Solo Dio è sapiente (Socrate): De pace fidei (Cusano)

"CONOSCI TE STESSO". "ECCE HOMO. Come si diventa ciò che si è". Una bella e limpida discussione tra U. Galimberti ed E. Scalfari, ma ancora in un orizzonte "pre-copernicano" e "pre-fachinelliano".

Segnalazione, con "risposta", del prof. Federico La Sala
venerdì 2 febbraio 2007.
 


L’ansia di sapere chi siamo davvero

di Umberto Galimberti (la Repubblica, 19.01.2007)

Eugenio Scalfari, sull’“Espresso” del 18 gennaio, interviene su un tema che entrambi consideriamo molto importante e che potrebbe essere formulato così: che ne è della nostra identità, oggi, in cui assistiamo all’indebolirsi di tutte le appartenenze territoriali, culturali, religiose, ideologiche, familiari, di genere, sessuali, che finora hanno costituito il perimetro, all’interno del quale, si è costituita, è cresciuta, ha preso forma la nostra identità?

Non stiamo diventando anime perse, senza punti di riferimento, che vagano come naufraghi nel mare di quella malintesa libertà che, svincolata da tutte le appartenenze, ritrova se stessa nella semplice possibilità di revocare tutte le scelte, dove è sottinteso che le identità possono essere indossate e scartate come la cultura del consumo ci ha insegnato a fare con gli abiti, senza la possibilità di costruire una vera biografia?

Entrambi conveniamo che questa è la tendenza del nostro tempo, determinata dai processi di de-territorializzazione indotti dalla globalizzazione e dai processi migratori; dal relativismo culturale conseguente alla conoscenza delle altre culture resa possibile dall’enorme espansione dei mezzi di comunicazione; dal relativismo religioso per cui, chi aderisce a una fede oggi non giudica miscredente e tanto meno combatte chi aderisce ad altre fedi, preferendo, alla posizione di Ratzinger, quella relativista del vescovo del Quattrocento Niccolò Cusano, che giudicava le diverse religioni una semplice variazione di riti dell’unica religione (“una religio in varietate rituum”).

Ancora, entrambi conveniamo che forse incominciano a trovare concreta attuazione i principi illuministici della libertà individuale e della tolleranza in ordine alle modalità di convivenza che possono assumere la forma della famiglia nucleare, allargata o di fatto, in ordine all’appartenenza di genere e all’orientamento sessuale, su cui più non pesano le condanne sociali di un tempo con conseguenti pratiche di emarginazione. Ma se è vero che, da che mondo è mondo, l’identità di ciascuno è stata determinata dalle reti delle proprie appartenenze che la definivano e la identificavano, che ne è della nostra identità oggi che tutte le appartenenze si indeboliscono, si smarginano, si contaminano, diventano ciascuna permeabile all’altra?

Io vedo nell’abbattimento dei confini, entro cui la storia finora ha “confinato” popoli e individui, una grande occasione in ordine non solo a una maggior attuazione del concetto di “tolleranza”, su cui anche Eugenio Scalfari, conoscendo la matrice illuminista del suo pensiero, credo convenga, ma anche la possibilità offerta a tutti di costruire una propria identità senza la comoda protezione dell’appartenenza, e quindi un esser-se-stessi senza che nessun dispositivo territoriale, culturale, religioso, possa davvero codificarci.

Su questo punto Scalfari muove due obiezioni che vanno al cuore del problema. La prima è che “costruire un’identità deprivata delle sue appartenenze equivale a costruire sulla sabbia”, perché le appartenenze non sono solo comodi rifugi per chi non è in grado altrimenti di darsi un’identità, ma sono quelle basi culturali che, trasmesse da generazioni a generazioni, consentono a ciascuno individuo di non partire ogni volta da zero, e soprattutto di non “appiattirsi sul presente” che, senza passato e senza futuro, o come dice Scalfari “senza storia” finisce col non sapere come orientarsi, e soprattutto col non avere alcun punto di riferimento che non siano le occasioni del presente.

Vero. Ho sempre in mente un mio bravissimo studente, che dopo essersi laureato in Filosofia con un’ottima tesi, mi chiese se poteva concorrere per un dottorato. Alla mia osservazione che un dottorato in Filosofia non gli avrebbe dato, rispetto alla laurea, maggiori occasioni per inserirsi nel mondo del lavoro, mi rispose: “Lo so, ma almeno per tre anni faccio quello che mi piace e quindi sto bene”. Appiattimento sull’assoluto presente, perché la formula del passato, che premiava con una carriera accademica i migliori, oggi non trova più attuazione, e il futuro non appare più come una promessa, ma come un’incognita, quando non come una minaccia.

La storia, fatta di presente, passato e futuro, sembra abbia perso la sua capacità di costruire identità, sostituita in questo dalla tecnica, che ha risolto l’identità di ciascuno nella sua “funzionalità” all’interno degli apparati di appartenenza che si incaricano di distribuire identità. Del resto che significato ha quel gran circolare di biglietti da visita, dove l’identità di ciascuno è data dalla sua collocazione all’interno dell’apparato di appartenenza, e dove il proprio nome e cognome acquista rilievo solo a partire dalla funzione che all’interno dell’apparato ciascuno svolge?

Nell’assegnare identità e appartenenza la tecnica ha sostituito la storia. E questo non è un inconveniente da poco perché, mentre la storia è percorsa dall’idea di “progresso” che porta in sé quel tratto “qualitativo” tendenzialmente indirizzato al miglioramento delle condizioni umane, la tecnica segue solo linee di “sviluppo” che segnano un incremento “quantitativo” molto spesso afinalizzato. Non ci sarebbe infatti tanta inquietudine, tanto stress, tanto consumo di psicofarmaci, tante domande circa il senso della propria esistenza, se un fine, uno scopo, un’idea, un ideale, un valore facesse la sua comparsa nell’età della tecnica. Nasce da qui quel risveglio religioso che fa contenti gli uomini di fede, i quali promettono un senso al di là della terra. Ma è su questa terra che, sia io sia Scalfari, vorremmo trovare tracce di sensatezza, magari potenziando la cultura e quindi la scuola, dove la cultura si trasmette, affinché l’uomo non si rassegni a diventare un semplice ingranaggio nel meccanismo della tecnica, per giunta con qualche inconveniente e qualche inadeguatezza rispetto alle macchine che quotidianamente utilizza (Günther Anders, L’uomo è antiquato).

E qui si affaccia la mia seconda proposta che invita ciascuno di noi, nel desertificarsi di tutte le appartenenze, a riprendere l’antico messaggio dell’oracolo di Delfi: “Conosci te stesso”. A questo proposito Eugenio Scalfari interviene obiettando che, dopo aver seguito per molto tempo questo invito, è giunto alla conclusione (che potrebbe far impallidire tutti gli psicoanalisti) che questa conoscenza di sé è di fatto impossibile perché, scrive opportunamente Scalfari dall’alto della sua biografia: “Si può, sia pure con qualche fatica, oggettivare l’io, la nostra mente a capacità riflessive e può pensare il proprio pensiero e le forme della propria soggettività. Ma il “sé”, cioè l’essenza, la cosa in sé del mio essere, non è pensabile. La mia incostanza impulsiva, le mie crisi neuronali, i miei sentimenti nascenti nel fondo dell’inconscio, non sono pensabili se non nel momento in cui emergono ed entrano nella sfera della coscienza”.

Se la psicoanalisi facesse tesoro di queste considerazioni avrebbe una buona occasione per riattivare il proprio pensiero, oggi un po’ pigro e stantio, abbandonare la propria pretesa, talvolta eccessiva, di trasformare o cambiare la condizione di quanti a lei si rivolgono, e indirizzare la conoscenza di sé là dove Nietzsche la indica: “Diventa ciò che sei”. Prendi coscienza, nei limiti che ti è consentito, delle tue potenzialità e delle tue non idoneità, sviluppa le prime e rinuncia alle seconde, evitando di sognare di poter diventare ciò che non sei, perché attratto dai modelli che questa società ti propone e che non ti corrispondono. “Diventa ciò che sei” potrebbe essere allora il modo di costruire un’identità nel deserto delle apparenze dovuto al defilarsi della storia, e nella coercizione in quell’appartenenza a cui la tecnica ci costringe, senza che noi ci si possa davvero identificare.

Riconosco che le mie, più che proposte, sono possibili vie d’uscita dal dominio incontrastato che la tecnica e l’economia, e non più la storia, sembrano esercitare nella nostra epoca. E perciò ringrazio Eugenio Scalfari per aver prestato attenzione a questo tema, che a me pare alla base delle ansie e anche dei dissesti esistenziali dell’uomo d’oggi. E di essere intervenuto con osservazioni perfettamente mirate che hanno consentito di approfondire il problema venendo così incontro all’inquietudine del nostro tempo in cui, per dirla con Hölderlin: “Più non son gli dèi fuggiti, e ancor non sono i venienti”.


L’identità è appartenenza

Costruire una identità deprivata dalle sue appartenenze equivale a costruire sulla sabbia

di Eugenio Scalfari (l’Espresso, 18.01.2007).

Umberto Galimberti è uno dei pensatori che più mi appassionano per la profondità delle sue osservazioni filosofiche, psicologiche, sociali e anche per la nitidezza e semplicità della sua scrittura e del suo eloquio. Per questo da molti anni gli sono amico e consento quasi sempre con le sue tesi.

Su ’Repubblica’ del 28 dicembre ho trovato una sua breve scheda a proposito dei mutamenti dell’identità che sono già in corso e ancor più lo saranno nei prossimi anni e decenni, via via che verranno meno le ’appartenenze’ sulle quali da secoli e anzi da millenni l’identità della nostra specie e degli individui che la compongono è stata costruita.

Il tema è dunque quello dell’identità e dell’appartenenza, finora strettissimamente connesse tra loro. Ma se le appartenenze si indeboliscono fino a scomparire del tutto in un futuro più o meno prossimo, che fine farà l’identità? Ne avremo ancora una riconoscibile da noi stessi e dagli altri? Dove si specchierà quell’identità nuova priva di specchi nei quali cercare conferma del nostro esistere come soggetti? Con quali strumenti riusciremo a costruirla in assenza delle appartenenze?

Cedo ora a lui la parola perché renda ancor più evidente e attuale la dimensione del problema che ha posto. "Ogni volta che rivendichiamo la nostra identità dimentichiamo che questa è decisa quasi totalmente dalle nostre appartenenze: religiosa innanzitutto (essere cristiani invece che musulmani, ebrei, buddisti, eccetera), culturale (essere nati e cresciuti in Occidente piuttosto che altrove), ideologica (essere di destra o di sinistra o qualunquisti), famigliare (a seconda si abbia o non si abbia una famiglia nobile, borghese, proletaria), di genere (maschio, femmina, transgender), di orientamento sessuale (etero, omo, bisex). Di qui il problema: che ne è della mia identità oggi che i contorni delle diverse appartenenze si smarginano, i confini dei diversi territori diventano permeabili, le leggi allargano le loro maglie per ospitare il più possibile tutta la gente e per garantire a ciascuno l’esercizio della propria libertà?".

Galimberti non è affatto spaventato da questa prospettiva, anzi ci vede "una grande occasione" perché nasca un’identità vera, senza la comoda protezione dell’appartenenza e quindi un ’essere-sé-stessi’ senza che nessun dispositivo religioso culturale giuridico possa definirci. Naturalmente non sarà un processo semplice né lineare. Susciterà (sta già suscitando) incertezze e paure, procederà a scossoni, darà luogo a crisi, scontri, azioni e reazioni, ma andrà avanti perché il mondo ha abbattuto i suoi tramezzi e i muri maestri che separavano culture, costumi, persone; la tecnologia ha reso possibile l’unificazione del pianeta.

E conclude: "L’assenza di confini offre un modello di cultura che educa perché non immobilizza, de-situa e così scongiura quella fittizia identità che è data esclusivamente dalle nostre appartenenze". Che ci vanno sempre più strette (la chiosa è mia).

Una descrizione di quanto sta accadendo intorno a noi (e anche dentro di noi) impeccabile e una conclusione fiduciosa com’è nel carattere dell’amico Galimberti. Che però questa volta non mi convince del tutto e lascia comunque aperte molte domande. Provo a formularne qualcuna.

È vero, le appartenenze plasmano l’identità e inevitabilmente costringono la libertà individuale entro limiti prefabbricati. Prefabbricati da chi? Dai ’tempora’ e dai ’mores’. Cioè dalle generazioni che sono alle nostre spalle, le quali a loro volta sono cresciute sulle spalle di quanti le precedettero. Insomma dalla storia. Dovremmo dunque cancellare la storia e la memoria? In gran parte la rimozione del passato sta avvenendo, ma è un fenomeno positivo per la ricchezza dell’umanesimo? Poiché credo di conoscere abbastanza bene Galimberti non penso che giudichi positivamente l’appiattimento sul presente delle nuove generazioni. Ma l’annullamento delle appartenenze porta a questo, lo si voglia o no.

Seconda osservazione. Per costruire un’identità fondata sull’’essere-sé-stessi’ bisogna conoscere, appunto, sé stessi, vecchia raccomandazione dei filosofi da Socrate in poi. Ma è possibile conoscere sé stessi?

Personalmente sono stato anch’io per lungo tempo fautore di questa massima e per quanto possibile ho cercato di applicarmela. Ma col passare degli anni credo d’essere arrivato alla conclusione che conoscere sé stessi sia pressoché impossibile. Se è permesso utilizzare il vecchio lessico kantiano, è impossibile conoscere la ’cosa in sé’ da parte di osservatori esterni. Ma - penso io - è altresì impossibile che la cosa in sé si conosca. La cosa in sé, cioè l’essenza della cosa e nel caso nostro il mio ’sé’ non è conoscibile, non è oggettivabile. Si può, sia pure con qualche fatica, oggettivare l’io, la nostra mente ha capacità riflessive e può pensare il proprio pensiero e le forme della propria soggettività. Ma il ’sé’, cioè l’essenza, la cosa in sé del mio essere, non è pensabile. La mia incostanza impulsiva, le mie crisi neuronali, i miei sentimenti nascenti nel fondo dell’inconscio, non sono pensabili se non nel momento in cui emergono ed entrano nella sfera della coscienza.

Non ho bisogno di spiegare questi processi a Galimberti che ne è maestro. Ma lo invito a riflettere sul fatto che costruire un’identità de-privata dalle sue appartenenze, si fondi principalmente sull’ ’essere-sé-stessi’ , quando si sa che conoscere sé stessi è impossibile, equivale a costruire sulla sabbia. Naturalmente ci sono geni creatori, artisti, conquistatori, che appartengono solo a sé stessi e alle loro passioni. Ma una società non è fatta di geni, sarebbe una galera anzi un inferno. Caro Umberto, dopo un lungo periodo di fatiche mentali la cui meta è stata di risolvere la conoscenza della cosa in sé, sono arrivato alla conclusione che noi siamo costruiti in modo da poter conoscere soltanto i fenomeni. La cosa in sé, per dire l’essenza, è come Dio per i credenti: c’è, ma è inconoscibile fino al momento in cui saremo assunti nel regno dei cieli e contempleremo l’Uno partecipando alla sua essenza.

Tutto è possibile, ma l’identità ci serve qui e ora. Quella del credente è certamente un’identità forte. Non essendo la mia, devo cercarla in altre appartenenze.



Sul tema, nel sito, si cfr.:

-  CHI SIAMO NOI IN REALTA’?Relazioni chiasmatiche e civiltà. Lettera da ‘Johannesburg’ a Primo Moroni (in memoriam)

-  UOMINI E DONNE. SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI. AL DI LA’ DELL’EDIPO.

-  DONNE, UOMINI, E TEOLOGIA POLITICA. IL VERO GENITORE E’ LA MADRE, IL PADRE, O L’AMORE ("CHARITAS") DI "MARIA" E DI "GIUSEPPE"? CONOSCI TE STESSO, CONOSCI TE STESSA ...
-  PER SALVARE LA COSTITUZIONE, COSTRUIRE DELLE ALTALENE! IL "BUON-MESSAGGIO" DELL’ORACOLO DI APOLLO PER ATENE, RICORDATO DA ESCHILO NELL’ORESTEA. Una nota di Eva Cantarella

DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE. FACHINELLI, "SU FREUD".


Rispondere all'articolo

Forum