di Barbara Spinelli (la Repubblica, 26 gennaio 2011)
Viviamo, da ormai quasi un ventennio, nella non-politica. Della politica abbiamo dimenticato la lingua, il prestigio, la vocazione. Dicono che a essa si sono sostituiti altri modi d’esercitare l ’autorità: il carisma personale, i sondaggi, il kit di frasi e gesti usati in tv. Ma la spiegazione è insufficiente, perché tutti questi modi non producono autorità e ancor meno autorevolezza.
Berlusconi ha potere, non autorevolezza. Non sono le piazze a affievolirla ma alcune istituzioni della Repubblica. evidentemente non persuase dalle sue ingiunzioni. Le vedono come ingiunzioni non di un rappresentante dello Stato, ma di un boss terribilmente somigliante al dr Mabuse, che nel film di Fritz Lang crea un suo stato nello Stato. Alle varie istituzioni viene intimato di ubbidire tacendo, e già questo è oltraggio alla politica e alla Costituzione.
Specialmente sotto tiro è la magistratura, che incarna il diritto. Un gran numero di magistrati si trova alle prese con un leader-non leader, sospettato di crimini di cui la giustizia indipendente non può non occuparsi. Le sue peripezie sessuali lo hanno minato ulteriormente, essendo forse connesse a reati, e hanno accresciuto la sua inaffidabilità. Questo è il dilemma. Il carisma che ha avuto e ha presso gli elettori non ha prodotto che subalternità o resistenza. Il potere gli dà una parvenza di autorità, ma l’autorevolezza, che è altra cosa, gli manca. Non incarna la legge, il servizio su cui la politica si fonda, perché questi ingredienti non sono per lui primari.
L’autorevolezza del leader è riconosciuta non solo dall’elettore ma dai pari grado e dai poteri chiamati per legge a controbilanciare il suo. Il conflitto tra il Premier e la giustizia non avviene fra due poteri irrispettosi dei propri limiti, come ha detto lunedì il cardinale Bagnasco. Avviene perché il premier indagato non va in tribunale, non accetta l’obbligatorietà dell’azione penale costituzionalmente affidata ai pm (art. 112). I pari grado esigono da chi comanda capacità di comunicare senza di continuo mentire e smentirsi. Esigono un equilibrio psichico che non sfoci in aggressività, in punizioni a tal punto fuori legge che sempre occorre scriverne di nuove.
A questo dovrebbe servire la politica non tirannica: a governare i conflitti nel loro sorgere, a non intimidire. Berlusconi disconosce tali virtù, per il semplice motivo che non sa - non vuol sapere - quel che significhino la politica e il comando. Non il merito e l’autonomia individuale sono stati da lui rafforzati, come tanti italiani s’attendevano, ma l’appartenenza ai giri di potere anti-Stato descritti da Gustavo Zagrebelsky (Repubblica 26-3-10). Non stupisce la contiguità fra i giri e le associazioni malavitose. Ambedue hanno potere di nuocere o favorire, non autorevolezza.
Anche il carisma non è politica alta. Il primo è personale e labile, la seconda essendo un impasto di regole s’innalza sopra il contingente, non si mimetizza nelle voglie della folla, guarda più lontano. La politica alta è distrutta quando i cittadini dimenticano che solo le istituzioni durano. Lo disse Jean Monnet dopo l’ultima guerra, vedendo i disastri commessi dagli Stati e progettando l’Europa sovranazionale: «Solo le istituzioni son capaci di divenire più sagge: esse accumulano l’esperienza collettiva, e da questa esperienza, da questa saggezza, gli uomini sottomessi alle stesse regole potranno vedere non già il cambiamento della propria natura, ma la graduale trasformazione del proprio comportamento». Solo l’istituzione ben guidata ha il carisma, il «dono» di operare per il bene comune indipendentemente da chi governa.
In Joseph Conrad, la scoperta delle capacità di comando è il momento in cui il capo della nave oltrepassa la linea d’ombra e apprende il compito come servizio (il compito di portare nave e passeggeri sani e salvi in porto). È scritto in Tifone: «Pareva si fossero spente tutte le luci nascoste del mondo. Jukes istintivamente si rallegrò di avere vicino il Capitano. Ne fu sollevato, come se quell’uomo, con la sola sua comparsa in coperta, si fosse preso sulle spalle il peso maggiore della tempesta. Tale è il prestigio, il privilegio e la gloria del comando. Ma da nessuno al mondo il capitano Mac Whirr avrebbe potuto attendere un simile sollievo. Tale è la solitudine del comando».
Berlusconi è rimasto al di qua della linea d’ombra. La prova che dall’adolescenza ci immette nella maturità, non l’ha superata.
Ma il problema non è solo Berlusconi. Al di qua della linea d’ombra è restata l’idea stessa che in Italia ci si fa della politica. La politica non è associata a competenza e disinteresse personale, e chi non entra nelle beghe di quella che in realtà è non-politica, viene chiamato un tecnico o un ingenuo. Non è associata alla verità, ritenuta quasi un attributo pre-politico. È dominio fine a se stesso, e così degenera. Lo Stato funziona se gli ordini vengono eseguiti, ma a condizione che sia custodito il bene comune. Che il potere si nutra di legalità, oltre che della legittimità data dalle urne. Che il privato non prevalga sul pubblico.
La vera corruzione italiana comincia qui: nelle teste, prima che nei portafogli. Non che sia scomparso il politico vero, ma spesso di lui si dice: «È uno straniero in patria». Sono i falsi politici a considerarlo estraneo ai giri, alla loro «patria». L’Italia ha conosciuto la politica alta: quella della destra storica nata dal Risorgimento; quella dei costituenti di destra e sinistra; quella di Luigi Einaudi. In uno scritto del 1956, il secondo Presidente della Repubblica invitò gli italiani a non illudersi: «Nessuno Stato può esistere e durare se non sono saldi i pilastri fondamentali» che sono la difesa, la sicurezza, il diritto, l’ordine pubblico. Senza tali pilastri «gli Stati sono cose fragili, che un colpo di vento fa cadere e frantuma». Al capo politico spetta salvaguardarli, poiché spetterà a lui «dire la parola risolutiva, dare l’ordine necessario».
Difficile dire la parola risolutiva, quando tutto traballa. Quando la linea d’ombra non è riconosciuta e il capo vive o cade nella pre-adolescenza. Uno dei motivi per cui da anni ci arrovelliamo sul potere berlusconiano - è un Regime? un autoritarismo nuovo? - è questa sua incapacità di dire parole credibili. L’ubbidienza al politico, scrive ancora Einaudi, è possibile solo se «gli uomini a cui è affidata l’osservanza della legge non mettono se stessi al di sopra della legge». Se i capi civili «sapranno di essere confortati dal consenso di cittadini, convinti che nessuno Stato dura, che nessuna proprietà, nessuna sicurezza di lavoro, nessuna certezza di avvenire sono pensabili, se tutti non siano decisi ad osservare i principii vigenti del diritto e dell’ordine pubblico».
La sinistra ha scoperto tardi la forza delle istituzioni, dello Stato. Anch’essa ha spesso considerato il sapere tecnico, la legalità, il parlar-vero, come non-politica. Politica era conquista di posti, più che servizio. Non era apprendere la prudenza insegnata nel ‘600 da Baltasar Gracián: la prudenza di chi non si scorda che «c’è chi onora il posto che occupa, e chi invece ne è onorato». Per questo l ’opposizione appare vuota, a volte perfino più incompetente di alcuni governanti, non meno indifferente ai meriti, non meno interessata a lottizzare poteri. Lo stesso Veltroni sfugge la politica quando invita a «viaggiare in mare aperto». C’è bisogno di porti, non fittizi. C’è bisogno di capire che non cresceremo più come prima. Che non è straniero in patria chi elogia l’invenzione delle tasse o del Welfare: questo strumento che crea comunità solidali strappandole alla legge del più forte.
È vero, l’Italia ha bisogno di una rivoluzione democratica. Dunque: di una rivalutazione della politica. È la politica che deve vagliare i dirigenti e impedire all’indegno di entrarvi, senz’aspettare la magistratura. Non è solo la sinistra a poter incarnare simile rivoluzione. Possono farla anche le destre, a lungo identificate con Berlusconi. Fini è il primo a riscoprire la politica, e anche la destra storica. C’è una tradizione riformatrice in quella destra, evocata su questo giornale da Eugenio Scalfari nell’88, nello stesso anno in cui denunciò l’ascesa del potere televisivo berlusconiano: la tradizione di Marco Minghetti, di Silvio Spaventa, che esalta la politica come servizio pubblico. Sinistra e destra debbono ritrovarla, come seppero fare dopo il ventennio fascista.