Nuove generazioni...

COSTITUZIONE E CITTADINANZA ITALIANA. Un intervento di Marcella Lucidi, sottosegretario Ministero Interno.

giovedì 7 settembre 2006.
 

[...] il governo ha presentato al Parlamento un disegno di legge che propone nuove norme sulla cittadinanza. È un testo che associa all’idea tradizionale di appartenenza alla comunità italiana, tutta ancorata al legame di sangue, una concezione più dinamica, più inclusiva, che guarda all’effettivo inserimento della persona nel tessuto economico, sociale, politico del Paese. In un tempo in cui l’immigrazione sta modificando questo tessuto, quel testo guarda alla presenza degli immigrati che nascono, crescono, si stabiliscono regolarmente sul nostro territorio senza voler mantenere a lungo nei loro confronti quelle divisioni che non aiutano a «fare» con loro comunità.

Ma perchè questo avvenga occorre che il segno formale della cittadinanza coincida con una sostanziale condivisione delle regole fondamentali, dei principi inderogabili che consentono di stare insieme. Tra questi c’è il rispetto dei diritti delle donne. E c’è il rispetto dei diritti delle bambine e dei bambini[...]


Le donne, la violenza, la responsabilità

di Marcella Lucidi*

Le cronache più recenti ci hanno raccontato storie di donne «tra noi», che hanno vissuto il loro dolore, la loro sofferenza abitando nella casa accanto, dentro una società nella quale a fatica volevano inserirsi. Ci hanno parlato della morte di Hina, ammazzata ad agosto dagli uomini della sua famiglia, della donna di Bologna, uccisa dal marito perché incinta, e del suicidio di Kaur, vedova, che rifiutava di continuare a vivere con il marito impostole.

Ci resta dentro l’impressione della violenza che queste donne hanno subito, sconfitte nella loro voglia di reagire, una violenza inaccettabile come tutte le violenze che vengono commesse contro le donne e i bambini.

La violenza ci sconvolge, ci deve sconvolgere. È la dimensione intollerabile del gesto umano. Non può essere la dimensione di un legame. È il fallimento del rapporto, la sua negazione.

Abbiamo tutti il dovere di non sentirci estranei, ed anche di indagare su quanto essa stia pervadendo le relazioni nella nostra società. A riguardo, il diritto italiano esprime un giudizio severo, rigoroso di condanna. Chi conosce la storia del nostro diritto penale sa che solo vincendo tante resistenze è giunto a «schierarsi» decisamente contro la violenza alle donne e ai bambini, quella sessuale, quella commessa tra le mura domestiche, a chiamare per nome l’autore e la sua vittima, difendendola, reagendo con determinazione agli abusi.

Nei giorni della tragedia di Brescia qualcuno ha ricordato la brutta figura criminosa del delitto per causa d’onore, una forma attenuata di omicidio doloso che soltanto venticinque anni fa si decise di cancellare dal nostro codice penale. E la memoria ci può riportare anche al 1996, quando a seguito di una faticosa battaglia parlamentare che impegnò fortemente le donne, la violenza sessuale smise di essere considerata reato contro la moralità pubblica e il buon costume per diventare reato contro la persona, contro la sua libertà. Di lì in avanti, sono state scritte leggi importanti contro la tratta degli esseri umani, contro lo sfruttamento sessuale dei minori, contro la violenza nelle relazioni familiari.

In dieci anni, sulla violenza, il diritto ha accelerato il passo, ha cambiato il suo linguaggio per parlare diversamente alla società. Credo che ci sia ancora materia sulla quale impegnarsi. Penso ai reati di violazione degli obblighi di assistenza familiare, di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, di maltrattamento in famiglia o verso i fanciulli, di sottrazione di minori o di persone incapaci: è giunto il tempo di dire che anche per questi casi esistono vittime in carne e ossa, che sono loro il bene giuridico da proteggere e non gli astratti ordine morale delle famiglie o retto esercizio dei poteri disciplinari ovvero la potestà genitoriale.

Ora, è evidente che la strada che il nostro diritto ha percorso, e deve continuare a percorrere, certamente non gli basta a fermare la mano di chi procura sofferenza o morte, ma dice con chiarezza da quale parte sta la comunità, lo Stato, decisamente al fianco della vittima, a favore della libertà che ogni persona ha di decidere, di scegliere la sua vita, e del suo bisogno, quando è debole, di ricevere tutela, protezione. Ne emerge una concezione del rapporto tra le persone che rifiuta il modello proprietario, egoista, un nuovo codice delle relazioni che individua nel riconoscimento positivo dell’altra/altro da sé, nel rispetto della persona un principio inderogabile, pertanto universale.

Come si può, giunti a questo punto dell’elaborazione giuridica, non essere intransigenti e non esigere intransigenza? Come si può pensare di stare dentro la stessa comunità senza condividere questo valore? È certo che la questione non interessa, soltanto, chi, oggi, chiede ingresso nella comunità, chi vuole diventare cittadino. Essa investe chiunque voglia stringere o vivere il legame di appartenenza, anzi riguarda l’idea stessa di comunità, è un suo carattere fondativo. Ma è necessario che su questo non ci siano riserve, di nessun tipo.

Nel mese di luglio il governo ha presentato al Parlamento un disegno di legge che propone nuove norme sulla cittadinanza. È un testo che associa all’idea tradizionale di appartenenza alla comunità italiana, tutta ancorata al legame di sangue, una concezione più dinamica, più inclusiva, che guarda all’effettivo inserimento della persona nel tessuto economico, sociale, politico del Paese. In un tempo in cui l’immigrazione sta modificando questo tessuto, quel testo guarda alla presenza degli immigrati che nascono, crescono, si stabiliscono regolarmente sul nostro territorio senza voler mantenere a lungo nei loro confronti quelle divisioni che non aiutano a «fare» con loro comunità.

Ma perchè questo avvenga occorre che il segno formale della cittadinanza coincida con una sostanziale condivisione delle regole fondamentali, dei principi inderogabili che consentono di stare insieme. Tra questi c’è il rispetto dei diritti delle donne. E c’è il rispetto dei diritti delle bambine e dei bambini.

Sarebbe davvero utile se la recente cronaca di violenze non servisse a mantenere, nel dibattito pubblico, l’idea che, nonostante tutto quel che si vuol fare- riforma della cittadinanza compresa- su questi diritti ci sono «riserve» invalicabili, filtri culturali, religiosi o tribali che continueranno ad impedire di sentirli come valore.

Ma, allora, serve uno sforzo che coinvolga più soggetti in un patto. Il ministro Amato ha già interpellato, a riguardo, la Consulta islamica. Avverto l’esigenza che tutte le comunità di immigrati presenti nel nostro Paese si sentano sollecitate, perché i diritti delle donne e dell’infanzia possano vivere dentro la società italiana che è già multietnica, siano diritto e cultura, iniziativa sociale, politica, portata avanti da italiani e immigrati insieme, perché insieme già crescono i loro figli nelle scuole e insieme - come il progetto di legge sulla cittadinanza registra - quei ragazzi e quelle ragazze sono il segno di una comune nuova generazione.


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-  www.unita.it, Pubblicato il: 07.09.06
-  Modificato il: 07.09.06 alle ore 9.02


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