Intervista a Giorgio Agamben:
dalla teologia politica alla teologia economica.
In un recente convegno su Walter Benjamin tenutosi a Roma alla fine dello scorso anno Giorgio Agamben [1] ha presentato una relazione che anticipa alcuni risultati della sua attuale ricerca sulla ‘teologia-economica’. Lo abbiamo intervistato su questo argomento e sulle possibili relazioni con il tema del numero odierno della rivista che anche da quella relazione è stato ispirato.
L’intervista si è tenuta nella sua casa romana il pomeriggio di lunedì 8 marzo 2004.
Domanda
Giorgio Agamben, il suo ultimo lavoro lo Stato d’eccezione, pubblicato poco meno di un anno fa, si colloca all’interno del progetto Homo sacer, la sua opera della metà degli anni novanta, che si è articolato sui temi del ‘potere sovrano’, la ‘nuda vita’, il ‘campo di concentramento come nòmos del moderno’. Un lavoro complesso che si pone nella scia delle tematiche e della metodologia di Foucault. Anche questa sua nuova ricerca sulla teologia economica si colloca nello stesso orizzonte?
Risposta
Io vedo il mio lavoro senz’altro vicino a quello di Foucault. Nelle mie due ultime ricerche sullo ‘stato d’eccezione’ e sulla ‘teologia economica’, ho cercato di applicare lo stesso metodo genealogico e paradigmatico che praticava Foucault. D’altra parte, Foucault ha lavorato in tanti ambiti, ma i due che ha lasciato fuori sono, appunto, il diritto e la teologia, e mi è sembrato naturale indirizzare le mie due ultime ricerche proprio in questa direzione.
D. Allora, come ha avuto modo di riscoprire questo concetto ‘rimosso’ della teologia economica e quando ha deciso di renderlo ’paradigmatico’ per la sua ricerca?
R. Lo spunto della ricerca l’ho trovato negli studi che stavo svolgendo negli ultimi anni su Schmitt [2] e la Teologia politica [3] e in particolare quando stavo approfondendo il dibattito tra Carl Schmitt e Erik Peterson [4] che ha avuto luogo più o meno dal 1935 fino al 1970. Lavorando sugli stessi teologi che Peterson analizza nel suo libro sul monoteismo per ritrovare l’origine di quella teologia politica che vuole criticare (dai primi apologeti, Giustino, Ignazio fino sopratutto a Tertulliano) mi sono accorto che al centro dei loro testi c’erano non solo e non tanto i concetti di monarchia, e di teologia politica che Peterson ricostruisce, ma un altro concetto: l’ oikonomìa.
Fatto curioso, ogni volta che questo concetto appariva, Peterson interrompeva la citazione. Rileggendo detti testi mi sono domandato perché mai in questa ricostruzione venisse rimosso proprio questo concetto. Mi sono così accorto che il concetto di oikonomìa era centrale in questi autori e ho cercato di farne una genealogia.
Immediatamente mi è apparso chiaro che dalla teologia cristiana derivano due paradigmi politici in senso lato: la teologia politica, che fonda nell’ unico Dio la trascendenza del potere sovrano e la teologia economica, che sostituisce a questa l’idea di una oikonomìa, concepita come un ordine immanente-domestico e non politico in senso stretto, tanto della vita divina che di quella umana. Dal primo derivano la filosofia politica e la teoria moderna della sovranità; dal secondo, la ‘biopolitica’ moderna fino all’attuale trionfo dell’economia su ogni aspetto della vita sociale.
Il libro che sto scrivendo è nato da questa scoperta. Ho cercato di ricostruire l’origine del concetto teologico di oikonomìa, e poi, nella seconda parte, di seguirne la scomparsa e la secolarizzazione nel moderno. Perché mi pare che questo concetto ad un certo punto scompaia per riemergere con la nascita dell’economia animale e dell’economia politica nel settecento.
D. Quindi lei è in aperto contrasto con l’univoca attenzione data da Peterson e da Schmitt al collegamento teologia e politica. Un’attenzione così particolare da sembrarle quasi sospetta. Ma a suo avviso erano consapevoli di questa ’rimozione’ dell’oikonomia dall’orizzonte teologico?
R. Indubbiamente! La cultura teologica di Peterson era vastissima e non è nemmeno pensabile che ignorasse il problema. Del resto egli interrompe le citazioni, per esempio in Tertulliano, esattamente nel punto in cui compare la parola oikonomìa. Schmitt, da parte sua, vedeva con chiarezza quello che potremmo definire il trionfo dell’economia e la depoliticizzazione del mondo che esso implicava nella modernità; ma per lui era strategicamente importante negare che questo sviluppo avesse un paradigma teologico. Non solo perché ciò avrebbe significato conferire una patente di nobiltà teologica all’economia, ma anche e soprattutto perché ciò avrebbe messo in questione la possibilità stessa del paradigma teologico - politico che gli stava a cuore.
D. Ma torniamo all’inizio della sua ricerca ricostruttiva e al concetto di oikonomìa censurato da Peterson ma, appunto, utilizzato dalla teologia patristica. Il riferimento naturale sembrerebbe Aristotele, anche se il suo concetto è ben diverso dal significato attuale di economia. Ma che nozione ne avevano i padri della chiesa?
R. Ovviamente il termine oikonomìa di cui si servono questi teologi è lo stesso termine di Aristotele, che in greco designa innanzitutto l’amministrazione della casa. Ma l’ oikos, la casa greca è un organismo complesso, in cui si intrecciano rapporti eterogenei, che vanno da quelli parentali in senso stretto, a quelli padrone-schiavi e alla gestione di un’azienda agricola spesso di ampie dimensioni. Ciò che tiene insieme queste relazioni è un paradigma che potremmo definire “gestionale”: si tratta cioè di un’attività che non è vincolata a un sistema di norme né costituisce una episteme, una scienza in senso proprio, ma implica decisioni e disposizioni di volta in volta diverse per far fronte a problemi specifici. In questo senso, una traduzione corretta del termine oikonomìa sarebbe, come suggerisce il Liddell-Scott, management .
D. Ma perché i padri della chiesa avevano bisogno di questo concetto?
R. L’esigenza nasce nel corso del secondo secolo, quando si comincia ad articolare quello che più tardi con i concili di Nicea [5] e di Costantinopoli [6] diventerà il dogma trinitario. I padri che cominciano ad elaborare la trinità avevano di fronte degli avversari, i così detti monarchiani, che affermavano che Dio era Uno e che, introducendo altre due figure divine, si rischiava di ricadere nel politeismo. Il problema era come conciliare la trinità, da cui non si poteva prescindere, con la monarchia, il monoteismo, altrettanto irrinunciabile.
L’Oikonomìa è il concetto, lo strumento, l’organo che rende possibile questa concezione e questo passaggio. Il ragionamento è semplice: Dio quanto alla sua essenza e alla sua natura è Uno, quanto alla sua oikonomìa, alla gestione del suo oikos, della sua casa, della sua vita divina può invece avere un figlio e articolarsi in una triplice figura. Il paradigma gestionale dell’ oikonomìa è appunto ciò che rende possibile la conciliazione della trinità col monoteismo.
D. Quali sono le implicazioni di questa scelta terminologica?
R. Per Aristotele oikos e polis sono contrapposti e economia e politica sono distinti come la casa è distinta dalla città, cioè in modo sostanziale, non quantitativo. In Senofonte è già diverso, negli stoici i due concetti tendono a indeterminarsi. Quello che è interessante, dal mio punto di vista, è che quando si arriva ai teologi cristiani, quest’ultimi fanno del concetto di oikonomìa il paradigma teologico essenziale. La domanda che sorgeva spontanea a questo punto era: perché i teologi comprendono la vita divina e il governo divino della terra come un’economia, e non come una politica?
D. Diceva prima che ad un certo punto questo riferimento economico scompare dal concetto trinitario, perché?
R. Le ragioni sono ovvie, anche se mai esplicitate. Quando si arriva a Nicea, ai grandi concili, vediamo svilupparsi già un vocabolario filosofico-teologico sofisticato, come la concezione dell’homoousia, dell’unità della sostanza. L’oikonomìa, che era stato il paradigma in cui si era pensata all’inizio la trinità, in modo pragmatico e non teorico, diventa qualcosa come una pudenda origo che si deve mettere da parte.
D. Quindi è una storia delle idee teologica, quella che stiamo ripercorrendo, che vede ad un certo punto inabissarsi il chiaro riferimento all’oikonomìa della trinità. Ma per riemergere quando? Dobbiamo attendere Schelling, come anticipava brevemente nel congresso su Benjamin, oppure riappare, seppur rapsodicamente, in altri periodi e contesti storici?
R. Una parte del lavoro che voglio fare è ricostruire questa fase intermedia. Perché quello che succede ad un certo punto è che il concetto di oikonomìa si fonde con quello di prònoia, di provvidenza. Con Clemente di Alessandria la fusione è già perfettamente articolata. Clemente dice con chiarezza che l’oikonomìa sarebbe irrazionale e assurda se non prendesse la forma di una provvidenza divina che guida il corso della storia.
E qui il discorso si fa, a mio avviso, estremamente interessante. E’ stato detto tante volte che gli antichi avevano una visione ciclica della temporalità, mentre la concezione della storia della filosofia e della teologia cristiana è lineare. Ma la cosa è, in realtà, più complessa. Quando con Clemente e Origene vediamo nascere il primo embrione di una concezione cristiana della storia, essa si presenta, con un singolare rovesciamento di un’espressione paolina, come un “mistero dell’economia”. La storia è, cioè, una economia misteriosa, una mistero divino che è oggetto della rivelazione cristiana e che l’uomo deve perciò apprendere a decifrare. Hegel (e Marx dopo di lui) non faranno che raccogliere questo paradigma per svelare definitivamente il mistero.
D. Ha avuto già il tempo di verificare se nei testi di Hegel, per esempio ne gli Scritti teologici giovanili, compare in qualche modo un riferimento al mistero teologico-economico della storia?
R. Penso che si potrebbe dire che la differenza fra Schelling e Hegel concerna appunto due modi diversi di intendere l’eredità teologica dell’ oikonomìa.
D. Ma chiudendo la parentesi hegeliana, e tornando alla storia come mistero economico, cosa ritiene particolarmente interessante di questo concetto?
R. Da una parte, che in fondo è attraverso questo mistero dell’economia che i primi embrioni di una concezione della storia del cristianesimo appaiono. Dall’altra, che tanto la vita divina che il governo divino del mondo e il corso della storia in quanto rivela questo piano divino del mondo sono una economia e non una politica. Come dicevo prima, ciò significa che dalla teologia cristiana deriva una teologia economica e non una teologia politica. La teologia politica può affermarsi solo sospendendo la teologia economica: di qui la dottrina schmittiana del kat-echon, che è una sospensione, una dilazione di questo piano economico che regge il mondo. La teologia politica secondo Schmitt si può fondare solo su un differimento e una dilazione dell’economia.
D. Così ci avviciniamo alla nascita del nuovo concetto moderno di economia in cui Weber ritroverà una radice in un certo senso teologica nella sua celebre opera L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Ma prima di giungere fino al secolo appena trascorso, Le chiederei se ha anche affrontato una relazione tra etica, economia e teologia in Spinoza, in particolare nel Tractatus theologico politicus.
R. Questo è un problema che non ho ancora affrontato. Ciò di cui sono, invece, abbastanza sicuro è che il paradigma economico, che continua in una dimensione sotterranea attraverso tutto il medioevo, riappare nel ‘600 con il dibattito leibniziano sulla teodicea e nel ‘700, con la nascita dell’ economia animale. Nell’Encyclopédie [7] ci sono due voci distinte: economie politique e economie animale. Sono due cose che non hanno nulla a che fare, perché l’économie animale si riferisce alla medicina e alla scienza della natura, mentre l’economie politique si avvicina alla nostra economia politica. Credo di poter dimostrare che l’economia animale deriva dal paradigma dell’economia teologica. E se si pensa che nel settecento gli stessi autori (come Quesnay e gli altri fisiocratici), che sono all’origine dell’economia politica, scrivono anche trattati sull’economia animale, si potrebbe, sia pure con prudenza, avanzare l’ipotesi di una possibile genealogia teologica dell’economia moderna.
D. Nella fraseologia schmittiana, si potrebbe dire che l’economia moderna è una secolarizzazione dell’economia teologica?
R. Non credo che questo sarebbe esatto. Ciò che io mi propongo è, piuttosto, di ricostruire la storia, spesso dimenticata, dell’economia teologica e di individuare indizi e tracce di un suo influsso sulla nascita dell’ economia politica. La nozione di “mano invisibile” in Adam Smith è senz’altro una di queste tracce .
D. A questo punto, avendo appena citato la ’mano invisibile’ di Smith e seguendo l’interpretazione che dava della provvidenza, mi viene in mente l’analogia tra stato di eccezione e il concetto teologico di ‘miracolo’ intuita da Schmitt [8] e ripresa da Benjamin [9]. Non c’è una relazione tra questo riferimento al miracolo, lo stato di eccezione e il paradigma teologico-economico che sembra attraversare la teologia, l’economia, la politica e il diritto?
R. Certo. Uno dei risultati della mia ricerca sullo stato d’eccezione era stato appunto l’ idea di una doppia struttura dell’ordine giuridico politico dell’occidente, che sembra fondato insieme su un elemento normativo e giuridico in senso stretto, e un elemento invece anomico e extra-giuridico. L’economia teologica, in quanto paradigma essenzialmente gestionale e non normativo, sta certamente dalla parte dello stato di eccezione.
D. Sotto i nostri occhi si sta delineando una griglia interpretativa che consentirebbe di leggere la situazione attuale, la globalizzazione, intendo, come un testo già scritto, dove il diritto in fondo non è mai stato normativo, mentre tale è stato il governo dell’oikonomico.
R. Quello che mi sembra di poter intravedere da questa ricerca sulla teologia economica è che la storia della nostra cultura, della politica occidentale è la storia delle opposizioni e degli incroci tra un paradigma economico e un paradigma politico in senso stretto.
L’economia è l’aspetto gestionale e non normativo, tanto della vita divina che della realtà storica. Riprendendo una citazione schmittiana, (“le roi règne, mais il ne gouverne pas”), si potrebbe chiamare “regno” il primo paradigma e “governo” il secondo. In questa prospettiva, la storia del sistema politico dell’occidente appare come la storia del continuo separarsi e incrociarsi dei due paradigmi.
E’ evidente che Foucault ha lavorato soprattutto sul secondo, su quello che egli chiama le gouvernement des hommes. Io vorrei lavorare soprattutto sul loro incrocio, anche se è chiaro che oggi sembra essere il secondo a dominare.
D. Quindi l’economia, in un contesto globalizzato, è ciò che governa, è oikonomìa?
R. Direi che non possiamo capire il trionfo dell’economia oggi se non insieme al trionfo del paradigma gestionale dell’oikonomìa teologica.
D. In questo modo l’economia allora mostrerebbe il suo vero volto: la maschera politica viene tolta e appare il governo dell’oikonomico, del teologico economico intendo. Potremmo definire questo processo, secondo una terminologia schmittiana, come una de-secolarizzazione: dall’economia alla teologia? D’altra parte il termine sarebbe lo stesso, e l’economia non farebbe altro che riprendere il posto del diritto e della politica, perché in fondo è sempre stata lì.
R. Diciamo che il dominio attuale dell’economia aveva già il suo paradigma nell’oikonomìa. E’ vero che regno e governo in passato si sono sempre intrecciati e che la storia non è anzi che il loro intreccio. Però fin dall’inizio, dal punto di vista teologico, dominante era il paradigma del governo, dell’economia della vita divina. In termini filosofici, ciò corrisponde all’opposizione fra un paradigma ontologico (l’essere, la sostanza divina) da una parte e un paradigma assolutamente pragmatico dall’altra. Il dominio dell’ontologia ha nascosto la presenza, altrettanto e forse perfino più decisiva, dell’elemento oikonomico-pragmatico. Oggi la situazione si è rovesciata. Ma entrambi gli elementi sono necessari al funzionamento del sistema.
D. Rimanendo in termini filosofici ed in particolare sulle origini della filosofia, riappare quindi la dicotomia tra Platone e Aristotele?
R. E’ sempre difficile radicalizzare, c’è sempre tutto in tutto. Ma direi che Aristotele dà all’occidente la filosofia prima, l’ontologia, la dottrina dell’essere; in Platone, invece, c’è il primato dell’ethos, di ciò che è al di là dell’essere, dell’elemento pragmatico-politico.
D. Tornando per un attimo all’oikonomìa aristotelica, mi era parso che nella breve relazione che ha tenuto nel recente convegno internazionale su Benjamin, tentasse un’interpretazione dell’essenza del capitalismo che partendo dai concetti oikonomici di servo e di schiavo delineati nella Politica di Aristotele giungesse ad essere oggi una sorta di ‘immanentizzazione’ della stessa teologia economica.
R. Dire che cerco di ricostruire l’essenza del capitalismo è senz’altro eccessivo. Sicuramente l’ idea di un ordine immanente è essenziale, e si ritrova anche nell’economia antica, da Aristotele a Senofonte. E’ noto che l’economia greca non è un’economia della produzione, ma della gestione della casa, dell’ordine delle cose. La crematistica, il guadagno, era fuori dall’economia antica. Io credo, però, che quest’idea di ordine che noi siamo abituati a pensare come secondaria nell’economia moderna, ne costituisca invece un presupposto essenziale e ciò lega l’economia antica all’economia moderna. Il paradigma teologico rappresenta una sorta di elemento medio fra le due.
D. Per concludere, riconsiderando il monito gentiliano del “Silete theologi in munere alieno!” [10], a questo punto, quale teologia doveva e deve parlare e in quale campo?
R. Suggerirei a chiunque desideri comprendere veramente quel che accade oggi di non trascurare la teologia. Una delle cose che più mi hanno sorpreso, quando ho cominciato a lavorare sul problema dell’ oikonomìa, è che pensavo di trovare nelle biblioteche di teologia volumi e volumi sul concetto di economia, e invece nulla o quasi. Bisogna faticosamente leggere all’interno delle monografie sui singoli autori per trovare analizzato il punto. E’ incredibile, ma non c’è nessun lavoro veramente globale su questo concetto.
Come ne lo Stato d’eccezione, parafrasando [11] il monito di Alberico Gentile, provocavo i giuristi ad affrontare questo istituto giuridico dal loro proprio punto di vista, inviterei oggi i teologi a fare altrettanto, a affrontare come teologi questo problema, la cui rimozione ha avuto conseguenze nefaste sia in teologia che in politica
[1] G. Agamben insegna presso lo Iuav di Venezia. Già curatore dell’edizione italiana delle opere di Walter Benjamin, ha pubblicato su tematiche filosofico-politiche fra l’altro Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, 1995; Mezzi senza fine. Note sulla politica (1996); Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone(1998); Il tempo che resta, Un commento alla “lettera ai romani” (2000); Stato di eccezione, Torino, 2003,
[2] Carl Schmitt (Plettemberg 1888-1985) giurista e filosofo, membro del consiglio prussiano nel regime di Hitler e presidente dei giuristi nazinal-socialisti. Tra le opere più importanti, oltre alla Teologia politica (1922) la Dottrina della costituzione (1928), Il nomos della terra (1950) [3] Nel saggio dal titolo Teologia politica (in C.Schmitt Le categorie del politico, a cura di G.Miglio e P.Schera, Bologna 1972), Carl Schmitt oltre ad affermare la celebre frase “Sovrano è chi decide nello stato d’eccezione”, sostiene che “tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati. Non solo in base al loro sviluppo storico, poiché essi sono passati alla dottrina dello Stato dalla teologia, come ad es. Dio onnipotente che è divenuto l’onnipotente legislatore, ma anche nella loro struttura sistematica, la cui conoscenza è necessaria per una considerazione sociologica di questi concetti”[p.61] e quello di sovranità ha il suo analogo nell’unicità e nella trascendenza di Dio. Da qui la polemica con Peterson che sostiene, invece, la non riducibililtà dell’idea monoteistica al cristianesimo primitivo che si fonda, piuttosto sul mistero della trinitario non imitabile ad extra e quindi nessun concetto teologico può fungere in alcun modo da analogo per altre discipline, e tanto meno per la politica.
[4] Erik Peterson (Amburgo 1890-1960) teologo protestante successivamente convertito al cattolicesimo nel suo libro su Il monoteismo come problema politico, (1935)tr. it. Queriniana, Brescia, 1986, confuta la tesi schmittiana della teologia politica, sostenendo che fra i due termini non vi è analogia. Così si esprimeva sulla teologia politica di Carl Schmitt "Il concetto di ’teologia politica’ è stato introdotto nella letteratura, per quanto io ne sappia, da Carl Schmitt, Politische teologie, Munchen 1922. Le sue brevi cosiderazioni di allora non erano impostate sistematicamente. Qui abbiamo fatto il tentativo, sulla base di un esempio concreto, di dimostrare l’impossibilità teologica di una ’teologia politica’"Il monoteismo come problema..., op. cit. n. 168, p. 103-104. [5] Primo concilio ecumenico convocato da Costantino nel 325 dove condannando l’eresia di Ario, si proclamò la consustanzialità del Figlio al Padre: la dottrina dell’homoousios.
[6] Indetto da Damaso nel 381, stabilì la divinità dello Spirito Santo [7] Propriamente Encyclopèdie ou dictionaire raisonné des sciences des arts et de mètiers, (Parigi tra il 1751 e 1772) diretta da Diderot e D’Alambert. [8] “Lo stato d’eccezione ha per la giurisprudenza un significato analogo al miracolo per la teologia” C.Schmitt, Le categorie del politico, op. cit. 62 [9] “La tradizione degli oppressi ci insegna che lo “stato d’eccezione” in cui viviamo è la regola.” W.Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di Boola e Ranchetti, Torino, 1997, p. 33
[10] Vedi commento alla frase: “Silete theologi in munere alieno!” nel numero precedente di questa Rivista, n. 3, 2004 [11] “Quare siletis juristae in munere vestro?”G.Agamben, Stato di eccezione, cit, p.7
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
LA CHIESA IN ROVINA E IL TEMPO DEL MESSIA. Un’analisi di Giorgio Agamben
"IL TEMPO CHE RESTA":UNA DOMANDA DI GIORGIO AGAMBEN A UNA CHIESA PERSA NEL TEMPO. - RIFLESSIONI SULLA PESTE: CORONAVIRUS E PACE PERPETUA.
FLS
VERSO "BARI 2020" E "NICEA 2025": MESSAGGIO EVANGELICO, FILOLOGIA, ED ECUMENISMO. Quale "carità" (Kapitas o Xapitas, caritas o charitas)?! *
Nicola. Protettore del ponte di dialogo che unisce Occidente e Oriente
di Matteo Liut (Avvenire, giovedì 6 dicembre 2018)
La carità è il "miracolo" più grande che nasce dalla fede: prendersi cura degli ultimi, del prossimo in genere, oggi è il messaggio più profetico e rivoluzionario che ci lascia san Nicola. Nato tra il 250 e il 260 a Patara, nella Licia, divenne vescovo di Mira in un tempo di persecuzione e dovette affrontare anche la prigionia: si salvò grazie alla libertà di culto concessa dall’Editto di Costantino nel 313.
Difensore dell’ortodossia, forse partecipò al Concilio di Nicea nel 325. La tradizione gli attribuisce un’attenzione particolare nei confronti dei bisognosi, come le due giovani ragazze che poterono sposarsi solo grazie al dono da parte del vescovo di una dote. Morto attorno all’anno 335, nel 1087 le sue reliquie arrivarono a Bari, dove è venerato come patrono e considerato un protettore anche del ponte di dialogo che unisce Occidente e Oriente.
Altri santi. Santa Asella di Roma, vergine (IV sec.); san Pietro Pascasio, vescovo e martire (1227-1300).
Letture. Is 26,1-6; Sal 117; Mt 7,21.24-27.
Ambrosiano. Ger 7,1-11; Sal 106; Zc 8,10-17; Mt 16,1-12.
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Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Commenti a Presicce, il suo patrono Sant’Andrea e la tela del suo martirio, opera del Catalano (Fondazione Terra d’Otranto).
PER "LA PACE DELLA FEDE" (Niccolò Cusano, 1453), UN NUOVO CONCILIO DI NICEA (2025)
ERMETISMO ED ECUMENISMO RINASCIMENTALE, OGGI: INCONTRO DI PAPA FRANCESCO E BARTOLOMEO I A ISTANBUL.
Federico La Sala
TEOLOGIA, ECONOMIA, E STORIA ..... *
Il documento vaticano.
Verso una nuova finanza: il cammino ora è segnato
Il testo della Congregazione per la Dottrina della Fede «Oeconomicae et Pecuniariae Quaestiones» offre spunti per un discernimento etico sul sistema attuale e offre soluzioni per il bene comune
di Stefano Zamagni (Avvenire, martedì 12 giugno 2018)
«Oeconomicae et Pecuniariae Quaestiones» (Opq) è un documento - reso di dominio pubblico il 17 maggio 2018 - originale e intrigante.
Originale per il taglio espositivo e soprattutto perché è la prima volta che la Congregazione per la Dottrina della Fede - la cui competenza copre anche le questioni di natura morale - interviene su una materia di Dottrina Sociale della Chiesa. Il lavoro congiunto tra Congregazione e Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale è già di per sé qualcosa che non può passare inosservato e che lascerà il segno.
Opq è poi un contributo intrigante per il modo e per lo spessore con cui affronta una tematica che, come quella della nuova finanza, è oggi al centro delle preoccupazioni della Chiesa e della società in generale. (Papa Francesco ha approvato il Documento che entra pertanto nel Magistero ordinario). Come recita il sottotitolo («considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario» - corsivo aggiunto), non ci troviamo di fronte ad una sorta di esortazione apostolica o ad un testo di taglio pastorale. Piuttosto, vi si legge un’analisi, scientificamente fondata, delle cause remote dei disordini e dei guasti che l’architettura dell’attuale sistema finanziario va determinando.
Si legge al n. 5: «La recente crisi finanziaria poteva essere l’occasione per una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria, neutralizzandone gli aspetti predatori e speculativi (sic!) e valorizzandone il servizio all’economia reale. Sebbene siano stati intrapresi molti sforzi positivi... non c’è stata però una reazione che abbia portato a ripensare quei criteri obsoleti che continuano a governare il mondo».
A scanso di equivoci, è bene precisare che il documento non parla affatto contro la finanza, di cui riconosce la rilevanza e anzi la necessità (e non potrebbe essere diversamente, se si considera che la finanza moderna nasce entro l’alveo del pensiero economico francescano). Esso prende piuttosto posizione nei confronti di una realtà efficacemente descritta dal seguente dato: nel 1980, l’insieme degli attivi finanziari a livello mondiale era pressoché eguale al Pil sempre mondiale; nel 2015 la prima variabile era diventata dodici volte superiore alla seconda.
Il punto centrale dell’argomento sviluppato nel Documento è l’affermazione del principio secondo cui etica e finanza non possano continuare a vivere in sfere separate. Ciò implica il rigetto della tesi del Noma (Non Overlapping Magisteria) per primo formulata in economia nel 1829 da Richard Whateley, cattedratico all’Università di Oxford e vescovo della Chiesa Anglicana.
Secondo questa tesi, la sfera dell’economia va tenuta separata sia dalla sfera dell’etica sia da quella della politica, se si vuole che l’economia ambisca a vedersi riconosciuto lo statuto di disciplina scientifica. E così è stato, almeno fino a tempi recenti, quando si è cominciato a parlare con Amartya Sen e altri, di economia e etica.
I paragrafi 7-12 di Opq si soffermano con grande incisività a descrivere come dall’accettazione del principio del Noma sia derivato l’accoglimento dell’assunto antropologico (di ascendenza Hobbesiana) dell’homo homini lupus, posto a fondamento della figura dell’homo oeconomicus.
Ben diverso è l’assunto antropologico da cui parte il paradigma dell’economia civile - fondato da Antonio Genovesi nel 1753 a Napoli - che, rifiutando esplicitamente il Noma, riconosce che homo homini natura amicus. («L’uomo è per natura amico dell’altro uomo»).
Seconda novità di rilievo del Documento è la rilevanza attribuita al principio della responsabilità adiaforica, di cui quasi mai si fa cenno. Il par. 14 recita: «Ad li là del fatto che molti operatori siano singolarmente animati da buone e rette intenzioni, non è possibile ignorare che oggi l’industria finanziaria, a causa della sua pervasività e della sua inevitabile capacità di condizionare e di dominare l’economia reale, è un luogo dove gli egoismi e le sopraffazioni hanno un potenziale di dannosità della collettività che ha pochi eguali».
È questo un esempio notevole di struttura di peccato, come la chiamò, per primo nella Dottrina Sociale della Chiesa, Giovanni Paolo II nella sua Sollecitudo Rei Socialis (1987). Non è il solo operatore di borsa, o banchiere o uomo d’affari ad essere responsabile delle conseguenze delle azioni che pone in atto. Anche le istituzioni economiche, se costruite su premesse di valore contrarie ad un’etica amica dell’uomo, possono generare danni enormi a prescindere dalle intenzioni di coloro che in esse operano. Per meglio comprendere la ragione di ciò, conviene fissare l’attenzione su tre caratteristiche specifiche della nuova finanza.
La prima è l’impersonalità dei contesti di mercato, la quale oscura il fatto che da qualche parte vi è sempre un qualcuno sull’altro lato dell’affare. La seconda caratteristica è la complessità della nuova finanza che fa sorgere problemi di agentività indiretta: il principale si riconosce moralmente disimpegnato nei confronti delle azioni poste in essere dal suo ’ingegnere finanziario’, cioè dall’esperto cui affida il compito di disegnare un certo prodotto, il quale a sua volta si mette il cuore in pace perché convinto di eseguire un ordine.
Accade così che ognuno svolge il suo ruolo separando la propria azione dal contesto generale, rifiutandosi di accettare che, anche se solo amministrativamente, era parte dell’ingranaggio. Infine, la nuova finanza tende ad attrarre le persone meno attrezzate dal punto di vista etico, persone cioè che non hanno scrupoli morali e soprattutto molto avide. Riusciamo così a comprendere perché il problema non risiede unicamente nella presenza di poche o tante mele marce; ma è sulla stessa cesta delle mele che si deve intervenire.
Il Documento in questione, infine, prende definitiva ed esplicita posizione contro la tesi della doppia moralità - purtroppo diffusa anche tra alcune organizzazioni di tipo finanziario che dichiarano di ispirarsi alla Dottrina Sociale della Chiesa. Per capire di che si tratta conviene partire dal saggio di Albert Carr, ’Is business bluffing ethical?’ pubblicato sulla prestigiosa Harvard Business Review nel 1968. È questo il saggio che, più di ogni altro, ha guidato fino ad oggi la riflessione etica nel mondo degli affari. Vi si legge che l’uomo d’affari di successo deve essere guidato da «un diverso insieme di standars etici», poiché «l’etica degli affari è l’etica del gioco [d’azzardo], diversa dall’etica religiosa». Assimilando il business al gioco del poker, il noto economista americano conclude che «gli unici vincoli di ogni mossa nel business sono la legalità e il profitto.
Se qualcosa non è illegale in senso stretto (sic!) ed è profittevole allora è eticamente obbligante che l’uomo d’affari lo realizzi». I paragrafi dal 22 al 34 di Opq si soffermano sul faciendum: che fare per cercare di invertire la situazione? Parecchie le proposte - tutte realizzabili - che vengono avanzate. Dal sostegno a istituti che praticano la finanza non speculativa, come le Banche di Credito Cooperativo, il microcredito, l’investimento socialmente responsabile, alle tante forme di finanza etica. Dalla chiusura della finanza offshore e dalle forme di cannibalismo economico di chi, con i credit default swaps, specula sul fallimento altrui, alla regolamentazione dello shadow-banking, soggetti finanziari non bancari che agiscono come banche ma operando al di fuori di ogni quadro normativo ufficiale.
L’obiettivo da perseguire è quello di assicurare una effettiva biodiversità bancaria e finanziaria. Di speciale interesse è inoltre la proposta di affiancare ai Cda delle grandi banche Comitati Etici costituiti da persone moralmente integre oltre che competenti - così come già accade nei grandi policlinici. Nell’aprile 2015 la ’Dutch Banking Association’ (l’Associazione di tutte le banche olandesi) stabilì di esigere dai dipendenti delle banche (circa 87.000 persone) il ’Giuramento del Banchiere’, stilato sulla falsariga del giuramento ippocratico per i medici.
Il giuramento consta di otto impegni specifici. Ne indico solamente un paio: «Prometto e giuro di mai abusare delle mia conoscenze»; «Prometto e giuro di svolgere le mie funzioni in modo etico e con cura, adoperandomi di conciliare gli interessi di tutte le parti coinvolte: clienti, azionisti; occupati; società». Si opera dunque a favore di tutte le classi di stakeholder e non solamente di quella degli azionisti. Sarebbe bello se sull’esempio dell’Olanda - un Paese non certo sprovveduto né arretrato in materia finanziaria - anche l’Italia volesse seguirne la traccia.
Delle tre principali strategie con le quale si può cercare di uscire da una crisi di tipo entropico - quale è l’attuale - e cioè quella rivoluzionaria, quella riformista, quella trasformazionale, il Documento Opq sposa, in linea con il Magistero di papa Francesco, la terza. Si tratta di trasformare - non basta riformare - interi blocchi del sistema finanziario che si è venuto formando nell’ultimo quarantennio per riportare la finanza alla sua vocazione originaria: quella di servire il bene comune della civitas che, come ci ricorda Cicerone, è la «città delle anime», a differenza dell’urbs che è la «città delle pietre». È questa la strategia che vale, ad un tempo, a scongiurare il rischio sia di utopiche palingenesi sia del misoneismo, che è l’atteggiamento tipico di chi detesta la novità e osteggia l’emergenza del nuovo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
LA CHIESA DI COSTANTINO, L’AMORE ("CHARITAS") E LA NASCITA DELLA DEMOCRAZIA DEI MODERNI. LA "CHARTA CHARITATIS" (1115), LA "MAGNA CHARTA" (1215) E LA FALSA "CARTA" DELLA "DEUS CARITAS EST" (2006).
LA CATTEDRA DI SAN PIETRO UNA CATTEDRA DI ECONOMIA POLITICA. Tutti a scuola in Vaticano, per aggiornamenti. Materiali per approfondire
STORIA D’ITALIA. INTELLETTUALI E SOCIETA’....
VICO, LA «SCUOLA» DEL GENOVESI, E IL FILO SPEZZATO DEL SETTECENTO RIFORMATORE. Una ’Introduzione’ di Franco Venturi, tutta da rileggere
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
MESSAGGIO EVANGELICO E ILLUMINISMO, OGGI: "SAPERE AUDE!" (I. Kant). AL DI LA’ DELLA LOGICA E DELLA DIALETTICA "SERVO-PADRONE"...
La parabola dei talenti
di ENZO BIANCHI (Monastero di Bose, 19 novembre 2017)
La parabola dei talenti proposta dalla liturgia odierna è una parabola che, secondo il mio povero parere, oggi è pericolosa: pericolosa, perché più volte l’ho sentita commentare in un modo che, anziché spingere i cristiani a conversione, pare confermarli nel loro attuale comportamento tra gli altri uomini e donne, nel mondo e nella chiesa. Dunque forse sarebbe meglio non leggere questo testo, piuttosto che leggerlo male...
In verità questa parabola non è un’esaltazione, un applauso all’efficienza, non è un’apologia di chi sa guadagnare profitti, non è un inno alla meritocrazia, ma è una vera e propria contestazione verso il cristiano che sovente è tiepido, senza iniziativa, contento di quello che fa e opera, pauroso di fronte al cambiamento richiesto da nuove sfide o dalle mutate condizioni culturali della società. La parabola non conferma neppure “l’attivismo pastorale” di cui sono preda molte comunità cristiane, molti “operatori pastorali” che non sanno leggere la sterilità di tutto il loro darsi da fare, ma chiede alla comunità cristiana consapevolezza, responsabilità, laboriosità, audacia e soprattutto creatività. Non la quantità del fare, delle opere, né il guadagnare proseliti rendono cristiana una comunità, ma la sua obbedienza alla parola del Signore che la spinge verso nuove frontiere, verso nuovi lidi, su strade non percorse, lungo le quali la bussola che orienta il cammino è solo il Vangelo, unito al grido degli uomini e delle donne di oggi quando balbettano: “Vogliamo vedere Gesù!” (Gv 12,21).
Leggiamo allora con intelligenza questa parabola la cui prospettiva - lo ripeto - non è economica né finanziaria; essa non è un invito all’attivismo ma alla vigilanza che resta in attesa, non contenta del presente ma tutta protesa verso la venuta del Signore. Egli non è più tra di noi, sulla terra, è come partito per un viaggio e ha affidato ai suoi servi, ai suoi discepoli un compito: moltiplicare i doni da lui fatti a ciascuno. Nella parabola, a due servi il Signore ha lasciato molto, una somma cospicua - cinque lingotti di argento a uno, due a un altro -, affinché la facciano fruttificare; a un terzo servo ha lasciato un solo lingotto, che comunque non è poco. In tutti egli ha messo la sua fiducia senza limiti, confidando loro i suoi beni. Spetta dunque ai servi non tradire la grande fiducia del padrone e operare una sapiente gestione dei beni, non di loro proprietà ma del padrone, il quale al suo ritorno darà loro la ricompensa. A ciascuno il padrone da in funzione della sua capacità, e il suo dono è anche un compito: custodire e far fruttificare.
Al di là dell’immagine dei talenti, che cos’è questo dono, in definitiva? Secondo Ireneo di Lione è la vita accordata da Dio a ogni persona. La vita è un dono che non va assolutamente sprecato, ignorato o dissipato. Purtroppo - dobbiamo constatarlo - per alcuni la vita non ha alcun valore: non la vivono, anzi la sprecano e la sciupano “fino a farne una stucchevole estranea” (Konstantinos Kavafis), e così si lasciano vivere. Eppure si vive una volta sola e il farlo con consapevolezza e responsabilità è decisivo al fine di salvare una vita o perderla! Secondo altri padri orientali, i talenti sono le parole del Signore affidate ai discepoli perché le custodiscano, certo, ma soprattutto le rendano fruttuose nella loro vita, le mettano in pratica fino a seminarle copiosamente nella terra che è il mondo. Di nuovo, è questione di vita, di “scegliere la vita” (cf. Dt 30,19).
“Dopo molto tempo” - allusione al ritardo della parusia, della venuta gloriosa del Signore (cf. Mt 24,48; 25,5) - il padrone ritorna e chiede conto della fiducia da lui riposta nei suoi servi, i quali devono mostrare la loro capacità di essere responsabili, in grado cioè di rispondere della fiducia ricevuta. Eccoli dunque presentarsi tutti davanti a lui. Colui che aveva ricevuto cinque talenti si è mostrato operoso, intraprendente, capace di rischiare, si è impegnato affinché i doni ricevuti non fossero diminuiti, sprecati o inutilizzati; per questo, all’atto di consegnare al padrone dieci talenti, riceve da lui l’elogio: “Bene, servo buono e fedele, ... entra nella gioia del tuo Signore”. Lo stesso avviene per il secondo servo, anche lui in grado di raddoppiare i talenti ricevuti. Per questi due servi la ricompensa è proporzionalmente uguale, anche se le somme affidate erano diverse, perché entrambi hanno agito secondo le loro capacità.
Viene infine colui che aveva ricevuto un solo talento, il quale mette subito le mani avanti, manifestando il pensiero che lo ha paralizzato: “Da quando mi hai dato il talento, io sapevo che sei un uomo duro, esigente, arbitrario, che fa ciò che vuole, raccogliendo anche dove non ha seminato”. Con queste sue parole (“dalle tue parole ti giudico”, si legge nel testo parallelo di Lc 19,22) il servo confessa di essersi fabbricato un’immagine distorta del Signore, un’immagine plasmata dalla sua paura e dalla sua incapacità di avere fiducia nell’altro: egli considera il padrone come qualcuno che gli fa paura, che chiede una scrupolosa osservanza di ciò che ordina, che agisce in modo arbitrario. Avendo questa immagine in sé, ha scelto di non correre rischi: ha messo al sicuro, sotto terra, il denaro ricevuto, e ora lo restituisce tale e quale. Così rende al padrone ciò che è suo e non ruba, non fa peccato... Ma ecco che il Signore va in collera e gli risponde: “Sei un servo malvagio (ponerós) e pigro (oknerós). Malvagio perché hai obbedito all’immagine perversa del Signore che ti sei fatta, e così hai vissuto un rapporto di amore servile, di amore ‘costretto’. Per questo sei stato pigro, inaffidabile, non hai avuto né il cuore né la capacità di operare secondo la fiducia che ti avevo accordato. Non hai fatto neanche lo sforzo di mettere il talento in banca, dove sarebbe stato fruttuoso, dandomi interessi. Non hai avuto cura del mio bene affidato a te”.
Sì, lo sappiamo: è più facile seppellire i doni che Dio ci ha dato, piuttosto che condividerli; è più facile conservare le posizioni, i tesori del passato, che andarne a scoprire di nuovi; è più facile diffidare dell’altro che ci ha fatto del bene, piuttosto che rispondere consapevolmente, nella libertà e per amore. Ecco dunque la lode per chi rischia e il biasimo per chi si accontenta di ciò che ha, rinchiudendosi nel suo “io minimo”. Questo servo non ha fatto il male; peggio ancora, non ha fatto niente! Dunque davanti a Dio nel giorno del giudizio compariranno due tipi di persone:
chi ha ricevuto e ha fatto fruttificare il dono,
chi lo ha ricevuto e non ha fatto niente.
I servi fedeli entreranno nella gioia del Signore; chi invece è stato “buono a nulla” (achreîos) sarà spogliato anche dei meriti che pensava di poter vantare!
Ma a me piacerebbe che la parabola si concludesse altrimenti: così sarebbe più chiaro il cuore del padrone, mentre il cuore del discepolo sarebbe quello che il padrone desidera. Oso dunque proporre questa conclusione “apocrifa”:
Venne il terzo servo, al quale il padrone aveva confidato un solo talento, e gli disse: “Signore, io ho guadagnato un solo talento, raddoppiando ciò che mi hai consegnato, ma durante il viaggio ho perso tutto il denaro. So però che tu sei buono e comprendi la mia disgrazia. Non ti porto nulla, ma so che sei misericordioso”. E il padrone, al quale più del denaro importava che quel servo avesse una vera immagine di lui, gli disse: “Bene, servo buono e fedele, anche se non hai niente, entra pure tu nella gioia del tuo padrone, perché hai avuto fiducia in me”.
Anche così la parabola sarebbe buona notizia!
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"SAPERE AUDE!": AL DI LA’ DELLA LOGICA E DELLA DIALETTICA "SERVO-PADRONE", LA PARABOLA DEI TALENTI è una lezione sull’uscita dallo stato di minorità, un chiaro invito ad avere il coraggio di servirsi della propria intelligenza, e a imparare a usare la bilancia (gr.: "talanton") per investire al meglio i propri talenti. Nell’assenza del padrone, il servo è sollecitato ad agire come se egli non ci fosse e al contempo a comportarsi come se fosse il padrone, come una persona libera, capace di disporre sovranamente del talento avuto in dono. La sfida è grande e non è facile venirne fuori: la parabola ’nasconde’ una ingiunzione del "padrone" al "servo" di tipo paradossale, come un "ti ordino di essere spontaneo!". In questa trappola, il servo si scopre "padrone" del talento ricevuto e in quanto tale “re” (“le roi règne), ma al contempo si scopre anche “servo”, in quanto del talento avuto in dono, non può farne uso (“mais il ne gouverne pas”) se non “restituendolo” a chi lo sa mettere in circolazione e lo sa “governare”. Come uscire dalla “caverna” platonica-hegeliana?! Come è possibile venirne fuori?! Come è possibile saldare insieme regalità, sovranità (teologia), e governo (economia) se ancora non si ha nemmeno il coraggio di accogliere l’invito a servirsi della propria intelligenza, cominciare ad usare la “bilancia”, e affrontare criticamente le "antinomie" della ragion pura?!
MESSAGGIO EVANGELICO E ILLUMINISMO, OGGI: "SAPERE AUDE! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza" (I. Kant).
LA PAURA DI PENSARE E LA PARABOLA DEI TALENTI. Perché chiudere la nostra vita in una scatola? Una riflessione di Angelo Casati
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Perché Dio è tornato sulla scena
La religione diventa un antidoto al dominio dell’economia
L’identificazione tra modernità e laicizzazione non è scontata
Dopo anni di assenza, la teologia politica è al centro di un dibattito internazionale iniziato in America
di Roberto Esposito (la Repubblica, 30.03.2015)
DOPO una lunga parentesi di relativa autonomia, politica e religione tornano ad incrociare le proprie traiettorie con effetti inquietanti, di cui le tragiche vicende di Parigi e Tunisi costituiscono gli ultimi episodi. La condanna più intransigente degli attentatori e la rivendicazione della libertà di espressione in tutte le sue forme è la sola risposta adeguata. Ma ciò è ben lontano dall’esaurire una questione più di fondo, che riguarda il nodo che da qualche tempo si va stringendo tra teologia e politica. La tradizionale tesi della progressiva fine delle religioni nel mondo moderno, portata avanti dai sociologi della secolarizzazione, si scontra con dati di fatto sempre più evidenti. Come già aveva argomentato a suo tempo Gilles Kepel in La rivincita di Dio ( Rizzoli), l’identificazione tra modernità e laicizzazione è tutt’altro che scontata.
A quella che era stata definita “eclissi del sacro”, è parso opporsi il suo “risveglio”. Il primo segno dell’inversione di tendenza è stata la rivoluzione khomeinista in Iran, seguita da una ripresa di fondamentalismo religioso in forme molto diverse, ma convergenti nel riaprire uno scenario teologico-politico che sembrava chiuso per sempre. Senza voler assimilare fenomeni ben differenti, l’integralismo della destra conservatrice americana, il cattolicesimo anti-conciliare, la linea più ortodossa del sionismo ebraico già rompevano in più direzioni lo schema della distinzione liberale tra sfera pubblica della politica e sfera privata della religione. L’esplosione dell’estremismo islamico ha conferito un elemento di assoluta drammatizzazione in questo quadro, ma non va isolato da esso.
Non è un caso se la questione della teologia politica è tornata da qualche anno al centro del dibattito internazionale. Se in America libri come The Faith of the Faithless di Simon Critchley (Verso), Crediting God, a cura di Miguel Vatter (Fordham) o The Power of Religion in the Public Sphere , a cura di E. Mendieta e J. Vanantewepern, con saggi di Butler, Habermas, Taylor (Columbia), stanno monopolizzando la discussione, anche in Europa il rapporto tra teologia e politica è divenuto uno dei temi dominanti.
Da Habermas a Taylor, da Zizek a Badiou, da Cacciari a Tronti, la domanda sul ruolo della teologia nella società attuale sta monopolizzando l’attenzione. La religione contribuisce a generare o a moderare la violenza? È fattore di coesione sociale o di conflitto? La risposta è tutt’altro che scontata. Come risulta dalla Encyclopedia of Wars di Charles Phillips e Alan Axelrod, che prende in esame 1800 conflitti nella storia, meno del 10 per cento di essi è stato causato da motivi religiosi.
Se le Crociate, le guerre tra cattolici e protestanti, le prime conquiste islamiche e ovviamente le attuali stragi jihadiste attestano una palese implicazione della religione nella violenza, il numero di morti ascrivibile a conflitti di tipo laico, come le due guerre mondiali, resta di gran lunga superiore. Non si dimentichi che il primo genocidio moderno, quello degli armeni, è stato compiuto dai Giovani Turchi filo-occidentali e secolarizzati, mentre devoti musulmani cercavano di salvare i superstiti.
Una risposta di carattere dialettico a tale domanda è ora avanzata dallo psicologo sociale Ara Norenzayan in un saggio importante, intitolato Grandi Dei. Come la religione ha trasformato la nostra vita di gruppo , tradotto da Cortina, con un’introduzione di Telmo Pievani. La sua tesi è che inizialmente le grandi religioni abbiano favorito la socialità attraverso il timore suscitato dalla sorveglianza di un Grande Occhio divino sul comportamento degli uomini. Innestandosi su tendenze innate volte all’autoconservazione, le religioni inizialmente hanno giocato una funzione di aggregazione sociale.
Successivamente, però, esse si sono differenziate tra loro entrando in competizione. In questa lotta per la sopravvivenza, non dissimile da quella darwiniana tra le diverse specie, hanno finito per prevalere le religioni che facevano capo a divinità onnipotenti ed interventiste. Da qui un rovesciamento della originaria funzione socializzante in una tendenza conflittuale, attivata soprattutto dai monoteismi, oggettivamente concorrenti nella individuazione di un unico Dio esclusivo di ogni altro.
Da quel momento gli effetti storici delle religioni risultano diversi ed ambivalenti in base a fattori di carattere storico e contestuale sui quali non è possibile pronunciare valutazioni univoche. Dal seno della religione possono nascere il Dalai Lama e Osama Bin Laden. Certo le società moderne più avanzate, come quelle nordeuropee, sono capaci di creare meccanismi di cooperazione senza l’aiuto del Grande Occhio divino.
E dunque, problema risolto? Da quanto accade nel mondo si direbbe di no. Per quanto riguarda l’area islamica la ripresa delle tendenze più radicali è sotto gli occhi di tutti. Ma neanche nelle società occidentali tale distinzione, da tutti ammessa in linea di principio, sembra resistere ad una serie di dinamiche correlate. Da un lato la globalizzazione ha rotto i confini tra civiltà diverse, immettendo quantità crescenti di culture difficilmente integrabili all’interno dei Paesi occidentali.
Dall’altro il regime biopolitico in cui da tempo viviamo, in particolare con lo sviluppo delle biotecnologie, rompe le paratie tra pubblico e privato su questioni che riguardano non solo l’origine e la fine della vita, ma la salute, la sicurezza, l’ecologia - tutte contemporaneamente pubbliche e private, individuali e collettive. Da questo lato sembra profilarsi una nuova alleanza tra politica e teologia. Non tanto, perché nella crisi di legittimazione dell’autorità, il nucleo di senso custodito dalle religioni può svolgere una funzione di supplenza.
Ma perché in un mondo orientato sempre più a un dominio assoluto dell’economia, la teologia sembra rappresentare, per masse sempre più grandi di uomini, l’unica alternativa, l’unica potenza capace di resistere, alla logica anonima del mercato globale. Nel momento in cui si afferma una nuova forma di “teologia economica” del debito - si veda, a questo proposito, il recente volume collettaneo curato da Thomas Macho col titolo Bonds (Fink) - la filosofia contemporanea guarda ad un nuova forma, non più di teologia politica, ma di politica della teologia.
FORZA “Deus caritas est”?! Altro che la Chiesa di Maria... e Giuseppe!!!
Questa è la Chiesa ... del “latinorum”!!!
Caro BENEDETTO XVI ...
Corra, corra ai ripari (... invece di pensare alle scomuniche)! Faccia come insegna CONFUCIO: provveda a RETTIFICARE I NOMI. L’Eu-angélo dell’AMORE (“charitas”) è diventato il Van-gélo della preziosi-tà (“caritas”), e la Parola (“Logos”) è diventato il marchio capitalistico di una fabbrica (“Logo”) infernale ... di affari e di morte?! Ci illumini: un pò di CHIAREZZA!!! FRANCESCO e CHIARA di Assisi si sbagliavano?! Claritas e Charitas, Charitas e Claritas... o no?! *
Federico La Sala
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E ri-mediti sulla ’sollecitazione’ ( Un "Goj", Novelle per un anno) di Pirandello ... a Benedetto XV.
“DEUS CARITAS EST”: IL “LOGO” DEL GRANDE MERCANTE
di Federico La Sala (www.ildialogo.org/filosofia, Giovedì, 26 gennaio 2006)
In principio era il Logos, non il “Logo”!!! “Arbeit Macht Frei”: “il lavoro rende liberi”, così sul campo recintato degli esseri umani!!! “Deus caritas est”: Dio è amore, così sul campo recintato della Parola (del Verbo, del Logos)!!! “La prima enciclica di Ratzinger è a pagamento”(L’Unità, 26.01.2006 - cfr. www.ildialogo.org/filosofia)!!!
Il grande discendente dei mercanti del Tempio si sarà ripetuto in cor suo e riscritto davanti ai suoi occhi il vecchio slogan: con questo ‘logo’ vincerai! Ha preso ‘carta e penna’ e, sul campo recintato della Parola, ha cancellato la vecchia ‘dicitura’ e ri-scritto la ‘nuova’: “Deus caritas est” [Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006]!
Nell’anniversario del “Giorno della memoria”, il 27 gennaio, non poteva essere ‘lanciato’ nel ‘mondo’ un “Logo” ... più ‘bello’ e più ‘accattivante’, molto ‘ac-captivante’!!!
Il Faraone, travestito da Mosè, da Elia, e da Gesù, ha dato inizio alla ‘campagna’ del Terzo Millennio - avanti Cristo!!! (Federico La Sala, 26.01.2006).