Uno scintillio di mille colori ...

Allo scrittore turco, Orhan PAMUK, il premio Nobel per la Letteratura. Una "analisi" di Barbara Spinelli, e una recensione di Pietro Citati

«È perché le nostre menti moderne sono così precarie, scivolose, che la libertà d’espressione diventa così importante: ne abbiamo bisogno per capire noi stessi, i nostri umbratili, contraddittori, più intimi pensieri; la fierezza e la vergogna che ci abitano»
domenica 15 ottobre 2006.
 

IL NOBEL A PAMUK

Elogio dell’artista non militante

di Barbara Spinelli *

A prima vista sembrerebbe che il premio Nobel sia andato a un letterato d’Oriente che ha acquisito grandezza grazie alle virtù dell’impegno: il tanto discusso engagement, che gli occidentali conobbero ai tempi di Sartre.

Di Orhan Pamuk si ricordano in questi giorni le battaglie care all’Europa, all’Occidente: l’indignazione per la fatwa che nell’89 colpì Rushdie, l’ostracismo e le minacce che il romanziere turco subì quando nel febbraio 2005 ebbe la sfacciataggine di dire, al giornale svizzero Tages-Anzeiger, una verità che i politici turchi non intendono ammettere: «Un milione di armeni e 30.000 curdi sono stati uccisi su queste terre, ma quasi nessuno ne parla a parte me. Per questo i nazionalisti mi odiano».

Pamuk non usa la parola genocidio a proposito degli armeni, ma il solo evocarli fu considerato un «insulto all’identità turca». Schieramento politico dunque, più che arte; militanza, più che romanzo: il pensiero che ha guidato i giurati di Stoccolma sembra esser questo, se del premiato scordiamo l’opera.

Le cose tuttavia non stanno così, a vederle da vicino. Troppo grande è la riluttanza di Pamuk a considerarsi un impegnato novecentesco, trapiantato nel nostro secolo. La parola stessa - impegno - è qualcosa che aborre: quando parla di militanza prende subito le distanze e dice che è «caduto nella politica» come si cade in un «destino malvagio». Non è Sartre e neppure Zola il suo modello, ma Nabokov, Dostoevskij, Proust.

L’impegno spinge a vedere il mondo in due colori (bianco-nero, bene-male) mentre Pamuk ama una gamma multipla di toni. I colori sono un Leitmotiv delle sue opere: il rosso che adora (e addirittura prende la parola come fosse un personaggio, in un capitolo de Il mio nome è rosso); il bianco che paralizza come nel Moby Dick di Melville (Neve); il «velluto del buio» che è Allah. Non è la militanza che l’ha reso grande ma questo andirivieni di colori, civiltà, passioni. L’impegno è un sottoprodotto della sua arte e non viceversa: è l’essere artista e non l’esser militante che gli dà quest’inusuale libertà di giudizio. La scelta di premiarlo è ben più saggia di quel che appare.

Leggere i romanzi di Pamuk aiuta a vivere il tempo che traversiamo proprio per questa sua allergia all’impegno univoco. Perché son romanzi che non connettono le cose le une alle altre ma incessantemente le sconnettono, scompongono le storie collettive e individuali, mostrando come solo la diversità di esperienze e caratteri produca quello cui tutti agogniamo: lo scintillio. Anche nelle sue posizioni politiche c’è questo scintillio, perché le idee che espone son sempre contraddittorie, mai accampano un’esclusiva verità, mai si presentano - capziose - come filo-occidentali. Si abbatte sull’Occidente l’11 settembre, e Pamuk ricorda l’umiliazione di un mondo arabo e musulmano che non sopporta l’arrogante Occidente. Vince Erdogan in Turchia, e Pamuk se la prende con le visioni sempliciste e demonizzanti sull’Islam, e con un’Europa e un’America che non mossero un dito, quando Erdogan fu incarcerato dal potere per aver recitato una innocua poesia musulmana.

Tutti parlano di guerra tra Occidente cristiano e Oriente musulmano, e lui ricorda che Oriente e Occidente devono poter vivere l’uno accanto all’altro, mescolandosi ma restando se stessi. Se non riescono a convivere è perché non hanno memoria di quel che sono, riducendo la propria molteplicità a un’unica identità: il cristianesimo in Europa, l’Islam a Oriente. Ricordare è quel che non dà confini al variare di colori e consente lo scintillio, anche quando il ricordo è orrido e provoca vergogna.

L’opera di Pamuk è così multicolore perché abitata dal ricordo. Ricordo del Libro dei Re scritto nella Persia dell’anno Mille, ricordo della fantastica scuola miniaturista di Herat nel ’400 quando fa apparizione il ritratto, e giungendo all’oggi: ricordo del romanzo ottocentesco, dell’impero ottomano, della distruzione delle minoranze in Turchia. Quel che lo interessa è l’affanno scabroso dei ricordi, quando per occultarli si edificano tabù. Parlando della questione armena a Le Monde, il 4 novembre 2005, ha detto: «Quando si cerca di reprimere i ricordi, c’è sempre qualcosa che ritorna. Io sono quel che ritorna».

Pamuk è quel che ritorna: sotto forma di fierezza e di vergogna, due parole che ricorrono nelle sue dichiarazioni e nei romanzi. Due parole apparentemente contrastanti, che però descrivono con precisione il rapporto tra Occidente e Oriente: il loro continuo mescolarsi e scindersi; la tendenza a risolvere queste complicazioni con la violenza.

Una tentazione forte in Occidente come in Oriente, quando prende il sopravvento la più mortifera delle passioni: il nazionalismo. In fondo, il nazionalismo è più inviso da Pamuk del fondamentalismo religioso: è il male da cui tutto discende. È quando l’Islam radicale si congiunge col nazionalismo che diventa letale. Di qui l’ansia di sconnettere, distinguere, con l’aiuto della memoria che fa tornare le diversità a galla e che fa capire la vergogna annidata nelle fierezze, l’invidia e l’umiliazione che impregnano il rapporto dell’Oriente con l’Occidente.

Il romanzo che più aiuta a capire e vivere il tempo presente è Il mio nome è rosso (Einaudi 2005), squisitamente descritto su la Repubblica del 13 ottobre da Pietro Citati. Aiuta perché il tema e la scrittura son sempre quelli: multicolori, zampillanti da innumerevoli punti di vista, ambigui, ripetutamente sfuggenti. E la guerra narrata (un regolamento di conti fra diverse scuole di miniaturisti, nella corte d’un sultano alla fine del Cinquecento) rimanda a tanti eventi presenti, trattati altrove dallo scrittore: rimanda all’11 settembre e alle guerre in Afghanistan e Iraq, agli eccidi di armeni e curdi nella sua Turchia, al mestiere di scrivere e impegnarsi. Nella scuola dei miniaturisti come nel mondo oggi, è la paura suscitata dal nuovo e dal diverso che genera prima solitudine, poi invidia, poi una micidiale umiliazione.

Spossessato delle sue tradizioni, il miniaturista del XVI secolo è sedotto da un’arte europea per lui affatto nuova e sacrilega - l’arte del ritratto, del quadro firmato, della prospettiva - e si sente abissalmente solo, sgomento, infine umiliato: non sarà mai all’altezza di Bellini e di quel che ha visto a Venezia, anche se vorrebbe appropriarsene; non sarà che un imitatore. Pamuk racconta, non sceglie. C’è qualcosa di grandioso nella scuola dell’antica Persia («I maestri di Herat cercavano di dipingere il mondo così com’è visto da Dio, e si guardavano dal mostrarsi originali e ancor meno dal firmare le opere»). E c’è il fascino della pittura europea, che permette all’artista di esprimere originalità, diversità, raffigurando il mondo come lo vede l’uomo. Lo stile stesso è equivoco. Per l’antica scuola dei miniaturisti è «un difetto che consente di riconoscere l’autore», dice un personaggio. Per l’europeo è la varietà infinitamente umana dell’arte.

L’idea che Pamuk ha dell’Europa, e che lo spinge ad esser fautore veemente dell’ingresso della Turchia nell’Unione, ha legami profondi con la materia dei suoi romanzi. L’Europa non è un polo di attrazione perché è cristiana, e non è in quanto tale che seduce e conta. Quel che attira è la varietà di cui è stata capace: una varietà che le viene dalla letteratura, dalla pittura, e dallo spazio che esse aprono all’individuo.

Pamuk lo ha spiegato quando ha ricevuto il premio per la Pace a Francoforte, nel 2005. Il vero dono europeo all’Oriente, ha detto, è l’arte del romanzo. «Il mondo intero esiste per entrare in un libro», così Mallarmé, e Pamuk lo cita quando spiega il proprio attaccamento all’Europa. È il ritratto raccontato che lo affascina: «Insieme con la musica orchestrale e l’arte del Rinascimento, è il romanzo che secondo me fonda l’essenza e l’identità dell’Europa», ha detto. Il romanzo è «scuola di pensiero, di comprensione, di immedesimazione». Il romanzo permette di entrare nei più diversi personaggi, specialmente nei più malvagi, e per natura esclude le bellicose visioni militanti.

Pamuk è un deciso oppositore delle guerre che l’America sta conducendo contro il terrorismo. È persuaso che il fossato tra Occidente e Oriente sia diventato un baratro, soprattutto a seguito della guerra in Iraq. Pamuk si rifiuta di metter sullo stesso piano l’11 settembre e il dominio americano sul mondo. Ma invita a capire quel che vien provocato da tale dominio: il rancore umiliato verso l’Occidente, e l’«idiota contrapposizione» tra Islam e cristianesimo. «Bisogna cercare di capire come mai milioni di persone nei Paesi poveri, rinchiusi in quella povertà e privati del diritto di decidere le proprie storie, sentono una tale collera verso l’America», scrive sul New York Review of Books poco dopo l’attentato alle torri (The Anger of the Damned, 15 novembre 2001).

Il romanzo e la letteratura ci salveranno, perché comprendono i più disparati colori, caratteri. In un articolo sul settimanale The Atlantic Monthly, nel 2004, Christopher Hitchens ha accusato Pamuk di mostrare troppa comprensione per l’Islam, nel romanzo Neve. Pamuk risponde che «la regola d’oro, per scrivere un bel romanzo, è di immedesimarsi in tutti i personaggi. È l’identificazione coi personaggi tenebrosi che rende il romanzo ancora migliore. Lo insegna Dostoevskij».

La libertà d’espressione è il suo pensiero dominante e anch’esso non nasce dalla militanza classica, che trasforma l’arte in politica. È una libertà indispensabile proprio perché il mondo è fatto di molteplici identità, che perennemente mutano e non sono riducibili a una religione. «È perché le nostre menti moderne sono così precarie, scivolose, che la libertà d’espressione diventa così importante: ne abbiamo bisogno per capire noi stessi, i nostri umbratili, contraddittori, più intimi pensieri; la fierezza e la vergogna che ci abitano» (Discorso al Pen Club, 25 aprile 2006). Ciascuno di noi ha, su tante vicende, visioni così discordi, scivolose. La libertà d’espressione serve a proteggerle simultaneamente tutte.

Pensare che oggi siamo in una guerra comporta un rischio contro il quale Pamuk mette in guardia. Il rischio è che tutti, in Europa, diveniamo come la Turchia: un Paese sempre minacciato dalla legge marziale. Un Paese che vorrebbe diventare europeo ma è ossessionato dall’identità e proprio per questo corre il pericolo di perderla. Lo scintillio cui aspiriamo è nel rifiuto di questo tipo di guerra, e il premio a Pamuk è, almeno secondo me, un omaggio a questo scintillio.

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La Stampa, 15.10.2006


Un assassino fra i libri di mille colori

Torna ’Il mio nome è rosso’ di Orhan Pamuk, la storia dei miniaturisti alla corte del Sultano

di Piero Citati *

Il mio nome è rosso, che Orhan Pamuk compose nel 1998 (ora in edizione tascabile: Einaudi, traduzione di Marta Bertocchi e Semsa Gezgin, pagg. 456, euro 11,80) è probabilmente il più bel romanzo apparso negli ultimi anni in qualsiasi lingua. è un robusto romanzo realistico: una favola a cui sia l’ Oriente sia l’ Occidente prendono parte: un colorato testo shakespeariano come quelli di Dickens: una nera storia di delitti notturni: una superba architettura intellettuale; un libro di miniature, dipinte non sappiamo se dall’ uomo o da Allah, re dei miniaturisti. Siamo su un teatro vasto come Istanbul. Moltissime voci - miniaturisti, calligrafi, visir, cavalli, alberi, monete, morti, spettri, mendicanti, ruffiane - inscenano insieme, ognuno con il proprio suono e colore, una immensa opera lirica, composta da un autore di cui ignoriamo il nome. Ciò che sorprende, in primo luogo, è la vicinanza con la grande tradizione. Nessuno scrittore occidentale sarebbe capace, oggi, di scrivere un libro dove continuano a parlare Tasso o Shakespeare o Rabelais.

Il mio nome è rosso è figlio di due testi: Il libro dei re di Firdousi e il Quintetto di Nezami, capolavori dell’ antica letteratura persiana. Ma discende anche dal più famoso libro di miniature persiane, Il libro dei re di Shah Tahmasp, composto nel sedicesimo secolo dai miniatori e dai calligrafi della scuola di Herat e della scuola di Tabriz, che avevano riunito i loro stili. Non c’ è nessuna differenza tra la parola e la miniatura: la parola splende di colori, la miniatura contiene il segreto delle parole; il fluire ininterrotto della scrittura assomiglia allo stormire delle foglie di platano e di melograno, che il pittore dipinge una per una.

Alla fine del sedicesimo secolo, il Sultano Effendi decise di far comporre un testo, che eguagliasse Il libro dei re di Shah Tahmasp, raccogliendo le apparenze e i segreti dell’ universo. Al Sultano turco non importavano né le guerre, né gli intrighi politici, né le ricchezze, né gli amori, né la morte. A lui importava soltanto di segnare con il proprio nome il foltissimo volume di miniature: la sua composizione è il vero soggetto del romanzo rosso, che Orhan Pamuk ha composto quattro secoli dopo.

Ottanta miniaturisti e calligrafi si raccolsero così nel laboratorio del Sultano. Ognuno aveva un compito. Ognuno lavorava nella sua piccola cella silenziosa, dove c’ erano le lunghe forbici per tagliare la carta, la vaschetta dei colori, il bricco del caffè, il pennello fatto con i peli delle orecchie del gatto, lo specchio per controllare le pagine, il focolare, i temperini, le penne dal manico d’ oro. Ciascuno cominciava a lavorare dopo la preghiera del mattino, fino a quando, a mezzanotte, i suoi occhi stanchi cominciavano a lacrimare per la fatica.

Le miniature non erano dipinte secondo un solo punto di vista, come la pittura europea, ma secondo molteplici punti di vista: certi oggetti erano visti di fronte, altri dall’ alto, come da un uccello in volo. Qualche pittore decorava soltanto i bordi delle pagine: foglie al suolo, nuvole ricciute alla maniera cinese, foreste dove si nascondevano le gazzelle, suonatori di liuto, passeri che saltellavano, nibbi inesperti. Qualcuno dipingeva rocce viola o verdi o celesti, che si muovevano come marosi e prorompevano le une sopra le altre. Qualcuno dipingeva case - così leggere da sembrare di pergamena: o svelti cipressi o alberi da frutta impreziositi da una fioritura bianca e rosa: o uomini fragilissimi, con le teste piccole e corpi svelti e flessibili; o cavalli con i colli arcuati come lettere del Corano. In un luogo della miniatura, dietro una roccia o una finestra o una porta, si affacciava un personaggio che guardava: il giovane Alessandro Magno o una ragazza o un dèmone. Guardava verso di noi, che a nostra volta li guardiamo, quattro secoli dopo, entrando anche noi nel libro di Pamuk.

Lo sguardo del pittore non era soltanto il suo sguardo: ma anche, e sopratutto, quello di Allah. Egli vedeva, o immaginava o creava il mondo, come lo creava e lo vedeva Allah. Quei fogli fittissimi dove tanti peli di orecchie di gatto si erano posati, non imitavano la realtà di ogni giorno, coi suoi volti, le strade, gli alberi e i cavalli. Il pittore guardava il mondo dall’ alto, come da un minareto; e la sua mente sovrana, e la sua memoria sovrana, si affidavano al tocco delicato e obbediente dei pennelli. Ogni artista inseguiva il culmine delle cose: il color rosso, al quale tutti i colori tendono e nel quale si perdono. Il rosso proclamava: «Non ho paura degli altri colori, delle ombre, della folla o della solitudine. Com’ è bello riempire con il mio fuoco vittorioso una superficie che mi attende! Dove io mi espando, gli occhi brillano, le passioni si fortificano, le sopracciglia si alzano, i cuori battono forte. Guardatemi, com’ è bello vivere. Contemplatemi, come è bello vedere. Io vedo dovunque. La vita comincia con me; e torna a me, credetemi». Il rosso era il colore di Allah: rossi erano gli abiti delle donne, l’ inchiostro, il sangue, il matrimonio, la morte, il fodero della spada, la sella dei cavalli, e la prodigiosa felicità, che risveglia in noi la pittura dei maestri. Quando il pennello occupava le mani dall’ alba a mezzanotte, gli occhi dei pittori si stancavano, si infiammavano, si indebolivano. Era una condizione tragica: la cecità era vicina.

I maestri di Shiraz consigliavano di non fissare mai un punto preciso, ma di guardare lontano, oltre ogni limite, lavando gli occhi con l’ acqua benedetta. Quasi sempre, la cecità giungeva: o il miniaturista si feriva gli occhi con uno spillone d’ oro. Ma egli sapeva che la cecità era la condizione suprema. Allora dipingeva soltanto con la mente e la memoria: la stessa memoria con cui Allah guardava i cavalli che aveva creato. Se non diventava cieco, doveva guardare il mondo come se non lo vedesse, entrando "nel velluto del buio" di Allah, dove avveniva la vera visione. Trovava il suo stile, che consisteva nella liberazione da ogni traccia di stile. Conosceva la felicità; e chi guardava i libri miniati possedeva la stessa felicità, perché la luce gli irradiava il viso. Mentre gli ottanta miniaturisti e calligrafi compivano il libro del Sultano, l’ arte della miniatura persiana e ottomana era minacciata. Da Venezia e da tutta l’ Europa, giungevano i capolavori occidentali. Lì c’ era ciò che noi siamo abituati a chiamare realtà: i volti reali con le rughe e le ombre, le montagne con le spaccature e gli abissi, i cavalli che imitavano i veri cavalli di Dio.

Il pittore disegnava tutto ciò che l’ occhio vedeva, come l’ occhio lo vedeva. I macellai, i sarti, i droghieri, i marinai, i doge di Venezia volevano ciascuno il proprio ritratto, come se ciascuno di loro volesse diventare una creatura completamente diversa dalle altre. Se i pittori occidentali avessero vinto, il mondo sarebbe completamente cambiato. Il cuore della miniatura sarebbe stato ogni particolare, amorosamente e fedelmente imitato, non la mente e la memoria riflesse di Allah. In quel momento, sarebbero scomparsi i colori purissimi, immersi in una luce uniformemente diffusa: il cielo d’ oro, l’ acqua d’ argento, il suolo celeste; e gli ardenti giallo limone, i teneri rosa salmone, i misteriosi bianchi avorio, che nessuno ha mai visto in natura.

Nel Mio nome è rosso, le notti e i giorni ad Istanbul, che Pamuk rappresenta, sono l’ eco e il riflesso delle miniature. è inverno. è notte. Regna il silenzio. Le strade e i muri sono coperti di neve: la luce fioca di una lampada ancora accesa filtra dalle persiane chiuse e si riflette nella neve. In due notti successive, due pittori vengono massacrati. Non sappiamo chi sia l’ assassino, sebbene nel libro di Pamuk egli ci parli come gli altri narratori. Il nostro orecchio ascolta soltanto il becchettio del passero, che beve l’ acqua dal secchio del pozzo. Quando giungono le prime luci, appaiono i luoghi di Istanbul: i palazzi, le piazze, le strade, le botteghe dei barbieri e dei sarti, dei fabbricanti di spade e di stivali, del velluto e dell’ argento. La folla si raccoglie nelle piazze, senza lasciare uno spazio vuoto. Qualcuno beve gli sciroppi d’ amarena o di datteri tiepidi d’ Arabia: mangia l’ uva sultanina, i fichi secchi, le gelatine di frutta, le caramelle di zucchero candito, il pane di mandorla, i dolci di sesamo o al miele. Qualcuno indossa le mussole, gli scialli, il velluto, qualsiasi stoffa tratta dalla cornucopia dei tessuti. Tutto è sontuoso e raccoglie lo scintillio delle luci. Le strade, le piazze, i vicoli moltiplicano i rumori: battono i bastoni delle ronde, ululano i cani idrofobi, i bambini piangono o si lamentano. Il libro del sultano Effendi è anche il Libro dei Morti. Un pittore viene sepolto in un pozzo: la sua anima si divincola inutilmente cercando di lasciare il corpo; un altro giace nel suo studio con la testa fracassata. Intorno si aggirano i fantasmi, le streghe i ginn trasportati dal vento, che penetrano negli oggetti, abitano le cose vuote, squittiscono nel silenzio.

Il mio nome è rosso è un libro doppio, come sono spesso i grandi libri. Da un lato, nel volume del Sultano Effendi, splende la voce della tradizione persiana: Il libro dei re di Shah Tahmasp continua ad essere il modello supremo. Dovunque risuona lo sguardo di Allah, la cecità come vera visione, la mente e la memoria, il rosso; e i celesti e i rosa e i verdi tenerissimi, di cui Allah si compiace. Ma, d’ altra parte, questa voce antica sembra esausta. Lo sguardo di Allah si allontana: il rosso impallidisce o diventa solo il colore dei morti; gli spettri si insinuano nelle cose. I ritratti, le prospettive, le rughe, le ombre, e i particolari realistici della pittura europea stanno per affascinare anche la Persia e la Turchia. Prima di massacrare il proprio nemico, il pittore assassino annuncia la prossima fine della miniatura e del mondo. «Le migliaia di uccelli di ogni specie, tra cui la saggia upupa, il passero saltellante, l’ inesperto nibbio, l’ usignolo poeta: i gatti quieti e i cani irrequieti: le nuvole ricciute, le erbette ripetute, le rocce simili ai marosi, le migliaia di cipressi, platani e melograni, le foglie disegnate con attenzione scrupolosa: i palazzi e tutti i loro mattoni lucidissimi, i principi tristi seduti sotto l’ albero primaverile, i sultani che cacciano con raffinatezza e le gazzelle che fuggono con la stessa raffinatezza: i galeoni infedeli e le città nemiche, e le notti buie o brillanti, e le stelle che sembrano fantasmi, e l’ amore e la morte che tu colori di rosso - tutte queste immagini, ricami e capricci, tutto il mondo che noi amiamo e dipingiamo, obbedendo allo sguardo di Dio, tutto, tutto scomparirà per sempre...». Anche gli altri miniaturisti del Sultano comprendono che i loro metodi moriranno, e i colori sbiadiranno. Forse, nessuno si interesserà più alla loro arte. I topi insaziabili divoreranno le pagine: i tarli, i vermi e gli insetti le corroderanno. I volumi verranno strappati, le pagine staccate: i ladri, i bambini e le donne che accendono i focolari distruggeranno i ricami e i disegni: le piogge intrideranno d’ acqua i fogli logori e bucherellati. Forse, resterà soltanto un ultimo volume, uscito per miracolo dal fondo asciuttissimo di una casa miracolosa. Ma nemmeno per questo libro ci sarà salvezza: perché la furia di un incendio spietato accenderà l’ ultimo rogo.


* la Repubblica, 03.01.2006


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