L’orologio dell’Apocalisse |
Clima, il sacrificio del futuro
di Barbara Spinelli (La Stampa,28.01.2007)
Dice Carl Gustav Jung che la gente «non può sopportare troppa realtà»: preferisce pensare ad altro, chiudere le finestre, rinviare il momento in cui guarderà quel che ha davanti e deciderà il da farsi. Il cambiamento del clima che stiamo vivendo è una di queste realtà, ormai ben visibile e proprio per questo insopportabile. È difficile guardare la catastrofe che s’avvicina, perché noi stessi l’abbiamo in parte creata e stiamo accelerandola: con i nostri comportamenti di consumatori, con la nostra abitudine al petrolio a buon prezzo e all’acqua sprecata come fosse inesauribile, con le nostre politiche incuranti, asservite a lobby e compagnie petrolifere.
Le scienze economiche aiutano poco a fronteggiare il male, prigioniere come sono - da decenni - di ideologie liberiste senza più costrutto: l’invisibile mano del mercato non produce correzioni del clima, e l’individualismo che s’accompagna a tale ideologia perpetua le illusioni della belle époque petrolifera che ci ha viziati e accecati, con la benzina poco cara e l’atmosfera che intanto si riempiva di biossido di carbonio.
Perfino la preferenza assoluta che si tende oggi ad accordare al cittadino-consumatore, rispetto al cittadino-produttore, potrebbe rivelarsi intelligente ma fatale: se stesse nel consumatore, nessun prezzo aumenterebbe e di certo non quello di petrolio o gas. Questo nel momento in cui proprio il contrario si impone: che i prezzi restino alti, in modo da favorire la ricerca - subito - di energie alternative (vento, solare, anche nucleare). E che la tassa sull’emissione di anidride carbonica, già adottata in gran parte d’Europa, diventi una necessità anche agli occhi degli Stati Uniti, prima potenza mondiale non per saggezza ma per i danni che sta arrecando al pianeta.
Venerdì prossimo, 2 febbraio, ne sapremo ancora di più: l’Ipcc, un organismo delle Nazioni Unite nato nell’88 per studiare il cambiamento climatico, pubblicherà un nuovo rapporto. L’Observer annuncia fin d’ora che il linguaggio sarà improntato al massimo allarme, e la conclusione inequivocabile. Non ci saranno più dubbi sulle responsabilità dell’uomo nel riscaldamento planetario, e sul nostro destino qualora si continuasse come se nulla fosse.
Il collasso delle attuali condizioni di vita, dunque della nostra civiltà, è già oggi anticipabile da quel che vediamo, viviamo: i ghiacciai tendono a sciogliersi - al Polo Nord, al Polo Sud, in Groenlandia - e, come è già avvenuto nella storia terrestre, il livello del mare di conseguenza si alza. Intere regioni e città minacciano d’essere sommerse (New York, Florida, Olanda - solo in Cina, Bangladesh e India i rifugiati sarebbero 520 milioni). È un riscaldamento dovuto anche alla radiazione solare, sostengono alcuni scienziati, ma l’emissione di anidride carbonica (CO2) contribuisce grandemente a dilatarlo e ad accelerarne i tempi. Ogni volta che si consuma petrolio o gas naturale o carbone si sprigiona questa letale sostanza e ci si avvicina al punto critico, di non ritorno.
Anche il metano è sostanza che surriscalda, ed è destinato a esser liberato nell’atmosfera con lo sciogliersi del permafrost in varie regioni e soprattutto in Siberia, dove il ghiaccio sta diluendosi per la prima volta da quando si formò, undicimila anni fa alla fine dell’ultima glaciazione. Grande quanto Germania e Francia, il permafrost siberiano contiene 70 miliardi di tonnellate di metano, un quarto del metano nascosto in terra. Il metano sprigiona un gas serra venti volte più potente del biossido di carbonio. Dice uno dei massimi esperti, James Hansen: «Abbiamo tempo fino al 2015 prima di arrivare al punto di non ritorno, oltre il quale la Terra diverrà un altro pianeta e la situazione sarà fuori controllo». Al calore potrebbe paradossalmente far seguito una serie di glaciazioni: se si fermerà la corrente del Golfo, a seguito dello sciogliersi dei ghiacciai, l’Europa tornerà alla sua temperatura «naturale», non più temperata come l’attuale.
L’allarme nasce da una straordinaria accelerazione del mutamento, e della sua visibilità. La canicola in Francia del 2003 (15 mila morti), l’estate surriscaldata del 2005, l’uragano Katrina che quasi sommerse New Orleans, il recente uragano in Europa, gli ultimi dati sullo scioglimento dei ghiacciai: siamo entrati nella Lunga Emergenza, come annuncia in un libro James H. Kunstler (The Long Emergency, New York 2005).
L’allarme viene anche da Al Gore, il candidato alla Casa Bianca vinto da Bush nel 2000. Il suo libro e il suo film s’intitolano Una scomoda verità (Rizzoli 2006) e in America libro e film hanno un successo enorme. Al Gore mostra senza eufemismi un collasso ineluttabile se non contrastato. Anch’egli sostiene che abbiamo pochissimi anni, meno di dieci. Nel 2005 Hansen disse: «Abbiamo dieci anni non per decidere, ma per ridurre fondamentalmente le emissioni di gas serra».
In altre parole è necessario il ritorno della politica, e precisamente, come ripetono gli scienziati più avvertiti, della capacità di egemonia e di leadership dei governanti. Una capacità venuta tragicamente meno, soprattutto nel paese che pretende di governare il mondo: gli Stati Uniti.
Rifiutando di aderire al trattato di Kyoto, l’America di Bush ha non solo intralciato gli sforzi delle altre nazioni ma si è anche sbarazzata dell’obbligo, previsto dal protocollo di Kyoto, di assistere i nuovi consumatori d’energia - Cina e India - che dovranno ridurre le loro crescenti emissioni di gas serra.
L’indifferenza dell’America è totale, e l’ultima presa di coscienza di Bush è flebile e retorica. Più ancora che nella fallimentare lotta al terrore, l’America è lungi dal comportarsi - nella Lunga Emergenza climatica - come la superpotenza che pretende essere. Non guida più nulla, e l’Unione europea ha una ben più decisiva capacità di leadership, grazie alla sua adesione al protocollo di Kyoto.
La parte dell’America nell’emissione di biossido di carbonio è impressionante: circa il 30 per cento, molto più di altri paesi fortemente inquinanti come Cina e Russia (meno di 8 per cento ciascuno). Un Presidente davvero egemone mondialmente non ha paura, come ha paura Bush, di urtare lobby e petrolieri usando parole scomode come global warming, riscaldamento globale. Leadership vuol dire rimettersi a far politica, sfatando tanti luoghi comuni accumulatisi negli animi di governi, classi dirigenti, giornalisti. E vuol dire parlar chiaro, non mentendo.
Non è vero che il consumatore ha sempre ragione. È vero che il prezzo dell’energia (come dell’acqua) deve riflettere il costo del suo consumo smisurato. E il costo è ormai chiaro: il riscaldamento climatico, le guerre che si scateneranno - già son cominciate - per il controllo delle risorse. Il costo del riscaldamento globale, scrive l’economista Nicholas Stern nel rapporto preparato per il governo inglese il 30 ottobre, supera quello di due guerre mondiali e della Grande Depressione degli anni Trenta.
Cambia il pianeta, cambieranno i nostri modi di vivere, ed è sperabile che anche la politica cambi. L’impoliticità degli stessi ecologisti è spesso disastrosa, perché individualmente si può far poco per mutare le cose e l’impegno nella prassi di governo è più che mai urgente: l’individualismo è figlio del petrolio facile, e la tassa sul carbonio difficilmente passerà se non l’impongono i governi. La politica deve ritornare al centro, deve sapersi imporre agli industriali e al consumatore.
Nell’era del petrolio che si sta esaurendo e che resterà caro conterà sempre più l’«agire in comunità», spiega Hansen, e sempre meno la buona coscienza dell’individuo isolato (o dell’isolato Stato nazione). Un altro luogo comune è l’idea secondo cui i grandi cambiamenti si ottengono solo con l’accordo bipartisan di tutti, e con interminabili dibattiti d’opinione. Non sempre è vero: il politico coraggioso deve poter affrontare anche l’odio avversario, se ritiene che l’alternativa sia necessaria. Lo spiega bene Paul Krugman sul New York Times del 26 gennaio, ricordando come nacque il New Deal di Roosevelt.
Anche Al Gore fu considerato un pazzo, quando mise il clima al centro della sua battaglia. Il suo libro rivela che un consenso vasto esiste tra riviste scientifiche, ma non tra giornali e tv. Questi ultimi, dipendenti come sono dalla pubblicità e dunque da gruppi d’interesse, non mancano mai di presentare la questione climatica come molto più controversa di quanto essa sia in realtà. Ma soprattutto si tratta di ricominciare a pensare nei tempi lunghi, e non nell’orizzonte inane di settimane e mesi. Probabilmente, per i politici e per noi giornalisti, è questa la difficoltà maggiore.
Non saremo noi infatti a pagare per l’indifferenza di oggi, ma chi ancora non può agire: i figli e nipoti. La scelta immorale che stiamo facendo è stata ben spiegata, un centinaio di anni fa, dal filosofo William James: «La caratteristica più significativa della civiltà moderna è il sacrificio del futuro sull’altare del presente, e tutto il potere della scienza è stato prostituito per raggiungere questo obiettivo».
Ambiente, il dovere della paura
di BARBARA SPINELLI *
Il 2 febbraio 2007 sarà ricordato come il giorno in cui le incertezze degli scienziati son venute meno: il clima sta mutando, e del surriscaldamento del pianeta l’uomo è in grandissima parte responsabile. Simili prese di coscienza son già avvenute nella storia, l’apprendimento del limite è la stoffa di cui sono fatti i miti e le religioni. Ci deve esser stato un giorno, mentre si costruiva la torre di Babele, in cui politici e architetti si son detti: stiamo fabbricando un edificio che oltrepassa il lecito, stiamo precipitando nella dismisura, ci stiamo comportando come dèi, con la nostra torre che tocca le stelle. Oggi non è diverso. Con le sue mani, le sue azioni, le sue omissioni, l’uomo sta creando una sua Terra, diversa dalla precedente: una Terra dove è lui a determinare la struttura dei venti e le notti straordinariamente calde, l’altezza del mare, l’avvenire delle coste e la sopravvivenza di acqua e ghiacciai. A raccontare queste cose non è un poema sacro, ma il rapporto presentato venerdì a Parigi da un’équipe di scienziati, in nome dell’Ipcc (Commissione Intergovernativa sui Cambiamenti Climatici) creata dall’Onu nell’88.
Fino a qualche anno fa la Commissione era dubbiosa sulle responsabilità dell’homo sapiens. Ora non più: «inequivocabile» è la colpa dell’uomo, che assieme al proprio avvenire sta compromettendo anche la propria reputazione di animale sapiente. Dovremmo cominciare a chiamarlo in altro modo, ha detto venerdì a Parigi Hubert Védrine, ex ministro degli Esteri, aprendo una sessione di lavoro del convegno sul clima organizzato dal presidente Chirac: «L’uomo è solo potenzialmente sapiens». Se non si riduce l’emissione di anidride carbonica, la natura si vendicherà e ci ridurrà alla più stupida e meno preveggente delle bestie.
Non è chiaro se si possa tornare indietro, e se sia vero quel che si dice: che non solo la rovina del pianeta è nelle nostre mani, ma anche il suo aggiustamento. Chirac ha detto alla conferenza dei «Cittadini della Terra»: «Siamo alla soglia dell’irreversibile». Ma provare conviene comunque, e questo vuol dire: cambiare le nostre maniere di vivere e pensare, mutare i modi della politica, ripensare i saperi, compreso quello economico. Su questi punti si è concentrata buona parte del convegno parigino, e dalle discussioni emergono con chiarezza alcune indicazioni. Il consumo dei combustibili fossili (carbone, petrolio, gas) deve essere radicalmente ridotto se si vogliono diminuire le emissioni di gas serra che rovinano il clima, ma questo consumo ha una natura complessa: perché ha molte parentele con una droga pesante, e perché è perversamente connaturato con l’idea che oggi ci facciamo del liberalismo. Bisogna sapere che uscire dalle droghe vuol dire liberarsi da una patologia, non da una semplice abitudine, e ogni cura di disintossicazione è inflessibile, dolorosissima. E bisogna sapere che nella disintossicazione perirà una parte dell’esperienza liberale: quella parte che a cominciare dalla rivoluzione industriale ci ha abituati a credere nel progresso illimitato, nel cittadino-consumatore libero di fare quel che gli piace, nell’aspirazione a una felicità individuale indipendente dall’effetto che essa ha sulla Terra e sull’umanità. L’illusione del petrolio inesauribile e a buon prezzo ha accentuato questa tendenza, nel secolo scorso.
La disintossicazione sarà lunga e difficile, ha detto a Parigi Jeremy Rifkin, e «coprirà più generazioni, perché mutare le abitudini d’un sol colpo significherebbe la fine della nostra civiltà». C’è un pericolo infatti, nella disintossicazione: per ottenere brutali riduzioni dei consumi di carbonio, per evitare le coltivazioni intensive che rendono sempre più rara l’acqua, per favorire la ricerca e l’uso di energie alternative - compreso il nucleare - occorre una mano ferrea dello Stato. Occorre alzare il prezzo che paghiamo per consumare energia (con quote di inquinamento permesse, con imposte sulle emissioni di anidride carbonica) e metter fine alla retorica sull’abbassamento generale delle tasse. Occorre costruire diversamente edifici, periferie, impianti di riscaldamento, automobili, penalizzando i trasgressori. Occorre privilegiare l’offerta di cibo ecologico, prescrivendo etichette che influenzino il consumatore. E al tempo stesso occorre una politica che aiuti i paesi poveri a ridurre la natalità (senza dimenticare che anche di questi sacrifici siamo responsabili noi ricchi, produttori di anidride carbonica), e a crescere più di noi ma meglio di noi. Alcuni parlano del pericolo di una dittatura verde, che accrescerà enormemente l’ingerenza dello Stato nelle vite private oltre che in quelle delle imprese e che vedrà estendersi, con la paura e le guerre, gli integralismi religiosi. Nel suo libro sulla Lunga Emergenza che ci attende, James Kunstler prevede che negli Stati Uniti aumenteranno i cristiani integralisti. Non saranno i pacifici Amish a profittare della rivoluzione verde ma i bellicosi, antidemocratici pentecostali e evangelicali (Kunstler, The Long Emergency, New York 2005) Difendere la democrazia senza rinunciare alla rivoluzione verde: è questa la sfida, e non è detto sia perduta. Secondo il filosofo Ulrich Beck, il caos imminente può dar vita a nuovi Lumi, e in questo echeggia quel che dice Hans Jonas a proposito della responsabilità per il futuro della Terra: esiste un’euristica della paura, una possibilità di conoscere meglio noi stessi grazie alle energie racchiuse nei nostri spaventi. Esiste la possibilità di correggere politiche e comportamenti se non ci si affida a visioni salvifiche (come nel marxismo) ma a visioni di possibili catastrofi.
Tanto più cruciale diventa l’informazione. È finita l’era cieca del liberalismo democratico, comincia l’era in cui siamo informati sui rischi, e guardiamo in faccia il disastro. Prima o poi tutti - politici, scienziati, industriali - dovranno esercitarsi a vedere il mondo attraverso questa lente, improntata a preoccupazione e timore per le generazioni a venire oltre che per la propria. Per l’economista verrà l’ora in cui sarà necessario tener conto degli effetti sul pianeta del libero mercato. L’ora in cui dovrà calcolare quel che deve entrare nel prezzo d’un prodotto come il petrolio: non solo la domanda e l’offerta, ma anche l’effetto mortifero che esso ha sul pianeta e l’umanità.
Anche il singolo cittadino può molto. Rifkin sostiene che urge «dar potere a chi non ce l’ha», perché gran parte dell’impotenza di fronte al disastro climatico nasce da un’assenza di empowerment, di conferimento di poteri. Ogni cittadino, ogni sindaco deve sapere che, da solo, può contribuire alla rivoluzione. Non basta certo la coscienza del singolo - il governo comune dei mali è più che mai indispensabile - ma con piccoli gesti si può estendere l’influenza democratica della società civile. È stato calcolato che se 11 miliardi di lampadine venissero sostituite da lampadine a basso consumo, si otterrebbe un risparmio nelle emissioni di biossido di carbonio di 160 milioni di tonnellate: l’equivalente delle emissioni dell’industria elettrica in Francia. Dice Pascal che usiamo andare alla rovina nascondendocela: «Corriamo senza preoccupazioni nel precipizio dopo aver messo qualcosa davanti a noi per impedirci di vederlo». Tutto sta dunque a vedere: con l’aiuto della paura di cui parla Jonas, che non è sgomento passivo ma dovere d’immaginare e agire. E una volta informati, si tratta poi di credere. Perché qui nasce un ulteriore impedimento: «Uno dei mali maggiori è che non crediamo in quello che sappiamo» ha detto a Parigi il filosofo Jean-Pierre Dupuis, ex allievo di Ivan Illich. Il rischio, lo valutiamo a seconda dell’idea che ci facciamo della soluzione. Se non scorgiamo la soluzione, tendiamo a essere indifferenti al rischio. È uno degli ostacoli più grandi alla disintossicazione.
Ma la vera rivoluzione è politica, e riguarda sovranità e laicità. Si tratta di rispondere ai mali della democrazia con più democrazia: dando più responsabilità al cittadino e non accentrando tutti i poteri sullo Stato, che da solo non riparerà il pianeta. La sussidiarietà è una delle vie. Da un lato è urgente dare maggiore autorità a comuni, regioni: già oggi, l’ecologismo di molti Stati Usa compensa l’improvvido Stato centrale di Bush. Dall’altra converrà trasferire poteri sovrani all’Unione Europea, e a organi Onu competenti in ambientalismo come proposto da Chirac. Lo Stato-nazione è solo una tappa, nella storia della democrazia. Se l’America è più lenta di noi sull’ambiente, è perché a questa tappa è più aggrappata degli europei. Infine la laicità. Le guerre sulle risorse, gli obblighi di un’economia eco-compatibile, lo spostamento di popoli in seguito a inondazioni: tutto questo rafforzerà gli integralismi, non solo nell’Islam. In assenza di un governo mondiale e di una sovranità efficacemente distribuita, si ergeranno Chiese che vogliono prendere il posto della politica. La laicità, se si vuol preservare la nostra civiltà, sarà non solo il distintivo della democrazia ma la sua àncora di salvezza.
* La Stampa, 04.02.2007.
LA TERRA AL "CAPOLINEA". Manifestazioni in tutto il mondo per il salvare il pianeta...
Sciopero clima: in Italia 182 piazze da nord a sud
Gli organizzatori,no a simboli di partito o bandiere identitarie
di Redazione Ansa *
Migliaia di studenti scenderanno in piazza oggi, in 150 Paesi, per lo "Strike4Climate", manifestazione che sostiene la battaglia in difesa del clima dell’attivista 16enne svedese Greta Thunberg, promotrice delle marce di giovani in tutta Europa. La giovane è stata proposta da tre parlamentari norvegesi per il premio Nobel per la Pace. "Non c’è più tempo, anche gli adulti devono agire", dice la ragazzina e fa appello ai suoi coetanei: "Mobilitiamoci tutti per cambiamenti reali". E già decine di migliaia di giovani sono scesi in piazza in 50 città di Australia e Nuova Zelanda.
Piccole, medie e grandi città italiane per un totale 182 piazze in cui oggi i giovani daranno vita allo sciopero per il clima. Non ci saranno simboli di partito o bandiere identitarie almeno questa è la richiesta degli organizzatori, ma solo cartelli e striscioni sul tema dei cambiamenti climatici. ROMA: nella Capitale partiranno mini-cortei da scuole medie inferiori e licei e istituti, mentre dagli atei i manifestanti si muoveranno in bicicletta. Un corteo partirà dalla fermata metro Colosseo alle 10.30 per arrivare nella vicina piazza Madonna di Loreto, a pochi passi da piazza Venezia, dove alle 11 inizieranno gli interventi sui gradini. Unico adulto al microfono il geologo Mario Tozzi, poi 7 interventi di studenti delle elementari, medie, licei e università, dai 9 ai 24 anni.
MILANO: i giovanissimi attivisti attraverseranno la città con una marcia per il clima che partirà alle 9,30 da largo Cairoli e arriverà a piazza della Scala,davanti alla sede del Comune dove, dalle 11 alle 13, è prevista la manifestazione. Alle 18 un’altra manifestazione, a cui aderiscono associazioni ambientaliste come Greenpeace, partirà sempre da largo Cairoli per un corteo in difesa dell’ambiente. Sempre in città la scuola media di primo grado Pertini ha organizzato una marcia per il clima in collaborazione con Legambiente, alla quale parteciperà anche il sindaco, Giuseppe Sala, a fianco degli studenti.
VIDEO. Manifestazioni in tutto il mondo per il salvare il pianeta
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MASSIMO ALLARME TERRA: IL DOVERE DELLA PAURA. CINQUE MINUTI A MEZZANOTTE. Cambia il clima del pianeta, cambieranno i nostri modi di vivere, ed è sperabile che anche la politica cambi. Un’analisi di Barbara Spinelli
TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. PER LA PACE PERPETUA.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Così Cernobil ha cambiato la nostra vita
di MIKHAIL GORBACIOV (La Stampa, 26/04/2016)
Quasi 70 anni fa un gruppo di scienziati del Progetto Manhattan, dopo aver constatato il potere distruttivo del nucleare, progettò quello che venne chiamato il Doomsday Clock. Un meccanismo concepito per avvisare il mondo della minaccia di un’imminente catastrofe globale. Quest’anno le lancette dell’«orologio dell’apocalisse» si sono fermate a tre minuti dalla mezzanotte dell’umanità.
La stessa posizione in cui si trovavano al culmine della Guerra Fredda. Perché? A livello globale, il numero di testate nucleari ha ripreso a crescere; oltre trenta Paesi sono in possesso di armi nucleari o possono disporne rapidamente; la Corea del Nord manda pericolosi segnali; il furto da parte dell’Isis non è una cosa priva di fondamento. A tutto questo si aggiungono i rischi e gli impatti di una futura Cernobil o Fukushima; gli incidenti all’interno dei siti di stoccaggio o quelli legati alla lavorazione e al trasporto dei materiali nucleari; i cambiamenti climatici, che interessano tutti gli organismi viventi.
Quest’anno ricorre il 30esimo anniversario della catastrofe di Cernobil: il peggior disastro con cui il genere umano si sia mai dovuto confrontare, legato all’incapacità di scienziati e ingegneri di prevedere come problemi apparentemente piccoli possano tramutarsi in disastri di scala quasi inimmaginabile.
A mio parere Cernobil rimane uno dei più tragici incidenti del nostro tempo. Dal momento in cui venni informato telefonicamente - alle 5 del mattino di quel fatidico 26 aprile 1986 - che un incendio era divampato nel Reattore 4 della centrale nucleare di Cernobil, la mia vita non è stata più la stessa. Sebbene in quel momento non si conoscesse la reale entità del disastro, fu subito evidente che stava accadendo qualcosa di orribile.
Le questioni sollevate da Cernobil e ribadite da Fukushima sono oggi più attuali che mai, e sono ancora senza risposta. Come possiamo essere sicuri che le nazioni che possiedono energia nucleare per scopi civili o militari si atterranno alle necessarie misure e norme di protezione? Come possiamo ridurre il rischio che grava sulle generazioni future? Non sarà che stiamo evitando di dare le risposte a queste domande quando tronchiamo il dibattito invocando ragioni di «sicurezza nazionale» o il nostro bisogno illimitato di energia?
Contrariamente a quanto affermano i sostenitori dell’energia nucleare, secondo cui ci sono stati solo due incidenti importanti, se si quantifica la gravità degli incidenti includendo sia la perdita di vite umane sia significativi danni alle strutture, emerge un quadro molto diverso.
Dal 1952 si sono verificati in tutto il mondo almeno 99 incidenti nucleari, che rientrano in questa definizione, con danni che ammontano a oltre 20,5 miliardi di dollari. Vale a dire più di un incidente nucleare ogni anno e danni per 330 milioni di dollari. Tutto questo dimostra che esistono molti rischi non gestiti o regolamentati in modo inadeguato, una cosa che è a dir poco preoccupante, data la gravità dei danni che anche un singolo incidente può provocare.
È fondamentale che qualsiasi discussione sull’energia nucleare venga affrontata sotto tutti i punti di vista e nella sua complessità. Gli impianti nucleari non rappresentano solo un problema di sicurezza, di ambiente o di energia. Ma tutte queste cose insieme. E come Green Cross International sostiene da anni, si tratta di aspetti del medesimo problema che vanno dibattuti nel loro complesso.
Clima. La comunità umana sarà capace di superare le difficoltà del pianeta. E anche se nel testo finale della Conferenza di Parigi le parole «agricoltura», «biodiversità», «coltivazione» non compaiono mai, il 2016 sarà un anno positivo, di svolta
di Carlo Petrini (il manifesto, 31.12.2015)
Qual è lo stato di salute del pianeta? Questa domanda non è certo di facile risposta, soprattutto perché riguarda una molteplicità di aspetti e di fattori che non è semplice riuscire a considerare in uno stesso colpo d’occhio. Interrogarsi su quale sia la qualità della nostra casa comune, tuttavia, non è solo un dovere che ci tocca come abitanti, ma una necessità sempre più pressante dato che, evidentemente, dallo stato del nostro pianeta dipendono tutte le nostre possibilità di sopravvivenza come specie umana.
Forse già qui sta il primo punto di riflessione: a essere a rischio, con i cambiamenti climatici, la distruzione delle risorse naturali, l’ipersfruttamento dell’ambiente a scopo produttivo e l’erosione di habitat fragili a causa della pressione demografica, non è il pianeta ma semmai il futuro della specie umana.
Ecovoracità
La convinzione stessa che 7 miliardi di uomini possano porre fine alla vita di un pianeta che ha 5 miliardi di anni è, infatti, quantomeno un po’ eccentrica, se non decisamente megalomane. Ed è la stessa premessa culturale che fa sì che il rapporto che abbiamo con la Terra sia spesso predatorio e di dominazione piuttosto che di equilibrio e adattamento.
La realtà è invece ben diversa, perché con ogni probabilità altre specie sul pianeta prenderanno il posto di quelle che stiamo distruggendo con i nostri comportamenti produttivi scellerati, le risorse naturali si ricostituiranno quando noi non saremo più in grado di eroderle ma nel frattempo, speriamo di no, l’unica cosa che si sarà davvero persa per sempre sarà la specie umana, con tutta la sua potenza produttiva e tutta la sua gloriosa civiltà.
È dunque questo il triste destino che ci attende? Penso proprio di no, perché sono convinto che la nostra intelligenza, la nostra capacità di cooperare e il nostro spirito di sopravvivenza faranno sì che sapremo riprendere il contatto con la realtà e invertire questo processo autodistruttivo che affonda le radici nelle rivoluzioni industriali e che nell’ultimo secolo ha subito un’accelerata senza precedenti.
Il punto, infatti, è che come società umana abbiamo reso egemone un modello di relazioni e di interazioni basato su un’economia capitalista che identifica falsamente l’accumulazione di denaro con il progresso ma che in realtà genera la competizione sfrenata, la sopraffazione, l’ingiustizia, la sperequazione, lo spreco, la distruzione, lo sfruttamento, la povertà. Un’economia che uccide, come spesso ha ripetuto Papa Francesco che lo ha anche messo nero su bianco nell’enciclica Laudato Sì. Non solo, ma siamo anche riusciti a convincerci che questo sia il modello «naturale», che non ci sia altro modo di abitare la casa comune e di convivere con i nostri simili e con l’ambiente che ci ospita.
Per fortuna, invece, cambiare direzione si può, ma servono nuovi paradigmi che ci consentano di ricostruire il tessuto del nostro vivere comune su basi nuove, di cooperazione, di sostegno reciproco, di equità. Occorre un percorso comune, in cui però i paesi del nord globale (che sono i maggiori responsabili del deterioramento ambientale e dell’ipersfruttamento delle risorse) abbiano la forza e la dignità di assumersi la guida del cambiamento. Anche perché, non a caso, a subire maggiormente le conseguenze catastrofiche dei cambiamenti climatici saranno proprio quelle popolazioni e quelle aree del pianeta più fragili perché più povere o storicamente instabili.
In questo percorso di rinnovamento, la produzione del cibo può essere un esempio eclatante della forza propulsiva che hanno nuovi comportamenti virtuosi. Oggi il 70% delle risorse idriche è utilizzata per agricoltura e allevamento, fertilizzanti e pesticidi rappresentano una fonte rilevantissima di emissioni di gas serra, gli allevamenti industriali con le deiezioni degli animali sono grandissimi inquinatori delle falde acquifere, per non parlare delle enormi quantità di terreni che vengono utilizzati per la produzione dei mangimi, spesso deforestando vaste aree e utilizzando colture geneticamente modificate che erodono il patrimonio di biodiversità. Nello stesso tempo, però, proprio nella produzione di cibo sono evidenti enormi segnali di riscatto, di novità, di cura e di attenzione, proprio quei nuovi paradigmi di cui tanto sentiamo il bisogno e che spesso non sappiamo dove cercare.
Basti pensare alle esperienze dei milioni di contadini che in ogni angolo del mondo stanno già andando nella direzione della conservazione delle risorse naturali, utilizzando metodi agricoli in armonia con il territorio e con le condizioni ambientali, che non solo non impattano sugli habitat all’interno dei quali si inseriscono, ma al contrario ne aumentano resilienza e durabilità.
Non solo, ma al fianco di questi produttori ci sono masse enormi di cittadini che hanno scelto di sostenere questo sforzo, tagliando gli intermediari e pagando un prezzo più alto ai produttori, remunerando in maniera equa il lavoro, pagandone in anticipo il prodotto in modo da non costringerli a prestiti spesso svantaggiosi, valorizzandone il lavoro pulito e promuovendone lo sviluppo. Questo nuovo mondo è già presente, è già diffuso, funziona e genera dignità, sviluppo e soddisfazione in tutti gli attori che vi prendono parte.
Eppure, nel dibattito mondiale sul clima, anche nella recente Conferenza di Parigi che aveva il compito di fissare pratiche e obiettivi concreti per contenere il riscaldamento globale sotto i 2 gradi centigradi, il settore dell’agricoltura è stato relegato ai margini.
Come già evidenziato più volte, nel testo uscito dai negoziati non compaiono nemmeno una volta i termini «agricoltura», «biodiversità» e «coltivazione». Un ulteriore segno scoraggiante questo, perché esemplificativo di come non ci si renda conto che, per uscire dalla crisi ambientale in cui siamo immersi, non si può non assegnare un ruolo di primissimo piano all’attività necessaria alla sopravvivenza di ogni singolo essere umano: l’atto di nutrirsi.
Tutta l’attenzione è rivolta ai settori dell’energia, dell’industria, dei trasporti; è vero che si parla anche di suolo e di sicurezza alimentare, ma non si riconosce in modo esplicito il ruolo centrale del rapporto diretto fra clima, coltivazione della terra e cibo.
Tornando dunque alla domanda di partenza, probabilmente la riflessione sulla salute del pianeta non può essere compiuta se non ci domandiamo anche quale sia lo stato della comunità umana che lo abita.
Quale mondo vogliamo lasciare ai nostri figli, quale idea di felicità vogliamo perseguire e come pensiamo di poterla raggiungere? Io credo fortemente nella nostra capacità di cambiare, di cooperare e di superare le difficoltà e questo mi rende ottimista. Bisogna tuttavia continuare a lottare per favorire la presa di coscienza globale che il feticcio della competizione non è compatibile con una vita degna e felice. In questo senso il 2016 che sta per iniziare sarà un anno di svolta, e sono convinto che lo sarà in termini
La storia
1952, il Grande smog di Londra: 12mila vittime
di Vittorio A. Sironi (Avvenire, 29 dicembre 2015)
Un killer silenzioso ma inesorabile. È l’inquinamento atmosferico, con la sequela di guai alla salute che comporta. Una drammatica emergenza in Cina, dove ogni anno, secondo uno studio dell’Istituto statunitense Berkeley Earth, muoiono per la cattiva qualità dell’aria più di un milione e mezzo di persone: circa 4mila al giorno. Le foto di Pechino con la cappa inquinante che impedisce la visibilità e obbliga gli abitanti a uscire con la mascherina sono emblematiche. Ugualmente choccanti quelle simili provenienti da New Delhi e da Singapore. Un problema non meno grave però c’è anche da noi, come testimonia l’emergenza di questi giorni. Secondo quanto certificato dall’Agenzia europea dell’ambiente per il 2012, l’Italia, con i suoi 84mila morti l’anno, detiene il triste record di decessi per inquinamento atmosferico in Europa. Seguono la Germania (73mila), la Francia e il Regno Unito (52mila) e poi la Polonia (47mila) e la Spagna (33mila). Numeri impressionanti.
Un tema di allarme attuale, ma noto da tempo. Ben centodieci anni fa la prima segnalazione relativa ai danni sulla salute di questa forma di inquinamento atmosferico. Risale infatti al 1905, in un convegno a Londra sulla salute pubblica, la comunicazione di Henry Antoine Des Voeux che, per la prima volta, metteva in evidenzia i rischi sanitari legati a quel singolare fenomeno climatico che, in determinati periodi dell’anno (i mesi più freddi e umidi), manteneva negli strati bassi dell’atmosfera un miscuglio di fumo (originato dalle ciminiere delle fabbriche e dai camini delle case) e di nebbia (determinata da minuscole gocce d’acqua nell’aria vicina al suolo): lo smog, come egli propose di chiamarlo, dalla fusione dei due termini inglesi smoke (fumo) e fog (nebbia). Una notizia riportata con enfasi sul Daily Graphic del 26 luglio di quell’anno, che fece il giro del mondo consacrando il nuovo termine, diventato da allora sinonimo di grave inquinamento atmosferico.
Londra e smog: un altro binomio inscindibile. Non solo per quella prima segnalazione medica d’inizio Novecento, ma anche perché la capitale britannica, visto il ruolo da protagonista avuto durante la rivoluzione industriale e in considerazione delle sue particolari condizioni atmosferiche, fu a lungo una delle città più esposte all’inquinamento dell’aria. Nel 1952, la metropoli fu interessata dal più importante episodio mondiale di inquinamento da smog del secolo scorso. Un evento catastrofico, passato alla storia come ’Grande smog di Londra’, che sconvolse il mondo e determinò la nascita della moderna coscienza ambientalista. Nei primi giorni del dicembre di quell’anno, l’anticiclone delle Azzorre creò un fenomeno di forte inversione termica su Londra: uno strato di aria calda superiore intrappolò al suolo aria fredda stagnante, causando una totale assenza di ventilazione e impedendo qualsiasi ricambio atmosferico. Le rigide temperatura spinsero i londinesi ad aumentare il consumo di carbone per il riscaldamento domestico, producendo in tal modo un’enorme quantità di smog che si andò a sommare a quello già abbondantemente prodotto dalle ciminiere industriali.
Tra il 5 e il 9 dicembre la tragedia: l’aria diventò irrespirabile, lo smog iniziò a penetrare nelle case, si dovettero chiudere le scuole, le fabbriche e i luoghi pubblici, venne impedita la circolazione degli automezzi. La città si paralizzò completamente e un gran numero di persone furono colpite da malori di ogni tipo, principalmente problemi all’apparato respiratorio e cardiocircolatorio. Vi furono in quei giorni più di 12mila vittime, la cui morte era da mettere in relazione diretta o indiretta con il grande smog, e successivamente oltre 100mila persone svilupparono malattie riconducibili alla nebbia assassina di quello spaventoso dicembre. La drammatica esperienza londinese costituì il primo grande ’laboratorio vivente’ che consentì di osservare su larga scala i terribili effetti dello smog sulla salute.
Oggi i danni dell’inquinamento atmosferico sono noti e ben documentati. Lo smog è una specie di ’aerosol’ contenente polveri sottili (Pm10) e ultra-sottili (Pm2,5) di particolato, derivanti dalla combustione di biomasse e di carbone per il riscaldamento e di benzina per i trasporti, che se troppo elevate (più di 25 microgrammi per metro cubo d’aria) sono considerate pericolose. Inoltre, sono spesso presenti anche altre sostanze, come anidride solforosa, ossido nitrico, diossido d’azoto, ozono e talvolta metalli pesanti (cadmio, piombo, mercurio). Respirare queste sostanze presenti nell’aria inquinata dallo smog determina fenomeni irritativi e infiammatori attraverso due meccanismi: il primo si verifica quando gli inquinanti inalati oltrepassano il filtro polmonare, raggiungono il torrente sanguigno e, tramite questo, gli organi del nostro corpo; il secondo avviene allorché le sostanze tossiche giunte nei polmoni vi provocano la liberazione di fattori infiammatori che vengono a loro volta diffusi nell’intero organismo.
Questi meccanismi spiegano l’insorgenza delle condizioni patologiche indotte dallo smog: incremento dei casi e della gravità di asma bronchiale e di bronchiti croniche, infezioni delle basse vie respiratorie (polmoniti), peggioramento delle allergie, aumentato rischio per i tumori dell’apparato respiratorio, maggiore frequenza di malattie cardio-vascolari (infarto miocardico, aritmie cardiache, trombosi arteriose e venose, rapida progressione di processi aterosclerotici).
Anche gli ictus cerebrali e i deficit cognitivi, così come le meno gravi ma non meno importanti congiuntiviti e riniti, aumentano a causa dell’inquinamento atmosferico. Gli studi recenti mostrano dati più precisi, ma anche più allarmanti. Danni alla salute possono insorgere anche dopo una sola ora di esposizione allo smog sia pure con livelli di inquinanti ancora nei limiti considerati tollerati.
È quanto emerge da una ricerca presentata pochi mesi fa a Londra al congresso dell’European Society of Cardiology: il rischio di infarto coronarico legato all’ossido nitrico presente nello smog aumenta del 10 per cento nei soggetti esposti, rispetto a chi vive in ambienti con aria pulita. Un altro studio effettuato a Cracovia, una delle città più inquinate d’Europa, ha evidenziato nei giovani un incremento significativo dei marcatori di rischio cardiovascolare dopo un solo giorno di esposizione all’inquinamento, con conseguente aumento della possibilità di subire un infarto cardiaco.
Crescono dunque le evidenze dei danni alla salute legati allo smog, ma la conoscenza da sola non basta per evitarli. Bisogna superare - soprattutto nel nostro Paese - la logica di provvedimenti legati all’emergenza, occasionali, sporadici e isolati (come il blocco della circolazione o lo stop dei forni a legna) o spesso fantasiosi (come impedire l’uso dei fuochi d’artificio), ma decisamente poco efficaci in mancanza di una vera strategia concordata e congiunta anti-inquinamento. Occorre una presa di coscienza responsabile e una volontà politica consapevole per arginare - e possibilmente tentare di risolvere - un problema sanitario e sociale noto da più di un secolo, anche se peggiorato, pur non in termini assoluti, in questi ultimi anni per i mutamenti climatici a cui stiamo assistendo. Se vogliamo preservare un mondo vivibile anche in futuro dobbiamo agire subito: per lo smog siamo già in ritardo di oltre mezzo secolo.
Tre minuti a mezzanotte
di Giorgio Nebbia (Eddyburg, 30 Novembre 2015)
Settanta anni sono un periodo lunghissimo; chi ha oggi venti anni ha, della seconda guerra mondiale, finita nel 1945, lo stesso ricordo che io potevo avere, quando avevo venti anni, delle guerre di Indipendenza, cioè niente. Con la differenza che le guerre di indipendenza dell’Italia avevano lasciato conseguenze soltanto politiche, amministrative e sociali, mentre la seconda guerra mondiale coinvolge, a loro insaputa, i ventenni di oggi e quelli che verranno, per molte generazioni, con l’eredità politica e ecologica della bomba atomica.
Per conservare questo ricordo proprio nel dicembre di settanta anni fa, pochi mesi dopo il bombardamento americano delle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, un gruppo di scienziati, colpiti dalla grande tragedia generata dalla “bomba” che loro stessi avevano contribuito a fabbricare, decisero di fondare un “bollettino” di informazioni, il Bulletin of the Atomic Scientists. Il fine era di avvertire il pubblico di quello che avrebbero potuto aspettarsi, nel male e nel bene, dalla scoperta dell’enorme energia che si libera dalla fissione del nucleo atomico. Per settanta anni, ogni mese, il Bulletin parla dei problemi delle armi nucleari ma anche delle conseguenze delle scoperte scientifiche che influenzano la vita dei terrestri, 2,3 miliardi di persone nel 1945, 7,2 miliardi di persone oggi.
A partire dal 1947 l’avvertimento dei pericoli è espresso con la immagine di un orologio, che appare sulla copertina di ogni numero, con le lancette che indicano i minuti, prima della mezzanotte dell’umanità, il giorno-della-fine-del-mondo, che restano se non si prendono provvedimenti. In mancanza dei quali l’umanità davvero rischia l’annientamento per la radioattività liberata dalla possibile esplosione di bombe atomiche, o per guerre, o per fame, o per catastrofi dovute agli sessi terrestri.
All’inizio la lancetta è stata messa a sette minuti a mezzanotte quando solo gli Stati Uniti possedevano le bombe atomiche; si avvicinò a tre minuti a mezzanotte nel 1949 quando anche l’Unione Sovietica dimostrò di possedere “la bomba”. La lancetta segnò due minuti a mezzanotte nel 1953, dopo l’esplosione della bomba H americana, e tornò indietro a dodici minuti a mezzanotte quando, nel 1963, Stati Uniti e Unione Sovietica decisero di far cessare le esplosioni nucleari sperimentali nell’atmosfera, limitandole alle esplosioni nel sottosuolo; negli anni successivi ci furono alterni rapporti fra le potenze nucleari “ufficiali” che erano diventate cinque: Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Unione sovietica e Cina, con l’aggiunta del misterioso arsenale nucleare di Israele. Nel 1991, dopo la distensione seguita al crollo dell’Unione Sovietica, l’orologio segnò diciassette minuti a mezzanotte, una boccata di speranza di pace, ben presto vanificata dall’entrata di India e Pakistan fra i paesi dotati di bombe nucleari.
I primi quindici anni del Ventunesimo secolo hanno visto nuovi pericoli di instabilità per la popolazione umana, anche se lentamente la Russia e gli Stati Uniti hanno deciso di smantellare una parte delle “vecchie” bombe nucleari. Si tratta di delicate operazioni tecniche che liberano grandi quantità degli esplosivi plutonio e uranio arricchito, in parte utilizzati come combustibili per le centrali nucleari commerciali, in parte esposti a incidenti, e a furti da parte di criminali e terroristi. Dalle sessantamila bombe nucleari esistenti nel mondo all’apice delle crisi internazionali, nel 1987, oggi esistono nel mondo “soltanto” circa 10.000 bombe nucleari, alcune delle quali in stato permanente di allerta.
Le bombe nucleari si deteriorano col tempo e le due principali potenze nucleari continuano ad aggiornare i loro arsenali; adesso i collaudi delle bombe non richiedono più esplosioni sperimentali ma possono essere fatti con altri metodi. Di recente è stato annunciato che le bombe nucleari a fusione americane B61, alcune delle quali sono depositate anche in Italia a Ghedi (Brescia) e ad Aviano (Pordenone), saranno perfezionate nel modello B61-12 con una spesa di dieci miliardi di dollari; così si allontana ancora di più la speranza che gli stati nucleari rispettino l’impegno, da loro sottoscritto col Trattato di non proliferazione nucleare, che impone, all’articolo VI, l’avvio di trattative per il disarmo nucleare totale.
Eppure un disarmo atomico sarebbe possibile; si è riusciti, pur dopo anni di dibattiti, a vietare le armi chimiche e quelle biologiche, perché non si dovrebbero vietare quelle nucleari? Il denaro risparmiato fermando le attività nucleari militari, centinaia di miliardi di dollari ogni anno nel mondo, permetterebbe di affrontare e risolvere almeno una parte dei problemi di miserie, di ingiustizie e di sottosviluppo, di fame e di mancanza di acqua e di suoli inariditi, che sono la vera radice della violenza internazionale.
Altre nuvole tempestose hanno infatti affollato il cielo rendendo possibili disastri, anch’essi planetari, dovuti al riscaldamento globale, e anche per questo l’orologio del Bulletin si è avvicinato, di recente, di nuovo a tre minuti dalla mezzanotte dell’umanità. Vedremo che cosa uscirà dal dibattito iniziato a Parigi per attenuare i peggioramenti del clima dovuti alla nuova “bomba atomica”: i gas inquinanti, figli dei nostri processi produttivi e dei nostri consumi e sprechi di energia, di minerali, di prodotti agricoli e di merci.
Mi piacerebbe che di questi problemi si parlasse nelle scuole, nelle Università, nei partiti e, magari, nel Parlamento, al di là delle dichiarazioni di buona volontà. Miseria, migrazioni, disperazione, le madri del terrorismo, sono alle porte e non basta chiuderle. Bisogna aprire piuttosto, con coraggio, come raccomanda il Papa Francesco, le porte dei nostri cuori alla giustizia che è l’unica mamma della pace.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE.
A Parigi il vertice Cop21, ultima chiamata per il clima della Terra
Un patto per salvare il Pianeta
di Stefania De Francesco *
Ghiacciai che si sciolgono, mari che crescono così tanto da inghiottire piccole isole e sommergere città costiere; ondate di calore, siccità, terre aride che non danno più raccolti e costringono intere popolazioni a migrare e a conflitti per l’accesso alle risorse; problemi di sicurezza alimentare, carestie, mancanza di acqua potabile, epidemie, specie animali e vegetali che spariscono per sempre, smog che avvolge le metropoli e uccide. Non è la sceneggiatura di un film di fantascienza. E’ la Terra di fine millennio se non si ferma ‘la febbre del Pianeta’. La Conferenza mondiale sul clima (Cop21) dal 30 novembre all’11 dicembre a Parigi è ormai ‘l’ultima chiamata’ per un accordo globale giuridicamente vincolante che riduca le emissioni di gas a effetto serra, causa principale del riscaldamento globale che potrebbe condurci sulla soglia di non ritorno. Obama lo ha detto in modo netto: “Agire o sarà la fine del mondo”. E il nostro ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti ha ribadito: "Non avremo un’altra opportunità". Per il suo omologo francese Segolene Royal “è in gioco la sicurezza mondiale”. L’economista britannico Lord Nicholas Stern, fra i maggiori esperti mondiali di cambiamento climatico, ha chiarito che “senza interventi le prime forti conseguenze si vedranno nell’arco di 20-30 anni ma in circa un secolo la situazione sul pianeta potrebbe diventare catastrofica".
Due gradi.
Autorevoli scienziati a livello mondiale e migliaia di studi sui cambiamenti climatici avvertono da tempo che l’aumento della temperatura media della Terra non deve superare al massimo i due gradi rispetto al periodo precedente la rivoluzione industriale (1850). Gli ultimi tre decenni sono stati uno più caldo dell’altro e purtroppo, nel mondo si è già innescato un meccanismo per cui assistiamo ad eventi meteorologici estremi. Già li vediamo e in molti li subiscono. Le alluvioni in Italia e i morti che hanno provocato sono solo l’esempio più vicino a noi. Anche con uno stop immediato alla CO2 gli effetti sono ormai destinati a protrarsi per molti secoli. E’ ormai certo che il 2015 strapperà al 2014 il primato dell’anno più caldo di sempre, cioè da quando sono disponibili le rilevazioni a livello mondiale (1880), dopo che ogni mese - ad eccezione di gennaio e aprile - ha segnato un record di temperature della Terra e degli oceani. E’ probabile al 95-100% che l’uso dei combustibili fossili insieme con la deforestazione abbiano causato più della metà dell’aumento della temperatura media globale entro i due gradi.
La responsabilità è dell’uomo.
Gli esperti puntano l’indice contro le scelte economiche e di vita dell’uomo, soprattutto contro l’uso di petrolio, carbone e gas, che stressano a tal punto la natura da renderla incapace di adattarsi. Quindi è l’uomo l’unico che può intervenire. Nell’ultimo loro report, il quinto, pubblicato nel 2014, dopo una gestazione di sette lunghi anni, gli esperti che studiano il clima su mandato delle Nazioni Unite (Ipcc, Intergovernmental panel on climate change) hanno affermato che nonostante la crisi il volume globale di gas climalteranti ha continuato ad aumentare: tra il 2000 e il 2010 è cresciuto come mai nei tre decenni precedenti. Nell’era industriale, le concentrazioni di CO2 in atmosfera sono aumentate del 40%, da 280 a oltre 400 parti per milione. Gli scienziati suggeriscono perciò di tagliare entro il 2050 le emissioni tra il 40% e il 70% rispetto al 2010, riducendole poi fino a un valore prossimo allo zero entro la fine del secolo.
Se a livello globale non si faranno gli sforzi necessari per tagliare i gas a effetto serra la temperatura media del globo terrestre potrebbe crescere tra 3,7 e 4,8 gradi centigradi nel XXI secolo, stima uno degli scenari elaborati da 235 autori di 58 Paesi mettendo a confronto oltre 10mila fonti scientifiche. Con lo scenario peggiore, che si avrebbe con l’aumento di 4,8 gradi, il livello del mare potrebbe salire di quasi un metro.
Spazio per gli scettici e per i negazionisti sembra non esserci.
Se questi frenano su un futuro ‘catastrofico’, la realtà già dimostra gli effetti dell’abuso di combustibili fossili, fonti energetiche privilegiate in alcuni Paesi come Germania, Cina e altri Stati orientali. Peraltro,i costi di mancati interventi sarebbero altissimi. Italia e Ue sono invece tra le realtà più avanzate al mondo nel contrasto al riscaldamento globale, grazie alla crescita nella produzione di energia da fonti rinnovabili. L’Unione europea dal 1990 al 2014 ha ridotto le emissioni di gas serra del 23% superando il target del 20% fissato al 2020. Se gli scienziati suggeriscono lo stop ai combustibili fossili e una spinta all’energia verde, sono i politici che devono a decidere. Da loro quindi dipende la sorte del Pianeta. E’ il sistema economico che va cambiato. Le dieci maggiori compagnie petrolifere del mondo dicono di voler essere “parte della soluzione” e di volersi impegnare nella riduzione delle emissioni di anidride carbonica e nella lotta contro i cambiamenti climatici.
Il Papa dopo l’enciclica ’Laudato si’’ sul Creato, in cui ha indicato che si tratta di un problema etico e morale, in vista della Cop ha richiamato a stili di vita sostenibili sul piano umano ed ecologico auspicando che il sistema economico promuova la piena realizzazione di ogni persona e l’autentico sviluppo del Creato.
A Parigi i leader di 195 Paesi più la Ue - che fanno parte della Convenzione sul clima dell’Onu - sono chiamati ciascuno a fissare i propri obiettivi di emissioni in modo da contenere entro 1,5-2 gradi l’aumento della temperatura emtro fine secolo. Si punta ad una clausola che permetta di valutare e rivedere gli impegni ogni 5 anni. Le nazioni sviluppate devono poi arrivare a mobilitare 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 per aiutare i paesi in via di sviluppo a contrastare i cambiamenti climatici e risarcirli dei danni che hanno già subito. Il supporto a questi Stati, sia finanziario che tecnologico, dovrà proseguire anche dopo il 2020. Per ora il 95% dei Paesi ha assicurato impegni concreti ma se anche fossero rispettati, non si riuscirebbe a tenere l’aumento delle temperature sotto i 2,7 gradi. C’è l’impegno personale dei big del Pianeta per un accordo ambizioso e duraturo. Ma questo non dà certezza che sarà giuridicamente vincolante. Dal 7 dicembre cominceranno i colloqui a livello politico. E’ una sfida senza precedenti. Il destino del Pianeta per ora resta a rischio.
New Delhi è la città simbolo dell’inquinamento. Ma nella prima metà di novembre la Cina si è guadagnata titoli dei media per "l’allarme apocalisse dell’aria". Voli cancellati, autostrade chiuse, visibilità di 500 metri al massimo. Il livello di inquinamento nella metropoli di Shenyang è stato "il piu’ alto mai registrato" in Cina e nel mondo. L’8 novembre il livello di particelle di polveri sottili (P.M. 2,5), ritenute rischiose per la salute, è stato di 1400 microgrammi per metro cubo, cioè 56 volte più alto di quello ritenuto il massimo sopportabile per l’organismo umano dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), che è di 25 microgrammi per metro cubo. Gli ospedali si sono riempiti di pazienti con difficoltà respiratorie e molte farmacie hanno esaurito le scorte di mascherine protettive.
New Delhi, che ha 18 milioni di abitanti, è considerata la metropoli più inquinata del mondo dall’Oms che ha stilato una classifica delle città in cui l’aria è più irrespirabile. Lo smog in India è legato in particolare all’alto livello di polveri sottili provocate dai gas di scarico, dai cantieri edili e da diverse attività di combustione di rifiuti. Sempre nella prima metà di novembre, la capitale indiana ha registrato una nuova impennata di inquinamento dopo le celebrazioni di Diwali, la più importante festa induista paragonata al Natale in cui è tradizione far scoppiare fuochi d’artificio, petardi e altri giochi pirotecnici.
Tra le 20 città più inquinate del Pianeta nessuna è cinese anche se, ha puntualizzato l’Oms, la classifica si basa sui dati forniti dalle stesse città e "alcune delle peggiori non stanno raccogliendo i dati correttamente". L’inquinamento in Cina è infatti considerato una vera e propria epidemia, con un tributo superiore ai quattromila morti al giorno, più di quelli che fa in tutto il pianeta la Tbc, ha calcolato il Berkeley Earth, istituto dell’università della California specializzato in analisi statistiche. Circa il 17% di tutte le morti in Cina è attribuibile allo smog, un totale di 1,6 milioni di decessi all’anno dovuti soprattutto alle malattie di cuore, polmoni, a partire da asma e tumori, e all’aumento degli ictus.
L’inquinamento atmosferico causa ogni anno la morte prematura di oltre 3 milioni di persone a livello mondiale, con una maggiore incidenza in Asia secondo uno studio pubblicato sulla rivista Nature, in base al quale la mortalità da inquinamento dell’aria potrebbe raddoppiare entro il 2050 arrivando a interessare 6,6 milioni di persone all’anno. Stando ai dati, le emissioni derivanti dall’energia residenziale, ad esempio per riscaldarsi e cucinare, sono prevalenti in India e Cina e hanno l’impatto più alto a livello mondiale sulle morti premature. In molte aree degli Usa a pesare sono il traffico e la produzione di energia, mentre in Europa, Stati Uniti orientali, Russia e Asia orientale le emissioni provenienti dall’agricoltura danno il contributo maggiore alle polveri sottili.
Secondo un rapporto recente dell’Oms sono 7 milioni i morti ogni anno dovuti direttamente o indirettamente all’inquinamento dell’aria, in buona parte concentrati proprio in Asia. L’Europarlamento ha invece stimato per l’Europa oltre quattrocentomila morti e fra i 330 e i 940 miliardi di euro in termini di costi per la salute. Secondo i meteorologi mondiali, tra il 1990 e il 2014 c’è stato un aumento del 36% del ’’forzante radiativo’’ (rapporto tra energia che entra e quella che esce nel sistema Terra-atmosfera, se è positivo aumenta la temperatura atmosferica) a causa di gas serra, cioè anidride carbonica (CO2), metano (CH4) e protossido di azoto (N2O), che sono generati da attività industriali, agricole e domestiche.
Cina e Stati Uniti d’America insieme sono responsabili del 45% di tutte le emissioni inquinanti del mondo. In un accordo firmato a novembre 2014 la Cina si è impegnata a cominciare a ridurre le emissioni dopo aver raggiunto il picco nel 2030, mentre gli Usa hanno promesso che entro il 2025 taglieranno un 26-28% delle loro attuali emissioni. Tra i grandi inquinatori del Pianeta c’è l’India che si è detta contraria a un accordo per combattere i cambiamenti climatici che includa l’impegno globale a eliminare gradualmente i combustibili fossili entro la fine del secolo. L’India dipende dal carbone per la maggior parte del suo approvvigionamento energetico e, nonostante gli impegni ad ampliare l’utilizzo di fonti rinnovabili, afferma che la sua economia è troppo piccola e la sua popolazione troppo povera per porre fine al combustibile fossile cosi presto.
Isole spazzate via e città sommerse dal mare. New York come Atlantide in meno di 200 anni. Bye bye anche a Miami e New Orleans, il loro futuro è ormai segnato: finiranno sott’acqua qualunque sia l’impegno di oggi o del futuro per fermare il riscaldamento globale. Da Tokyo a Londra passando per Rio de Janeiro e Sydney, per arrivare ai più poveri Paesi asiatici, il mondo potrebbe perdere molte città e mettere in fuga 150 milioni di persone che vivono in aree costiere ’basse’, a non più di un metro sopra il livello del mare. Il riscaldamento degli oceani, lo scioglimento delle calotte in Groenlandia e in Antartide e la fusione dei ghiacciai montani accelerano e portano con sé questa grave minaccia.
[...] continua nel post successivo
II parte
[...] Dal 1992 ad oggi il mare è salito in media di 8 centimetri, ed entro la fine del secolo la crescita potrebbe sfiorare il metro. La Nasa avverte che la velocità con cui le acque salgono è aumentata rispetto ad appena 50 anni fa, e in futuro "probabilmente andra’ peggio". Studiando i dati satellitari degli ultimi 23 anni, gli esperti hanno registrato una crescita del mare non uniforme: in alcune aree della Terra l’aumento è stato di 25 centimetri, mentre in altre, tra cui la costa ovest degli Usa, si è verificato un abbassamento dovuto alle correnti oceaniche e a cicli naturali. Nel 2013 l’Ipcc delle Nazioni Unite ha stimato fra i 30 e i 90 centimetri l’innalzamento del livello del mare entro il 2100. Che il livello si alzerà di poco meno di un metro Steve Nerem, a capo del Sea Level Change Team della Nasa, è abbastanza certo; sul quando dice che può anche accadere oltre la fine di questo secolo.
Negli ultimi 10 anni, stando ai satelliti, l’Antartide ha perso in media 118 miliardi di tonnellate di ghiaccio all’anno; la calotta della Groenlandia addirittura 303 miliardi.
Se poi bruciassimo tutte le riserve di combustibili fossili del Pianeta a cui possiamo attingere, immettendo in atmosfera 10mila miliardi di tonnellate di CO2, l’intera calotta antartica collasserebbe, e di conseguenza il livello del mare salirebbe di 50-60 metri sommergendo le case di oltre un miliardo di persone. Uno scenario non a breve termine, si parla di un arco temporale di centinaia di secoli, ma l’avvertimento lanciato dagli scienziati appare chiaro: occorre passare alle energie rinnovabili, scrivendo la parola fine su petrolio, carbone e gas naturale.
Un’arma puntata contro l’orso bianco
Senza più ghiaccio l’icona dei poli è destinata a scomparire. Ma oltre all’orso sono tante le specie a rischio, alcune anche nei nostri mari già invasi da specie aliene, provenienti dai Tropici, pericolose per alcuni pesci nostrani e tossiche per l’uomo. In Europa il 20% di piante e animali a rischio estinzione e’ minacciato dalle specie invasive.
Lo scenario disegnato dall’aumento delle temperature potrebbe consegnarci ’’un Pianeta invaso da specie adattabili e invasive’’ dice il Wwf nel report ’Biodiversità e cambiamenti climatici’. Diverse specie di animali e piante, l’84% di quelle che vivono in ambienti aridi, per fuggire al riscaldamento del Pianeta si stanno spostando. Ma per le specie d’alta quota non esistono vie di fuga. La riduzione dei ghiacciai e dei periodi di innevamento su tutto il Pianeta sta minacciando molte specie alpine. In queste aree di criosfera vivono 67 mammiferi terrestri, 35 marini e 21.000 di altre specie di animali, piante e funghi.
Il ghiaccio e’ vitale per la sopravvivenza degli orsi ma anche di balene, pinguini, trichechi, leopardo delle nevi, stambecchi, pernici bianche, ermellini, stelle alpine e abete bianco. Al contrario, con temperature più calde potrebbero proliferare zanzare, meduse e parassiti tipo il punteruolo rosso, il killer delle palme, e le zecche.
Impressiona sapere da un’indagine del Geological Survey, un’agenzia scientifica del governo Usa, che a causa dello scioglimento dei ghiacci gli orsi hanno perso la piattaforma da cui cacciare le foche e alcuni esemplari hanno preso a nutrirsi di bacche, uccelli e uova sulla terraferma. Con conseguenze sulla sopravvivenza di altre specie: stando a studio ornitologico internazionale, i pochi orsi che mangiano uova di uccelli marini riescono a ingurgitarne oltre 200 in un paio d’ore. L’anno scorso, in un sito di nidificazione delle isole norvegesi di Svalbard, tra le uova e i piccoli di ogni specie - dalle anatre marine al gabbiano glauco all’oca facciabianca - nessuno è sopravvissuto alla fame dell’orso bianco. E questa alimentazione non basta a saziare l’orso, che per sopravvivere ai rigidi inverni artici ha bisogno di una dieta ricca di grassi, assicuratagli solo dalle foche. Per questo nel giro dei prossimi 35-40 anni - è l’allarme degli esperti - un terzo dei 26mila esemplari che oggi resistono nell’Artico sparirà per effetto del surriscaldamento del Pianeta.
Foreste e oceani polmoni del pianeta
Assorbono anidride carbonica e rilasciano ossigeno. Foreste e oceani sono i polmoni del pianeta. Ma sono minacciati: le prime da deforestazione, incendi, conversione in pascoli e per far posto a dighe, agricoltura, urbanizzazione; i secondi da inquinamento che li avvelena, cambiamento climatico che li surriscalda e acidifica e pesca illegale che li svuota.
La Nasa vuole studiare come il riscaldamento globale sta alterando il ’respiro’ del Pianeta, per capire se in futuro gli oceani, i ghiacci e le foreste saranno ancora in grado di assorbire l’anidride carbonica emessa dall’uomo: senza il loro prezioso contributo, oggi avremmo in atmosfera il doppio di questo gas serra. Gli esperti dell’agenzia spaziale statunitense in questi mesi stanno avviando nuove missioni sul campo e dallo spazio per monitorare la situazione.
Circa il 30 per cento delle terre emerse del nostro pianeta, per 4 miliardi di ettari, è ancora ricoperto dalle foreste. Ogni anno, in tutto il mondo, 13 milioni di ettari (dati Fao 2010) vengono distrutti per soddisfare il crescente fabbisogno di carta, carne, soia, olio di palma e legno. Negli ultimi 25 anni, il mondo ha perso circa 129 milioni di ettari di foresta, un’area grande quasi quanto il Sud Africa - eppure, rispetto al 1990, il ritmo a cui oggi gli alberi vengono abbattuti si è dimezzato - e lo stoccaggio di CO2 nella biomassa forestale è diminuito di 17,4 miliardi di tonnellate, dice la Fao. La deforestazione e la degradazione degli ambienti forestali sono responsabili globalmente di circa il 20% delle emissioni di gas serra quindi non riusciremo a ridurre l’impatto del cambiamento climatico e a promuovere lo sviluppo sostenibile se non salvaguardiamo le nostre foreste, è il monito che arriva da più parti. L’Amazzonia in meno di un anno, da agosto del 2014 a febbraio 2015 ha visto aumentare la distruzione della sua foresta del 215%.
Piantare alberi dove ora non ci sono, e’ un’arma per contenere i livelli di anidride carbonica. Le foreste sono vere e proprie ’spugne’ per la CO2, per come la assorbono e la trattengono, tanto che dentro quelle ’buone’, quelle in grado di autorigenerarsi, sono custodite 860 miliardi di tonnellate di carbonio. Abbatterle amplifica le catastrofi naturali, è come "strappare la cintura di sicurezza" ai territori e alle popolazioni. E l’Asia, vittima di una "incalzante deforestazione" è il continente in assoluto più flagellato da eventi come inondazioni, tsunami, alluvioni e siccità. Secondo il Global Forest Watch l’uomo ha spogliato il pianeta del 30% della sua copertura forestali e di quel che rimane solo il 15% è ancora intatto. Tra il 2010 e il 2030 potranno andare persi 170 milioni di ettari di foreste nel globo. E se il trend in atto non viene fermato, entro il 2050 gli ettari persi arriveranno a 230 milioni.
Riscaldamento e acidificazione stanno riducendo la diversità delle specie marine, con preoccupanti prospettive per gli ecosistemi e le risorse ittiche. Il 90% degli stock di pesce e’ sovrasfruttato e le specie marine hanno registrato un declino del 39% solo tra il 1970 e il 2010, mentre la meta’ dei coralli e’ ormai scomparsa. A causa dell’aumento della temperatura degli oceani entro la fine dell’anno la Terra rischia di perdere il 5% dei suoi coralli, pari a una superficie di 12mila chilometri quadrati, è l’allarme del Noaa (l’Amministrazione oceanica e atmosferica statunitense), secondo cui siamo in presenza di un enorme e globale evento di ’sbiancamento’ dei coralli, il terzo dopo quelli registrati nel 1998 e nel 2010.
Le aree marine protette tutelano, sulla carta, meno del 4% degli oceani del Pianeta, con i target internazionali che variano tra il 10% entro il 2020 e il 30% entro il 2030. A mancare sono però i soldi, anche se ogni dollaro investito ne renderebbe almeno tre fra posti di lavoro, risorse e servizi. Stando a una ricerca commissionata dal Wwf all’università di Amsterdam, ampliare le aree protette garantirebbe un ritorno economico tra i 490 e i 920 miliardi di dollari nel periodo 2015-2050.
Ricercatori dell’Università dell’università di Adelaide, in Australia, spiegano che la vita marina è stata già colpita negli anni recenti da acque inquinate, scarichi fognari e pesca eccessiva, e il cambiamento climatico peggiorerà le cose negli anni a venire. E’ molto più probabile che gli animali più in alto nella catena alimentare, compresi i grandi predatori, saranno colpiti più duramente dal cambiamento climatico rispetto alle specie più in basso, affermano avvertendo che si teme un collasso progressivo delle specie, dalla cima della catena alimentare a scendere.
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ANSA Magazine, 26.11.2015 (ripresa parziale).
2100, città sommerse e caldo record
“Il clima impazzito sconvolgerà la Terra”
di Antonio Cianciullo (la Repubblica, 28 Settembre 2013)
Nel 2100 saremo in 9 miliardi su un pianeta rimpicciolito dall’avanzata dei mari, barricati in città attraversate da ondate roventi, inseguiti dalle malattie tropicali che allargheranno il loro raggio d’azione, con milioni di persone in fuga dalle pianure invase dalle acque e dalle pianure inaridite. Dopo una ricerca durata 6 anni, gli scienziati dell’Ipcc - che nel 2007 hanno vinto il Nobel per la pace - confermano la diagnosi di febbre crescente per il pianeta Terra. Aggiungendo che i virus che causano la malattia sono stati identificati con una probabilità del 95 per cento: si chiamano combustibili fossili e deforestazione. Il quinto rapporto Ipcc, presentato ieri a Stoccolma, mette la parola fine al dibattito sull’incertezza delle previsioni, spesso utilizzato per rinviare le decisioni.
I modelli sono stati affinati e le prove continuano ad accumularsi. Negli ultimi 30 anni ogni decennio è stato più caldo del precedente e l’ultimo ha infranto ogni record da quando si è cominciato a misurare le temperature su scala globale. I ghiacci battono in ritirata quasi ovunque. I mari sono arrivati a rubare un centimetro ogni 3 anni. La concentrazione di CO2 in atmosfera è al limite di guardia: tra 10 anni saremo fuori dall’area di sicurezza. «Se il tuo medico ti dice che c’è il 95% di possibilità che tu abbia una grave malattia, ti metti immediatamente a cercare una cura», ha commentato Connie Hedegaard, commissario europeo al clima. Le cronache raccontano scelte diverse. Dopo il fallimento del vertice del 2009 a Copenaghen, il mondo si è affidato agli impegni volontari di riduzione della CO2 rimandando al 2020 una cura più efficace. Risultato: le emissioni serra continuano a crescere del 2-3 per cento l’anno. Il disastro climatico è dunque inevitabile?
Secondo l’Ipcc una via di salvezza esiste. In uno dei 4 scenari proposti la temperatura cresce di 1 grado. Ma questo futuro potrebbe diventare reale solo se nel giro di pochi anni si dimezzassero le emissioni di CO2 causate dall’uso di petrolio, carbone e metano. Nessun segnale va in quella direzione. Anzi, l’andamento dei gas serra sta seguendo con inquietante fedeltà lo scenario peggiore, quello che ci porta a fine secolo a una crescita di temperatura che potrebbe arrivare a 5,5 gradi oltre il livello preindustriale (l’aumento più probabile è 3,7 gradi in più rispetto all’ultimo decennio).
In questo mondo proiettato al 2100, quello che ci attende se non cambiamo il modo di produrre energia, la vita diventerà molto dura per un miliardo di persone che vivono lungo le coste. New York si troverà a convivere con il dramma sperimentato l’anno scorso con l’uragano Sandy. In buona parte del Sud della Florida bisognerà sostituire la macchina con la canoa. Nel Bangladesh a filo d’oceano avverrà un esodo di proporzioni bibliche. Interi Stati arcipelago, come le Maldive, spariranno dalla carta geografica, con atolli mangiati dal mare e altri senza più fonti d’acqua dolce. I profughi ambientali, secondo le previsioni Onu, saliranno a quota 200 - 250 milioni già entro il 2050. Si chiuderà anche il rubinetto dei ghiacciai himalayani che chiamavamo eterni e che alimentano l’irrigazione delle pianure indiane e cinesi. Tra le aree più a rischio c’è il delta del Fiume Giallo, impoverito al punto da non riuscire spesso a raggiungere il mare. Minacciato anche il delta del Mekong, in Vietnam, dove vivono più di 17 milioni di persone. In Australia l’avanzata del caldo renderà più spietate le ondate di siccità che nell’ultimo decennio hanno messo in ginocchio intere regioni. E tra le vittime del riscaldamento climatico figura anche la grande barriera corallina: il riscaldamento e l’acidificazione dell’oceano la stanno uccidendo.
Se la natura diventerà più inospitale, è difficile immaginare che le città potranno accogliere le popolazioni in fuga. Le ondate di calore dell’estate del 2003, che in Europa ci sono costate 70 mila morti, si moltiplicheranno. E nelle megalopoli dei paesi poveri, che inghiottiranno gran parte dei 2 miliardi di esseri umani che si aggiungeranno al bilancio del pianeta entro la fine del secolo, le condizioni di vita diventeranno sempre più dure.
SE GLI OCEANI CRESCERANNO DI 25 CM
di Maurizio Ricci (la Repubblica, 28 Settembre 2013)
Senza essere scettici, tuttavia, si può essere ottimisti. In fondo, gli scienziati allineano, nel loro rapporto, una serie di “forchette”: entro questo secolo, la temperatura può crescere fra i 2 e i 4,5 gradi, i mari si possono gradualmente innalzare fra i 26 e gli 82 centimetri e via bilanciando le previsioni. E se ci andasse bene? Se il rialzo dei mari si limitasse davvero a 26 centimetri? In fondo, nel XX secolo si sono alzati di una ventina di centimetri e nessuno ha gridato al disastro. Il problema è che le coste e, soprattutto, le città non sono più quelle di inizio ’900. Per capire cosa vogliono dire 26 centimetri d’acqua, basta guardare le mappe preparate da New York, l’unica città ad aver studiato questo tipo di simulazioni. Avete presente la High Line, la ex sopraelevatache il sindaco Bloomberg ha trasformato in una passeggiata pedonale? Con 26 centimetri di mare in più, viene buona per i pescatori che si troveranno l’acqua sotto il naso. L’oceano lambirà il Madison Square Garden, a Wall Street si andrà in motoscafo, Chelsea, Greenwich Village, mezza Brooklyn e un bel pezzo di Queens saranno sott’acqua. In tutto, si tratterà di dire addio ad un quarto di New York.
E questa è l’ipotesi migliore. Con quella peggiore - 82 centimetri - finirebbero sott’acqua, oltre a New York, Londra, Shanghai, Lagos. Più, naturalmente, Venezia. Il mondo non sarebbe più quello che conosciamo. Ma è davvero l’ipotesi peggiore? Purtroppo, no. È quella che si può prevedere se non si sciolgono i ghiacciai della Groenlandia. E poiché lo scioglimento del ghiaccio non è un processo graduale, ma avviene quando la temperatura supera una certa soglia, la liquefazione dei ghiacci e il rialzo dei livelli degli oceani può essere un processo relativamente brusco e rapido. La Terra, del resto, ci è già passata: l’ultima volta che la temperatura del pianeta è stata di oltre 2 gradi più elevata di quella di oggi, i mari erano alti fra 1,4 e 4,3 metri in più.
C’è, tuttavia, un altro modo di essere ottimisti, non limitandosi a incrociare le dita e sperare nella fortuna. Può sembrare un insensato atto di fede, per giunta verso i meno meritevoli. Ma la lotta all’effetto serra è una questione di scelte politiche e, alla fine, dovranno essere i politici a vincerla. La novità è che, proprio qui, qualcosa si muove. Può sembrare un paradosso, dopo che l’ultimo grande tentativo di lanciare la lotta globale al cambiamento climatico è fallito, nel 2009, Copenaghen, per responsabilità proprio dei politici. Invece, i segnali positivi vengono da qui e - meglio ancora - dai leader dei due paesi più grandi e più responsabili dell’effetto serra (nonché del fallimento di Copenaghen): Usa e Cina.
Ecco, dunque, la Casa Bianca che annuncia come, nel 2020, l’America riuscirà a rispettare l’impegno di portare le emissioni di anidride carbonica del 17 per cento sotto il livello del 2005. Nel risultato previsto, c’è una buona dose di iniziative di Obama, in particolare i tetti all’inquinamento delle centrali elettriche e delle auto. Ma, anche l’effetto della recessione e, soprattutto, del boom del gas che sta sostituendo, nelle centrali, il più inquinante carbone. Ma perché lamentarsi? Sono i risultati che contano. Idem per la Cina. La nuova leadership sembra intenzionata a mettere limiti severi alle emissioni di Co2. Non lo fa perché la inquietano le sue responsabilità globali, ma perché le crescenti classi medie cinesi non sono più disposte a soffocare per settimane, come un anno fa, in una coltre di smog. Ma il risultato è buono lo stesso.
Il problema è se queste iniziative cominceranno ad essere efficaci, prima del 2040, quando, come avverte il rapporto Onu, potrebbe essere troppo tardi per fermare il rialzo delle temperature. Anche qui, qualche speranza viene proprio dalla politica. Al segretario generale dell’Onu, Ban Kimoon, non viene di solito accreditato un grande fiuto politico. Però, in questi giorni, è stato lui a proporre, per l’anno prossimo, un vertice dei Grandi per affrontare il tema del clima e dell’effetto serra. Auguri. Il capolinea del 2040 è vicino.
Ansa» 2009-01-14 13:34
CLIMA, WORLD WATCH: O SI CAMBIA SVILUPPO O SI MUORE
WASHINGTON - O il mondo entro il 2050 ridurrà in modo drastico la sua attuale capacità di inquinare il pianeta, e in particolare l’attuale emissione nell’atmosfera di biossido di carbonio, oppure andrà incontro a catastrofi epocali: questa la conclusione dell’annuale Rapporto dell’organismo internazionale ’Worldwatch Institute’, che ogni anno raccoglie gli interventi di 47 tra i principali studiosi al mondo sui cambiamenti climatici. Secondo il rapporto, intitolato ’2009 - Lo stato del mondo - Verso un mondo piu’ caldo’, la situazione negli ultimi anni è ulteriormente peggiorata, ed è assolutamente necessario arrivare a un nuovo modello di sviluppo basato su produzione e consumo di energia eco-sostenibile. Nello stesso tempo però, sottolinea lo studio, non mancano le opportunità per intraprendere - oggi - iniziative che faranno sentire i loro benefici effetti nei prossimi decenni. "Abbiamo il privilegio di vivere in un momento della storia in cui possiamo ancora evitare una catastrofe climatica che trasformerebbe il pianeta in un ambiente ostile per lo sviluppo degli esseri umani" ha detto il vicepresidente di Worldwatch, Robert Engelman, che ha co-diretto il Rapporto 2009.
(di Luciano Clerico)
O si cambia o si muore. Perché un dato è certo: il mondo così come è se continua a svilupparsi secondo i criteri energetici seguiti finora è destinato ad andare incontro "a una catastrofe". Il grido d’allarme viene in questo caso del WorldWatch Institute, organismo internazionale che ogni anno raccoglie in un suo Rapporto ufficiale lo stato di salute del pianeta. Nel rapporto 2009, reso noto a Washington, la conclusione è questa: o il mondo sarà in grado entro il 2050 di ridurre in modo drastico la sua attuale capacità di inquinare il pianeta, abbassando in particolare le attuali emissioni di biossido di carbonio, oppure andrà incontro a catastrofi epocali. A questa conclusione sono giunti 47 tra i principali studiosi al mondo sui cambiamenti climatici.
Secondo il rapporto, intitolato ’2009 - Lo stato del mondo - Verso un mondo piu’ caldò, la situazione negli ultimi anni per quanto riguarda il cosiddetto ’global warming’ è ulteriormente peggiorata, ed è assolutamente necessario arrivare a un nuovo modello di sviluppo basato su produzione e consumo di energia eco-sostenibile. Nello stesso tempo però, sottolinea lo studio, non mancano le opportunità per intraprendere - oggi - iniziative che faranno sentire i loro benefici effetti nei prossimi decenni. Avranno un costo complessivo altissimo in termini monetari, gli studiosi stimano la potenziale spesa per la riconversione della produzione di energia alternativa compresa tra i mille e i 2.500 miliardi di dollari all’anno. "Tuttavia - si legge nel rapporto - gli eventuali costi derivanti da mancati interventi sarebbero, col tempo, ancora più alti".
Per il Worldwatch Institute è tempo di agire e di bisogna farlo subito. "Abbiamo il privilegio di vivere in un momento della storia in cui possiamo ancora evitare una catastrofe climatica che trasformerebbe il pianeta in un ambiente ostile per lo sviluppo degli esseri umani - ha detto il vicepresidente di Worldwatch, Robert Engelman, co-direttore del Rapporto 2009. Per Engelman "’non ci e’ rimasto molto tempo". "Varare un patto globale per salvare il clima del globo richiederà un supporto pubblico di enorme portata - ha sottolineato - e una volontà politica condivisa a livello globale di spostarsi verso l’energia rinnovabile, nuovi modi di vivere, e una scala di valori umani capace di adeguarsi ai limiti della atmosfera". Non c’é altra via.
Stando a Worldwatch, è ormai accertato in modo scientifico che il pianeta Terra si è mediamente riscaldato di circa 0,8 gradi dall’inizio della Rivoluzione Industriale a oggi, e il riscaldamento è in buona parte da attribuire alle attività dell’uomo. Un ulteriore grado medio di riscaldamento è potenzialmente prevedibile come conseguenza degli attuali consumi. Per questo secondo i climatologi bisogna correre ai ripari, e fare in modo che il picco di emissioni venga raggiunto prima del 2020, per poi ridurle entro il 2050 per almeno l’85% al di sotto dei livelli del 1990.
Lo "sviluppo" spiegato com’è
Un breve filmato che spiega di che lagrime e di che sangue gronda quello che chiamano "sviluppo"
Vi raccomando la visione di un interessante documentario: The Story of Stuff, che si trova su youtube anche in versione italiana, doppiata o sottotitolata. Utile per spieare in termini molto semplici (un semplice cartone animato, con un testo parlato con chiarezza) le conseguenze del ciclo lineare estrazione > produzione > commercializzazione > consumo > smaltimento sulle nostre vite e sul pianeta. Qui sotto il link alle tre parti del documentario, nell’edizione doppiata in italiano.
Scioglimento record della calotta polare: aperti i passaggi di Nord Ovest e di Nord Est Lo provano le foto dei satelliti. Studiosi: oceano senza ghiacci d’estate entro il 2030
L’Artico può essere circumnavigato
è la prima volta in 125mila anni
LONDRA - Per la prima volta a memoria d’uomo sarà possibile cirumnavigare l’intero Polo Nord. Foto satellitari scattate due giorni fa mostrano, scrive oggi l’Independent, che lo scioglimento dei ghiacci verificatosi la settimana scorsa ha finalmente aperto contemporaneamente sia il favoleggiato Passaggio a Nord-Ovest che il passaggio a Nord-Est. A dimostrarlo sono immagini scattate da satelliti Nasa. Il Passaggio Nord Ovest, nel territorio canadese, si è aperto nello scorso fine settimana, mentre l’ultima lingua di ghiaccio che ostruiva il Mare di Laptev, in Siberia, si è disciolta qualche giorno dopo.
È un evento clamoroso che, se da un lato corona il sogno secolare di generazioni di esploratori, navigatori e viaggiatori, dall’altro rappresenta un preoccupante segnale dell’accelerarsi del processo del riscaldamento globale. Sul breve periodo, naturalmente, la novità dovrebbe portare soltanto vantaggi alle varie compagnie di navigazione che per la prima volta nella storia potranno tagliare migliaia di miglia marine lungo le rotte tra il nord del Canada e la Russia.
Negli scorsi decenni, in varie occasioni si è verificata la situazione dell’apertura dell’uno o dell’altro passaggio ma mai, come in questi giorni, era accaduto che entrambe le due misteriose porte dell’artico si dischiudessero simultaneamente.
E’ questo solo l’ultimo segnale della crisi dell’intero ecosistema artico. Solo pochi giorni fa, il National snow and ice data center (NSIDC) statunitense ha informato che quest’anno l’estensione globale del ghiaccio artico è prossima a battere il record record negativo, dello scorso anno, di 4,14 milioni di chilometri quadrati: un valore inferiore di oltre un milione di metri cubi al record precedente, fissato nell’estate 2005. In due anni, i ghiacci del Polo Nord si sono ritirati per un’estensione grande quattro volte l’Italia.
Quattro settimane fa, i turisti sono stati fatti evacuare dal Parco Nazionale Auyuittung, nell’Isola di Baffin, la grande isola del Nunavut canadese situata a occidente della Groenlandia, a causa dello scioglimento dei ghiacci: "Auyuittung", in lingua inuit, significa "terra che non scioglie mai"... E’ di pochi giorni fa la vicenda dei nove orsi polari rimasti senza habitat e visti nuotare in mare aperto, seguita a breve da un immenso crollo nel ghiacciaio Petermann, in Groenlandia, in un’area che si riteneva ancora immune dagli effetti del global warming.
Ma la simultanea apertura del Passaggio Nord Ovest, intorno al Canada, e del Passaggio Nord Est, intorno alla Russia, a costituire un vero e proprio choc. Non accadeva, secondo i climatologi, da almeno 125mila anni. Dall’inizio dell’ultima era glaciale erano rimasti entrambi bloccati: nel 2005 si era aperto solo il Passaggio Nord Est, l’estate seguente era accaduto il contrario.
"I passaggi sono aperti, è un evento storico, ma con il quale dovremmo abituarci a convivere nei prossimi anni - ha confermato il professor Mark Serreze, uno specialista di mari ghiacciati del NSIDC, sottolineando però che le autorità marine dei Paesi interessati potrebbero essere riluttanti ad ammetterlo, per evitare di essere citate a giudizio dalle compagnie di navigazione, le cui imbarcazioni dovessero incontrare ghiaccio e subire danni".
Gli armatori però sono tutt’altro che disinteressati. Il "Beluga Group" di Brema, ad esempio, ha già fatto sapere che manderà navi dalla Germania al Giappone via Passaggio Nord Est, con un taglio netto di 4000 miglia nautiche, quasi 7.500 km, rispetto alla rotta tradizionale. E il premier canadese Stephen Harper ha già fatto sapere che chiunque volesse attraversare il Passaggio Nord Ovest dovrebbe fare riferimento ad Ottawa: un punto di vista, questo, che non piace agli Usa, che considerano quella parte di Artico acque internazionali.
I climatologi però rimarcano che simili dispute potrebbero essere irrilevanti, se il ghiaccio continuasse a sciogliersi al ritmo attuale. In tal caso, infatti, sarebbe possibile navigare direttamente attraverso il Polo Nord, completamente liberato dai ghiacci. Evento questo, che fino a poco tempo fa si riteneva possibile che dal 2070. Ora, però, molti studiosi indicano il 2030 come l’anno entro il quale l’Oceano Artico sarà completamente fluido in estate, mentre uno studio del professor Wieslaw Maslowski, della Naval Postgraduate School di Monterey, California, arriva a concludere che già dal 2013 il mare sarà completamente aperto da metà luglio a metà settembre. Il "punto di rottura", l’evento che ha ulteriormente accelerato il processo di scioglimento, è costituito dalla perdita-record di massa ghiacciata, dello scorso anno: le masse solide sono scese a un livello che non si attendeva fino al 2050, mandando all’aria tutti i calcoli prodotti fino a quel momento.
Quest’anno è andata un po’ meglio, l’inverno è stato più freddo, e per un po’ è sembrato che i ghiacci potessero difendere meglio le loro posizioni. Ma in agosto lo scioglimento ha subito un’improvvisa accelerazione e la scorsa settimana la superficie globale dell’Artico ricoperto di bianco era già al di sotto del livello minimo del 2005. Secondo l’Agenzia spaziale europea (Esa), in qualche settimana anche il record del 2007 sarà battuto. Uno studio recente dell’Università dell’Alberta dimostra che lo spessore dei ghiacci artici si è assottigliato della metà in soli sei anni. Ed è un processo che alimenta se stesso, perché man mano che la superficie bianca viene rimpiazzata dal mare, la superficie di quest’ultimo, più scura, assorbe via via più calore, contribuendo a riscaldare l’oceano e a sciogliere altro ghiaccio.
* la Repubblica, 31 agosto 2008.
L’altro mondo di Gore
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 14/10/2007)
È significativo che Al Gore abbia fatto rinascere la politica e le abbia dato un nuovo tema oltre che un diverso modo di farla creandosi una specie di seconda patria nella rete internet: una patria-mondo, visto che il territorio internet è il mondo. Alle spalle aveva quel giorno infausto in cui vinse le presidenziali contro Bush, nel 2000, e che perse a seguito del verdetto di una Corte Suprema «eticamente compromessa», come scrive Michael Tomasky sul New York Review of Books dello scorso settembre. Molti narrano l’abbattimento che afflisse per mesi il candidato, ma pochi percepirono l’eccezionale itinerario che egli cominciò a percorrere: forte - sembrerebbe - di una sua segreta convinzione riguardante la nobiltà delle sconfitte. Fu un itinerario di esilio interiore e anche di conversione, di discussione e riscoperta di sé. Fu un distaccarsi dalla politica e al tempo stesso un riattaccarsi ad essa, un ripensarla da capo. Tale fu il suo migrare in altre patrie e nel mondo.
Una sua antica passione era tornata in superficie, sette anni fa: la cura dell’ambiente, la protezione della Terra come questione di pace e di guerra, l’idea di una responsabilità politica che oltrepassa non solo i confini della nazioni ma anche quelli delle generazioni, divenendo quella che Hans Jonas chiama responsabilità per il futuro dell’uomo. Era una passione che non trovava posto nello spazio pubblico, né in America né altrove. Fu allora che emigrò nel world wide web, allo stesso modo in cui De Gaulle scelse di incarnare la Francia migliore standosene fuori, a Londra, per combattere i collaborazionisti di Vichy. Così Al Gore: ritrovare la fortezza della politica non era possibile nello spazio pubblico esistente.
Non era possibile per il semplice fatto che tale spazio a suo parere s’è oggi striminzito, occupato com’è da poteri manipolatori che screditano l’arte del politico e la sua vocazione.
Le verità scomode, che son divenute l’emblema di Al Gore, possono esser dette solo allontanandosi da questi centri di potere (politici, mediatici) e riparando nelle terre del web. Senza quest’altra patria, estesa alla Terra, la sua influenza non sarebbe cresciuta sino a fare di lui un mito; il suo film sulla catastrofe climatica non avrebbe scosso i popoli; la giuria del Nobel non l’avrebbe nominato campione della pace assieme a quella straordinaria istituzione (l’Ipcc, Panel intergovernativo sul cambiamento climatico) che l’Onu creò nell’88, che è composta di 2500 scienziati non retribuiti, e che ha influenzato Al Gore.
Non importa sapere se il premiato profitterà del Nobel per rientrare in politica, armato di questi sette anni di esilio-resistenza. Molti ammiratori lo desiderano, invocando sul web la sua candidatura. Il blog più militante - www.draftgore.com - lo scrive ogni giorno e aggiunge una canzone di Paul Kaplan per incoraggiarlo, «Run Al Run», Corri Al, corri, che riprende il titolo di un libro (Run Boy Run) sulla fuga d’un ragazzo dal ghetto in fiamme di Varsavia. Al Gore è visto così: un ragazzo, con le sue cadute e metamorfosi. Un adolescente che continuamente muore e rinasce, come usano gli adolescenti. È l’intreccio che l’ha trasformato in politico-profeta, e non è detto che abbandoni questa sua immagine inusitata candidandosi come tanti altri.
Occuparsi prioritariamente del clima gli ha fatto scoprire un gran numero di cose, sulla malattia profonda della democrazia e dell’America. Una malattia che preesiste a Bush ma che Bush ha acuito enormemente. Gli ha fatto capire che la potenza Usa ha perduto con gli anni ogni attrattiva morale, che è forte solo della violenza, che la sua leadership globale è in frantumi dopo l’11 settembre. Ed è in frantumi perché imbacuccata nell’illusione di poter fronteggiare da sola, col vecchio Stato-nazione, mali comuni al pianeta come quello delle temperature in aumento. Il clima gli ha fatto scoprire che urge una coscienza collettiva per rispondere a minacce come il riscaldamento della Terra, l’innalzamento dei mari, la prospettiva di inondazioni e di milioni di rifugiati, le guerre già cominciate (l’Iraq è esemplare) attorno a risorse come acqua e petrolio, che sperperiamo o da cui perniciosamente dipendiamo.
Per questo è essenziale il web, che questa coscienza può accenderla più di altri mezzi, resuscitando al contempo la politica: il web e i blog che non disseminano verità - come fanno i giornali e soprattutto la televisione - ma la cercano instancabilmente (la distinzione tra disseminare e cercare è nell’ultimo libro di Al Gore, L’Assalto alla Ragione, che Feltrinelli pubblicherà in autunno).
La battaglia di Al Gore non è solo contro Bush, o contro politici che hanno supinamente accettato l’idea di una guerra «di più generazioni» contro il terrorismo, con l’abnorme accrescimento dei poteri presidenziali che tale guerra comporta, a scapito di libertà individuali e stato di diritto. Nell’Assalto alla Ragione l’ex candidato democratico dice che questi sono sintomi della malattia democratica e che le vere cause sono altrove: sono la scomparsa di un’autentica conversazione democratica pubblica, che crei nei cittadini fiducia nella politica e attaccamento a essa (il riferimento è esplicito alle teorie dell’attaccamento, sviluppate dagli psichiatri John Bowlby e Mary Ainsworth). Televisione e grandi giornali uccidono quotidianamente la conversazione, propinando dall’alto verità convenienti che nessuno lettore o telespettatore può mettere in questione, generando in questi ultimi un crescente senso d’impotenza, nascondendo i crudi fatti dietro velami ideologici.
La messa in questione è consentita tuttavia nei blog, nuovi strumenti di attaccamento alla politica e di conversazione «non a senso unico». Solo in internet si può entrare senza appartenere a lobby o corporazioni, senza titoli speciali e sovente abusati: dicendo la propria, e facendo della democrazia qualcosa di condiviso. Internet ha certo i suoi pericoli, che Al Gore enumera: insidiato dall’approssimazione, anch’esso può manipolare. Ma introdurre regole nel web ed evitare che le corporazioni se ne impossessino non è impossibile.
Le peripezie del dibattito sul clima sono significative. Giornali e tv si sforzano ogni volta di dare l’opinione contraria, quando espongono i dati a disposizione sui disastri della biosfera. Pretendono di farlo in nome del pluralismo, ma in realtà trasformano i fatti rivelati in opinioni, e falsano il dibattito mettendo tutto sullo stesso piano: idee e cifre, ideologie cucite sugli interessi e dati scientifici. Nel suo libro Una scomoda verità (Rizzoli), Al Gore lo spiega bene: giornali e tv danno alle opinioni contrarie un eguale peso, mentre praticamente nessun articolo scientifico sulla stampa specializzata contesta ormai i dati forniti da istituzioni come Ipcc e le responsabilità umane nel clima degradato.
Al Gore restituisce alla politica il primato che sta perdendo, reinventandola e riempiendo un vuoto come fece la socialdemocrazia nella seconda parte del XX secolo. In un primo tempo, il ’900 fu letale perché il conflitto fra mercato e democrazia era stato sottovalutato, e vinsero dottrine che fecero tesoro del risentimento e della paura nati dal conflitto. Oggi siamo a un bivio simile, e non a caso Al Gore cita quel che Churchill disse nel ’36: «Il periodo dei rinvii e delle mezze misure è finito (...) Adesso inizia il periodo delle conseguenze». E ancora: «Questo è un momento morale (...). Quando viene meno la visione, la gente perisce».
Anche oggi le forze del mercato tendono a ignorare il clima, mettendo da parte la politica, le regole, la visione. Molti politici son succubi di tali forze - anche a sinistra, dove son chiamati coraggiosi - e giungono sino a disfarsi dell’innovativo principio di precauzione, che impone cautela quando l’economia cresce in offesa alla terra (è il caso del francese Attali, cooptato da Sarkozy, che propone di eliminare il principio incorporato da Chirac nella costituzione). Ma i politici sono particolarmente succubi in Stati-nazione come l’America, e non a caso Jeremy Rifkin è del parere che l’Europa sia, su numerosi temi, più avanzata (la Repubblica, 13-10-07).
Ma anche in Europa occorrono figure profetiche, che escano dalla politica fossilizzata per rientrare in essa con idee non ortodosse. Rifkin cita Prodi, quando alla presidenza della Commissione europea si batté per il clima sfidando l’ottusa sordità di Washington. Anche lui, a suo modo, era un emigrato della politica italiana. Al Gore con le sue iniziative rifonda la politica, superando i limiti dello Stato-nazione e guardando il mondo con occhi spesso più europei che americani. Ripensa il rapporto fra informazione e partecipazione, fra monologo dei media dominanti e inedite pratiche di conversazione cittadina. È sperabile che il suo sguardo resti profetico, quale che sia il suo avvenire politico.
Il film di Al Gore nelle scuole: un atto di bullismo?
di Liliana Gorini, presidente del Movimento Solidarietà
14 aprile 2007 - Da settimane veniamo tempestati anche in Italia da previsioni catastrofiche e dall’isteria della campagna sul riscaldamento globale, che è giunta all’apice con la pubblicazione del rapporto dell’IPCC, l’ente dell’ONU sul cambiamento del clima, e col film dell’ex vicepresidente americano Al Gore “Una scomoda verità”. “Il clima sta cambiando, i ghiacciai si sciolgono, il livello del mare salirà di sei metri, gli orsi polari annegheranno, ed è tutta colpa tua”: è questo, in sintesi, il messaggio terroristico del film di Gore, che attribuisce all’attività umana questi presunti cambiamenti climatici (ancora da dimostrare).
Benchè numerosi eminenti scienziati, e perfino alcuni autori del rapporto dell’IPCC, abbiano smentito clamorosamente i dati e i modelli climatici presentati dal film di Gore (ad esempio gli scienziati intervistati da una trasmissione di Channel 4 in Gran Bretagna dal significativo titolo “la grande truffa del riscaldamento globale”) anche in Italia si sta diffondendo l’isteria intorno a questo film, che forse dovrebbe meglio intitolarsi “la menzogna scomoda”. L’aspetto che più preoccupa in questa campagna, è che ora essa si rivolge alle scuole, con l’intento di terrorizzare studenti e scolari fin dai primi anni.
Il ministro Pecoraro Scanio ritiene che il film di Gore debba essere trasmesso in prima serata dalla RAI e già a fine marzo alcuni cinematografi ho hanno proiettato per le scuole superiori, pubblicizzando i dati falsi che propone come “una serie di dati scientifici inattaccabili” e facendo anche pagare l’ingresso agli studenti per poi uscire dal cinematografo terrorizzati e con sensi di colpa che si porteranno dietro per anni.
Mi metto nei loro panni: alla loro età vidi un documentario in televisione che prevedeva che per via dell’aumento demografico l’acqua sarebbe finita entro il 2000, e per molto tempo mi sentii in colpa ogni volta che bevevo un bicchier d’acqua. Naturalmente, siamo al 2007 e l’acqua non è finita, anzi, ora ci annunciano l’opposto, che inonderà il nostro continente trasformando le “case in collina” in case sul mare, come sostiene un ridicolo spot trasmesso da La7 ed MTV, che pur essendo una burla indica il livello di isteria a cui siamo arrivati.
Chi propone il film di Gore alle scuole non si è mai fermato a pensare agli effetti che avrà sugli studenti più sensibili? Non è forse anche questo un atto di bullismo, mirante a terrorizzare i ragazzi che prendono per oro colato tutte le affermazioni antiscientifiche che esso spaccia per “verità”?
I giovanissimi, che dovrebbero essere i più ottimisti, e che dovrebbero apprendere come la scienza possa risolvere tutti i problemi del mondo, la fame, le epidemie e (perché no?) anche l’inquinamento, imparano invece che il progresso e la tecnologia sono la causa di tutti i mali. Insegnanti e presidi non dovrebbero indottrinare gli studenti, ma dare loro gli strumenti per giudicare con la loro testa.
Se davvero verrà imposta la proiezione del film di Gore alle scuole, che almeno i provveditori, i presidi e gli insegnanti esigano che venga affiancata dalla proiezione della tesi opposta, contenuta nel film di Channel 4 in cui eminenti metereologhi, tra cui il Prof. Paul Reiter, dell’IPCC e dell’Istituto Pasteur, confutano le argomentazioni del film di Gore e dimostrano come si punti a creare tanta isteria sui mutamenti climatici non per migliorare le condizioni della terra ma per “uccidere il sogno dell’Africa e del terzo mondo: quello di svilupparsi”.
Clima, gli scienziati: il riscaldamento è colpa dell’uomo *
«Le attività dell’uomo stanno cambiando la faccia della Terra e il surriscaldamento è una delle conseguenze dell’inquinamento». Dopo anni di titubanze, incertezze, ripensamenti, la “scomoda verità” (per usare il titolo del docu-film di Al Gore sui cambiamenti climatici) sta diventando una realtà scientifica: nel rapporto compilato dagli esperti del Comitato intergovernativo delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Ipcc), che verrà presentato ufficialmente venerdì a Parigi al termine del convegno sul clima a cui parecipano 2mila scienziati da tutto il mondo, si punta il dito senza mezzi termini sulle emissioni di biossido di carbonio (CO2) come causa principale dell’aumento delle temperature. Insomma sull’uomo come causa dei cambiamenti ambientali e climatici del nostro Pianeta.
Così le indiscrezioni sul dossier sul clima, anticipate dal quotidiano britannico The Independent, lasciano intendere che la situazione è anche peggiore di quanto si pensasse e di quanto gli stessi climatologi dell’Onu avessero ipotizzato (o ammesso) nel loro precedente rapporto del 2001. Non solo da qui alla fine del secolo le temperature globali aumenteranno tra i 2 e i 4,5 gradi centigradi, come già si temeva, ma si potrebbe arrivare anche a un incremento di 6 gradi. Risultato: nel 2005 i 30 ghiacciai campione tenuti sotto controllo dal Servizio di monitoraggio mondiale dei ghiacciai, che ha sede in Svizzera, si sono ritirati mediamente di 60 centimetri. Dal 1980, sono arretrari di 10,5 metri.
La colpa, spiegano gli scienziati, è di un circolo vizioso già innescato e difficile da fermare. L’aumento della temperatura fa aumentare l’evaporazione di oceani e mari. Di conseguenza si infittisce nell’atmosfera la coltre di vapore acqueo, che è un potente agente responsabile dell’effetto-serra. Basti pensare che, dal 1970 a oggi, la concentrazione di vapore acqueo è aumentata del 4 per cento. Tutti i modelli climatici esaminati dai 2.000 esperti coinvolti nello studio indicano poi che il surriscaldamento globale indebolisce le capacità del pianeta assorbire l’anidride carbonica in eccesso. Questo potrebbe accrescere del 44 per cento le concentrazioni di CO2 nell’atmosfera, con l’effetto di un aumento della temperatura media di 1,2 gradi in più del previsto nel corso del secolo.
C’è il 99 per cento di probabilità, hanno concluso gli esperti, che i livelli di anidride carbonica e il riscaldamento globale siano nettamente più alti rispetto alla variazione media degli ultimi 650mila anni. Dunque non solo assistiamo a un aumento generale delle temperature, ma questo è provocato dagli ultimi 250 anni di sviluppo economico. In parole povere: sulla Terra ormai si stanno rapidamente ridimensionando le temperature estreme e stanno diminuendo i ghiacciai dell’Artico a causa dell’uomo: «È altamente probabile (più del 95 per cento di probabilità) che il riscaldamento osservato nell’ultimo mezzo secolo non possa essere spiegato senza un’influenza esterna (l’attività umana)» dicono senza mezzi termini gli scienziati.
Insomma, se la comunità scientifica è sempre stata divisa sulle cause dell’aumento delle temperature registrato nell’ultimo secolo (diversi esperti la fanno rientrare nel normale avvicendamento tra periodi freddi e caldi che ha accompagnato i 180milioni di anni di vita della Terra), quest’ultimo rapporto dell’Ipcc non potrà non incrinare anche le ultime incertezze rimaste, vista anche la fama di imparzialità e di serietà dei climatologi coinvolti. Creato nel 1988 dalle Nazioni Unite e l’Organizzazione Metereologica Mondiale ha la "vocazione" di essere "una Courroie di trasmissione" tra il mondo della ricerca e quello dei politici. I suoi rapporti che costituiscono la più vasta expertise possibile sul tema sono riconosciuti da 192 Stati membri dell’Onu. In base ai suoi primi lavori, la comunità internazionale ha elaborato nel 1992 la Convenzione dell’Onu sui cambiamenti climatici e nel 1997 il Protocollo di Kyoto di lotta contro l’effetto serra.
Adesso sotto accusa senza più ripensamenti c’è il biossido di carbonio emesso dalla combustione delle energie fossili (gas, petrolio, carbone) e liberato nell’atmosfera dalle attività umane, ciò che impone una risposta da parte dei politici. E che purtroppo non è arrivata fino ad oggi da alcuni importanti Stati responsabili di tali emissioni di gas. Primo tra tutti gli Stati Uniti.
* l’Unità, Pubblicato il: 29.01.07, Modificato il: 29.01.07 alle ore 19.34