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I GIGANTI NON MUOIONO MAI. ’Gabo’, Gabriel Garcia Marquez è morto a 87 anni.

venerdì 18 aprile 2014
Addio allo scrittore Gabriel Garcia Marquez
Il premio Nobel alla letteratura è morto oggi nella sua casa di Città del Messico a 87 anni. Nei giorni scorsi era stato ricoverato, ma poi dimesso, per l’aggravarsi di una polmonite. ’Gabo’ è stato l’autore di ’Cent’anni di solitudine’, romanzo (...)

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> I GIGANTI NON MUOIONO MAI. --- Gabo vive. “Il più grande di tutti noi”. Salman Rushdie ricorda Gabriel García Márquez

mercoledì 23 aprile 2014

Salman Rushdie ricorda Gabriel García Márquez

Caro soldato di Macondo hai combattuto la mia guerra

“Il più grande di tutti noi”

di Salman Rushdie (la Repubblica, 23.04.2014)

Gabo vive. La straordinaria risonanza che ha avuto in tutto il mondo la morte di Gabriel Garcí a Márquez e il cordoglio sincero provato dai lettori di ogni Paese alla notizia della sua dipartita sono il segnale che i libri di Gabo sono più vivi che mai.

Da qualche parte c’è ancora un «patriarca» dittatoriale che fa cucinare e servire il suo rivale in una cena sontuosa per i suoi invitati, un vecchio colonnello che aspetta una lettera che non arriva, una bellissima ragazza fatta prostituire dalla nonna senza cuore e un patriarca più gentile, José Arcadio Buendía, uno dei fondatori del nuovo insediamento di Macondo, un uomo interessato alla scienza e all’alchimia, che dichiara alla moglie inorridita che «la terra è rotonda come un’arancia».

Viviamo in un’epoca di mondi alternativi, di fantasia: la Terra di Mezzo di Tolkien, la Hogwart di J. K. Rowling, l’universo distopico di The Hunger Games, i mondi dove vampiri e zombie si aggirano in cerca di prede. È un momento d’oro per posti del genere. Ma a dispetto di questa moda della narrativa fantastica, nei più raffinati microcosmi immaginari della letteratura c’è più verità che fantasia: nella Yoknapatawpha di William Faulkner, nella Malgudi di R. K. Narayan e naturalmente nella Macondo di Gabriel García Márquez, l’immaginazione è usata per arricchire la realtà, non per fuggire da essa.

Cent’anni di solitudine è uscito ormai 47 anni fa, e nonostante continui a godere di una popolarità in generale smisurata e persistente, il suo stile - il realismo magico - in America Latina ha lasciato il posto ad altre forme di narrazione, in parte per reazione allo smisurato successo di García Márquez.

Il più stimato tra gli scrittori latinoamericani della nuova generazione, Roberto Bolaño, è famoso per aver dichiarato che il realismo magico «fa schifo» e per essersi fatto beffe della popolarità di García Márquez, definendolo «un uomo terribilmente compiaciuto di frequentare tutti quei presidenti e arcivescovi ».

È stato uno scatto infantile da parte di Bolaño, ma ha dimostrato quanto sia ingombrante, per tanti scrittori latinoamericani, la presenza del colosso. («Ho la sensazione », mi ha detto una volta Carlos Fuentes, «che gli scrittori latinoamericani ormai non riescano più usare la parola “solitudine”, per paura che la gente pensi che stiano alludendo a Gabo. E temo», aveva aggiunto maliziosamente, «che ben presto non potremo più usare nemmeno la locuzione “Cent’anni” ».)

Nessuno scrittore mondiale ha mai avuto un impatto paragonabile a quello di García Márquez nell’ultimo mezzo secolo. Ian McEwan ha giustamente paragonato la sua preminenza a quella di Charles Dickens: nessuno scrittore, dai tempi del maestro inglese, è mai stato tanto letto e tanto profondamente amato come Gabo.

Il problema dell’espressione «realismo magico» è che quando la si dice o la si sente dire, se ne dice o se ne sente soltanto metà, il magico, e non ci si cura dell’altra metà, il realismo. Ma se il realismo magico fosse solo realismo, non conterebbe nulla. Sarebbe una semplice stravaganza dove tutto può succedere e di conseguenza nulla lascia il segno. Il magico del realismo magico funziona perché le sue radici affondano in profondità nel reale, perché si alimenta del reale e vi getta luce in modi meravigliosi e inaspettati.

Prendiamo questo famoso passaggio di Cent’anni di solitudine : «Non appena José Arcadio chiuse la porta della camera, lo scoppio di una pistolettata rimbombò nella casa. Un filo di sangue uscì da sotto la porta, attraversò la sala, uscì in strada, continuò in un percorso diretto lungo marciapiedi disuguali, scese scalinate e scalò parapetti, si lasciò dietro la Strada dei Turchi, girò a destra in una cantonata e a sinistra in un’altra, piegò ad angolo retto davanti alla casa dei Buendía, passò sotto la porta chiusa, attraversò il salotto buono strisciando lungo le pareti per non macchiare i tappeti [...] e finì nella cucina dove Úrsula stava per rompere trentasei uova per fare il pane. “Ave Maria Purissima!” gridò Úrsula ».

Qui sta succedendo qualcosa di assolutamente fantastico. Il sangue di un uomo morto acquista uno scopo, quasi una vita propria, e si muove metodicamente attraverso le strade di Macondo fino a fermarsi ai piedi di sua madre. Il comportamento del sangue è «impossibile », eppure a leggere questo brano si ha la sensazione di leggere qualcosa di veritiero, il viaggio del sangue come il viaggio della notizia della sua morte dalla stanza dove si era sparato alla cucina di sua madre, e il suo arrivo ai piedi della matriarca Úrsula Iguarán è alta tragedia: una madre apprende che suo figlio è morto. Il sangue di José Arcadio può e deve continuare a vivere finché non riesce a portare a Úrsula la triste notizia. Il reale, grazie all’aggiunta delmagico, guadagna forza drammatica ed emotiva. Diventa più reale, non meno reale.

Il realismo magico non è stata un’invenzione di García Márquez. Prima di lui sono venuti il brasiliano Machado de Assis, l’argentino Jorge Luis Borges e il messicano Juan Rulfo. García Márquez studiò attentamente il capolavoro di Rulfo, Pedro Páramo , e ha detto che ebbe su di lui un impatto paragonabile a quello della Metamorfosi di Kafka. (Nella città fantasma di Comala, in Pedro Páramo, è facile vedere il luogo di nascita della Macondo di García Márquez.)

Ma lo ripeto: per volare la fantasia ha bisogno di avere un solido terreno sotto di sé. Io conoscevo i colonnelli e i generali di García Márquez, o almeno i loro corrispettivi indiani e pachistani; i suoi vescovi erano i miei mullah, le sue strade del mercato i miei bazar.

Il suo mondo era il mio tradotto in spagnolo. È più che normale che me ne sia innamorato, non per la sua magia (anche se per uno scrittore cresciuto con le storie di meraviglie dell’Oriente anche questo elemento non era privo di fascino), ma per il suo realismo.

La differenza era che il mio mondo era più urbano del suo: è la sensibilità del villaggio che dà al realismo di García Márquez quel suo sapore particolare, il villaggio dove la tecnologia spaventa, ma una ragazza devota assunta in cielo è perfettamente credibile, dove - come nei villaggi indiani - si crede che il miracoloso sia dovunque e coesista con il quotidiano.

García Márquez era un giornalista che non perdeva mai di vista i fatti. Era un sognatore che credeva nella verità dei sogni. Era anche uno scrittore ca- pace di momenti di una bellezza farneticante, e spesso comica. All’inizio dell’ Amore ai tempi del colera : «L’odore delle mandorle amare gli ricordava sempre il destino degli amori contrastati».

Nel pieno dell’ Autunno del patriarca , dopo che il dittatore ha venduto il Caribbean agli americani, «se lo portarono via in pezzi numerati gli ingegneri nautici dell’ambasciatore Ewing per seminarlo lontano dagli uragani, nelle aurore di sangue dell’Arizona, se lo portarono via con tutto quello che aveva dentro, signor generale, col riflesso delle nostre città, coi nostri annegati timidi, coi nostri draghi dementi».

E naturalmente, l’indimenticabile: «Il colonnello Aureliano Buendía promosse trentadue sollevazioni armate e le perse tutte. Ebbe diciassette figli maschi da diciassette donne diverse, che furono sterminati l’uno dopo l’altro in una sola notte, prima che il maggiore compisse trentacinque anni. Sfuggì a quattordici attentati, a settantatré imboscate e un plotone di esecuzione. Sopravvisse a una dose di stricnina nel caffè che sarebbe bastata ad ammazzare un cavallo». Per tanta magnificenza l’unica reazione possibile è la gratitudine. È stato il più grande di tutti noi.
-  Traduzione di Fabio Galimberti


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