l’occasione ha rilasciato un’intervista al giornale nazionale più diffuso, Hurriyet. E le sue parole non sono state leggere. «Il peggio - ha detto riferendosi alla situazione politica - è che c’è paura. Vedo che tutti hanno paura, questo non è normale: la libertà di espressione è scesa a un livello molto basso». E ha aggiunto: «Molti amici vengono a dirmi che questo o quel giornalista ha perso il lavoro. Ormai gli stessi giornalisti più vicini al potere vengono cacciati. Non ho mai visto nulla di simile da nessuna parte».
In un passato non troppo distante la Turchia ha perseguitato i suoi migliori intellettuali. Basti pensare al caso di Nazim Hikmet, il grandissimo poeta morto in esilio a Mosca nel 1963. Oggi molti spiriti liberi nel Paese, e altrettanti fuori, si augurano che i giorni in cui Orhan Pamuk veniva portato a processo per le frasi dette sui giornali, e i ritratti di Elif Shafak erano bruciati in piazza per quello che scriveva nei suoi libri, siano per l’appunto un’immagine lontana.
Il Nobel Pamuk si schiera con la rivolta di piazza Taksim: deriva autoritaria del regime
L’albero dei ragazzi di Istanbul
L’intervento dello scrittore premio Nobel Orhan Pamuk
Sto con i ragazzi che combattono
di Orhan Pamuk (la Repubblica, 06.06.2013)
Il rapporto più recente sui diritti umani nel nostro Paese è il peggiore degli ultimi dieci anni. Mi riempie tuttavia di speranza e di fiducia vedere che la mia gente non rinuncerà alle manifestazioni pubbliche né a lottare per difendere il rispetto della propria libertà
PER dare un senso agli eventi di Istanbul, e per capire quei coraggiosi che scendono in strada e si scontrano con la polizia soffocando tra i fumi velenosi dei gas lacrimogeni, vorrei cominciare con una storia personale.
Nel mio libro di memorie Istanbul, ho scritto su come tutta la mia famiglia abitasse negli appartamenti che componevano il palazzo Pamuk a Nisantasi. Di fronte a questo edificio si trovava un castagno che aveva circa cinquant’anni, che per fortuna è ancora lì.
Un giorno, però, nel 1957, il comune decise di tagliare quell’albero per allargare la strada. Burocrati presuntuosi e amministratori autoritari ignoravano l’opposizione del quartiere. Così, il giorno in cui l’albero doveva essere abbattuto, mio zio, mio padre, e tutta la famiglia rimasero in strada giorno e notte, facendo a turno per fare la guardia. In questo modo, abbiamo protetto il nostro albero, ma abbiamo anche creato una memoria condivisa che l’intera famiglia ricorda ancora con piacere, e che ci lega l’un l’altro.
Oggi, piazza Taksim è il castagno di Istanbul e deve continuare a esserlo. Ho vissuto a Istanbul per sessant’anni e non riesco a immaginare che possa esistere una sola persona che viva in questa città e non abbia almeno un ricordo legato in qualche modo a piazza Taksim.
Negli anni Trenta, nella vecchia caserma di artiglieria che ora vogliono trasformare in un centro commerciale, c’era un piccolo stadio di calcio che ospitava delle gare ufficiali. Il famoso Gazino di Taksim, che fu il centro della vita notturna di Istanbul per tutti gli anni Quaranta e Cinquanta, sorgeva un tempo in un angolo del parco Gezi. In seguito, tutti quegli edifici vennero abbattuti, gli alberi furono tagliati, piantarono nuovi alberi, e lungo un lato del parco costruirono una serie di negozi e la più famosa galleria d’arte di Istanbul.
Negli anni Sessanta, sognavo di diventare pittore e di poter esporre le mie opere in questa galleria. Negli anni Settanta, la piazza fu sede delle entusiastiche celebrazioni dei sindacati di sinistra e delle Ong per il Primo Maggio e, una volta, partecipai anch’io a una di queste celebrazioni. (Nel 1977, quarantadue persone furono uccise in un’esplosione di violenza provocata e nel caos che ne seguì).
Da giovane, assistevo con curiosità e con piacere alle manifestazioni che tutti i partiti politici - partiti di destra e di sinistra, nazionalisti, conservatori, socialisti, socialdemocratici - tenevano a Taksim.
Quest’anno, il governo ha vietato di celebrare in questa piazza la Festa del Lavoro. E in quanto alla caserma che avrebbe dovuto essere ricostruita, a Istanbul tutti sanno che alla fine ci costruiranno un altro centro commerciale al posto dell’ultimo spazio verde rimasto nel centro della città.
Il fatto che dei cambiamenti così significativi, in una piazza e in un parco che custodiscono i ricordi di milioni di persone, siano stati progettati e messi in atto, per quanto riguarda la fase dell’abbattimento degli alberi, senza prima consultare gli abitanti di Istanbul, è stato un grave errore per il governo di Erdogan.
Questo atteggiamento insensibile è chiaramente dovuto a una crescente deriva del governo verso l’autoritarismo. (L’ultimo rapporto sui diritti umani in Turchia è il peggiore degli ultimi dieci anni). Mi riempie, tuttavia, di speranza e di fiducia vedere che la gente di Istanbul non rinuncerà né al suo diritto di tenere manifestazioni politiche in piazza Taksim, né ai suoi ricordi, senza combattere. (Traduzione di Luis E. Moriones)
La prolusione per il Nobel
Perchè si diventa scrittori
di Orhan Pamuk (la Repubblica/Almanacco dei Libri, 9 dicembre 2006)
Due anni prima di morire mio padre mi consegnò un valigetta piena di suoi scritti, manoscritti e taccuini. Assumendo la sua solita espressione ironica e scherzosa mi disse che voleva che li leggessi dopo che se n’era andato, intendendo con ciò dopo la sua morte. «Dai un’occhiata», disse con aria di lieve imbarazzo. «Guarda se c’è dentro qualcosa che ti può servire. Forse, dopo che me ne sarò andato, potrai fare una cernita e pubblicare il materiale».
Eravamo nel mio studio, circondati da libri. Mio padre cercava un posto dove posare la valigetta andando avanti e indietro come chi voglia liberarsi di un penoso fardello. Infine la depose con discrezione in un angolo dove non avrebbe dato fastidio. Una volta passato questo momento un po’ imbarazzante ma indimenticabile, riprendemmo la leggerezza tranquilla dei nostri soliti ruoli, le nostre personalità sarcastiche e disinvolte. Parlammo come sempre facevamo delle piccole cose della vita quotidiana, degli infiniti problemi politici della Turchia e delle avventure imprenditoriali di mio padre, per lo più fallimentari. Ne discorremmo senza troppo rammarico.
Ricordo che, andato via mio padre, per giorni passai accanto alla valigetta senza neppure sfiorarla. Conoscevo dalla mia infanzia quella piccola borsa di pelle nera, la sua serratura, gli angoli arrotondati. Mio padre la teneva sempre con sé nei brevi spostamenti e talvolta la usava per portare documenti al lavoro. Ricordo che, da bambino, quando tornava da un viaggio aprivo quella valigetta e frugavo tra le sue cose, beandomi del profumo di colonia e di paesi stranieri. Quella valigetta era una presenza amica e familiare, mi ricordava intensamente l’infanzia, il mio passato, ma ora non riuscivo neppure a toccarla. Perché? Senza dubbio dipendeva dal peso misterioso del suo contenuto.
Parlerò ora del senso di questo peso. È il senso del lavoro di un uomo che si chiude in una stanza, che, seduto a un tavolo o in un angolo, si esprime per mezzo di carta e penna, vale a dire il senso della letteratura. Nel momento in cui toccai la valigia di mio padre pur senza riuscire ad aprirla, sapevo che cosa contenevano alcuni di quei taccuini. Avevo visto mio padre intento a scrivere su alcuni di essi. Non era la prima volta che avevo sentito parlare del pesante carico contenuto nella valigia. Mio padre aveva un’ampia biblioteca. Da giovane, alla fine degli anni ‘40, aveva aspirato a diventare poeta, a Istanbul, e aveva tradotto Valery in turco, ma non aveva voluto vivere la vita riservata a chi scriveva poesie in un paese povero con pochi lettori. Il padre di mio padre, mio nonno, era stato un ricco uomo d’affari, suo figlio aveva vissuto una vita agiata da bambino e da ragazzo e non aveva intenzione di cadere in ristrettezze in nome della letteratura. Amava la vita e tutte le sue piacevolezze, e lo capivo.
La prima cosa che mi tenne lontano dal contenuto della valigetta di mio padre era, ovviamente, il timore di non gradire ciò che avrei letto. Mio padre lo sapeva, e per questo si era preoccupato di far finta di non prendere troppo sul serio il contenuto della borsa. Ne fui addolorato, dopo 25 anni passati a scrivere, ma non volevo neppure irritarmi con lui perché non prendeva la letteratura abbastanza sul serio...
Il mio vero timore, la cosa essenziale che non volevo sapere o scoprire era la possibilità che mio padre fosse un bravo scrittore. Non riuscivo ad aprire la valigetta di mio padre perché temevo questo. Peggio ancora, non riuscivo neppure a confessarlo a me stesso. Se dalla valigetta di mio padre fosse emersa della vera, grande letteratura, avrei dovuto ammettere che dentro mio padre esisteva un uomo del tutto diverso. Era una possibilità che mi spaventava. Perché anche alla mia non più tenera età volevo che lui fosse soltanto mio padre, non uno scrittore.
Uno scrittore è colui che passa anni alla paziente ricerca del secondo essere al suo interno, e del mondo che lo rende la persona che è: quando parlo di scrivere, la prima cosa che mi viene in mente non è un romanzo, una poesia o una tradizione letteraria, è una persona che si chiude in una stanza, si siede a un tavolo e, da solo, si concentra su se stesso, tra le sue ombre costruisce un mondo nuovo con le parole.
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Avevo timore ad aprire la valigetta di mio padre e a leggere i suoi taccuini perché sapevo che non avrebbe tollerato le difficoltà che avevo sopportato io, che non era la solitudine che lui amava, bensì mescolarsi agli amici, la folla, i salotti, gli scherzi, la compagnia. Ma poi i miei pensieri presero una direzione diversa. Queste idee, questi sogni di rinuncia e pazienza, erano pregiudizi che avevo tratto dalla mia vita e dalla mia personale esperienza di scrittore. C’erano moltissimi scrittori geniali che conducevano una vivace, brillante vita sociale e familiare fatta di compagnia e allegre conversazioni. Inoltre mio padre quando eravamo piccoli, stanco della monotonia della vita familiare, ci lasciò per andarsene a Parigi, dove, come tanti autori, sedeva nella sua stanza d’albergo a riempire taccuini. Sapevo anche che alcuni di quei taccuini si trovavano nella valigetta perché qualche anno prima di portarmela egli aveva finalmente iniziato a parlarmi di quel periodo della sua vita. Raccontava di quegli anni anche quando ero bambino ma senza far cenno alle sue debolezze, ai suoi sogni di diventare scrittore, o alle crisi di identità che lo avevano afflitto nella sua stanza d’albergo. Mi parlava invece delle volte che aveva visto Sartre per le strade di Parigi, dei libri letti, dei film visti, con il sincero trasporto di chi comunica notizie importantissime. Divenuto scrittore, non dimenticai mai ciò che accadde grazie a quel padre che parlava degli scrittori di fama mondiale molto più che di pascià e grandi autorità religiose. Forse allora dovevo leggere i suoi appunti con questa consapevolezza e ricordare quanto fossi in debito con la sua vasta biblioteca. Dovevo tenere a mente che, quando viveva con noi, come me, amava star solo in compagnia dei suoi libri e dei suoi pensieri e non prestava troppa attenzione al valore letterario dei suoi scritti.
Ma mentre fissavo con apprensione la valigetta lasciatami in eredità sentivo anche che era proprio questo che non sarei riuscito a fare. Mio padre talvolta si allungava sul divano davanti ai suoi libri, lasciava cadere il volume o la rivista che aveva in mano e si perdeva in un sogno, sprofondato a lungo nei suoi pensieri. Vedendogli sul viso un’espressione così diversa da quella che aveva nell’atmosfera scherzosa e allegra dei battibecchi familiari, scoprendo in lui i primi accenni di introspezione, pensavo, soprattutto da bambino e nella prima giovinezza, con trepidazione che non fosse contento. Oggi, a distanza di tanti anni, so che questa insoddisfazione è la caratteristica fondamentale che fa di un individuo uno scrittore. Per diventare scrittore pazienza e fatica non bastano: dobbiamo innanzitutto sentire l’impulso irresistibile a fuggire la gente, la compagnia, la consuetudine, la quotidianità e a chiuderci in una stanza.
Aspiriamo alla pazienza e speriamo di riuscire così a creare un mondo intenso nei nostri scritti. Ma è il desiderio di chiuderci in una stanza che ci spinge all’azione. Il precursore di questo genere di scrittore indipendente, che legge i suoi libri per soddisfare il suo cuore e che ascoltando esclusivamente la voce della propria coscienza, discute con le parole altrui, che conversando con i suoi libri sviluppa i suoi pensieri e il suo mondo personale, fu senza dubbio Montaigne, agli albori della letteratura moderna. Montaigne era un autore cui mio padre tornava spesso, un autore che mi raccomandava. Mi piacerebbe considerarmi parte della tradizione di scrittori che ovunque si trovino nel mondo, in Oriente o in Occidente, si tagliano fuori dalla società rinchiudendosi con i loro libri nella loro stanza. La vera letteratura parte dall’uomo che si chiude nella sua stanza con i suoi libri.
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Fu questo a spingermi ad aprire la valigetta di mio padre. Aveva forse un segreto, un’infelicità che ignoravo, qualcosa che riusciva a sopportare solo riversandola nei suoi scritti? Non appena aprii la valigetta ritrovai il profumo di viaggi, riconobbi vari taccuini e notai che mio padre me li aveva mostrati anni addietro senza però soffermarvisi molto a lungo. La maggior parte dei taccuini che ora avevo tra le mani li aveva riempiti quando ci aveva lasciato per recarsi a Parigi, da giovane. Il mio desiderio era sapere che cosa avesse scritto e che cosa avesse pensato mio padre alla mia stessa età. Non mi ci volle molto a capire che non avrei trovato nulla del genere là dentro.
A turbarmi particolarmente fu l’imbattermi qui e là, nei taccuini di mio padre, in una voce narrante. Non era la voce di mio padre, dissi a me stesso, non era la sua voce originale, o meglio, non quella dell’uomo che conoscevo come mio padre. Al di là del timore che mio padre non fosse più mio padre nel momento in cui scriveva, c’era un timore più profondo: la paura di non trovare nulla di buono negli scritti di mio padre, di scoprire che si era fatto eccessivamente influenzare da altri autori, e sprofondai nella disperazione che mi aveva afflitto da ragazzo tanto da porre in discussione la mia vita, la mia stessa esistenza, il mio desiderio di scrivere e la mia opera. Durante i miei primi dieci anni da scrittore avvertii quest’ansia più profondamente, e pur respingendola, talvolta temevo che un giorno avrei dovuto ammettere la sconfitta, come avevo fatto con la pittura e soccombere all’inquietudine, abbandonando anche l’attività di romanziere.
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Un autore parla di cose che tutti sanno senza averne consapevolezza. Esplorare questo sapere e vederlo crescere dà al lettore il piacere di visitare un mondo al contempo familiare e miracoloso. Quando un autore si chiude per anni in una stanza per affinare la sua arte, quella di creare un mondo, se usa le sue ferite segrete come punto di partenza ripone, che lo sappia o no, una grande fede nell’umanità. La mia fiducia viene dalla convinzione che tutti gli esseri umani si somigliano, che altri portano ferite come le mie, e che quindi capiranno. Tutta la vera letteratura nasce da questa certezza fiduciosa e infantile che tutti gli individui si somiglino. Quando uno scrittore si chiude per anni in una stanza, evoca col suo gesto un’umanità unica, un mondo privo di centro.
Ma come si può vedere dalla valigetta di mio padre e dalle nostre vite sbiadite a Istanbul, il mondo aveva un centro ed era lontanissimo da noi. Nei miei libri ho descritto in dettaglio come questa realtà evocasse un provincialismo cechoviano e come, per altra via, mi spingesse a porre in discussione la mia autenticità. Sapevo per esperienza che la gran maggioranza delle persone su questa terra condividono le stesse sensazioni e che molti sono afflitti da un senso ancor più profondo di inadeguatezza, insicurezza e abbrutimento rispetto a me. Sì, i maggiori dilemmi che l’umanità si trova ad affrontare sono ancora la povertà, la mancanza di un tetto, e la fame... Ma oggi la televisione e i giornali ci informano su questi fondamentali problemi più rapidamente e più semplicemente di quanto possa mai fare la letteratura.
Oggi l’oggetto dell’indagine della letteratura devono essere soprattutto le paure dell’umanità: la paura di essere esclusi, la paura di non contare nulla e il senso di nullità che le accompagna. Le umiliazioni collettive, le vulnerabilità, gli affronti, i torti, le suscettibilità, gli insulti immaginati, e i vanti e la retorica nazionalista... Ogniqualvolta mi confronto con questi sentimenti e con il linguaggio irrazionale, eccessivo con cui vengono generalmente espressi, so che toccano un punto oscuro al mio interno. Abbiamo spesso visto popoli, società e nazioni esterni al mondo occidentale, e mi è facile identificarmi con essi, soccombere a timori che li conducono a commettere idiozie, tutto per paura di subire umiliazioni e a motivo delle loro suscettibilità. So anche che in Occidente, un mondo con cui mi è altrettanto facile identificarmi, nazioni e popoli eccessivamente fieri della loro ricchezza e del fatto di averci portato il Rinascimento, l’Illuminismo il Modernismo, di tanto in tanto hanno ceduto a un autocompiacimento quasi altrettanto idiota.
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Significa che mio padre non era l’unico, che tutti diamo eccessiva importanza all’idea di un mondo con un centro. Ciò che invece ci spinge a chiuderci nelle nostre stanze a scrivere per anni e anni è la convinzione opposta, quella che un giorno i nostri scritti saranno letti e compresi perché tutta la gente del mondo si somiglia. Ma questo, lo so dai miei scritti e da quelli di mio padre, è un ottimismo inquieto, segnato dalla rabbia di essere relegato ai margini, escluso. L’amore e l’odio che Dostoevskij provò per tutta la vita nei confronti dell’Occidente l’ho provato anch’io, in numerose occasioni. Ma se ho afferrato una verità essenziale, se ho motivo di essere ottimista è perché ho viaggiato assieme a questo grande scrittore attraverso il suo rapporto di amore-odio con l’Occidente, per contemplare l’altro mondo che egli ha costruito dall’altra parte.
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Mio padre avrà magari scoperto questo genere di felicità durante gli anni passati a scrivere, pensavo fissando la sua valigetta: non dovevo giudicarlo a priori. Gli ero così grato, dopo tutto. Non era mai stato un padre qualunque, autoritario soffocante, punitivo, ma un padre che mi ha sempre lasciato libero, che ha sempre dimostrato nei miei confronti il massimo rispetto. Avevo pensato spesso che se, di tanto in tanto, ero stato capace di attingere alla mia immaginazione, come un bambino, era perché a differenza di tanti miei amici dell’infanzia e della giovinezza, non avevo paura di mio padre e talvolta ero profondamente convinto che sarei riuscito diventare scrittore perché anche mio padre, da giovane, lo aveva desiderato. Dovevo leggere i suoi scritti con spirito di tolleranza, cercare di capire che cosa aveva scritto in quelle stanze d’albergo.
Animato di ottimismo mi avvicinai alla valigetta che giaceva ancora dove mio padre l’aveva lasciata. Facendo appello a tutta la mia forza di volontà ho letto qualche manoscritto e qualche taccuino. Che cosa scriveva mio padre? Ricordo qualche scorcio dalle finestre degli hotel di Parigi, poesie, paradossi, analisi... Mi sento ora come chi è appena stato vittima di un incidente stradale e si sforza di ricordare come è successo mentre al contempo trema alla prospettiva di ricordare troppo. Da bambino quando i miei genitori erano sul punto di litigare e tra loro calava un silenzio letale, mio padre accendeva sempre la radio, per cambiare atmosfera e la musica ci aiutava a dimenticare tutto più in fretta.
Permettetemi di cambiare atmosfera con qualche parola che, mi auguro, abbia l’effetto della musica. Come sapete la domanda che più spesso viene posta a noi scrittori, la domanda preferita è: perché scrive? Io scrivo perché sento il bisogno innato di scrivere! Scrivo perché non posso fare un lavoro normale, come gli altri. Scrivo perché voglio leggere libri come quelli che scrivo. Scrivo perché ce l’ho con voi, con tutti. Scrivo perché mi piace stare seduto in una stanza a scrivere tutto il giorno. Scrivo perché posso prender parte alla vita reale solo trasformandola. Scrivo perché voglio che gli altri, tutti noi, il mondo intero, sappia che tipo di vita viviamo e continuiamo a vivere a Istanbul, in Turchia. Scrivo perché amo l’odore della carta, della penna e dell’inchiostro. Scrivo perché credo nella letteratura, nell’arte del romanzo, più di quanto io creda in qualunque altra cosa. Scrivo per abitudine, per passione. Scrivo perché ho paura di essere dimenticato. Scrivo perché apprezzo la fama e l’interesse che ne derivano. Scrivo per star solo. Forse scrivo perché spero di capire il motivo per cui ce l’ho così con voi, con tutti. Scrivo perché mi piace essere letto. Scrivo perché una volta che ho iniziato un romanzo, un saggio, una pagina, voglio finirli. Scrivo perché tutti se lo aspettano da me. Scrivo perché come un bambino credo nell’immortalità delle biblioteche e nella posizione che i miei libri occupano sugli scaffali. Scrivo perché è esaltante trasformare in parole tutte le bellezze e le ricchezze della vita. Scrivo non per raccontare una storia ma per costruirla. Scrivo per sfuggire al presagio che esiste un posto cui sono destinato ma che, proprio come in un sogno, non riesco a raggiungere. Scrivo perché non sono mai riuscito ad essere felice. Scrivo per essere felice.
Una settimana dopo avermi lasciato la valigia, mio padre mi fece ancora visita. Come sempre mi portò una tavoletta di cioccolata (aveva dimenticato i miei 48 anni). Come sempre chiacchierammo e ridemmo della vita, della politica e dei pettegolezzi di famiglia. A un certo punto mio padre andò con lo sguardo all’angolo in cui aveva lasciato la valigetta e vide che l’avevo spostata. Ci guardammo negli occhi. Seguì un silenzio imbarazzato. Non gli dissi che l’avevo aperta e avevo tentato di leggere ciò che conteneva, ma distolsi lo sguardo. Capì lo stesso. Come io capii che aveva capito. Come lui capiì che avevo capito che aveva capito. Ma tutta questa comprensione durò solo lo spazio di pochi secondi. Perché mio padre era un uomo accomodante, sicuro di sé: mi sorrise come faceva sempre. E andandosene mi ripeté tutte le frasi affettuose e incoraggianti che mi diceva sempre, da padre.
Come sempre lo guardai andar via, invidiando la sua serenità, la sua spensieratezza, la sua imperturbabilità. Ma ricordo che quel giorno avvertii dentro di me anche un lampo di gioia di cui mi vergognai. Veniva dal pensiero che magari non mi sentivo a suo agio come lui nella vita, magari non avevo condotto una vita felice e libera come la sua, ma io l’avevo dedicata alla scrittura - avete capito... mi vergognavo di pensare quelle cose a scapito di mio padre. Di tutte le persone proprio mio padre, che non mi aveva mai fatto soffrire, che mi aveva lasciato libero. Tutto questo dovrebbe ricordarci che la scrittura e la letteratura sono intimamente connesse a un vuoto, al centro di tutte le nostre vite, e a un senso di felicità e di colpa.
Ma la mia storia ha un’altra componente, simmetrica, che immediatamente mi riporta alla mente un altro aspetto di quel giorno e acuisce il mio senso di colpa. Ventitré anni prima che mio padre mi lasciasse la sua valigetta e quattro anni dopo aver deciso, all’età di 22 anni, di diventare romanziere e, abbandonando tutto, di chiudermi in una stanza, terminai il mio primo romanzo, Cevdet Bey and Sons. Consegnai a mio padre con mano tremante il dattiloscritto del romanzo ancora non pubblicato perché lo leggesse e mi desse il suo giudizio. Questo non solo perché avevo fiducia nel suo gusto e nella sua intelligenza: la sua opinione contava moltissimo per me perché lui, a differenza di mia madre, non si era opposto al mio desiderio di diventare scrittore. In quel periodo mio padre non era con noi, ma molto lontano. Attesi con impazienza il suo ritorno. Quando arrivò, due settimane dopo, corsi ad aprigli la porta. Non disse nulla, ma ad un tratto mi abbracciò in un modo che esprimeva che il libro gli era piaciuto moltissimo. Per un attimo sprofondammo in quel silenzio imbarazzato che accompagna spesso i momenti di grande emozione. Quando ci calmammo e iniziammo a parlare mio padre ricorse a parole cariche ed esagerate per esprimere la fiducia che riponeva in me e nel mio primo romanzo: mi disse che un giorno avrei vinto il premio che mi accingo a ricevere oggi con tanta gioia.
Lo disse non per cercare di convincermi che apprezzava il mio libro né per pormi l’obbiettivo di questo premio. Lo disse come un padre turco dice a un figlio a mo’ di incoraggiamento «un giorno diventerai un pascià!». Per anni, ogni volta che mi vedeva, ripeteva quelle parole per incoraggiarmi.
Mio padre è morto nel dicembre 2002.
(traduzione di Emilia Benghi) © The Nobel Foundation 2006
IL PREMIO NOBEL PER LA LETTERATURA A ORHAN PAMUK di FABIO SALOMONI *
Lo scrittore turco Orhan Pamuk ha vinto il Nobel per la letteratura 2006. Indicato da giorni come possibile favorito insieme al siriano Adonis, Pamuk, il cui nome era gia’ entrato in passato nella rosa dei candidati, e’ il primo scrittore turco ed il secondo scrittore, dopo Nagib Mahfuz, proveniente da un paese islamico, ad aver ottenuto il prestigioso riconoscimento. Nel passato prima di Pamuk almeno altri due autori turchi, il poeta Nazim Hikmet ed il romanziere Yasar Kemal erano stati candidati alla vittoria del Nobel.
Nella motivazione si parla "dell’arte del romanzo, dell’abilita’ di destreggiarsi attraverso identita’ e personalita’ plurime". Il segretario dell’Accademia Reale ha tenuto a precisare che motivazioni di ordine politico non hanno influenzato la scelta di premiare Pamuk. Il riferimento esplicito era alle sue disavventure giudiziarie vissute in patria. (...)
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Orhan Pamuk e’ figlio di una facoltosa famiglia borghese del quartiere di Nisantas a Istanbul. Dopo aver coltivato a lungo, ai tempi dell’Universita’, il sogno di diventare un pittore, a 23 anni ha deciso di diventare scrittore.
Come mi raccontava in un’intervista di alcuni anni fa "mi sono chiuso dentro casa e ne sono uscito solo dopo aver finito il mio primo romanzo". Si tratta del monumentale Il Signor Cevdet e figli, la storia, chiaramente autobiografica, di una famiglia borghese di Istanbul vista attraverso tre generazioni, un ideale punto di osservazione per raccontare il tribolato passaggio dal crollo dell’mpero ottomano alla nascita della repubblica kemalista.
Il romanzo e’ l’unico a non essere stato tradotto in italiano e del resto verso questo romanzo Pamuk ha a lungo avuto un atteggiamento ambivalente: "Per molto tempo non ho voluto che fosse tradotto - ha detto lo scrittore - perche’ non mi sembrava abbastanza postmoderno". A seguire una lunga serie di romanzi che gli hanno fatto guadagnare la notorieta’ internazionale: La casa del silenzio, Roccalba, il Libro nero, la Nuova vita, Il mio nome e’ Rosso.
Romanzi spesso di ambientazione ottomana nei quali, con un stile ed una scrittura raffinata, Pamuk scandaglia i grandi temi del suo paese. La cultura orientale, l’incontro con la tradizione occidentale, gli effetti che questo incontro produce, i conflitti dentro l’identita’ turca. Parlando de Il mio nome e’ Rosso, forse il suo romanzo migliore, Pamuk raccontava del tarlo che lo rodeva: "Io voglio una Turchia occidentalizzata, io sono per la cultura occidentale ma quello che mi interessa e’ capire le sofferenze ed i drammi che la sua introduzione ha portato nel paese". Pamuk non e’ pero’ uno scrittore politico, egli stesso nega di esserlo. Anche in un romanzo ambientato nella Turchia moderna come La nuova vita, che narra dei travagli di giovani universitari, le scottanti questioni dell’attualita’ politica rimangono sullo sfondo. A prevalere e’ ancora il tema dell’identita’ culturale e degli effetti dell’occidentalizzazione.
Alla fine pero’ arriva anche il romanzo politico, Neve, del 2002, "Il mio primo e ultimo romanzo politico". Ambientato a Kars, una cittadina di montagna al confine con l’Armenia, il romanzo, che forse non il migliore dal punto di vista letterario, si tuffa nel cuore dell’attualita’ politica e sociale turca. Gli strascichi delle contrapposizioni ideologiche tra destra e sinistra ma soprattutto la questione della crescita dell’islam politico, la questione del velo e la condizione femminile.
Un romanzo che ha avuto l’innegabile merito di aver fatto conoscere ad una opinione pubblica internazionale a corto di informazioni, uno spaccato dei travagli che attraversano la societa’ turca.
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Se quest’ultimo romanzo consacrava il nome di Pamuk nell’Olimpo della letteratura mondiale, in patria la figura di Pamuk e’ pero’ rimasta abbastanza controversa. Molto letto certo, Pamuk e’ stato pero’ spesso accusato di scrivere "per l’Occidente" e di usare una lingua molto ricca, a volte difficile da capire. Molti poi, e non soltanto tra i suoi colleghi, di fatto semplicemente non gli hanno mai perdonato di essere molto popolare all’estero e di vendere molto.
Questo groviglio di sentimenti ed invidie ha avuto l’occasione di venire apertamente allo scoperto all’indomani delle sue dichiarazioni sul genocidio ameno. Nel 2005 ad un inserto culturale svizzero Pamuk ha dichiarato che "i turchi hanno ucciso un milione di armeni e 30.000 curdi. Nessuno ha il coraggio di dirlo e allora lo faccio io".
Come ha raccontato poi in un articolo al quotidiano "Radikal" le conseguenze sono state una valanga di minacce di morte e campagne d’odio orchestrate della stampa nazionalista che lo accusava "di aver svenduto il paese per qualche copia in piu’". Di fatto il solito refrain servito ora in chiave nazionalista: Pamuk per essere cosi’ popolare all’estero racconta quello che gli occidentali vogliono ascoltare e denigra il nostro paese. Un vero e proprio linciaggio morale che lo ha costretto ad un lungo silenzio ed all’esilio su una delle isolette che stanno di fronte ad Istanbul.
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Non e’ bastato pero’ per calmare le acque perche’ su iniziativa dell’avvocato Kerincsiz, un vero e proprio professionista della provocazione nazionalista nei confronti degli intellettuali turchi, un tribunale ha aperto un procedimento contro di lui in base ad un famigerato articolo del riformato codice penale, il 301, quello che parla di "oltraggio alla turchita’". Concetto astratto dai contorni quasi esoterici che si presta alle piu’ disinvolte interpretazioni, esso rappresenta da tempo una vera e proprio spada di Damocle che pende sulla liberta’ di pensiero e di espressione in Turchia.
Le udienze del processo Pamuk, che i nazionalisti hanno saputo trasformare in una gazzarra indegna, hanno pero’ permesso di riportare il tema della liberta’ di espressione ed il contenuto dell’articolo 301 al centro dell’agenda politica ed anche dell’attenzione internazionale. La notorieta’ di Pamuk ha di fatto trasformato lo scrittore in un simbolo ed ha permesso che si parlasse anche delle decine di scrittori ed editori meno noti costretti a comparire davanti ad un tribunale per difendersi dall’accusa di aver violato questo articolo. L’ultimo caso, poche settimane fa, quello della scrittrice Elif Safak, prosciolta, come prosciolto e’ stato anche Pamuk.
L’articolo 301 e’ diventato cosi’ uno dei temi caldi delle relazioni turco-europee. Nell’ultimo rapporto sullo stato delle riforme, l’Unione Europea chiedeva esplicitamente al governo turco di abolire questo articolo. A lungo il governo Erdogan ha resistito a queste richieste, temendo di apparire debole di fronte alle pressioni europee. Il primo ministro ha sempre chiesto che si guardasse non al contenuto dell’articolo ma alle decisioni dei tribunali. Se e’ vero che gran parte degli accusati e’ stata assolta, ve ne sono alcuni che sono stati condannati, come lo scrittore armeno Hrant Dink. E poi come ha ricordato Hans Georg Kretschmer, rappresentante dell’Unione uropea in Turchia, in nessun paese europeo gli scrittori sono trascinati davanti ai tribunali per i loro scritti.
[Dal quotidiano "Liberazione" del 13 ottobre 2006 riportiamo ampi stralci del seguente articolo.
Fabio Salomoni e’ corrispondente da Istanbul per l’Osservatorio sui Balcani. Orhan Pamuk, 54 anni, coraggioso scrittore turco, gravemente minacciato dai nazionalisti e duramente perseguitato dal regime per aver nelle sue opere denunciato i massacri commessi dalla stato turco - il genocidio degli armeni, la feroce repressione dei curdi -, e’ stato quest’anno insignito del premio Nobel per la letteratura. Dal sito www.unita.it riprendiamo la seguente scheda: "Un autore ’in cerca della malinconica anima della sua citta’ natale ha scoperto nuovi simboli dello scontro e dell’intreccio tra le culture’.
Cosi’ l’accademia svedese spiega le motivazioni con cui si e’ giunti ad assegnare il premio Nobel per la letteratura allo scrittore turco Orhan Pamuk. Nato nel 1952 in una famiglia borghese benestante di alterne fortune (il padre fu il primo dirigente della sezione turca dell’Ibm), tranne una breve parentesi trascorsa negli States, ha sempre vissuto a Istanbul. Ha iniziato a scrivere romanzi nel ’74 ma il successo popolare arriva nel 1990 con il romanzo Il libro nero, che diventa rapidamente una delle letture piu’ controverse della letteratura turca, grazie alla notevole complessita’ e ricchezza narrativa.
La reputazione internazionale di Pamuk cresce, nel 2000, in seguito alla pubblicazione di Benim Adim Kirmizi (Il mio nome e’ rosso). Il romanzo, ambientato nell’Istanbul del sedicesimo secolo, mescola mistero, passione e filosofia. Viene tradotto in 24 lingue e vince, nel 2003, il piu’ remunerativo dei premi letterari internazionali: l’International Impac Dublin Literary Award.
Nonostante sia considerato, anche in Turchia, uno dei maggior autori contemporanei, una significativa parte dell’opinione pubblica turca si e’ schierata contro di lui quando, alla fine del 2005, viene incriminato per violazione del famigerato articolo 301 del codice penale contro ’l’oltraggio all’identita’ turca’. ’In un’intervista per una rivista svizzera ho detto che in Turchia sono stati uccisi un milione di armeni e 30.000 curdi. E anche che penso che nel nostro paese non si parli di queste cose perche’ rappresentano un tabu’’ racconta Pamuk in un articolo.
Forse, proprio grazie alla sua popolarita’ internazionale, alla fine le accuse contro di lui cadono. Nonostante questo un sottoprefetto della citta’ di Isparta ordino’ addirittura la distruzione dei suoi romanzi nelle librerie e biblioteche. Molto noto come commentatore politico e sociale, Pamuk rivendica pero’ di essere in primis uno scrittore senza alcuna ’agenda politica’. Vero e’ che, oltre alla condanna della censura sul genocidio di armeni e curdi, Pamuk ha preso posizioni anche su altri argomenti ed e’ stato anche il primo autore nel mondo musulmano a condannare pubblicamente la ’fatwa’ contro Salman Rushdie".
Tra le opere di Orhan Pamuk: Cevdet Bey Ve Ogullary (Il signor Cevdet e i suoi figli, 1982); La casa del silenzio (1983, in Italia pubblicato da Frassinelli); Il castello bianco (1991, in Italia pubblicato da Einaudi); Il libro nero (1994, in Italia pubblicato da Frassinelli); La nuova vita (1997, in Italia pubblicato da Einaudi); Il mio nome e’ Rosso (2001, in Italia pubblicato da Einaudi); Neve (2004, in Italia pubblicato da Einaudi); Istanbul (2005, in Italia pubblicato da Einaudi)]
LA NONVIOLENZA E’ IN CAMMINO
Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Numero 1450 del 16 ottobre 2006
La notizia è stata data dal direttore del quotidiano "Sabah". "E’ partito in segreto per gli Usa. Era preoccupato per le minacce"
"Il premio Nobel Pamuk è fuggito. Ha deciso di lasciare la Turchia" *
ANKARA - Lo scrittore Orhan Pamuk, Nobel per la letteratura 2006, ieri è partito in gran segreto per gli Stati Uniti. Ma non si tratta di un viaggio qualunque, bensì di una vera e propria fuga: "E’ scappato per un lungo tempo dalla Turchia", portando con sè i suoi averi, scrive il direttore del quotidiano turco Sabah, Fatih Altayli, aggiungendo che ieri pur avendo avuto la notizia in anticipo non l’ha pubblicata "per evitare che all’aeroporto di Istanbul vi fossero proteste contro Pamuk".
"L’altro ieri, abbiamo ricevuto una notizia molto interessante: Pamuk era molto preoccupato per gli ultimi avvenimenti in Turchia, ed aveva deciso di andarsene definitivamente dal paese" - scrive Altayli con riferimento all’omicidio di Hrant Dink, alle minacce pronunciate dagli assassini contro lo stesso Pamuk e al rifiuto del governo turco di modificare l’articolo 301 del codice penale.
"Avevo anche saputo che Pamuk aveva ritirato dal suo conto 400 mila dollari e partiva dalla Turchia con l’intenzione di non ritornarci per un lungo periodo - aggiunge Altayli - Abbiamo anche accertato che Pamuk aveva prenotato un posto sull’aereo delle ore 11:20 e, in pratica che se ne andava definitivamente dalla Turchia".
"Eravamo combattuti tra il dovere giornalistico e le considerazioni umane. Abbiamo deciso di non scrivere la notizia e di non fornire tutti questi particolari della partenza perchè una tale notizia poteva suscitare proteste contro Pamuk all’aeroporto ed ostacolare la sua partenza" racconta il direttore di Sabah, che conclude invitando i lettori a "valutare da sé il danno che la partenza di Pamuk infligge all’immagine della Turchia".
Pamuk agli inizi della settimana aveva annullato un programma di conferenze e di festeggiamenti in suo onore in Germania e aveva fatto sapere di non essere in Turchia.
Uno degli uomini che hanno organizzato dell’omicidio di Hrant Dink, mentre veniva portato dal tribunale in prigione, dopo il suo rinvio a giudizio aveva urlato davanti alle telecamere: "Pamuk ora attento a te. Sii intelligente". Le forze di sicurezza turche avevano preso molto sul serio quella minaccia ed avevano messo sotto scorta Pamuk ed altri 17 scrittori e giornalisti turchi esposti per non essere allineati con le opinioni dei nazionalisti turchi.
* la Repubblica, 2 febbraio 2007