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Palestina, Israele e la rinascita della lingua ebraica....

ELIEZER BEN-YEHUDA. “Tante parole nuove dovranno essere inventate, e quando l’Ebraico non basterà, la lingua araba, sorella della nostra, ci fornirà i suoi suggerimenti. Che cos’è infatti un amico, se non quello che ti offre la parola mancante?” Memoria di ELIEZER BEN-YEHUDA - di Massimo Leone.

giovedì 29 giugno 2006 di Federico La Sala
Alla lingua ebraica
Memoria di Eliezer Ben-Yehuda
di Massimo Leone*
La mia ombra si proietta nel cerchio chiaro di una lampada, mentre siedo, la nuca irrigidita, ad una delle scrivanie di questa biblioteca. Sono qui dentro da undici ore, chino sul mio lavoro. La vista mi si annebbia e gli occhi sono ormai due piccoli bracieri, la schiena mi si incurva e gambe e braccia ormai mi dolgono. Respiro affannosamente, qualche piccola macchia rossa si nasconde minacciosa nel mio fazzoletto. Ho (...)

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> ELIEZER BEN-YEHUDA. ---- THEODOR HERZL. Si riscopre "Vecchia terra nuova", l’opera visionaria del 1902 in cui il padre del sionismo prefigurò in ogni dettaglio lo Stato ebraico (di Bruno Ventavoli - Il romanzo che inventò Israele).

venerdì 21 settembre 2012

Il romanzo che inventò Israele

Si riscopre Vecchia terra nuova, l’opera visionaria del 1902 in cui il padre del sionismo prefigurò in ogni dettaglio lo Stato ebraico

di Bruno Ventavoli (La Stampa, 20.09.2012)

“Senza il sole le piante muoiono, ma si possono salvare se si piantano nel terreno adatto, lo stesso vale per gli uomini. Ed è quello che è successo qui». Il «qui» è la Palestina dell’Impero ottomano all’alba del ’900. Gli esseri umani in questione sono gli ebrei, da secoli sotto le tenebre dell’odio. Lo scrive Theodor Herzl, in Vecchia terra nuova, il romanzo (ora tradotto e curato da Roberta Ascarelli, Bibliotheca Aretina, pp. 238, € 20) che immaginò e raccontò Israele prima che Israele esistesse. L’opera visionaria uscì infatti nel 1902, quando il progetto di convincere gli ebrei della diaspora a trasferirsi nella terra dei padri abbandonata da un paio di millenni era poco più che un’idea scandalosa.

Il brillante giornalista ungherese padre del sionismo girava instancabile sinagoghe, salotti, corti, dal Kaiser a Rotschild al sultano della Porta, per spiegare che il trasloco in Medio Oriente era un buon affare per tutti. Agli ebrei, ancora vittime di violenze, pregiudizi, ostracismi, avrebbe dato libertà; agli antisemiti una comoda soluzione a uno sgradevole problema. Dopo aver stilato il manifesto politico dello Stato d’Israele (1896), decise di fornirgli un’anima letteraria per rendere più avvincente il suo sogno rivoluzionario.

Nacque così questo romanzo, narrativamente mediocre (lo stesso autore lo ammetteva) ma talmente carico di entusiasmo e verve utopica da diventare realtà, come a nessun’altra opera è mai accaduto, nemmeno a Verne, Dick o altri compagni di merende fantascientifiche con le loro intuizioni tecnologiche.

Vecchia nuova terra racconta il viaggio di un giovane avvocato ebreo deluso d’amore che ha rinunciato alla professione per seguire un milionario misantropo nei mari del Sud e passa nella Palestina colonizzata dai pionieri sionisti nel futuro 1923 (Herzl morì nel 1904). La descrizione del paesaggio, delle città nate dal nulla, dei porti, delle strade, del brulichio vitale, è incredibilmente simile a ciò che poi sarebbe avvenuto, e che un altro ungherese, Sándor Márai, (peraltro poco amico degli ebrei) descrisse con entusiasmo in un suo tour da quelle parti in Sulle tracce degli dei.

I coloni hanno dissodato la terra con entusiasmo trasformandola in un paradiso fertile, piantando alberi, fondando cooperative agricole. Gli architetti hanno reso Haifa una delle città più moderne al mondo, perché Herzl immagina anche l’urbanistica, le tramvie sospese, le gallerie sotterranee per cavi e tubature.

Herzl, come scriveva Zweig, era bello, cortese, affabile, amatissimo dalla borghesia delle vecchia Austria. Ma quando chiedeva ai facoltosi di lasciar le ville della Ringstrasse, affari, incarichi, serate a teatro, per emigrare in Palestina a fondarvi una nazione, lo consideravano un po’ balzano, se non quasi pericoloso. Sono quindi i diseredati cresciuti negli scantinati bui, braccati dall’odio antisemita a costruire la patria di benessere e libertà. Laggiù rinascono anche nei corpi. Non più mendicanti curvi, pallidi, macilenti, con gli occhi pieni di vergogna, ma abbronzati, forti, virili, sani, «sicuri di sé», finalmente orgogliosi del proprio ebraismo, si compiace di sottolineare Herzl.

La «Nuova società» è giusta («il singolo non viene stritolato dagli ingranaggi del capitalismo né decapitato dal livellamento socialista»), rifiuta la politica professionista («una malattia che siamo riusciti a evitare»), pensando a cariche solo onorarie, affidate a persone meritevoli sottraendole agli «arrivisti». C’è la proprietà privata, ma disprezza il denaro, idolatrato come un vitello d’oro dai borghesi fine secolo. Offre alle donne diritto di voto e parità nei compiti, nei ruoli sociali. Promuove l’istruzione gratuita, in modo che tutti partano alla pari nella gara della vita, e l’agonismo dello sport (cricket, calcio, canottaggio) perché allenare il corpo serve a foggiare lo spirito. E crede soprattutto nella volontà (il sottotitolo del romanzo è programmaticamente «Se lo volete non è una favola»), nell’intelligenza, nell’entusiasmo, nella ragione unica vera religione per un ebreo che si riconosce laicamente nella tradizione degli avi.

Herzl romanziere ha previsto ogni dettaglio del nuovo Israele. Nel suo messianesimo laico immagina una società libera, tollerante, cosmopolita che coinvolgerà anche gli arabi. Prevede che i palestinesi vendano entusiasti pezzi di deserto, paludi, tuguri che non valevano niente pensando a un buon affare. E di fatto così accadde con i primi arrivi. Ma inciampa in un eccesso d’ottimismo. Quando uno dei protagonisti chiede a un abitante locale: «Siete davvero strani voi musulmani! Non considerate questi ebrei degli intrusi? », ottiene una risposta che suona un po’ stonata col senno di poi: «Gli ebrei ci hanno arricchito, perché dovremmo avercela con loro? Vivono con noi come fratelli, perché non dovremmo amarli? ». L’umanità ci mette del suo a guastare i romanzi.


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