Il terribile è già accaduto!!!

MASSIMO ALLARME TERRA: IL DOVERE DELLA PAURA. CINQUE MINUTI A MEZZANOTTE. Cambia il clima del pianeta, cambieranno i nostri modi di vivere, ed è sperabile che anche la politica cambi. Un’analisi di Barbara Spinelli

Segnalazione del prof. Federico La Sala
domenica 4 febbraio 2007.
 


L’orologio dell’Apocalisse - 47.1 Kb

L’orologio dell’Apocalisse


Clima, il sacrificio del futuro

di Barbara Spinelli (La Stampa,28.01.2007)

Dice Carl Gustav Jung che la gente «non può sopportare troppa realtà»: preferisce pensare ad altro, chiudere le finestre, rinviare il momento in cui guarderà quel che ha davanti e deciderà il da farsi. Il cambiamento del clima che stiamo vivendo è una di queste realtà, ormai ben visibile e proprio per questo insopportabile. È difficile guardare la catastrofe che s’avvicina, perché noi stessi l’abbiamo in parte creata e stiamo accelerandola: con i nostri comportamenti di consumatori, con la nostra abitudine al petrolio a buon prezzo e all’acqua sprecata come fosse inesauribile, con le nostre politiche incuranti, asservite a lobby e compagnie petrolifere.

Le scienze economiche aiutano poco a fronteggiare il male, prigioniere come sono - da decenni - di ideologie liberiste senza più costrutto: l’invisibile mano del mercato non produce correzioni del clima, e l’individualismo che s’accompagna a tale ideologia perpetua le illusioni della belle époque petrolifera che ci ha viziati e accecati, con la benzina poco cara e l’atmosfera che intanto si riempiva di biossido di carbonio.

Perfino la preferenza assoluta che si tende oggi ad accordare al cittadino-consumatore, rispetto al cittadino-produttore, potrebbe rivelarsi intelligente ma fatale: se stesse nel consumatore, nessun prezzo aumenterebbe e di certo non quello di petrolio o gas. Questo nel momento in cui proprio il contrario si impone: che i prezzi restino alti, in modo da favorire la ricerca - subito - di energie alternative (vento, solare, anche nucleare). E che la tassa sull’emissione di anidride carbonica, già adottata in gran parte d’Europa, diventi una necessità anche agli occhi degli Stati Uniti, prima potenza mondiale non per saggezza ma per i danni che sta arrecando al pianeta.

Venerdì prossimo, 2 febbraio, ne sapremo ancora di più: l’Ipcc, un organismo delle Nazioni Unite nato nell’88 per studiare il cambiamento climatico, pubblicherà un nuovo rapporto. L’Observer annuncia fin d’ora che il linguaggio sarà improntato al massimo allarme, e la conclusione inequivocabile. Non ci saranno più dubbi sulle responsabilità dell’uomo nel riscaldamento planetario, e sul nostro destino qualora si continuasse come se nulla fosse.

Il collasso delle attuali condizioni di vita, dunque della nostra civiltà, è già oggi anticipabile da quel che vediamo, viviamo: i ghiacciai tendono a sciogliersi - al Polo Nord, al Polo Sud, in Groenlandia - e, come è già avvenuto nella storia terrestre, il livello del mare di conseguenza si alza. Intere regioni e città minacciano d’essere sommerse (New York, Florida, Olanda - solo in Cina, Bangladesh e India i rifugiati sarebbero 520 milioni). È un riscaldamento dovuto anche alla radiazione solare, sostengono alcuni scienziati, ma l’emissione di anidride carbonica (CO2) contribuisce grandemente a dilatarlo e ad accelerarne i tempi. Ogni volta che si consuma petrolio o gas naturale o carbone si sprigiona questa letale sostanza e ci si avvicina al punto critico, di non ritorno.

Anche il metano è sostanza che surriscalda, ed è destinato a esser liberato nell’atmosfera con lo sciogliersi del permafrost in varie regioni e soprattutto in Siberia, dove il ghiaccio sta diluendosi per la prima volta da quando si formò, undicimila anni fa alla fine dell’ultima glaciazione. Grande quanto Germania e Francia, il permafrost siberiano contiene 70 miliardi di tonnellate di metano, un quarto del metano nascosto in terra. Il metano sprigiona un gas serra venti volte più potente del biossido di carbonio. Dice uno dei massimi esperti, James Hansen: «Abbiamo tempo fino al 2015 prima di arrivare al punto di non ritorno, oltre il quale la Terra diverrà un altro pianeta e la situazione sarà fuori controllo». Al calore potrebbe paradossalmente far seguito una serie di glaciazioni: se si fermerà la corrente del Golfo, a seguito dello sciogliersi dei ghiacciai, l’Europa tornerà alla sua temperatura «naturale», non più temperata come l’attuale.

L’allarme nasce da una straordinaria accelerazione del mutamento, e della sua visibilità. La canicola in Francia del 2003 (15 mila morti), l’estate surriscaldata del 2005, l’uragano Katrina che quasi sommerse New Orleans, il recente uragano in Europa, gli ultimi dati sullo scioglimento dei ghiacciai: siamo entrati nella Lunga Emergenza, come annuncia in un libro James H. Kunstler (The Long Emergency, New York 2005).

L’allarme viene anche da Al Gore, il candidato alla Casa Bianca vinto da Bush nel 2000. Il suo libro e il suo film s’intitolano Una scomoda verità (Rizzoli 2006) e in America libro e film hanno un successo enorme. Al Gore mostra senza eufemismi un collasso ineluttabile se non contrastato. Anch’egli sostiene che abbiamo pochissimi anni, meno di dieci. Nel 2005 Hansen disse: «Abbiamo dieci anni non per decidere, ma per ridurre fondamentalmente le emissioni di gas serra».

In altre parole è necessario il ritorno della politica, e precisamente, come ripetono gli scienziati più avvertiti, della capacità di egemonia e di leadership dei governanti. Una capacità venuta tragicamente meno, soprattutto nel paese che pretende di governare il mondo: gli Stati Uniti.

Rifiutando di aderire al trattato di Kyoto, l’America di Bush ha non solo intralciato gli sforzi delle altre nazioni ma si è anche sbarazzata dell’obbligo, previsto dal protocollo di Kyoto, di assistere i nuovi consumatori d’energia - Cina e India - che dovranno ridurre le loro crescenti emissioni di gas serra.

L’indifferenza dell’America è totale, e l’ultima presa di coscienza di Bush è flebile e retorica. Più ancora che nella fallimentare lotta al terrore, l’America è lungi dal comportarsi - nella Lunga Emergenza climatica - come la superpotenza che pretende essere. Non guida più nulla, e l’Unione europea ha una ben più decisiva capacità di leadership, grazie alla sua adesione al protocollo di Kyoto.

La parte dell’America nell’emissione di biossido di carbonio è impressionante: circa il 30 per cento, molto più di altri paesi fortemente inquinanti come Cina e Russia (meno di 8 per cento ciascuno). Un Presidente davvero egemone mondialmente non ha paura, come ha paura Bush, di urtare lobby e petrolieri usando parole scomode come global warming, riscaldamento globale. Leadership vuol dire rimettersi a far politica, sfatando tanti luoghi comuni accumulatisi negli animi di governi, classi dirigenti, giornalisti. E vuol dire parlar chiaro, non mentendo.

Non è vero che il consumatore ha sempre ragione. È vero che il prezzo dell’energia (come dell’acqua) deve riflettere il costo del suo consumo smisurato. E il costo è ormai chiaro: il riscaldamento climatico, le guerre che si scateneranno - già son cominciate - per il controllo delle risorse. Il costo del riscaldamento globale, scrive l’economista Nicholas Stern nel rapporto preparato per il governo inglese il 30 ottobre, supera quello di due guerre mondiali e della Grande Depressione degli anni Trenta.

Cambia il pianeta, cambieranno i nostri modi di vivere, ed è sperabile che anche la politica cambi. L’impoliticità degli stessi ecologisti è spesso disastrosa, perché individualmente si può far poco per mutare le cose e l’impegno nella prassi di governo è più che mai urgente: l’individualismo è figlio del petrolio facile, e la tassa sul carbonio difficilmente passerà se non l’impongono i governi. La politica deve ritornare al centro, deve sapersi imporre agli industriali e al consumatore.

Nell’era del petrolio che si sta esaurendo e che resterà caro conterà sempre più l’«agire in comunità», spiega Hansen, e sempre meno la buona coscienza dell’individuo isolato (o dell’isolato Stato nazione). Un altro luogo comune è l’idea secondo cui i grandi cambiamenti si ottengono solo con l’accordo bipartisan di tutti, e con interminabili dibattiti d’opinione. Non sempre è vero: il politico coraggioso deve poter affrontare anche l’odio avversario, se ritiene che l’alternativa sia necessaria. Lo spiega bene Paul Krugman sul New York Times del 26 gennaio, ricordando come nacque il New Deal di Roosevelt.

Anche Al Gore fu considerato un pazzo, quando mise il clima al centro della sua battaglia. Il suo libro rivela che un consenso vasto esiste tra riviste scientifiche, ma non tra giornali e tv. Questi ultimi, dipendenti come sono dalla pubblicità e dunque da gruppi d’interesse, non mancano mai di presentare la questione climatica come molto più controversa di quanto essa sia in realtà. Ma soprattutto si tratta di ricominciare a pensare nei tempi lunghi, e non nell’orizzonte inane di settimane e mesi. Probabilmente, per i politici e per noi giornalisti, è questa la difficoltà maggiore.

Non saremo noi infatti a pagare per l’indifferenza di oggi, ma chi ancora non può agire: i figli e nipoti. La scelta immorale che stiamo facendo è stata ben spiegata, un centinaio di anni fa, dal filosofo William James: «La caratteristica più significativa della civiltà moderna è il sacrificio del futuro sull’altare del presente, e tutto il potere della scienza è stato prostituito per raggiungere questo obiettivo».



Ambiente, il dovere della paura

di BARBARA SPINELLI *

Il 2 febbraio 2007 sarà ricordato come il giorno in cui le incertezze degli scienziati son venute meno: il clima sta mutando, e del surriscaldamento del pianeta l’uomo è in grandissima parte responsabile. Simili prese di coscienza son già avvenute nella storia, l’apprendimento del limite è la stoffa di cui sono fatti i miti e le religioni. Ci deve esser stato un giorno, mentre si costruiva la torre di Babele, in cui politici e architetti si son detti: stiamo fabbricando un edificio che oltrepassa il lecito, stiamo precipitando nella dismisura, ci stiamo comportando come dèi, con la nostra torre che tocca le stelle. Oggi non è diverso. Con le sue mani, le sue azioni, le sue omissioni, l’uomo sta creando una sua Terra, diversa dalla precedente: una Terra dove è lui a determinare la struttura dei venti e le notti straordinariamente calde, l’altezza del mare, l’avvenire delle coste e la sopravvivenza di acqua e ghiacciai. A raccontare queste cose non è un poema sacro, ma il rapporto presentato venerdì a Parigi da un’équipe di scienziati, in nome dell’Ipcc (Commissione Intergovernativa sui Cambiamenti Climatici) creata dall’Onu nell’88.

Fino a qualche anno fa la Commissione era dubbiosa sulle responsabilità dell’homo sapiens. Ora non più: «inequivocabile» è la colpa dell’uomo, che assieme al proprio avvenire sta compromettendo anche la propria reputazione di animale sapiente. Dovremmo cominciare a chiamarlo in altro modo, ha detto venerdì a Parigi Hubert Védrine, ex ministro degli Esteri, aprendo una sessione di lavoro del convegno sul clima organizzato dal presidente Chirac: «L’uomo è solo potenzialmente sapiens». Se non si riduce l’emissione di anidride carbonica, la natura si vendicherà e ci ridurrà alla più stupida e meno preveggente delle bestie.

Non è chiaro se si possa tornare indietro, e se sia vero quel che si dice: che non solo la rovina del pianeta è nelle nostre mani, ma anche il suo aggiustamento. Chirac ha detto alla conferenza dei «Cittadini della Terra»: «Siamo alla soglia dell’irreversibile». Ma provare conviene comunque, e questo vuol dire: cambiare le nostre maniere di vivere e pensare, mutare i modi della politica, ripensare i saperi, compreso quello economico. Su questi punti si è concentrata buona parte del convegno parigino, e dalle discussioni emergono con chiarezza alcune indicazioni. Il consumo dei combustibili fossili (carbone, petrolio, gas) deve essere radicalmente ridotto se si vogliono diminuire le emissioni di gas serra che rovinano il clima, ma questo consumo ha una natura complessa: perché ha molte parentele con una droga pesante, e perché è perversamente connaturato con l’idea che oggi ci facciamo del liberalismo. Bisogna sapere che uscire dalle droghe vuol dire liberarsi da una patologia, non da una semplice abitudine, e ogni cura di disintossicazione è inflessibile, dolorosissima. E bisogna sapere che nella disintossicazione perirà una parte dell’esperienza liberale: quella parte che a cominciare dalla rivoluzione industriale ci ha abituati a credere nel progresso illimitato, nel cittadino-consumatore libero di fare quel che gli piace, nell’aspirazione a una felicità individuale indipendente dall’effetto che essa ha sulla Terra e sull’umanità. L’illusione del petrolio inesauribile e a buon prezzo ha accentuato questa tendenza, nel secolo scorso.

La disintossicazione sarà lunga e difficile, ha detto a Parigi Jeremy Rifkin, e «coprirà più generazioni, perché mutare le abitudini d’un sol colpo significherebbe la fine della nostra civiltà». C’è un pericolo infatti, nella disintossicazione: per ottenere brutali riduzioni dei consumi di carbonio, per evitare le coltivazioni intensive che rendono sempre più rara l’acqua, per favorire la ricerca e l’uso di energie alternative - compreso il nucleare - occorre una mano ferrea dello Stato. Occorre alzare il prezzo che paghiamo per consumare energia (con quote di inquinamento permesse, con imposte sulle emissioni di anidride carbonica) e metter fine alla retorica sull’abbassamento generale delle tasse. Occorre costruire diversamente edifici, periferie, impianti di riscaldamento, automobili, penalizzando i trasgressori. Occorre privilegiare l’offerta di cibo ecologico, prescrivendo etichette che influenzino il consumatore. E al tempo stesso occorre una politica che aiuti i paesi poveri a ridurre la natalità (senza dimenticare che anche di questi sacrifici siamo responsabili noi ricchi, produttori di anidride carbonica), e a crescere più di noi ma meglio di noi. Alcuni parlano del pericolo di una dittatura verde, che accrescerà enormemente l’ingerenza dello Stato nelle vite private oltre che in quelle delle imprese e che vedrà estendersi, con la paura e le guerre, gli integralismi religiosi. Nel suo libro sulla Lunga Emergenza che ci attende, James Kunstler prevede che negli Stati Uniti aumenteranno i cristiani integralisti. Non saranno i pacifici Amish a profittare della rivoluzione verde ma i bellicosi, antidemocratici pentecostali e evangelicali (Kunstler, The Long Emergency, New York 2005) Difendere la democrazia senza rinunciare alla rivoluzione verde: è questa la sfida, e non è detto sia perduta. Secondo il filosofo Ulrich Beck, il caos imminente può dar vita a nuovi Lumi, e in questo echeggia quel che dice Hans Jonas a proposito della responsabilità per il futuro della Terra: esiste un’euristica della paura, una possibilità di conoscere meglio noi stessi grazie alle energie racchiuse nei nostri spaventi. Esiste la possibilità di correggere politiche e comportamenti se non ci si affida a visioni salvifiche (come nel marxismo) ma a visioni di possibili catastrofi.

Tanto più cruciale diventa l’informazione. È finita l’era cieca del liberalismo democratico, comincia l’era in cui siamo informati sui rischi, e guardiamo in faccia il disastro. Prima o poi tutti - politici, scienziati, industriali - dovranno esercitarsi a vedere il mondo attraverso questa lente, improntata a preoccupazione e timore per le generazioni a venire oltre che per la propria. Per l’economista verrà l’ora in cui sarà necessario tener conto degli effetti sul pianeta del libero mercato. L’ora in cui dovrà calcolare quel che deve entrare nel prezzo d’un prodotto come il petrolio: non solo la domanda e l’offerta, ma anche l’effetto mortifero che esso ha sul pianeta e l’umanità.

Anche il singolo cittadino può molto. Rifkin sostiene che urge «dar potere a chi non ce l’ha», perché gran parte dell’impotenza di fronte al disastro climatico nasce da un’assenza di empowerment, di conferimento di poteri. Ogni cittadino, ogni sindaco deve sapere che, da solo, può contribuire alla rivoluzione. Non basta certo la coscienza del singolo - il governo comune dei mali è più che mai indispensabile - ma con piccoli gesti si può estendere l’influenza democratica della società civile. È stato calcolato che se 11 miliardi di lampadine venissero sostituite da lampadine a basso consumo, si otterrebbe un risparmio nelle emissioni di biossido di carbonio di 160 milioni di tonnellate: l’equivalente delle emissioni dell’industria elettrica in Francia. Dice Pascal che usiamo andare alla rovina nascondendocela: «Corriamo senza preoccupazioni nel precipizio dopo aver messo qualcosa davanti a noi per impedirci di vederlo». Tutto sta dunque a vedere: con l’aiuto della paura di cui parla Jonas, che non è sgomento passivo ma dovere d’immaginare e agire. E una volta informati, si tratta poi di credere. Perché qui nasce un ulteriore impedimento: «Uno dei mali maggiori è che non crediamo in quello che sappiamo» ha detto a Parigi il filosofo Jean-Pierre Dupuis, ex allievo di Ivan Illich. Il rischio, lo valutiamo a seconda dell’idea che ci facciamo della soluzione. Se non scorgiamo la soluzione, tendiamo a essere indifferenti al rischio. È uno degli ostacoli più grandi alla disintossicazione.

Ma la vera rivoluzione è politica, e riguarda sovranità e laicità. Si tratta di rispondere ai mali della democrazia con più democrazia: dando più responsabilità al cittadino e non accentrando tutti i poteri sullo Stato, che da solo non riparerà il pianeta. La sussidiarietà è una delle vie. Da un lato è urgente dare maggiore autorità a comuni, regioni: già oggi, l’ecologismo di molti Stati Usa compensa l’improvvido Stato centrale di Bush. Dall’altra converrà trasferire poteri sovrani all’Unione Europea, e a organi Onu competenti in ambientalismo come proposto da Chirac. Lo Stato-nazione è solo una tappa, nella storia della democrazia. Se l’America è più lenta di noi sull’ambiente, è perché a questa tappa è più aggrappata degli europei. Infine la laicità. Le guerre sulle risorse, gli obblighi di un’economia eco-compatibile, lo spostamento di popoli in seguito a inondazioni: tutto questo rafforzerà gli integralismi, non solo nell’Islam. In assenza di un governo mondiale e di una sovranità efficacemente distribuita, si ergeranno Chiese che vogliono prendere il posto della politica. La laicità, se si vuol preservare la nostra civiltà, sarà non solo il distintivo della democrazia ma la sua àncora di salvezza.

* La Stampa, 04.02.2007.



Sul tema, per altri articoli, si cfr.:

-  TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA.

-  EFFETTO SERRA. LA TERRA AL "CAPOLINEA".


Rispondere all'articolo

Forum