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TERRA!!! TERRA!!! PIANETA TERRA: FILOLOGIA E ’DENDROLOGIA’ (gr.: "déndron" - albero e "lògos" - studio/scienza). L’ALBERO DELLA VITA ...

RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE (2005). Una "memoria" - di Federico La Sala.

(...) il “nuovo mondo” che abbiamo costruito dimostra quanto presto abbiamo dimenticato la ‘lezione’ delle foreste, dei mari, dei deserti, e dei fiumi e delle montagne!!!
giovedì 25 aprile 2024
Secondo quanto suggerisce Vitruvio (De architectura, 2,1,3) la struttura del tempio greco trasse la sua origine da primitivi edifici in argilla e travi di legno (Wikipedia)
IL SEGRETO DI ULISSE: "[...] v’è un grande segreto /nel letto lavorato con arte; lo costruii io stesso, non altri./ Nel recinto cresceva un ulivo dalle foglie sottili,/rigoglioso, fiorente: come una colonna era grosso./Intorno ad esso feci il mio talamo [...]"
(Odissea, Libro XXIII, vv. 188-192).
EUROPA. PER IL (...)

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> RIPENSARE L’ EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". --- GRECIA. NOI E LORO (di Luciano Canfora) - Oreste, Ulisse, Antigone: quei modelli che orientano ancora il nostro presente (di Eva Cantarella)

domenica 17 giugno 2012


-  Grecia. Noi e loro
-  Dall’ideale democratico alla tirannide dei molti
-  Il moderno lessico politico forgiato sull’Acropoli

di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 17.06.2012)

Un bell’insegnamento del pensiero politico ateniese è che non si deve rischiare di cadere in schiavitù per debiti. Fu Solone (arconte nel 594/3 a. C.) a far sì che si affermasse questo principio. Egli cancellò i debiti per i quali il pegno era il terreno del debitore o addirittura la sua libertà personale. Il debito non può essere un’ipoteca su esseri umani e perciò, in nome della libertà, va cancellato. Questo principio coraggioso imbarazzerebbe molti «finanzieri» del tempo nostro nonché i responsabili delle strutture bancarie, che sull’altrui indebitarsi prosperano. Del resto una forte corrente di pensiero politico moderno, nella seconda metà del secolo XX, su impulso di una figura notevole come François Mitterrand, pose il problema della cancellazione del debito di alcuni Paesi del Terzo e Quarto Mondo. Fu una scelta schiettamente «soloniana» che, nel tempo, ha dato frutti positivi.

Solone seppe anche andare ad imparare dagli altri, da popoli di antichissima civiltà come gli Egizi. Una scelta - questa - che si pone agli antipodi rispetto all’autosufficienza miope. Solone fu anche allarmato preconizzatore dei rischi del potere personale, della «tirannide». «Tirannide» - termine che vive in tutte le civiltà politiche - è parola greca dal significato, in origine, non negativo. Indicò dapprima un ruolo di mediatore piuttosto che di despota.

Caratteristica del «tiranno» era, in ogni caso, l’assunzione di un ampio potere, fondato su di un iniziale consenso ma ben presto protratto senza limiti di tempo e sorretto con strumenti quali la guardia del corpo armata e la violenza contro gli oppositori non remissivi. Solone previde questo sviluppo della «tirannide» che un abile demagogo, Pisistrato, era riuscito ad assumere in Atene (561-527 a. C. con un intervallo ed un plateale «rientro»). Inizialmente era stato lo stesso demo di Atene (il popolo sovrano) ad attribuirgli una guardia del corpo armata come strumento e garanzia di potere. Per noi «tirannide» è nozione totalmente priva di sfumature positive. Ed anzi, come afferma il nipote di Pericle, Alcibiade, parlando, da fuggiasco, al cospetto degli Spartani (415 a.C.), «la democrazia si è costituita e ha preso forma e nome, in Atene, come antitesi della tirannide» (Tucidide, VI, 89, 4).

Nel lessico ateniese «popolo» (demo) e «democrazia» sono sinonimi: anzi «popolo» è parola che indica al tempo stesso sia il soggetto sociale della democrazia (il popolo) che il regime politico fondato sul potere popolare (democrazia). Spesso si dimentica questa peculiarità lessicale, che è anche sostanza. La legittimità della democrazia ad Atene è fuori discussione nel momento in cui essa è la forma politica che si identifica con la comunità stessa.

Che la tirannide nascesse da un significativo consenso popolare era però fenomeno imbarazzante. I critici della democrazia ponevano perciò l’accento proprio sull’elemento tirannico insito, a loro giudizio, nella democrazia. Elemento tirannico che si presenta sotto due aspetti: la incontrollata imposizione di una volontà popolare (la «dittatura di maggioranza» che si pone al di sopra della legge) e la nascita dall’interno stesso del meccanismo assembleare-democratico di figure demagogiche particolarmente influenti e carismatiche, che realizzano di fatto una forma di «tirannide», o meglio di potere che gli avversari ritengono di poter definire tirannide.

Naturalmente tutto ciò appare a noi oggi come esperienza tutt’altro che remota, anzi senz’altro vivente e attuale. Oltre tutto le parole con cui tutto questo genere di fenomeni si esprime sono le medesime che adoperiamo noi oggi, e nelle più diverse lingue (democrazia in particolare è diventata sic et simpliciter anche parola turca). Ma una avvertenza è necessaria: la diretta gestione del potere da parte di una «assemblea popolare» (assemblea dei detentori della piena cittadinanza) è tutt’altra cosa rispetto alla procedura elettiva che produce una rappresentanza (cui, quando esisteva la piena sovranità nazionale, gli elettori delegavano il potere esecutivo). Resta il fatto che anche la viva percezione dei modi, talvolta sottili e graduali, onde un regime politico trapassa in un altro era ben viva nella teoria politica greca.

Ciò si coglie non solo nella creazione di «doppi» negativi di forme politiche positive (monarchia/tirannide; aristocrazia/oligarchia; democrazia/oclocrazia) ma soprattutto nella descrizione del «ciclo», che è implicito già nel dialogo costituzionale erodoteo e culmina nella formulazione esplicita e quasi pedantesca di Polibio (nel VI libro delle Storie). Una formulazione talmente chiara e completa da apparire illuminante al Machiavelli che la immise di peso nel primo libro dei Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio. Ma proprio questo arrovellarsi intorno al modo in cui la «volontà popolare» può lasciarsi deviare fino ad autodistruggersi è problematica nostra e sommamente moderna. Anche noi oggi sappiamo bene che il trapasso da un modello politico in un altro di segno ben diverso può avvenire per progressivi slittamenti, non necessariamente per bruschi salti.

Il pensiero politico greco si è anche posto il problema del valore di una nozione a prima vista solo numerica quale «maggioranza». I critici (ed erano numerosi) della procedura decisionale a maggioranza (cioè democratica) ponevano, in toni talora accesi talora pacati, la questione della competenza come pietra miliare da opporre alla mera legge del numero. Né si può dire che siano stati escogitati argomenti particolarmente convincenti in antitesi a tale obiezione. (Semmai si può osservare che Aristotele, nella Politica, approda alla svalutazione della «legge del numero» per altra via, quando osserva che democrazia non è il governo della maggioranza ma il governo dei poveri, i quali peraltro - soggiunge - spesso sono anche maggioranza).

L’istanza ricorrente del necessario predominio della competenza era tipica della critica oligarchica alla democrazia (Platone, Crizia etc.). Di fatto però competenza era un modo eufemistico per dire ricchezza. In tempi a noi più vicini quella istanza divenne l’architrave della critica di parte liberale alla democrazia (per tutto il secolo XIX questa fu la contrapposizione dominante, specie in Europa). In tempi a noi ancor più vicini la prevalenza del principio democratico su quello liberale, affermatasi ad es. nelle codificazioni «costituzionali» del secondo dopoguerra, è venuta declinando, e ha ceduto il passo al ritorno in grande stile del predominio dei «competenti»: o di coloro che, intrinseci al mondo arduo della finanza, si pretendono tali.


Oreste, Ulisse, Antigone: quei modelli che orientano ancora il nostro presente

di Eva Cantarella (Corriere della Sera, 17.06.2012)

Parlare dell’eredità che i greci ci hanno lasciato è il minimo che si possa fare, in giorni come questi. Quali che siano le condizioni, gli errori e le responsabilità di ciascuno di noi, sarebbe non solo ingiusto ma profondamente sbagliato dimenticare che senza quello che i greci ci hanno insegnato noi non saremmo quello che siamo. Il che non significa, sia ben chiaro, tornare a mitizzarli, come per troppo tempo si è fatto parlando dei loro presunti valori universali e della altrettanto presunta eternità di questi.

Quel che dobbiamo fare, insomma, non è tornare a parlare della Grecia a proposito della quale, per intendersi, i libri di scuola parlano ancora, talvolta, di «miracolo greco». Di quella Grecia mitizzata la storiografia da alcuni decenni ha dimostrato l’irrealtà. È a un’altra Grecia che ci lega il nostro debito, quella vera, finalmente sottratta al mito, lontana e diversa da noi; ma nella quale affondano, tuttavia, alcune tra le più importanti conquiste del nostro pensiero, e le origini delle nostre istituzioni politiche e giuridiche. Come stanno a dimostrarci - tra l’altro - i loro miti. A cominciare da quello messo in scena da Eschilo, nel 458 a. C.: il mito di Oreste.

Agamennone, racconta Eschilo nell’Orestea, torna vittorioso dalla guerra di Troia. Sua moglie Clitennestra, diventata nel frattempo l’amante del cognato Egisto, con la complicità di questo lo uccide. A indurla a farlo, oltre alla smania di potere, sta il fatto che Agamennone ha ucciso la figlia Ifigenia, sacrificandola agli dei per ottenere un vento favorevole alla navigazione verso Troia, e tornando dalla guerra ha portato con sé una concubina, che Clitennestra uccide insieme a lui. Ma vendetta chiama vendetta, e Oreste, figlio di Clitennestra e di Agamennone, vendica il padre uccidendo la madre. Ed ecco le Erinni, le antiche dee della vendetta, esigere altro sangue in cambio del sangue di Clitennestra. Gli implacabili mostri, che stillano sangue dagli occhi, perseguitano Oreste, ovunque egli vada. Sino al momento in cui interviene Atena: a risolvere la questione, dice la dea, istituirò un tribunale, nel quale siederanno come giudici i migliori cittadini, estranei ai fatti e imparziali, che giudicheranno dopo aver accertato i fatti, valutando colpe e responsabilità. Il mondo della vendetta è finito. La narrazione mitica celebra l’avvenimento che ha segnato una tappa fondamentale della storia non solo di Atene, ma della nostra civiltà giuridica: non esiste responsabilità senza colpa regolarmente accertata da un organo giudicante.

Ma dal mito non vengono solo insegnamenti fondamentali come questo. In esso troviamo anche degli archetipi che ci accompagnano ancora, nei quali riconosciamo le motivazioni dei nostri comportamenti e le caratteristiche della nostra personalità.

Prendiamo ad esempio il mito di Ulisse. Itaca, come ben noto, è stata spesso intesa come una metafora: «Se cerchi la tua strada verso Itaca - scrive Kavafis, in una bellissima poesia - spera in un viaggio lungo,/avventuroso e pieno di scoperte./ I Lestrigoni e i Ciclopi non temerli/non temere l’ira di Poseidone./...Non hai bisogno di affrettare il corso/fa che il tuo viaggio duri anni, bellissimi,/e che tu arrivi all’isola ormai vecchio,/ricco di insegnamenti appresi in via...». Non è volontà di un dio (come fu, per Ulisse, l’ira di Poseidone), a determinare il tuo viaggio: sei tu l’artefice della tua sorte - dice Kavafis - sei tu il padrone della tua vita. Quanti sono, oggi, gli Ulisse che affrontano pericoli apparentemente insuperabili, come fece Ulisse affrontando i Lestrigoni e i Ciclopi? Quanti sono coloro che si avventurano verso incontri con un inconoscibile che invece si può conoscere? Come Ulisse entrò nell’Ade, il mondo dei morti, noi, oggi, ci confrontiamo con le conquiste e i misteri delle scienze e della tecnologia. Ulisse è tra noi, Ulisse siamo noi, possiamo incontrarlo. Esattamente come incontriamo Antigone o Creonte, i protagonisti della tragedia più bella di Sofocle e, forse, di tutte le tragedie greche.

Nata dal matrimonio incestuoso tra Edipo e sua madre Giocasta, dopo la tragica fine dei genitori Antigone vive a Tebe, governata dallo zio Creonte, fratello di sua madre, ed è fidanzata con il figlio di questi, Emone. I suoi due fratelli, Eteocle e Polinice, in lotta per il potere sulla città, si sono affrontati in battaglia e sono morti: Eteocle difendendo una delle sette porte della città, Polinice dandole l’assalto. E Creonte decreta: chi oserà dar sepoltura al suo cadavere sarà lapidato. Ma Antigone viola il divieto, per lei il dovere di dare sepoltura al fratello è più forte di ogni legge umana. E quando viene scoperta difende le sue ragioni di fronte a Creonte, che sostiene le proprie. Creonte afferma il dovere, anche per lui, di rispettare le «leggi scritte», che gli impongono di metterla a morte. Ma a queste leggi, dettate dal potere politico, Antigone oppone quelle «non scritte», vale a dire le regole etiche da lei sentite come imprescindibili.

Sono due sistemi di regole diverse: qui sta il dilemma tragico. Nessuno dei due contendenti ha ragione, nessuno dei due ha torto. O meglio: ambedue hanno ragione, ambedue hanno torto. Creonte è un politico con un forte senso dello Stato, Antigone non è non un’anarchica, ma rifiuta di rispettare una regola a suo giudizio senza fondamento etico. La tragedia si conclude, inevitabilmente, con la fine di ambedue i contendenti. Antigone, condannata a morire, si impicca. Il suo fidanzato, Emone, si uccide sul cadavere di lei. Alla notizia della morte del figlio si uccide anche Euridice, la moglie di Creonte: un uomo finito, ormai, moralmente annientato. Una storia, greca, anch’essa presente fra noi: la morte fisica di Antigone e quella morale di Creonte sono la fine inevitabile del conflitto che si ripropone quando un individuo, un gruppo, un popolo non riconoscono il fondamento etico di una regola di diritto, anche in un sistema legittimo e «giusto». Anche per questo i greci sono presenti tra noi, ecco perché senza di loro saremmo diversi.


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