La riscoperta dell’indignazione
di Benedetta Tobagi (la Repubblica, 22 gennaio 2011)
Trentadue pagine in cui articola l’imperativo morale "Indignatevi!" - di fronte alle abissali ingiustizie della globalizzazione selvaggia, alla deumanizzazione dei migranti, all’emergenza ambientale - e il 93enne ex partigiano e diplomatico franco-tedesco Stéphane Hessel ha venduto in pochi mesi quasi mezzo milione di copie in Francia. Il prezzo stracciato e il lancio a ridosso del Natale ne hanno fatto il perfetto cadeau politicamente corretto, ma questo non basta a spiegare il successo clamoroso del pamphlet. Di certo cade su un terreno fertile. A partire dal 2000, con il collasso della bolla speculativa e lo stillicidio di scandali che, da Enron in poi, hanno portato sul lastrico migliaia di risparmiatori e lavoratori, si incrina l’immagine di broker, amministratori delegati, manager: un modello di successo, ricchezza e privilegio che suscitava ammirazione e invidia.
l piccolo libro Indignez-vous! monta sulle spalle di una fioritura di saggi e opere cinematografiche, letterarie e teatrali; i documentari The Corporation, Il caso Enron, Goodbye mr.Capitalism, i drammi di Edward Bond, Deb Margolin, David Hare, i saggi di Naomi Klein, il libro che mette a nudo i responsabili del crack di Merril Lynch, per citarne alcuni, denunciano le perversioni del capitalismo delle multinazionali, i vizi della speculazione selvaggia e dei suoi protagonisti, che per decenni - finché l’economia occidentale reggeva - hanno agito indisturbati, nella latitanza della politica e nell’acquiescenza di larga parte dell’opinione pubblica. Col crollo del 2009, gli dèi del capitalismo rampante sono caduti, è morta l’illusione della crescita indefinita e dagli Usa all’Europa la cittadinanza comincia a fremere, esasperata. E non solo dalle infamie del capitalismo: gli scandali politici sono fonte di frequenti esplosioni di sdegno, dagli Usa al Regno Unito a - ovviamente - l’Italia: qui è appena nato il sito indignati.org, reazione al vaso di Pandora scoperchiato dall’affaire Ruby.
L’affiorare di sussulti d’indignazione popolare che rompono l’indifferenza compiacente o rassegnata è salutato con speranza ed entusiasmo. L’indignazione viene invocata, non solo in Francia, come una panacea, il sentimento che può guidare una società in stallo fuori dalla palude della crisi, morale e materiale. Eppure è un sentimento prepolitico, e, come suggerisce una recente (2007) riflessione teoretica di Álvarez González, è tipica di "un’etica in tempi di impotenza". Qual è dunque lo specifico dell’indignazione? Quale funzione può svolgere nella società del capitalismo globale postfordista?
L’indignazione si mescola ad altri sentimenti scatenati dall’ingiustizia, come l’odio e la rabbia. Rispetto a queste emozioni, spiccatamente difensive, irriflessive e distruttive, l’indignazione è sottilmente diversa. Definita come "condizione spirituale caratterizzata da vibrante sentimento verso qualcosa che si ritiene riprovevole e ingiusto" - indegno, appunto - presuppone il sentimento confuso, se non ancora la speranza, di qualcosa di diverso, un ideale di giustizia.
Il filosofo Paul Ricoeur poneva i termini della questione in modo cristallino (Il giusto, 1995): "il nostro primo ingresso nella regione del diritto non è stato, forse, segnato dal grido ‘È ingiusto!’?". Nell’indignazione diventiamo testimoni empatici delle ingiustizie del mondo: anche se ancora non ci toccano direttamente, o siamo "fuori pericolo", sentiamo - come ama ripetere Roberto Saviano - che quel male ci riguarda. In questa chiave possiamo leggere, ad esempio, le critiche di J.K. Rowling alla risibile politica "simbolica" di sostegno alle famiglie del premier conservatore Cameron: senza il welfare per le madri sole non avrebbe mai potuto creare la saga di Harry Potter.
L’invito a indignarsi, più che ai giovani magrebini e europei già in protesta, è rivolto alla massa critica dei cittadini che non sono ancora stati toccati nella carne dall’impatto distruttivo delle forze impersonali dell’economia e dovrebbe riscuotersi dal virus letale dell’indifferenza prima che sia troppo tardi. Dall’oscuro senso di colpa che, scriveva Bobbio, si domanda "Perché a lui e non a me?" deve germogliare la presa di coscienza che ogni lesione della giustizia nuoce all’intero corposociale, nel lungo periodo. L’indignazione marca il punto di rottura della sopportazione, segna il risveglio della coscienza morale ed è un formidabile impulso verso l’agire politico.
Dunque è davvero la chiave per uscire dalla crisi? Attenzione, il "grido dell’indignazione" non basta, ammonisce Ricoeur. Primo, esso difetta della definizione di criteri positivi: quale giustizia realizzare, con che mezzi, per chi. Aveva un bel dire, Rousseau, che il senso d’ingiustizia è il contrassegno universale dell’umanità: l’indignazione, spesso, è selettiva. Nel ’68 tutti si disperavano per i vietnamiti, molto meno per il suicidio di Jan Palach. Per non parlare di chi, laddove confliggono due diritti, come nel conflitto israelo-palesinese, si indigna a senso unico. Ideologie, appartenenze, moda e visibilità mediatica hanno un peso determinante.
Esiste poi, latente, il rischio di provocare nuove violenze e sopraffazioni, per vendicare quelle esistenti. L’uomo indignato odia l’ingiustizia e l’argine che lo trattiene dal volgere quell’odio contro i suoi attori è un campo di tensione instabile. Se Hessel addita la non violenza come l’unica via possibile (è ormai lontana la retorica rivoluzionaria dei Dannati della terra di Fanon, 1961), altrove è diverso: il già citato Álvarez González, immerso nella dura realtà sudamericana, non esplicita tale rifiuto. Il senso di giustizia dovrebbe trattenere dall’uso della violenza, ma, come ammonisce il noto brocardo, summum ius, summa iniuria.
Il "maestro del sospetto" Nietzsche, ci ricorda Natoli, insegnò a diffidare dello sdegno sociale, in cui può annidarsi un’"utopia dell’invidia" nutrita di risentimenti assai poco nobili. Linea argomentativa ripresa da von Hayek, un padre del pensiero liberal-conservatore, in polemica col "miraggio della giustizia sociale". Ma il pericolo forse più diffuso nella nostra società è che l’indignazione si riduca a una falsa coscienza consolatoria: un’"etica-anestetica". Lo sdegno monta (e si sgonfia) seguendo il ritmo convulso della cronaca. Indignarsi fa sentire buoni, poi la vita va avanti come prima, ha velenosamente contestato a Hessel il filosofo Luc Berry. La parabola italiana di Mani Pulite insegna: la crisi sopraggiunse quando i giudici toccarono il ventre molle della microcorruzione diffusa. La rabbia si mescola all’ipocrisia: tutti si indignano davanti al politico ladro, molto meno se un professionista offre un forte sconto a chi rinuncia alla ricevuta fiscale.
Coerenza e continuità sono il banco di prova cruciale. L’indignazione, se non prosegue in un programma politico, è destinata a spegnersi. È indispensabile, ma come un detonatore o la carta con cui accendiamo il fuoco, che ha bisogno di ceppi di legna asciutti per bruciare a lungo.
C’è un vuoto politico e concettuale da riempire. Cominciano a emergere nuovi modelli e direzioni di sviluppo per un capitalismo temprato dall’etica e dalla conoscenza (tra i nomi noti il nobel Sen, il padre del microcredito Yunus, Rifkin con l’economia dell’empatia, la radicale americana Susan George con "Attac", acronimo della proposta di tassare le transazioni finanziarie transnazionali per sostenere politiche di welfare), ma la strada è lunga e le controversie molteplici. In un orizzonte confuso e secolarizzato, beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno indignati. E da lì, forse, potrà nascere qualcosa.