La Terra non è infinita
di Leonard Boff *
L’espressione «sviluppo sostenibile», usata per la prima volta nel 1972 nel Rapporto Brundtland dell’Onu, è stata adottata da tutti gli organismi internazionali e dai governi di tutto il mondo. Tuttavia fin dall’inizio è stata oggetto di critiche per la contraddizione tra i due termini che la compongono. La categoria di «sviluppo» viene dall’economia reale - quella capitalista - l’economia basata sui mercati oggi su scala mondiale. La logica interna di questa economia è lo sfruttamento illimitato di tutte le risorse terrestri per raggiungere tre obiettivi fondamentali: aumentare la produzione, espandere il consumo e generare ricchezza.
Questa logica implica un lento ma progressivo esaurimento delle risorse naturali, la devastazione dell’ecosistema e una considerevole estinzione delle specie, nell’ordine di 3.000 l’anno, dieci volte di più rispetto al normale processo evolutivo. In termini sociali crea disuguaglianze crescenti poiché sostituisce la cooperazione e la solidarietà con una concorrenza feroce. Oltre la metà degli esseri umani vive in miseria. Questo modello presuppone la credenza in due infiniti. Il primo presume che la Terra possieda risorse illimitate; il secondo che la crescita economica possa essere infinita. I due infiniti sono illusori. La Terra non è infinita perché è un pianeta piccolo, con risorse limitate, molte delle quali non rinnovabili. Se volessimo universalizzare questo tipo di crescita, avremmo bisogno del triplo delle risorse che il nostro pianeta ci mette a disposizione. Oggi ci rendiamo conto che il pianeta Terra non sopporta più la voracità e la violenza di questo modo di produzione e di consumo. Nonostante le critiche, il concetto di "sviluppo sostenibile" può essere utile per definire un tipo di sviluppo in regioni limitate e in ecosistemi definiti. Postula la possibilità di preservare il capitale naturale, razionalizzare l’uso delle risorse e mantenere la capacità di rigenerazione di tutto il sistema. È possibile, per esempio, una utilizzazione delle ricchezze naturali della foresta amazzonica in modo che conservi la sua integrità e rimanga aperta alle esigenze delle generazioni presenti e future.
Tuttavia, in termini di strategie globali, che riguardano tutto il pianeta con i suoi ecosistemi, il paradigma utilitaristico, devastatore e consumista imperante produce un tasso di iniquità ecologica e sociale insopportabile per la Terra. La soluzione va trovata in un nuovo paradigma di convivenza tra natura, Terra e Umanità che garantisca centralità alla vita, mantenga la sua diversità naturale e culturale e garantisca il sostrato fisico, chimico ed ecologico per la perpetuazione e l’ulteriore evoluzione. È qui che si inserisce la questione dell’etica. Oggi, come mai prima nella storia del pensiero, la parola ethos nella sua accezione originale, ha acquisito attualità. Ethos in greco significa dimora umana, lo spazio di natura che riserviamo, organizziamo e curiamo per farne il nostro habitat. Però oggi ethos non è solamente la dimora che abitiamo, la città in cui viviamo o il paese al quale apparteniamo. Ethos è la Casa Comune, il pianeta Terra. Di conseguenza abbiamo bisogno di un ethos planetario.
Il fondamento di questa nuova etica è esposto in due documenti. Il primo - la Carta della Terra - è internazionale e venne assunto dall’Unesco nel 2000. Il secondo è stato approvato nel 2002 dai ministri dell’Ambiente latinoamericani e si intitola: "Manifesto per la Vita. Per un’Etica della Sostenibilità". Entrambi questi documenti hanno molto in comune con gli Obiettivi per lo Sviluppo del Millennio delle Nazioni Unite. Utilizzerò liberamente le proposizioni di questi testi in una elaborazione personale. Lo scenario di fondo è ben espresso nell’introduzione della Carta: «Le basi della sicurezza globale sono minacciate». Questa situazione ci obbliga a «vivere un sentimento di responsabilità universale, identificandoci con tutta la comunità degli esseri viventi terrestri come con le nostre comunità locali». La situazione è tanto urgente che obbliga «l’umanità a scegliere il suo futuro. L’opzione è formare un’alleanza globale per prendersi cura della Terra e gli uni degli altri, o altrimenti rischiare la nostra distruzione e la devastazione della diversità della vita». La nuova etica deve nascere da una nuova ottica, ossia: «L’umanità è parte di un vasto universo in evoluzione; la Terra, nostra dimora, è una comunità di vita unica; la Terra offre le condizioni essenziali per l’evoluzione della vita; ciascuno condivide la responsabilità per il presente e il futuro, per il benessere della famiglia umana e di tutto il mondo degli esseri viventi; lo spirito della solidarietà umana e di parentela con tutte le forme di vita si rafforza quando viviamo il mistero dell’esistenza con rispetto, il dono della vita con gratitudine e il posto che l’essere umano occupa nella natura con umiltà». La Terra, la vita e l’umanità sono espressioni dello stesso e immenso processo evolutivo iniziato tredicimila milioni di anni fa e formano un’unica realtà complessa e diversificata.
La Terra è Gaia, un superorganismo vivente. L’essere umano (la cui origine filologica viene da humus=terra fertile e buona) è la Terra stessa che sente, pensa, ama, si prende cura e venera. La missione dell’essere umano, come portatore di coscienza, intelligenza, volontà e amore, è prendersi cura della Terra, essere il giardiniere di questo splendido giardino dell’Eden. Questa missione deve essere oggi urgentemente risvegliata, perché la Terra, la vita e l’Umanità sono malate e minacciate nella loro integrità. In breve la Carta della Terra postula: «vivere un modo di vita sostenibile». Questo è il nuovo principio di civiltà, un sogno promesso per il futuro della vita. Più che parlare di "sviluppo sostenibile" occorre assicurare il sostentamento della Terra, della vita, della società, dell’Umanità. Dice bene il Manifesto per la vita: «L’etica della sostenibilità colloca la vita in cima agli interessi economico-politici o pratico-strumentali; l’etica della sostenibilità è un’etica del rinnovamento permanente della vita, da cui tutto nasce, cresce, si ammala, muore e rinasce». Il risultato di questa etica è ciò che più cerchiamo in questi tempi: la pace. Nella definizione che ne dà la Carta, la pace è «pienezza creata mediante relazioni corrette con se stessi, le altre persone, le altre culture, le altre forme di vita, la Terra e con il Tutto di cui siamo parte». L’umanità deve camminare verso questo nuovo tipo di futuro; la situazione attuale è di crisi ma non di tragedia e sicuramente, come altre volte, sarà in grado di incontrare le nuove condizioni per realizzare la vita e il suo destino.
Copyright Ips
Traduzione di Cristiana Paternò
Leonardo Boff, teologo, è scrittore e membro della Commissione Internazionale per la Carta della Terra
* www.unita.it, Pubblicato il: 16.09.06 Modificato il: 16.09.06 alle ore 9.41
Intervista a Leonardo Boff: “Il papa è figlio della teologia della liberazione”
di Angela Nocioni (Cronache del Garantista, 4 novembre 2014)
Leonardo Boff è un teologo, ex frate francescano, ed è considerato il massimo esponente della ”teologia della liberazione” e cioè di quella corrente di pensiero della Chiesa cattolica dell’America Latina che vede nella difesa dei poveri e nella lotta per la giustizia sociale il principale messaggio del Vangelo.
Boff oggi ha 75 anni, è figlio di una famiglia di immigrati italiani (veneti), ha studiato negli anni sessanta e settanta teologia e filosofia in Europa. Ha discusso la tesi di laurea con l’allora vescovo Jospeph Ratzinger. La ”teologia della liberazione” ha sempre rappresentato un pensiero poco gradito al Vaticano, e tuttavia tollerato da Paolo VI negli anni dopo Il Concilio. Quando però diventò papa Giovanni Paolo II le cose cambiarono. Iniziò una vera e propria guerra tra la teologia della liberazione e Roma, e Boff fu più volte censurato, a metà degli anni ottanta. Tanto che a un certo punto, per porre fine alla diatriba, rinunciò al suo mandato religioso e lasciò l’ordine dei Francescani.
Il Papa, durante un incontro con i rappresentanti di alcuni movimenti sociali, la settimana scorsa, ha pronunciato parole che sono state lette come un’esortazione agli esclusi perché lottino, come una chiamata al diritto alla ribellione di chi non ha terra, casa e lavoro perché se li procuri attraverso la lotta sociale. La ritiene una interpretazione corretta o una lettura superficiale?
È una lettura corretta. Le parole pronunciate dal Papa devono essere capite all’interno della traiettoria personale di Bergoglio. Una delle sue aperte polemiche con Cristina Kirchner, la presidente argentina, è stata proprio sul modo in cui si devono aiutare i poveri. Lui insisteva: non servono la filantropia e l’assistenzialismo di stato. Quello di cui c’è bisogno è giustizia sociale e redistribuzione del reddito. Realizzare la giustizia sociale implica riformare le strutture dello Stato e la mentalità dei cittadini contaminata dall’individualismo capitalista.
Un’altra affermazione costante del Papa: nessuna soluzione per i poveri sarà efficace se non includerà gli stessi poveri nella sua realizzazione. Questa idea spiega anche perché il Papa abbia chiamato a Roma i rappresentanti dei movimenti sociali, così che loro stessi dicessero quali sono le cause della loro povertà, così che loro stessi spiegassero in cosa non vengono rispettati i loro diritti. Generalmente si chiamano grandi nomi della sociologia o della politica a svolgere questo compito.
Il Papa ha imparato in America Latina che le vittime del sistema sanno dov’è il dolore e quali sono le ragioni della loro esclusioni. Hanno tra loro, tra l’altro, intellettuali organici, come Joao Pedro Stedile del Movmento dei Sem Terra in Brasile. La versione delle vittime del sistema è quella vera, perché nasce dalla sofferenza e dall’oppressione. Il Papà è stato innovatore, ha fatto un discorso chiaro: la posizione della Chiesa deve essere sempre dal lato delle vittime, dei poveri e degli oppressi, scelta che fu di Gesù e che il Papa ha assunto personalmente.
Il Papa ha detto: ”Oggi vediamo con tristezza ogni giorno più lontano dalla maggioranza delle persone il diritto alla terra, alla casa e al lavoro. Se parlo di questo ad alcuni risulta che il Papa sia comunista. Non si capisce che l’amore per i poveri è il centro del Vangelo. Terra, casa e lavoro sono diritti sacri e reclamarne il rispetto non è strano: è la dottrina sociale della Chiesa”. Cosa ne pensa?
E’ vero che è questa la dottrina sociale della Chiesa. Il Papa è andato oltre. Ha criticato la dottrina sociale della Chiesa, la considera astratta e non abbastanza chiara nella distinzione, che dev’essere nitida, tra chi sono gli oppressi e chi gli opressori. La posizione della Chiesa non può essere equidistante. Il suo posto è al fianco dei sofferenti, solo per loro il Vangelo è una buona novella, per tutti gli altri è l’esortazione a che cambino vita e si affianchino alle persone più pregiudicate nelle relazioni sociali: vale qui la famosa frase di Dom Helder Câmara: se distribuisco pane ai poveri dicono che sono un santo, se spiego perché i poveri non hanno il pane mi danno del comunista.
Papa Francesco sta aprendo la Chiesa alla teologia della liberazione?
Il Papa appartiene alla teologia della liberazione nella versione argentina. Lì esiste nelnelle forma della teologia del popolo e della cultura degli oppressi. Lì non si parla esplicitamente di lotta di classe, ma è evidente il conflitto tra i potenti che elaborano la cultura del dominio e il popolo che vive la cultura degli oppressi.
Il principale esponente di questa teologia è stato Juan Carlos Sacannone, professore di Bergoglio nel Seminario maggiore di San Miguel, quartiere di Buenos Aires. Lui ha pubblicamente ricordato come lo studente Bergoglio fosse entusiasta di questa teologia. Da lì viene il voto a vivere senza ricchezze e ad andare sempre tra i poveri nel lavoro pastorale, cosa che Bergoglio effettivamente ha sempre fatto.
Da cardinale non è andato a vivere nel palazzo, non usava la macchina ufficiale, viveva in un appartamento piccolo, si preparava i pasti da solo. Si muoveva in autobus e in metropolitana e andava da solo nelle villas miserias, le baraccopoli di Buenos Aires. Entrava nelle case e mangiava quello che la gente gli offrivaLe azioni e discorsi di questo papa vengono dal brodo della teologia della liberazione latino-americana.
In ciascun paese la teologia ha avuto un suo sviluppo: la teologia indigena nei paesi andini, in Brasile una teologia della liberazione contro l’offensiva dei militari e del grande capitale, la teologia della liberazione femmile, la teologia della liberazione dei neri, la teologia della liberazione degli omosessuali, delle lesbiche e di altri ancora.
Come teologi della liberazione noi ci sentiamo rappresentati nella figura, nel comportamento e nelle parole del Papa. Non è per caso che il Papa ha voluto vedere il principale rappresentante della teologia della liberazione, il peruviano Gustavo Gutierrez e che ha voluto incontrare Arturo Paoli, il rappresentante più conosciuto della teologia della liberazione. Il Papa l’ha mandato a prendere in auto nel posto dove si trovava, negli Appennini, per poter passare un pomeriggio intero con lui a parlare dei cammini della Chiesa nel mondo nella linea della liberazione dei diritti umani e della critica al sistema perverso e senza pietà del capitalismo speculativo. Così lo definisce il Papa: perverso e senza pietà.
A parte la sfida ai privilegi della parte più conservatrice della Curia, cosa è davvero cambiato, concretamente, nell’impegno della Chiesa verso i poveri, con il papato di Francesco rispetto ai due precedenti?
Il Papa ha scandalizzato i cristiani della vecchia cristianità europea che volevano un papa un po’ faraone e un po’ imperatore romano, con tutti i titoli e le abitudini pagane. Il Papa non ha più voluto usare la mozzetta, la piccola sciarpa sulle spalle coperta di broccati, simbolo del potere assoluto dell’imperatore. Ha abbandonato il palazzo pontificio, è andato a vivere in una pensione, mangia quello che mangiano gli altri e dorme in una semplice stanza d’albergo. La croce che indossa è di metallo e le scarpe sono quelle che usa il popolo, non quelle fatte da Prada. Il papà ha riscattato la tradizione del Gesù storico che viveva povero e in mezzo al popolo.
La chiesa dopo Costantino era più vicina al palazzo di Erode che alla grotta di Betlemme. Papa Francesco ha preso come esempio San Francesco d’Assisi, il frate poverello che viveva secondo il Vangelo nel messaggio liberatore del Nazareno. Questo papa rappresenta bene lo stile di molti vescovi, cardinali e sacerdoti che vivono vicini al popolo, non al di sopra del popolo , ma come dei pastori, in mezzo del popolo. Per questo ha detto che il vero sacerdote, vescovo o prete che sia, deve ”avere l’odore di gregge” .
E’ una chiamata e un’esortazione a tutti i potenti nella Chiesa, ma anche a tutti i cristiani. Ha chiesto di compiere ”la rivoluzione della tenerezza” in relazione al popolo. Questo papa inaugurerà una nuova dinastia di pontefici in arrivo dal sud del mondo, dove vive la maggior parte dei cattolici. In Europa sono solo il 24%. È ora che la Chiesa capisca che la Chiesa di oggi è una Chiesa del Terzo mondo, del Terzo mondo dove nacque.
Il Papa è un rivoluzionario o un populista?
Sta facendo una vera rivoluzione nelle abitudini e nei comportamenti della Chiesa. Populista è il discorso dei conservatori e dei difensori dei privilegi indecenti che cardinali, vescovi e Curia hanno accumulato durante tutta la storia. I comportamenti da pagani, antichi e moderni, non hanno niente a che vedere con la pratica di Gesù.Gesù era povero. Gesù non è morto vecchio, né per una disgrazia. E’ morto a causa delle sue azioni in favore degli ultimi di questo mondo, è morto per le sue prediche di liberazione, perché annunciava il regno di Dio che esiste laddove esistono l’amore, la compassione e la solidarietà per le persone sofferenti.
Cosa risponderebbe lei a un pessimista che le domandasse se, per caso, questo Francesco abbia molto poco a che vedere con Francesco d’Assisi? Sarà che il gran talento di questo papa così simpatico, sia semplicemente saper suscitare interesse con iniziative e parole di grande impatto mediatico?
Quello che ammiriamo nel Papa è la sua spontaneità e la sua capacità di inventarsi gesti di umanità, il suo coraggio di criticare il sistema capitalista speculativo che ha molto semplicemente definito ”perverso”. Abbraccia con affetto i più penalizzati, non discrimina nessuno, né musulmani né atei. Ha aperto un dialogo franco e sincero con l’ex direttore di Repubblica, Eugenio Scalfari, che si definisce ateo, con grande senso etico e preoccupato per il destino umano. Il Papa non sfugge alle questioni, dice chiaramente: non sappiamo dove andiamo, non lo so io e non lo sa il Dalai Lama, dobbiamo iniziare a costruire un cammino per salvare la vita e la nostra civiltà, che sono minacciate.
Da San Francesco d’Assisi ha imparato la scelta di schierarsi con i poveri, la semplicità, la volontà di spogliarsi di tutti i titoli e delle forme di potere e anche la apertura al dialogo con chiunque. Come fece San Francesco che fu a dialogare con il Sultano durante la crociata, dopo tornò dal Papa e disse che i cristiani non avrebbero dovuto fare una crociata perché si trattava di un popolo profondamente religioso. Francesco si interessò alla teologia musulmana, cominciò a chiamare Dio nelle preghiere ”Altissimo”, secondo il linguaggio della teologia dell’Islam.
Ho scritto un libro uscito per la EMI ”Francesco di Assisi e Francisco di Roma” tentando di tracciare i profili di entrambi. Scegliere di chiamarsi Francesco è più che scegliere un nome, è un nuovo progetto di Chiesa e di umanità nella linea di radicale fraternità universale, di apertura a tutti, di Chiesa con le porte sempre aperte che accoglie chiunque, protegge la natura e la Madre Terra.
Ambiente
Fame: il cibo come «affare»
di Leonardo Boff *
28.04.08 - BRASIL
da Adital -
Il mondo é in allarme per l’esplosione dei prezzi dei generi alimentari e la previsione dell’aumento della fame nel mondo. La fame rappresenta un problema etico, che Ghandi denuncia così: "la fame é un insulto, che avvilisce, disumanizza e distrugge il corpo e lo spirito; é la forma piú assassina che esiste." Ma essa é anche il risultato di una politica economica.
Il cibo si é trasformato in occasione di lucro ed il processo agro-alimentare in un affare di grande guadagno. É cambiata la visione fondamentale che predominava fino all’industrializzazione moderna, quando la Terra era vista come la Grande Madre. Tra la Terra e l’Essere Umano vigevano relazioni di rispetto e di mutua collaborazione. Il processo di produzione industriale, invece, considera la Terra solo come un baule di risorse che devono essere sfruttate fino al loro esaurimento. L’agricultura piú che un’arte e una tecnica di produzione di mezzi di sussistenza si è trasformata in una impresa per produrre lucro. Mediante la meccanizzazione e la tecnologia sofisticata si puó produrre molto di più con meno terra. La rivoluzione verde, introdotta a partire dagli anni ’70 del XX secolo e diffusa in tutto il mondo, ha condizionato quasi tutta la produzione all’intervento della chimica. Gli effetti, oggi, sono percepibili: impoverimento del suolo, erosione devastatrice, distruzione della foresta e perdita di migliaia di varietá naturali di semi che sono una riserva per le crisi future.
L’allevamento degli animali é cambiato profondamente dovuto agli stimolanti per la crescita, pratiche intensive, vaccini, antibiotici, inseminazione artificiale e clonazione.
Gli agricoltori secondo il metodo classico, sono stati sostituiti dagli impreditori del campo. Tutto questo quadro è stato aggravato dalla troppo rapida urbanizzazione e la consequente fuga dai campi. La cittá é fonte di richiesta di cibo, che essa non produce ma che dipende dalla campagna.
Esiste una vera guerra commerciale per il cibo. I paesi ricchi offrono sussidi per certi raccolti o finanziano la produzione di carne per metterla sul mercato mondiale ad un prezzo migliore, danneggiando i paesi poveri, la cui principale ricchezza è la produzione ed esportazione di prodotti agricoli e carni. Spesso sono obbligati a esportare granaglie e cereali che vanno ad alimentare i bovini dei paesi industrializzati quando potrebbero servire come cibo per le loro popolazioni, se rimanessero nel mercato interno.
Nell’affanno di assicurare il guadagno, c’è la tendenza mondiale, nel metodo produttivo capitalista, di privatizzare tutto specialmente le sementi. Meno di una decina di trans-nazionali controlla il mercato delle sementi nel mondo intero. Hanno introdotto le sementi transgeniche che non si riproducono con il raccolto normale, ma devono essere comprate ogni anno, offrendo lucri favolosi alle ditte produttrici. L’acquisto delle sementi fa parte di un insieme di cose necessarie, che include tecnologia, pesticidi, macchinari e finanziamenti bancari, rimorchiando i produttori agli interessi agro-alimentari delle ditte trans-nazionali.
Infine, quello che più interessa, é garantire guadagni alle imprese e meno nutrire le persone. Se non ci sará una inversione di marcia, cioé una economia soggetta ad una politica orientata dall’etica ed una etica ispirata da una sensibilitá umanitaria, non ci sará soluzione per la fame e per la denutrizione mondiale. Continueremo nella barbarie che stigmatizza l’attuale processo di globalizzazione. I latrati di milioni di affamati salgono continuamente al cielo, senza che vengano loro date risposte efficaci da qualche parte e facciano cessare il clamore. É l’ora della compassione umanitaria tradotta in politica globale di lotta sistematica alla fame.
* Teólogo e professore emérito di ética della Università Evangelica di Rio de Janeiro
* Il Dialogo, Domenica, 04 maggio 2008
Le quattro ecologie
di Leonardo Boff *
Ecologia ambientale
Questo primo versante si preoccupa dell’ambiente naturale, affinché non sia eccessivamente sfigurato, della qualità della vita e della preservazione delle specie in via di estinzione. Pone la natura fuori dall’essere umano e dalla società. Cerca nuove tecnologie meno contaminanti, privilegiando soluzioni tecniche. Questo atteggiamento è importante perché cerca di correggere gli eccessi causati dalla voracità del progetto industriale mondiale, che implica sempre alti costi ecologici. Se non ci prendiamo cura del pianeta come un tutt’uno possiamo sottoporre a grave rischio di distruzione parti della biosfera e, al limite, rendere invivibile la nostra vita sul pianeta.
Ecologia sociale
Il secondo - ecologia sociale - non si cura solo della natura ma si occupa della totalità dell’ambiente. Inserisce gli esseri umani e la società all’interno della natura. Non si preoccupa unicamente di rendere più belle le città con strade migliori, piazze o spiagge più attraenti, ma rende prioritario un risanamento dei servizi di base come una buona rete di scuole e un servizio sanitario decente. L’ingiustizia sociale significa violenza contro l’essere più complesso e singolare della creazione, quello umano, uomini e donne. Egli è parte della natura.
L’ecologia sociale promuove uno sviluppo sostenibile che presti attenzione alle carenze degli esseri umani odierni senza sacrificare il capitale naturale della Terra, prendendo anche in considerazione le necessità delle generazioni future che hanno il diritto di essere appagati ed ereditare una Terra abitabile, con relazioni umane minimamente giuste. Però il tipo di società costruita negli ultimi quattrocento anni impedisce di realizzare uno sviluppo sostenibile. Divora energia e ha costruito un modello di sviluppo che saccheggia sistematicamente tutte le risorse del pianeta e sfrutta la forza lavoro.
Nell’immaginario dei fondatori della società moderna lo sviluppo si muoveva tra due infiniti: l’infinito delle risorse naturali e l’infinito dello sviluppo verso il futuro. Ma questi presupposti si sono rivelati essere una illusione. Le risorse non sono infinite, anzi la maggioranza di queste si sta esaurendo, principalmente l’acqua potabile e i combustibili fossili. Il tipo di sviluppo lineare e in crescita verso il futuro non è universalizzabile. Pertanto non è infinito. Se le famiglie cinesi desidereranno avere le automobili delle famiglie americane la Cina si trasformerà in un immenso parcheggio. Non ci sarà combustibile sufficiente e nessuno potrà muoversi.
Siamo mancanti di una società sostenibile che trovi per se stessa uno sviluppo attuabile che soddisfi le necessità di tutti. Il benessere non potrà essere solamente sociale ma tenderà ad essere sociocosmico. Dovrà occuparsi degli altri esseri della natura, come le acque, le piante, gli animali, i microrganismi, poiché tutti uniti costituiscono la comunità planetaria nella quale siamo inclusi e senza di essi noi non possiamo vivere.
Ecologia mentale
Il terzo aspetto - ecologia mentale - chiamato anche ecologia profonda, sostiene che le cause del deficit della Terra si devono al tipo di società che attualmente abbiamo e al tipo di mentalità predominante, le cui radici risalgono ad epoche anteriori alla nostra storia moderna, includendo la profondità della vita psichica umana cosciente e incosciente, personale e archetipica. Esistono in noi istinti di violenza, volontà di dominio, archetipi ombrosi che ci allontanano dalla benevolenza in relazione alla vita e alla natura. Dentro la mente umana hanno origine i meccanismi che ci conducono alla guerra contro la Terra e si esprimono attraverso una categoria: l’antropocentrismo. L’antropocentrismo considera l’essere umano come re dell’universo e gli altri esseri hanno senso solo in sua funzione; stanno lì per il suo godimento. Questa interpretazione rompe con la legge più universale: la solidarietà cosmica dove tutti gli esseri sono interdipendenti e vivono dentro una intricatissima rete di relazioni in cui tutti sono importanti.
Non è possibile che qualcuno sia re o regina e si consideri indipendente, senza bisogno degli altri. La moderna cosmologia ci insegna che tutto ha a che fare con tutto, in tutti i momenti e in tutte le circostanze. L’essere umano dimentica questa intricata legge di relazioni, si aliena da essa e si situa sopra le cose, invece che sentirsene accanto in una immensa comunità planetaria e cosmica.
E’ necessario recuperare le attitudini di venerazione e rispetto per la Terra. Questo accadrà solamente se prima riscatteremo la dimensione femminile nell’uomo e nella donna che rende disponibili alla cura, sensibili verso l’aspetto più profondo e misterioso della vita, recuperando la capacità di meravigliarsi. Il femminile aiuta a riscattare la dimensione della sacralità.
La sacralità impone sempre dei limiti alla manipolazione del mondo, quindi dà origine alla venerazione e al rispetto, sentimenti fondamentali per la salvaguardia della Terra. Crea la capacità di ri-legare tutte le cose alla loro origine creatrice, il Creatore e Ordinatore dell’universo. Da questa capacità rilegatrice nascono tutte le religioni e oggi abbiamo bisogno di rivitalizzare le religioni affinché compiano la loro funzione rilegatrice.
Ecologia integrale
Finalmente il quarto - ecologia integrale - che parte da una nuova visione della Terra, inaugurata dagli astronauti a partire dagli anni ’60, quando vennero lanciate le prime navicelle equipaggiate. Essi videro la Terra da fuori. Dalla navicella spaziale o dalla Luna, la Terra - secondo la testimonianza di alcuni di loro - appare come un risplendente pianeta azzurro e bianco che sta nella palma della mano e può nascondersi dietro il dito pollice. Da questa prospettiva, Terra ed esseri umani si mostrano come una stessa entità. L’essere umano è la propria Terra che sente, pensa, ama, piange e venera.
La Terra sorge come il terzo pianeta di un sole, uno dei centomila milioni di soli della nostra galassia che è, a sua volta, una entro centomila milioni di altre dell’universo, universo che probabilmente è uno tra altri paralleli e differenti dal nostro. E noi, esseri umani, ci siamo evoluti fino al punto di poter stare qui a parlare di tutto questo, sentendoci legati a tutte queste realtà. Tutto procedette con una precisione tale da permettere la nostra esistenza qui adesso. Se non fosse così non staremo qui.
I cosmologi, grazie all’astrofisica, alla fisica quantica, alla nuova biologia, in una parola alle scienze della Terra, ci mostrano che tutto l’universo si trova in cosmogenesi. E’ come dire che sta ancora costituendosi e nascendo, formando un sistema aperto, capace di sempre nuove acquisizioni ed espressioni. Pertanto niente è finito e nessuno ha terminato di nascere. Per questo dobbiamo avere pazienza con il processo globale, gli uni con gli altri e con noi stessi, inoltre noi umani siamo anche in un processo di antropogenesi, di formazione e di nascita.
Nella cosmogenesi e nell’antropogenesi ci furono tre aspetti emergenti:
1- La complessità/differenziazione
2- L’auto-organizzazione/coscienza
3- La rilegazione/relazione di tutto con tutto.
A partire dal suo primo istante, dopo il big-bang il processo di evoluzione è andato creando esseri ogni volta più differenti e complessi. Quanto più sono complessi tanto più si auto-organizzano, mostrando maggiore interiorità e livelli più alti di coscienza, fino ad arrivare alla coscienza riflessa nell’essere umano. L’universo dunque, come un tutto, possiede profondità spirituali. Per poter dimorare nell’essere umano lo spirito stava prima nell’universo e ora emerge in noi come coscienza riflessa. Quanto più complesso e cosciente tanto più si relaziona e ri-lega con tutte le cose facendo in modo che l’universo sia realmente uni-verso, una totalità organica, dinamica, diversa, tesa e armonica, un cosmo non un caos.
Le quattro interazioni esistenti, la gravitazionale, l’elettromagnetica, la nucleare forte e la nucleare debole, costituiscono i principi che reggono l’universo e tutti gli esseri, compresi gli umani. La galassia più distante si trova sottomessa all’azione di queste quattro energie primordiali allo stesso modo della formica che cammina sul mio tavolo e i neuroni del cervello con cui faccio queste riflessioni. Tutto si mantiene rilegato in un equilibrio dinamico, aperto, passando attraverso il caos che è sempre generativo e quindi propizio per un nuovo equilibrio più alto e complesso, sfociando in un ordine ricco di nuove potenzialità. da Silvia Papi,
* www.lifegate.it - "La Stella del Mattino" ( n.1/2005)
Nairobi, si è aperto il vertice sul clima Danni incalcolabili se non si tagliano le emissioni del 50% entro il 2050
NAIROBI. Si è aperta oggi a Nairobi la dodicesima Conferenza mondiale sui cambiamenti climatici. Nonostante ancora si sia lontani dalla piena applicazione del protocollo con cui a Kyoto nel 1992 si tentò di bloccare l’effetto-serra, i delegati riuniti in Kenya sotto l’egida delle Nazioni Unite sono chiamati ad avviare già una riflessione su cosa accadrà dopo il 2012, quanto scadrà il trattato. Per undici giorni, fino all’11 novembre, seimila delegati esamineranno le più recenti scoperte scientifiche e si confronteranno sulle possibili nuove strategie da adottare per ridurre le emissioni di inquinanti nell’atmosfera. Non solo. Cercheranno anche di suggerire a paesi in rapida industrializzazione, quali Cina e India, come ridurre al minimo l’impatto ambientale del loro sviluppo.
«Il cambiamento climatico si sta rapidamente manifestando come una delle più gravi minacce che l’umanità abbia mai dovuto affrontare», ha dichiarato il vicepresidente del Kenya, Moody Awori, nell’aprire la conferenza. «Abbiamo una grande compito da affrontare», ha aggiunto Awori, particolarmente preoccupato degli effetti dell’aumento delle temperature nei paesi dell’Africa Sub-sahariana. Le economie di questi paesi «sono le più colpite», ha sottolineato, «oltre il 70 per cento della nostra popolazione vive in aree rurali».
* La Stampa, 06/11/2006
Livi Bacci: «È l’Africa la vera emergenza»
di Umberto De Giovannangeli*
Il grido d’allarme della Fao analizzato da Massimo Livi Bacci, ordinario di Demografia all’Università di Firenze, già presidente dell’International Union for Scientific Study of Population, oggi senatore dell’Ulivo. «L’emergenza delle emergenze - avverte Livi Bacci - si chiama Africa, il continente dove tutti gli indicatori sociali indicano il disastro».
Professor Livi Bacci, qual è il tratto di fondo del grido d’allarme lanciato dalla Fao nel suo rapporto annuale sullo stato dell’insicurezza alimentare?
«Ritengo che questo disastro vada circoscritto soprattutto all’Africa subsahariana: tre quarti dei denutriti si trovano lì. Quello che non trovi in Asia e in America Latina lo trovi tutto in Africa subsahariana, laddove l’ancora velocissima crescita demografica ha una sua parte».
Quali sono le ragioni strutturali del fallimento denunciato dalla Fao?
«Per quanto riguarda l’Africa, questo si inserisce in un problema molto più grande che riguarda tutte le dimensioni dello sviluppo. e di converso tutte le dimensioni della povertà. Anche per altri indicatori l’Africa subsahariana sta andando molto piano, ammesso che si muova. Se noi guardiamo all’andamento della mortalità infantile, all’andamento della natalità, a quello della speranza di vita, alla diffusione dell’aids, a tutte le dimensioni di carattere sociale, troviamo che l’arretramento dell’Africa è abissale. La sottoalimentazione, come la malnutrizione fanno parte integrante di questo quadro di ritardo che non ha una dimensione sola ma ne ha tantissime. In Africa poi sono ancora più aggravati i problemi di disuguaglianza nella distribuzione delle risorse, disuguaglianze dei redditi, disuguaglianze economiche ancora più che in altri continenti. Questo contribuisce a far crescere la proporzione di quelli che sono esclusi.Uno dei problemi non è tanto che non cresca adeguatamente la produzione di risorse ma la loro inefficiente o addirittura iniqua distribuzione. Questi sono i fatti fondamentali».
Al di là dell’aspetto valoriale, che chiama in causa principi come quello della solidarietà, perchè l’Occidente dovrebbe guardare con preoccupazione all’allarme lanciato dalla Fao?
«Noi non possiamo da un lato sostenere e trarre vantaggio dai processi di globalizzazione, e dall’altro, non avere le più grandi preoccupazioni per quelle parti del mondo dove lo sviluppo è assente. Credo che questa sia una contraddizione teorica: se i processi di mondializzazione dell’economia e della finanza hanno dei lati positivi, ebbene, dobbiamo farci carico per quanto sia possibile e preoccuparci di quelle parti del mondo dove i processi di sviluppo restano fortemente indietro. Non ci si può beare solo del lato positivo. Se fossimo ancora a compartimenti stagni, potremmo dirci beh, insomma, quello è un altro mondo, non mi interesso di Marte e neanche dell’Africa...., però i compartimenti stagni non esistono più, i popoli girano, le merci girano, così come le informazioni e le idee, e quindi dobbiamo allarmarci di fronte al gap sempre più crescenti tra chi ha e chi non ha...».
Dall’Occidente all’Italia. Quale misura potrebbe segnalare in concreto l’assunzione di responsabilità?
«Un indicatore macro è l’impegno nella cooperazione allo sviluppo che è anche l’indicatore più facile a migliorare se ci sono risorse. Io dò più soldi e quindi in qualche modo posso indirettamente contribuire allo sviluppo. Questo è un aspetto nel quale tutto il mondo occidentale è in grave ritardo. Pensiamo inoltre alle politiche agricole; politiche che ancora proteggono fortemente l’agricoltura europea, come quelle di Usa e Giappone, implicano indirettamente un freno allo sviluppo dei redditi agricoli degli altri Paesi. Una assunzione di responsabilità potrebbe essere quella di partecipare attivamente al graduale e veloce smantellamento di queste situazioni di favore dell’Occidente».
* www.unita.it, Pubblicato il: 31.10.06 Modificato il: 31.10.06 alle ore 8.44
RAPPORTO CHOC SUL CLIMA, E’ UNA MINACCIA ALL’ECONOMIA MONDIALE *
LONDRA - I cambiamenti del clima, con l’innalzamento generalizzato delle temperature medie, non sono solo una minaccia all’ambiente, ma rappresentano anche un pericolo gravissimo per l’economia mondiale: lo afferma un autorevole rapporto curato dall’economista britannico Nicholas Stern, ex dirigente della Banca Mondiale, che per lo scenario peggiore prevede un calo del 20% del prodotto economico mondiale a causa dei mutamenti climatici. Un costo calcolato attorno ai 5,5 trilioni di euro, se non si affronterà il problema in maniera risolutiva entro i prossimi dieci anni.
Il rapporto, che verrà presentato domani, viene anticipato oggi dal domenicale The Observer. Per la prima volta, un’analisi del ’global warming’ analizza le conseguenze economiche dei cambiamenti: questo potrebbe influenzare più di ogni considerazione ambientale le risposte di governi e industrie, in particolare negli Usa - il paese che inquina di più al mondo -, dove l’amministrazione ha sempre respinto l’opinione prevalente tra gli scienziati sui cambiamenti climatici. Stern ha studiato quali potrebbero essere le conseguenze dei cambiamenti climatici sul pil mondiale da qui al 2100, concludendo che nella migliore delle ipotesi, l’1% del prodotto economico mondiale andrà in spese volte a sanare le conseguenze dei cambiamenti climatici.
Lo studio - 700 pagine - è stato commissionato dal governo britannico nel 2005, e lo stesso esecutivo di Londra ritiene che le conclusioni preoccupanti della ricerca rendano possibile far accettare all’opinione pubblica una serie di tasse ’ecologiche’, dagli aumenti delle accise sulla benzina, a tasse su chi viaggia in aereo, già individuate dal ministro dell’Ambiente David Milliband. Ma quello dell’aggravio fiscale per i contribuenti britannici sembra ben poca cosa, a fronte di 200 milioni di possibili profughi, la maggiore migrazione della storia moderna, causa distruzione di intere zone da parte di siccità e alluvioni. Stern avverte che un nuovo trattato che seguirà Kyoto dev’essere varato entro il prossimo anno, e non entro il 2010/11 come previsto, se si vogliono tagliare drasticamente le emissioni dannose.
Lo studio spiega che l’Europa dovrà estendere il sistema detto ’cap and trade’, nel quale le emissioni di anidride carbonica vengono fissate a un certo tetto massimo: se un’azienda vuole inquinare di più deve comprare questo diritto da industrie meno inquinanti, che non raggiungono il tetto. Cosi, si auspica, le aziende accelereranno la ricerca di sistemi di produzione meno inquinanti. Al tempo stesso, ai governi viene chiesto di raddoppiare gli investimenti nella ricerca di fonti energetiche pulite.
E non servono - avverte Stern - misure unilaterali, ma serve un sforzo mondiale: se la Gran Bretagna chiudesse tutte le sue centrali elettriche domani, ad esempio, la riduzione di emissioni dannose verrebbe vanificata entro soli 13 mesi dalla crescita inquinante della Cina, che insieme all’India rappresenta la sfida decisiva per la riduzione delle emissioni nel futuro immediato. Le anticipazioni del rapporto Stern coincidono con l’allarme lanciato da un altro studio sul clima, ’Up in Smoke 2’, fatto da un gruppo di Ong britanniche - Oxfam, la New Economics Foundation e il Working Group on Climate Change and Development, che raccoglie organizzazioni umanitarie ed ecologiste - per il quale gli aiuti economici all’Africa vengono vanificati proprio dall’aggravarsi delle conseguenze dell’effetto serra. L’aumento delle temperature medie - 3,5 gradi negli ultimi 20 anni in alcune zone - rende le zone aride sempre più aride e quelle umide sempre più umide. Risultato: nella sola Africa sub-sahariana, 25 milioni di persone hanno sofferto la fame lo scorso anno.
* http://www.ansa.it/opencms/export/main/visualizza_fdg.html_2022313990.html
Wwf: «Nel 2050 servirà un altro pianeta»
Allarme lanciato dal Living Planet Report, il debito ecologico è preoccupante
(La Stampa, 24/10/2006)
ROMA. «Un pianeta non basta, tanto che nel 2050 ce ne vorranno ’duè se continua l’attuale ritmo di consumo di acqua, suolo fertile, risorse forestali, specie animali tra cui le risorse ittiche. Gli ecosistemi naturali si stanno degradando ad un ritmo impressionate, senza precedenti nella storia della specie umana». È quanto riporta con grande chiarezza il Living Planet Report 2006 (Pdf), l’ultimo rapporto del Wwf, giunto alla sua sesta edizione, lanciato oggi al livello mondiale proprio da uno dei paesi a più rapido sviluppo, la Cina.
Il Living Planet Report conferma anche una continua perdita di biodiversità, così come analizzato nelle precedenti edizioni. I grafici degli andamenti delle popolazioni delle specie viventi dimostrano globalmente una pericolosa discesa: il rapporto dimostra che in 33 anni (dal 1970 al 2003) le popolazioni di vertebrati hanno subito un ’tracollò di almeno 1/3 e nello stesso tempo l’Impronta Ecologica dell’uomo - ovvero, quanto ’pesà la domanda di risorse naturali da parte delle attività umane - è aumentata ad un punto tale che la Terra non è più capace di rigenerare ciò che viene consumato.
Siamo in un debito ecologico estremamente preoccupante, considerato che i calcoli dell’impronta ecologica sono per difetto. Consumiamo le risorse più velocemente di quanto la Terra sia capace di rigenerarle e di quanto la Terra sia capace di «metabolizzare» i nostri scarti - ha dichiarato Gianfranco Bologna, direttore scientifico del WWF Italia - E questo porta a conseguenze estreme ed anche molto imprevedibili. È tempo di assumere scelte radicali per quanto riguarda il mutamento dei nostri modelli di produzione e consumo.
Il primo indicatore, l’Indice del Pianeta Vivente si basa sui trend di oltre 3.600 distinte popolazioni di 1300 specie di vertebrati in tutto il mondo. In tutto sono stati analizzate 695 specie terrestri, 344 di acqua dolce e 274 specie marine. Negli oltre trent’anni presi in considerazione le specie terrestri si sono ridotte del 31%, quelle di acqua dolce del 28% e quelle marine del 27%.
Il secondo indice, l’Impronta Ecologica, misura la domanda in termini di consumo di risorse naturali da parte dell’umanità. Il ’pesò dell’ impatto-umano sulla Terra è più che triplicato nel periodo tra il 1961 e il 2003. Questo rapporto mostra che la nostra impronta ha già superato nel 2003 del 25% la capacità bioproduttiva dei sistemi naturali da noi utilizzati per il nostro sostentamento. Nel rapporto precedente (quello pubblicato nel 2004 e basato sui dati del 2001) era del 21%. In particolare, l’Impronta relativa alla CO2, derivante dall’uso di combustibili fossili, è stata quella con il maggiore ritmo di crescita dell’intera Impronta globale: il nostro ’contributò di CO2 in atmosfera è cresciuto di nove volte dal 1961 al 2003.
L’Italia ha un’impronta ecologica (sui dati 2003) di 4,2 ettari globali pro capite con una biocapacità di 1 ettaro globale pro capite, dimostrando quindi un deficit ecologico di 3.1 ettaro globale pro capite. Nella classifica mondiale è al 29 posto, ma in coda rispetto al resto dei paesi europei. Paesi con oltre un milione di abitanti con l’Impronta ecologica più ’vasta ’ calcolata su un ettaro globale a persona, sono gli Emirati Arabi, gli Stati Uniti, la Finlandia, il Canada, il Kuwait, l’Australia, l’Estonia, la Svezia, la nuova Zelanda e la Norvegia. La Cina si pone a metà nella classifica mondiale, al 69mo posto, ma la sua crescita economica ed il rapido sviluppo economico che la caratterizza giocheranno un ruolo chiave nell’uso sostenibile delle risorse del pianeta nel futuro.
“E noi, di chi siamo mani?”
di Mario Mariotti (www.ildialogo.org/editoriali, 18.09.2006)
17 settembre 2006
Abbiamo sotto agli occhi:
l’efficacia delle religioni in rapporto alla pace (il Dio cristiano, Allah e Iavé, in Medio Oriente, rischiano l’esaurimento nervoso per depressione, viste le opere dei loro rispettivi “fedeli").
l’evidenza che Nostro Signore é stato assassinato dalla religione, dai custodi della Legge, dai sacerdoti che, sempre in buona fede, svolgono il pio esercizio di “iene della Verità”.
l’evidenza che questo assassinio di Nostro Signore indica nella religione il principale ostacolo, il più maligno, nemico dell’Incarnazione, che, a sua volta, é sostanziata da una laicità fraterna, razionale e solidale.
l’evidenza che il Vangelo indica la casta sacerdotale come il soggetto più refrattario ad accogliere la Parola (fra i ricchi ce n’é uno: Zaccheo, che si converte, e restituisce il quadruplo di quanto ha rapinato; qualche scriba o fariseo che cambi atteggiamento in rapporto al Signore io devo, ancora trovarlo.)
quale sia l’efficacia delle religioni in rapporto alla Giustizia, alla Libertà, all’Eguaglianza ed alla Fraternità, (il nostro mondo diviso in modo che il 20% della popolazione divora l’80% delle ricchezze del pianeta, mentre la sterminata moltitudine dei poveri deve stare attenta che i fedeli-credenti del Nord non le .freghino anche le briciole).
l’evidenza che una pace che non fosse accompagnata dalla Giustizia sarebbe una pace blasfema (anche senza guerre la rapina dello “scambio ineguale” e l’usura del debito estero dei Paesi poveri provocano la morte di un enorme numero di piccini nella grande favela del Sud).
l’evidenza che non é stato Dio a fare l’uomo a sua immagine, ma l’uomo stesso a fare Dio a propria, immagine, e questo per. poterlo usare a proprio vantaggio e a danno di altri uomini. ’. .
l’evidenza che la religione é una, espressione di cripto-egoismo, usata per distinguersi dagli altri e per non condividere con loro i doni del Padre comune (per contrastare l’incarnazione dell’Amore nella realtà concreta di queste nostro terribile mondo, saturo di sofferenza generata dall’ingiustizia e dall’alienazione religiosa).
l’evidenza che Gesù é un laico, che non ha portato un nuova religione, ma un modo di giudicare, di scegliere, di con tutti gli altri viventi; che é venuto per liberarci dalla religione, dalla mediazione sacerdotale, e per farci capire la nostra collocazione strutturale di mani dell’amore di Dio per noi.
l’evidenza, infine, che senza cultura del necessario e condivisione con amore non avremo la giustizia, la quale, a sua volta, é la Madre della Pace.
Nonostante tutto questo:
continuiamo a dare credito alle religioni, a seguire le guide religiose.
continuiamo a chiedere la pace prima della giustizia, e questo perché siamo allergici alla condivisione.
insistiamo a chiedere agli altri quello che rifiutiamo di praticare noi stessi.
insistiamo a voler conciliare la fede in Dio con la pratica del Beati i ricchi, di fatto o di desiderio.
persistiamo a trovare fisiologica e positiva la trinità maligna della ricchezza, del potere e della religione.
persistiamo nell’accostamento assurdo del Dio dell’Antico Testamento quello che manda l’Angelo sterminatore a controllare che gli agnelli siano stati sgozzati e che i piccoli primogeniti degli Egizi crepino, col Dio di Gesù, Padre buono, non onnipotente perché aspetta il nostro “si” per operare nel mondo, portatore di un amore incondizionato per tutti, anche se, come il figliuol prodigo, egoisti e viziati. ’
Quando arriverà il momento in cui capiremo che Dio é Spirito, che noi siamo corpo, che la Vita é Spirito e corpo, e che noi dobbiamo dare corpo allo Spirito, in modo che prenda vita e operatività l’Amore incarnato, e venga portata a compimento la trasformazione di questo nostro mondo in Regno?
Quando capiremo la tremenda realtà, la più dimenticata e la più rifiutata, che noi siamo sempre “mani” di qualcuno; che il positivo o il negativo passano per i nostri giudizi, per le nostre scelte, per i nostri comportamenti; che se Hitler ha potuto fare quello che ha fatto e Bush può fare quello che sta facendo oggi, è perché c’è sempre chi da corpo, che da vita, chi immette nella concretezza storica i loro progetti maligni?
Quando cominceremo a riflettere sulla nostra condizione strutturale di “mani”, e a chiederci a chi stiamo prestando le nostre “mani”?
Balzerà mai evidente che mentre molti si dichiarano “fedeli e credenti” in Dio nella realtà si ritrovano ad essere mani di Mammona, zelanti servitori degli idoli di questo mondo, cioè della ricchezza. Del potere e del piacere?
E noi stessi, quale progetto stiamo materializzando, a quale spirito stiamo dando corpo, per quale futuro prestiamo le nostre mani?
Se ci renderemo conto di stare dando corpo ad un rapporto religioso e quindi alienato con Dio, di stare materializzando il capitalismo moderato, l’interclassismo politico, la soggettività dei bisogni, il servizio a tutti i miti proposti da questo nostro brutto mondo, che bestemmia la Verità e lascia morire le “piccole vite”, sapremo prenderne le distanze?
Di chi sceglieremo, in futuro, di essere “mani”?
Mario Mariotti
Fao, non c’è sviluppo senza comunicazione
di Luigina D’Emilio *
JMeno propaganda, più impegni concreti sul campo. Meno monologhi, più dialoghi. Con questo messaggio si è conclusa a Roma venerdì 27 novembre la tre giorni del primo Congresso Mondiale sulla Comunicazione per lo Sviluppo, organizzata dalla Fao e dalla Banca Mondiale.
«Il luogo adatto dove ribadire che comunicazione e sviluppo sono due facce della stessa medaglia, entrambe indispensabili per colmare le distanze tra Paesi ricchi e Paesi poveri», ha spiegato Jacques Diouf, direttore generale dell’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao) delle Nazioni Unite.
«Un forum mondiale che dà voce al mondo dove la parola d’ordine è dialogo. Non ci sono insegnamenti unici, ma la necessità di oltre 500 rappresentanti di governi, università, centri di ricerca, ong e associazioni della società civile di confrontarsi sui legami tra comunicazione e sviluppo sociale» replica Paul Mitchell, responsabile della divisione di Comunicazione per lo sviluppo della Banca Mondiale.
Una necessità nata dalla consapevolezza che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno accelerato la crescita economica in tutto il mondo e hanno creato un mercato globale che però può rappresentare un pericolo per molti Paesi. Infatti, proprio il ritmo al quale le nuove frontiere avanzano rischia di far aumentare il distacco tra coloro che hanno accesso a telefoni cellulari e rete web ed il miliardo di persone che non ce lo hanno.
Il rischio, secondo la Fao è quello di allargare ancora di più il divario tra tutti coloro che mangiano tre pasti al giorno e gli 854 milioni che si considerano fortunati se ne hanno uno.
Lo sviluppo, dunque, non può non passare dalla partecipazione e quindi dalla comunicazione che ha almeno due ruoli fondamentali da svolgere: consentire la comunicazione dal basso verso l’alto che permette a chi fa politica di entrare in contatto con i destinatari delle politiche. Ed essere il controllore delle politiche stesse, della loro implementazione e della loro efficacia.
E, infatti, l’obiettivo di questo appuntamento - spiegano gli organizzatori - è «quello di riuscire a perseguire una comunicazione efficace che ha il potenziale di cambiare la vita di tantissime persone inculcando il seme della conoscenza e della speranza tra i poveri del mondo».
La comunicazione vista come elemento acceleratore nel campo della riduzione della povertà, della sicurezza alimentare, della salute pubblica, del buon governo e dello sviluppo sostenibile.
Questi i temi dibattuti, ma anche esempi concreti di Paesi che hanno sviluppato idee innovative, creative e utili. È il caso di Mission 2007, questo il nome del progetto che coinvolge alcune zone dell’India e che prevede la costruzione di poli di comunicazione rivolti alla cittadinanza più povera come contadini raggruppati in forum di discussione radiofonici.
Ma si toccano argomenti anche più gravi, come la significativa diminuzione della pratica dell’infibulazione in Burkina Faso grazie a mirate strategie di comunicazione.
Non sono però solo i paesi più poveri a godere degli effetti benefici legati ad alcune tecniche di comunicazione, basta pensare che un altro progetto educativo nasce in Irlanda del nord dove, ai bambini, vengono trasmessi cartoni animati che lanciano messaggi per ridurre il distacco dai coetanei inglesi.
Il termine comunicazione, dunque, è considerato nella totalità degli strumenti che comprende: «anche quando si fa musica si comunica - spiega il rappresentante del Marocco che parla del festival musicale del suo Paese - noi così valorizziamo le differenze di tutti perché anche tramite queste manifestazioni si può e si deve dialogare per conoscere ciò che consideriamo diverso».
E ovviante come ogni iniziativa che si rispetti a fare capolino anche le polemiche di chi ritiene che sia necessario capire quali politiche linguistiche vadano adottate per preservare l’identità dei popoli e non creare discriminazione.
Ma alla Fao rispondono convinti del fatto che è arrivato il tempo di ascoltare, «di dare voce alle persone aiutandole a far sì che le loro parole vengano ascoltate, solo in questo modo lo sviluppo diviene sostenibile; anche essere buoni ascoltatori aiuta, perché abbiamo molto da apprendere dagli altri».
Nei prossimi anni, dunque, le linee guida della comunicazione per lo sviluppo, secondo l’organizzazione delle Nazioni Unite, devono basarsi innanzitutto sull’ascolto e per i rappresentanti delle istituzioni che hanno partecipato al congresso il messaggio più importante è stato chiaro e semplice:«andate a casa e ascoltate i vostri cittadini».
* www.unita.it, Pubblicato il: 27.10.06 Modificato il: 27.10.06 alle ore 18.53
A 10 anni dalla dichiarazione di Roma, che impegnava i governi a dimezzare i sottoalimentati nel mondo le cifre sono allarmanti
La Fao ammette il fallimento. "La fame nel mondo aumenta"
L’obiettivo fissato nel 1996 è praticamente irraggiungibile. Nell’Africa sub-sahariana 40 milioni di malnutriti in più
di CRISTINA NADOTTI (www.repubblica.it, 30.10.2006)
ROMA - L’obiettivo di dimezzare il numero di persone che soffrono la fame entro il 2015 è lontano, sempre più lontano, praticamente irraggiungibile. Il Rapporto annuale sullo Stato di insicurezza alimentare nel mondo (Sofi), diffuso oggi dalla Fao, ammette: "In dieci anni, in pratica, non è stato fatto alcun progresso verso l’obiettivo di dimezzare il numero di sottoalimentati nel mondo". Già in occasione della "Giornata mondiale dell’alimentazione", lo scorso 16 ottobre, il direttore generale dell’organizzazione, Jacques Diouf, aveva reso note alcune cifre allarmanti, ma i risultati del Sofi mostrano come in alcune zone - tra queste l’Africa - la situazione non solo non è migliorata, ma è in peggioramento.
I dati. Al mondo ci sono 854 milioni di persone che soffrono la fame e il numero non è mai calato dal 1990-92. Fare riferimento a questa data è importante perché nel 1996 oltre 180 capi di Stato e di governo si erano riuniti a Roma per il Vertice mondiale sull’alimentazione e avevano firmato una Dichiarazione con la quale si impegnavano a dimezzare il numero degli affamati entro il 2015 e portarlo a 412 milioni. Per onorare l’impegno preso al vertice si dovrebbe ridurre il numero dei sottonutriti di 31 milioni l’anno da oggi sino al 2015, mentre il trend attuale è al contrario di un aumento al ritmo di quattro milioni l’anno.
Le ultime rilevazioni della Fao si riferiscono al periodo 2001-2003: le persone sottoalimentate sono ancora 854 milioni, tra queste 820 milioni vivono nei paesi in via di sviluppo, 25 milioni nei Paesi in transizione e nove milioni nei Paesi industrializzati. Il rapporto sottolinea che ci sono alcuni dati confortanti e riguardano i Paesi in via di sviluppo, nei quali il numero di sottoalimentati si è ridotto del 3% rispetto al 1990, e potrebbe dimezzarsi entro il 2015. Ma a fronte di queste buone notizie si evidenzia un divario sempre più ampio con i Paesi più poveri, nei quali le cifre parlano di un aumento netto della povertà. E’ esemplare il caso dell’Africa sub-sahariana: la Fao stima che entro il 2015 il 30% di sottoalimentati sarà concentrato in quella regione.
Il caso africano. Nell’Africa sub-sahariana il numero di persone sottoalimentate è passato da 169 milioni nel 1990-92 a 206,2 milioni nel 2001-03. Tra le cause di questo incremento l’Aids, le guerre e le catastrofi naturali, in particolare nel Burundi, in Eritrea, in Liberia, in Sierra Leone e nella Repubblica democratica del Congo. E’ proprio questo il Paese per cui si registrano le maggiori preoccupazioni della Fao poiché, a causa anche della guerra del 1998-2002, il numero di affamati è triplicato passando da 12 a 37 milioni di persone, cioè il 72% della popolazione. La Repubblica Democratica del Congo è un caso emblematico se si considera che si tratta di una delle regioni della terra con le maggiori risorse naturali. Per dirla con le parole del Sofi "ciò che manca è la volontà politica per mobilitare quelle risorse a beneficio degli affamati".
Le politiche contraddittorie. Il rapporto della Fao indica chiaramente che per ridurre il numero di sottoalimentati è fondamentale lo sviluppo rurale, almeno nei Paesi nei quali la situazione è peggiore. "Nonostante ciò i Paesi donatori hanno ridotto in modo consistente gli aiuti al settore agricolo - sottolinea Francisco Sarmento di Action Aid International, una delle organizzazioni invitate dalla Fao a discutere della revisione del piano d’azione - Nell’84 i Paesi donatori hanno versato quasi otto miliardi di dollari per il sostegno dei programmi agricoli, ma nel 2002 la cifra si è ridotta a circa tre miliardi. Inoltre i Paesi del Nord del mondo adottano tutta una serie di azioni economiche che frenano la produzione agricola dei Paesi sottosviluppati e l’esportazione dei loro prodotti. E’ un po’ come dire che si individua l’agricoltura come il motore principale per la ripresa dei Paesi sottosviluppati, ma poi questo motore lo si frena in tutti i modi".
Gli impegni. Il rapporto della Fao fa notare che l’obiettivo è ancora raggiungibile, ma solo se si interverrà concretamente e in modo concertato, con un’azione diretta contro la fame contemporaneamente a interventi mirati allo sviluppo agricolo e rurale. Tra le altre misure elencate dal Sofi ci sono: indirizzare i programmi e gli investimenti verso le "zone più critiche" di povertà e sottonutrizione; rafforzare la produttività a livello di piccoli produttori; creare condizioni idonee per gli investimenti privati, e questo implica tra l’altro trasparenza e buon governo; far sì che il commercio mondiale funzioni anche per i poveri, con l’istituzione di meccanismi di protezione per i gruppi più vulnerabili; un immediato incremento del livello degli Aiuti Pubblici allo Sviluppo (APS) per arrivare a raggiungere lo 0,7% del Pil, come promesso.
Che state a Fao? Da oggi fino al 4 novembre nel palazzo della Fao, a Roma, si tengono gli incontri per la revisione del piano d’azione del Vertice mondiale dell’alimentazione. All’evento partecipano i ministri di alcuni tra i Paesi più ricchi e più poveri del mondo e la Fao ha invitato organizzazioni non governative ed esponenti della società civile per discutere quali misure adottare per non fallire l’obiettivo del 2015.
Action Aid International ha lanciato in contemporanea la campagna "Che state a Fao?" per denunciare l’insufficiente impegno politico e finanziario degli ultimi dieci anni da parte dei governi e della comunità internazionale. Per informarsi sulle iniziative portate avanti dalla ong si può visitare il sito. (30 ottobre 2006)